mercoledì 18 dicembre 2019

“Parasite” di Bong Joon-ho














1. Quanto mai estraneo e, allo stesso tempo, assai familiare appare allo spettatore il film “Parasite” di Bong Joon-ho, vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes 2019. Familiare, perché il regista usa con maestria svariati generi universalmente noti del linguaggio cinematografico. Estraneo, poiché i temi e lo stile con cui sono trattati sono indubbiamente assai ancorati a certe specificità dell’attuale società coreana e della sua cultura. Si tratta dunque di un film effettivamente sincretico, nel senso che fonde continuamente elementi che appartengono ormai ineluttabilmente al mondo globale con gli elementi di una situazione marcatamente locale. La fusione miracolosamente riesce e lo spettatore ha costantemente l’esperienza di un virtuoso straniamento che lo invita a coinvolgersi e, nello stesso tempo, a riflettere con un certo distacco. Insomma, il tutto si colloca alla giusta distanza, verrebbe da dire. Il film è sostanzialmente uno splendido, sebbene come si vedrà alquanto problematico, apologo morale sulle relazioni interpersonali e sulla sociologia della vita quotidiana, come queste si configurano nell’epoca delle catastrofi ecologiche, delle diseguaglianze crescenti e dell’inasprimento della competizione tra gli individui. Proprio per la sua distanza relativa, il film è capace, attraverso questi temi, di gettare uno sguardo critico sulla nostra contemporaneità, uno sguardo decisamente insolito, originale e provocatorio. Nel film, oltretutto, è mostrato abbondantemente lo sconquasso che la penetrazione e diffusione del mercato globale ha provocato e sta provocando, anche in società lontane come quella coreana. 
  2. Abbiamo accennato alle catastrofi ecologiche. Il film ci parla senz’altro di ecologia, specialmente nel senso originario del termine che, notoriamente, ha a che fare con la “casa” (oikos). Il film, infatti, è una commedia nera che si svolge quasi esclusivamente in interni, in due case antitetiche che corrispondono a due famiglie coreane altrettanto antitetiche. Sono messi in contrapposizione, anche e soprattutto visivamente, due ecosistemi idealtipici costituiti dalle rispettive case in cui vivono i protagonisti. Da un lato, il mondo dell’architettura ultra moderna dell’archistar Namgoong Hyeonja (personaggio del tutto inventato), ideatore e costruttore della casa dove vive la ricca famiglia Park. Dall’altro, quello del tugurio, del seminterrato miserabile con finestrella a livello della strada, in cui vive la povera e sgarrupata famiglia Kim. La contrapposizione è volutamente paradigmatica, poiché pare che Park e Kim siano i cognomi statisticamente più diffusi in Corea.
3. L’avveniristica casa dei Park si ispira alla concezione architettonica razionalistica occidentale, appena corretta da una sensibilità asiatica per la presenza di una ampia vetrata su un grande giardino. La casa corrisponde dunque a un modello culturale d’importazione, come del resto moltissimi altri elementi che si vedono nel film, tutti ampiamente enfatizzati nelle inquadrature, come telefonini, automobili, computer, camicie e cravatte sempre impeccabili, merci da supermarket, e così via. Si tratta tuttavia di una casa fredda, piuttosto impersonale che rispecchia il vuoto di vitalità e il vuoto interiore degli stessi ricchissimi Park. Un vuoto evocato dal numeroso e onnipresente personale di servizio, dalla formalità e superficialità dei rapporti interpersonali e dall’alienazione dei disegni malati del piccolo Da-song, il figlio minore dei Park, che assomigliano un poco al tratto di un Basquiat. Il piccolo Da-song - che è capriccioso e tirannico, tanto che i genitori lo temono e lo assecondano in tutto e per tutto - vive dunque in una casa dal disegno alquanto razionale ma cova, dentro la sua mente, fantasmi oscuri del tutto privi di logica. Nel corso del film si scoprirà la concreta origine di questi fantasmi.
4. La casa dei Kim è invece un povero e piccolo tugurio seminterrato, umido e puzzolente, pieno di oggetti seriali sempre di matrice culturale occidentale, dove le modeste cose sono ammassate le une sulle altre, dove gli ambienti sono assolutamente indistinti e dove, sul lato strada, troneggia un water scrostato. I Kim non possono permettersi l’armonia architettonica della casa dei Park, ma la vita grama cui sono costretti li ha resi solidali, astuti, iperattivi, costretti continuamente a stare sul chi vive, a barcamenarsi per soddisfare le esigenze più elementari. Le prime scene del film ce li presentano mentre cercano di captare il campo telefonico dei vicini di casa. Oppure mentre cercano di sbarcare il lunario piegando i cartoni delle pizze per pochi soldi. Oppure, ancora, mentre cercano di difendere il loro entourage dagli ubriachi che vengono a orinare intorno alle finestre (il loro tugurio ha piccole finestre a livello della strada).
Il carattere distintivo del loro ambiente, se così si può definire, è un disordine caotico, dai caratteri magari anche pittoreschi, dovuto a tante stratificazioni successive. Dovuto alla competizione, alla lotta per la vita e all’esigenza di soddisfare i bisogni elementari. Tra le prime battute del film, al passaggio in strada delle squadre di disinfestazione che spargono insetticida, i Kim discutono se tenere chiuse le finestre, per non respirare l’insetticida, o se non piuttosto tenerle aperte, per sfruttare gli effetti benefici della disinfestazione anche nei loro locali infestati. Questo è il primo accenno all’equiparazione dei Kim ai parassiti. Nello sviluppo del film, la realtà ecodegradata della casa dei Kim e del quartiere limitrofo sarà ripetutamente mostrata in maniera anche assai cruda, come ad esempio nel lungo episodio, davvero eccezionale sul piano visivo, di un nubifragio battente che si limita a lambire la villa dei Park, che si trova nella parte alta della città, ma che provoca, nelle contrade dove vivono i Kim, nella parte bassa, una vera e propria alluvione, con un fiume misto di fango e spazzatura che corre nelle strade, travolge qualsiasi cosa e penetra ovunque.
5. I luoghi, le cose, le case, i quartieri in cui si vive – questo sembra essere l’assunto implicito del film – sono lo specchio del destino dei loro abitanti, ne determinano le caratteristiche profonde dal punto di vista economico e sociale, ma anche e soprattutto le caratteristiche psicologiche, i loro comportamenti, il modo di affrontare la vita e di relazionarsi con il prossimo. Sbaglieremmo tuttavia se pensassimo di trovare nel film una compiuta “analisi di classe” economica, sociale e politica della società coreana o, ancor più, del mondo globale come oggi si prospetta. Qualche critico, secondo noi frettoloso,a proposito del film ha parlato addirittura di un ritorno della lotta di classe. C’è più che altro, nel film di Bong Joon-ho, una correlazione immediata, che saremmo tentati di definire, appunto, come “ecologica”, tra i due ambienti e le forme di vita che li abitano. Potremmo parlare di una sorta di eco-psico-sociologia. La condizione sociale determina la casa in cui si abita e, viceversa, la casa in cui si abita determina la condizione sociale. Si tratta di un teorema indubbiamente alquanto schematico e semplificatorio, esso tuttavia permette al film di raggiungere un notevole rigore nella descrizione realistica – talvolta iperrealistica - dei diversi ambienti e dei tipi umani che li abitano.
6. Il corollario inevitabile di questa prospettiva è che ciascuno debba stare strettamente ancorato all’ambiente dove abita. Si tratta di mondi caratterizzati da una profonda diversità e destinati dunque a restare tendenzialmente distanti e separati, ma anche destinati – come si vedrà nella trama – a un pericoloso rimescolamento, come per una sorta di attrazione fatale. Il film prende infatti le mosse proprio da una casuale “contaminazione” tra i due ambienti che porta però ben presto a una situazione di infezione generalizzata.  Sotto questo profilo, il film può, essere anche considerato come un esperimento mentale in cui si studia – con grande ironia ma anche con estrema freddezza e lucidità - quel che accade quando avviene una contaminazione tra mondi che invece dovrebbero stare a distanza. Lo sguardo di Bong Joon-ho, in questo senso, è del tutto simile – almeno nelle parti più drammatiche – a quello del ben più duro e austero Kim Ki-duk, peraltro suo conterraneo. Vale in proposito ricordare – anche dal punto di vista tematico – il film Ferro 3 di Kim Ki-duk, in cui proprio le case momentaneamente vuote diventano il luogo fisico di una forma equivoca e inconsapevole di convivenza e di scambio sociale, dove tuttavia non è consentita alcuna contaminazione. Anche lì, quando la contaminazione avviene, tutto precipita.
7. I due ecosistemi umani tratteggiati nel film, in seguito alla contaminazione, diventano dunque il terreno di una brutale lotta per la vita senza esclusione di colpi. Qui troviamo un altro motivo conduttore del film e cioè il ruolo del mimetismo e, più in generale, dell’inganno e della menzogna nella competizione ecologica e sociale. Ci ricorda Bong Joon-ho che l’animale semiotico per eccellenza, l’uomo, è anche, per eccellenza, l’animale capace di mentire. Questo accade perché le relazioni sociali sono sempre vincolate dalla necessità, dai bisogni, dalla concorrenza, dall’egoismo e dall’interesse. Ciascuno recita una parte, ciascuno recita la parte che gli conviene, ciascuno cerca di ingannare il prossimo per accaparrarsi una fettina del prodotto sociale, per avere qualche convenienza, per avere un lavoro o per godere di prestazioni sessuali. Il tutto avviene con estrema naturalezza, in una totale assenza di codici morali. Non c’è scrupolo di coscienza, non ci sono dilemmi, non ci sono rimorsi. I comportamenti, le scelte non sono mai problematiche, sono sempre ineluttabili, automatiche, generate dalla meccanica degli interessi. Se forte è la propensione a ingannare, altrettanto forte è la propensione a farsi ingannare, soprattutto da parte di chi non ha bisogni particolarmente urgenti da soddisfare, come suggerisce la stupidità di fondo dei ricchi Park. Il successo nell’inganno non fa che alimentare ulteriori comportamenti fraudolenti, in un crescendo inarrestabile. In questa lotta per la vita, i soli legami interpersonali che contano sono ristretti a quelli per la propria famiglia. Siamo qui in presenza di una sorta di vero e proprio familismo amorale, perfettamente descritto e decisamente paradigmatico. Nessun universalismo, dunque. Non c’è neppure, qui, la speranza di redenzione del buddismo che compare talvolta nei pur crudissimi film di Kim Ki-duk. Così Bong Joon-ho, grazie a questa visione brutale e meccanica della competizione, ha buon gioco nell’usare l’inganno come motore delle vicende narrate, le quali tendono così a volgere spesso verso una sorta di commedia nera degli equivoci, paradossale, sarcastica, divertente e agghiacciante nello stesso tempo.
8. Vediamo ora in sintesi lo svolgimento della trama, che è un passaggio necessario per la discussione del senso del film, alla faccia di coloro che non sopportano lo spoiler. Il giovane studente Ki-woo - la voce narrante che compare all’inizio e alla fine del film e che, come vedremo, offrirà esplicitamente una chiave interpretativa del film stesso - appartiene alla famiglia Kim, quella che vive nel tugurio seminterrato.  È raccomandato da un amico per dare lezioni d’inglese alla giovane figlia (Da-ye) della ricca famiglia Park che abita nella bella villa situata nella parte alta della città. Il giovane è piuttosto sveglio e intraprendente e riesce così a farsi accettare dai Park, a compiere una soddisfacente prestazione professionale e a far anche innamorare di sé la giovane Da-ye. Questo inaspettato successo però non gli basta. Così, astutamente, uno dopo l’altro, Ki-woo riesce a introdurre presso i Park, sotto mentite spoglie, tutti gli altri membri della sua famiglia che sono ovviamente disoccupati.
La sorella Ki-jung, che è esperta di computer – grafica, viene presentata come una professionista di art-therapy per seguire il piccolo Da-song - il fratello minore di Da-ye - che ha dei comportamenti disturbati e alquanto border-line. Il trucco funziona e, dopo questo secondo successo, l’invasione prosegue in forma ancora più aggressiva. La governante della casa, con un malvagio espediente ai suoi danni, è fatta cacciar via e il suo posto è preso da Chung-sook, la madre di Ki-woo. Sempre con un espediente fraudolento, anche l’autista è allontanato e il suo posto è preso da Ki-taek che è il capofamiglia dei Kim (padre di Ki-woo e Ki-jung). Così, in men che non si dica, con una serie d’ingegnosi quanto biechi espedienti, l’intera famiglia Kim si trova a rimpiazzare tutto personale di servizio dei Park, i quali si mostrano alquanto sprovveduti, superficiali e creduloni e non sospettano minimamente che i loro nuovi dipendenti siano tra loro imparentati e che siano privi delle patenti di professionalità dichiarate. La logica che vien mostrata è dunque proprio quella del parassitismo, un parassitismo sociale che comunque rinvia analogicamente ai rapporti di parassitismo diffusi tra le specie animali e vegetali.
9. Quando tutto sembra andare a gonfie vele, la situazione però precipita. In assenza dei proprietari che hanno portato il bambino in campeggio per il suo compleanno, i Kim ne approfittano per organizzare - proprio in quella casa che ormai dominano e considerano come casa propria - una serata nella quale si gozzoviglia e si festeggia in modo piuttosto rozzo e volgare. Nel bel mezzo della festa, nottetempo, ricompare però la governante che era stata fatta licenziare, che bussa alla porta inaspettatamente. La ex governante ha un torbido segreto. Nel rifugio antiatomico della casa, della cui esistenza i Park nulla sanno, vive nascosto da anni suo marito, per sfuggire ai creditori. L’uomo vive lì come un recluso, rifornito e assistito di nascosto dalla moglie. L’imprevedibile situazione scatena un conflitto tra i nuovi parassiti (la famiglia Kim) e i vecchi parassiti (la precedente domestica e il suo marito imboscato). Il conflitto diviene via via uno scontro violento, alla fine del quale la famiglia Kim riesce, seppure maldestramente, a imprigionare nel rifugio sotterraneo i due concorrenti. In un tentativo di fuga, la ex governante, nel parapiglia, fortuitamente muore e il marito, che viene comunque imprigionato suo malgrado nel rifugio, medita furibondo propositi di vendetta. È da notare che la trama del film rende bene evidente come i parassiti siano sempre in aspra concorrenza tra loro, per cui è fuori discussione qualsiasi forma di alleanza tra loro per un qualche progetto comune. La logica è sempre quella di occupare tutto quello che si può a vantaggio esclusivo e unico della propria famiglia, quasi fosse all’opera una sorta di gene egoista.
10. I Park ritornano a casa prima del previsto e i Kim devono far fronte alla situazione, anche se la loro colossale messa in scena si fa sempre più difficile da sostenere, tanto più che ora sono spuntati i parassiti concorrenti. I Park organizzano la festa di compleanno del bambino con molti ospiti, nel giardino della bella casa, e qui avviene il clou tragico di tutta la vicenda. La commedia nera volge a questo punto decisamente all’horror. Il marito della defunta domestica riesce a liberarsi, emerge dal rifugio con le vaghe sembianze di uno zombie e comincia a menare coltellate per vendicarsi, finendo però così per essere ucciso dal padrone di casa. Ki-jung, la figlia dei Kim, la sedicente esperta di art-therapy, è gravemente ferita ed è in fin di vita. Il piccolo Da-song, alla vista dello zombie che aveva evidentemente già visto altre volte,  è svenuto. A questo punto scoppia il conflitto decisivo tra il capo famiglia Park e il suo autista, il capo famiglia Kim, per decidere quale dei loro figli infortunati debba essere trasportato  per primo all’ospedale, con l’unica auto che c’è. Purtroppo Ki-jung, non soccorsa in tempo, muore e così suo padre, in un accesso di rabbia uccide a sua volta il capo famiglia Park e si dilegua con le mani piene di sangue. Insomma, fuori di metafora, come spesso accade in natura, i parassiti finiscono per uccidere gli organismi stessi che hanno colonizzato. In conclusione, le tre famiglie (compresa quella della ex domestica) sono così distrutte, tanto che la bella casa viene tosto  abbandonata e resta disabitata.  Ki-taek è sparito, ricercato dalla polizia per l’assassinio compiuto. In chiusura del film, poco a poco si comprende che Ki-taek si è nascosto proprio nel rifugio antiatomico, prendendo il posto del precedente parassita. Il giovane Ki-woo, che è sfuggito al massacro, ha compreso quale sia ora divenuto il rifugio del padre, e si farà carico per intanto di rifornirlo del necessario per mantenerlo in vita.
11. Sono di una certa importanza, per la ricostruzione del senso del film, le riflessioni finali di Ki-woo che – non dimentichiamolo – è il narratore in prima persona di tutta la storia. Egli ammette di essere rimasto affascinato dalla villa nella quale ha potuto soggiornare durante tutta la vicenda. Confessa anche di avere capito che le scorciatoie del parassitismo non portano da nessuna parte e producono disastri. Così si propone, nel prossimo futuro, di studiare e lavorare sodo per arricchirsi e per riuscire a comprare proprio quella villa e a ricongiungersi così, un giorno, con il padre rinchiuso nel rifugio. Insomma, par di capire, il contatto improprio tra i due ecosistemi umani si è rivelato foriero di grandi sventure, ma quello stesso contatto ha permesso a Ki-woo di apprezzare la bellezza e il valore della casa e di trovare quindi un serio obiettivo per la propria vita.
A prima vista, questa conclusione, cioè il progetto di una bella casa da conquistare con i propri sforzi personali, pare piuttosto debole, soprattutto dopo la critica corrosiva degli assetti sociali sviluppata nel corso del film. Si tratta, infatti, di un progetto che rimane completamente rinchiuso sul piano individuale, esattamente come il progetto di colonizzazione parassita raccontato nel film. La radicalità della pars destruens non porta alla fine ad alcuna effettiva eco - trasformazione. Nessun accenno a regole comuni, diritti e a riforme sociali. L’eventuale successo di Ki-woo, nel suo progetto di arricchire e comprarsi la bella casa, lascerebbe comunque intatto il mondo degradato dal quale proviene. Se tutto ciò è vero, si tratta allora di capire se e come le due anime (lo sviluppo narrativo e il finale) apparentemente contrastanti del film possano eventualmente stare insieme.
12. Azzardiamo qui l’ipotesi che lo spettatore occidentale tenda spontaneamente ad attribuire al film di Bong un intento politico primario che probabilmente proprio non ha. Questo è il motivo per cui la conclusione può sembrarci riduttiva e fuori posto. L’unico modo per conferire al film una sua unitarietà sta nel mettere in secondo piano il suo significato politico, che pure è presente e tende talvolta a emergere prepotentemente. Vediamo meglio la questione. Negli anni Sessanta del secolo scorso il sociologo nord americano Robert K. Merton aveva elaborato – studiando la società nord americana del tempo - una famosa teoria della conformità e della devianza. La sua teoria si basava sulle due variabili dell’accettazione o del rifiuto, sia dei fini che la società prescrive sia dei mezzi ammessi per raggiungerli. Il conformismo è il tipo d’azione di colui che accetta fino in fondo sia i fini stabiliti sia i mezzi consentiti per raggiungerli. Si noti che qui il termine è descrittivo e non valutativo, come spesso è usato nella lingua comune. L’innovazione, invece, è l’azione di colui che accetta fino in fondo i fini, ma “innova” per quel che concerne i mezzi: costui è il deviante per eccellenza, perché usa mezzi scorretti e illeciti per avere quello che vogliono tutti. È esattamente questo il caso del giovane Ki-woo e della famiglia Kim. Il dilemma che è proposto nel film pare essere proprio quello tra la devianza e il conformismo, un dilemma principalmente di tipo morale e non di tipo politico. Non si discute dunque dei fini ultimi, che sono ignorati o dati per scontati, si discute piuttosto di quali debbano essere i mezzi.
13. Il film di Bong potrebbe allora essere interpretato, in definitiva, come la rappresentazione di una complicata peripezia del parassita che, attraverso le sue vicissitudini e i suoi errori, giunge progressivamente alla scoperta dei limiti della sua innovazione deviante e che, infine, è indotto a scegliere la via più lunga e faticosa, ma più efficace e meno distruttiva, del conformismo in senso mertoniano. Di fronte all’attuale confusa situazione globale, sembra dire Bong Joon-ho, la tentazione che pare a prima vista come la più immediata e la più promettente è proprio quella del parassitismo. Si tratta della scelta più diffusa. Anche perché è spinta dall’urgenza del bisogno e dall’onnipervasiva lotta per la vita. Nel film d’altronde lo spettatore è indotto a simpatizzare per gli intraprendenti e devianti parassiti della famiglia Kim e per il loro assalto implacabile ai ricchi Park.
La scelta del parassitismo, tuttavia, è in ultima analisi del tutto controproducente, perché porta alla lacerazione, allo scontro, e soprattutto perché è, in fin dei conti, autodistruttiva. Allora, come nella fenomenologia hegeliana o, se si preferisce, come in una sorta di laica via crucis, occorre passare attraverso tutte le “stazioni” del parassitismo, come fa effettivamente il giovane protagonista Ki-woo, fino a berne fino in fondo il calice amaro, fino a provarne direttamente le conseguenze più disastrose, per sé e soprattutto per i propri familiari. Soltanto questo percorso permetterà al protagonista di raggiungere, alla fine, una sorta di vera e propria illuminazione e trasformazione personale. Solo grazie a questa nuova consapevolezza gli sarà possibile giungere a scartare la via che immediatamente sembra la più facile e a intraprendere - con una sorta di spirito ascetico - la via più difficile, la via dell’impegno e del sacrificio. Ki-woo diventa capace di padroneggiare se stesso, impara a differire la soddisfazione immediata dei bisogni, impara a darsi una meta e a perseverare per raggiungerla. Prende le distanze dal parassitismo e intraprende un serio impegno nel mondo seguendone finalmente le regole. Se vogliamo una lettura della stessa questione da un altro punto di vista, si potrebbe dire in termini lacaniani che Ki-woo comprende, alla fine della sua amara vicenda, la differenza tra la mera pulsione e il desiderio.
14. Ma chi sono oggi i parassiti? Perché può avere un senso riflettere sul parassitismo? A vedere i poveri Kim disoccupati nel loro tugurio potremmo essere indotti a pensare che si tratti di questioni da Terzo mondo. In realtà la questione del parassitismo ci riguarda piuttosto da vicino. Proviamo ad assumere una definizione provvisoria del fenomeno e cioè che il parassita, nel nostro mondo sociale, sia semplicemente colui che vive a spese degli altri. Ebbene, se ci guardiamo intorno, non abbiamo proprio bisogno di volgerci alle lontane contrade coreane. Facciamo un elenco esemplificativo, un po’ alla rinfusa, di casi che potrebbero essere rubricati come parassitismo: tutti i generi di truffatori, da quelli piccoli a quelli grandissimi. Quelli che si fanno raccomandare. Quelli che non pagano le tasse. Quelli che praticano l’economia sommersa, o l’economia illegale. Quelli che corrompono e quelli che si fanno corrompere. I politici che pensano solo alla loro carriera. Quelli che truccano i concorsi. Quelli che guidano come dei matti, mettendo a repentaglio la sicurezza della circolazione. Quelli che parcheggiano dove non si deve. Quelli che non fanno la dovuta manutenzione e producono distruzione e morte. I falsi invalidi. I fabbricatori di fake news. Quelli che fanno in finanza le manovre speculative. Gli incompetenti che producono danni che devono poi essere riparati. Quelli che timbrano il cartellino e vanno poi per i fatti loro. Quelli che usano mille espedienti per abbassare la loro produttività sul lavoro. I produttori di merci adulterate. Gli assenteisti. I saccheggiatori di risorse naturali. Gli inquinatori, i cui danni vanno poi riparati con grande dispendio. L’elenco potrebbe continuare a lungo. Noi stessi, in modo intercambiabile, svolgiamo il ruolo di parassiti e di vittime colonizzate e sfruttate. E, soprattutto, parassiti non sono solo i ricchi, com’è bene evidenziato dal film. Il parassitismo è certamente trasversale e riguarda tutte le classi sociali.
Se tutto questo è vero, allora il merito principale del film è forse proprio quello di avere portato alla ribalta dell’attenzione una categoria morale come quella del parassitismo. Siamo, infatti, così circondati dai parassiti che non ce ne accorgiamo neppure e magari li troviamo pure simpatici. Un film tuttavia non basta. Forse, per aprire gli occhi sul parassitismo e sul rischio severo che questo comporta per il mondo globale, abbiamo proprio bisogno di una catastrofe, più o meno analoga a quella accaduta nella guerra tra i Kim e i Park. Forse solo una grande catastrofe – non si tratterà questa volta soltanto di una commedia nera - potrà finalmente produrre, in coloro che riusciranno a sopravvivere, una grande illuminazione.


Giuseppe Rinaldi (18/12/2019)



sabato 23 novembre 2019

“L’ufficiale e la spia” di Roman Polanski















  

1. La chiave interpretativa dell’ultimo film di Polanski si può trovare tutta nei primissimi minuti di proiezione. Siamo nella celebre École militaire di Parigi. La macchina da presa si muove lentamente in una sconfinata piazza d’armi deserta, circondata da una serie continua di costruzioni settecentesche. All’improvviso sbuca un piccolo drappello di soldati che marcia lentamente verso un obiettivo imprecisato. La macchina li segue con una lunga carrellata e intanto lentamente si avvicina. Così, poco a poco, quello che sembrava una specie di elemento architettonico lungo la base dei palazzi disposti intorno alla piazza d’armi, si rivela essere una fitta schiera di soldati immobili. Una moltitudine immensa di uomini che un momento prima risultava del tutto invisibile. Si scopre a questo punto che il piccolo drappello stava marciando, davanti a un intero esercito schierato, verso l’ufficiale Dreyfus, fermo in piedi in mezzo alla piazza, in attesa della degradazione. Sembra con ciò suggerire Polanski, in termini meramente visivi, che la realtà non è mai come sembra.

Inizia così una lunga e intrigante riflessione sulla verità e sulla menzogna, che ha come sfondo, proprio soltanto come sfondo, la storia dell’affare Dreyfus. Va segnalato, in proposito, che la sceneggiatura del film è stata condivisa da Polanski con Robert Harris, autore del libro An Officier and a Spy da cui è tratto il film. Data la stretta collaborazione tra i due, non staremo a fare distinzioni di sorta. Oltretutto Harris aveva già collaborato con Polanski nella sceneggiatura di The Ghostwriter (L’uomo nell’ombra del 2010). Anche in quel film si affrontavano problemi del tutto analoghi, relativi alla scrittura e al testo come veicoli di verità o di menzogna.

2. Di questo film s’è detto molto ma purtroppo in maniera piuttosto superficiale, il tutto mescolato con l’ulteriore condimento delle vicende giudiziarie personali di Polanski. Com’è noto, a Parigi, la prima del film è stata impedita da una manifestazione d’ispirazione me-too. Tutto ciò ha suscitato molte e contradditorie aspettative. C’è chi ha denigrato Polanski e il suo film, chi invece l’ha apprezzato come un grande capolavoro. Il film comunque ha ricevuto il Gran premio della giuria a Venezia 2019. In tutto questo bailamme, facciamo prima a dire quello che, secondo noi, non è, questo nuovo film di Polanski. Proveremo poi a pronunciarci su quel che secondo noi effettivamente è, o che forse avrebbe voluto essere. La qual cosa – come si vedrà - si rivelerà un pochino più complessa. Dunque, non è propriamente un film storico sull’affare Dreyfus. Non è un film sull’antisemitismo. Non è un film sul ruolo degli intellettuali e dell’opinione pubblica nel Novecento. Non è neppure un film sulle istituzioni e sul potere. È piuttosto, anticipando la soluzione del rebus, come già accennato, un film sulla verità come testo e scrittura, e sulla costruzione e decostruzione della verità stessa. Tutti gli elementi poc’anzi citati, che sono stati variamente invocati dalla critica, c’entrano senz’altro, danno il corpo al film, ma il nucleo autentico del film è solo e soltanto la tesi per cui niente è come sembra. Tutto è testo, tutto è scrittura e, conseguentemente, il costrutto testuale determina l’esistenza. Le istituzioni e le società sono espressioni del testo, al servizio del testo. Solo un’interpretazione ci salverà, per parafrasare un celebre filosofo che, in realtà, ci è davvero poco simpatico.

3. Ma vediamo meglio le singole questioni. Perché un film possa effettivamente essere detto film storico non basta che sia ambientato in un periodo storico diverso dal presente. Non basta, per fare un film storico, che si vedano i romani antichi con lo scudo e la corazza, non basta che si vedano i nazisti scorrazzare sulle motocarrozzette, oppure mettere in scena Churchill o Abramo Lincoln. Non basta cioè che ci sia un’ambientazione storica. Un film storico in senso proprio è un film che è in grado di proporre un’interpretazione di un qualche episodio della storia. La parola da rilevare qui è interpretazione, cioè ermeneutica. La storia è tale se conferisce una struttura di senso a qualcosa che prima non l’aveva, o non l’aveva del tutto. Insomma, da un lato abbiamo i fatti bruti (raw data) della cronaca, dall’altro abbiamo gli eventi dotati di senso. In mezzo c’è la storiografia. Il film storico – usando le prerogative proprie del cinema – deve essere in grado di produrre un qualche nuovo senso interpretativo che prima non c’era. Altrimenti rimane solo una piatta esposizione di raw data, informazioni che possono riguardare epoche diverse dalla presente ma che rimangono comunque senza senso, oppure che rimangono dotate del senso elementare che hanno i dati bruti. Nel film di Polanski, il fatto storico del caso Dreyfus è semplicemente esposto, illustrato, rappresentato, peraltro in maniera davvero eccezionale sul piano della ricostruzione e degli aspetti visivi. Viene tuttavia meramente riproposto quel che se ne sa già ampiamente per altre fonti. Insomma, come abbiamo suggerito, il caso storico dell’affare Dreyfus viene certo usato da Polanski/Harris, ma per un altro scopo.

4. Lo stesso ragionamento lo possiamo fare per l’antisemitismo. Non è l’antisemitismo il fulcro del film. Si badi bene che l’antisemitismo nel film c’è, è presente dappertutto. Ma è proprio questo il problema. Il film mostra come l’antisemitismo faccia parte del paesaggio sociale della Francia fin de siècle. È un atteggiamento condiviso e dato per scontato più o meno da tutti. È come l’aria che si respira. I personaggi del film sono quasi tutti portatori insani di antisemitismo. L’antisemitismo è parte dell’ambiente, è dato per scontato. Ciò nonostante, nel film non c’è alcuna approfondita interpretazione del fenomeno dell’antisemitismo. Esso viene semplicemente mostrato, pur nelle sue gravi e inaccettabili conseguenze ma, appunto, viene solo mostrato. Polanski non ha voluto fare un film storico sull’antisemitismo, anche perché un simile film lo aveva già fatto, con davvero egregi e straordinari risultati. Non è che Polanski non sia capace di fare un film storico sull’antisemitismo. Solo che in questo frangente non era il discorso principale che gli interessava.

5. Non è neppure un film incentrato sulla nascita dell’opinione pubblica e sul nuovo ruolo degli intellettuali. Questo va detto, nonostante il titolo originale francese del film riprenda proprio il motto di Zola “J’accuse!”. Zola, nel film, non ha alcuna presenza rilevante. È mostrato molto di corsa, più o meno come un potente lobbista dell’opposizione. Le ragioni profonde dell’engagement di Zola non sono neppure accennate, sono date per scontate. Insomma, Zola c’è ma non si vede, fa parte dell’arredamento. L’esercito e il governo sono la macchina che costruisce la menzogna, Zola e l’opposizione sono la macchina che decostruisce la menzogna, facendo appello all’opinione pubblica e usando la stampa libera. Tutto ciò è puntualmente descritto. Come e perché sia stato possibile quel tipo di impegno e come e perché riescano a farcela non è minimamente spiegato. Polanski non è interessato a entrare nel merito e ad analizzare il nuovo ruolo dell’intellettuale che si prospetta in seguito al caso Dreyfus e il nuovo rapporto che viene a instaurarsi tra stampa, opinione pubblica, pluralismo e democrazia. La battaglia dell’opposizione è mostrata, ma le motivazioni profonde, quelle che avrebbero effettivamente permesso un’interpretazione storica, restano del tutto sullo sfondo.

Anche per quanto riguarda le istituzioni, le cose non vanno molto diversamente. Seppure la struttura autoritaria dell’esercito francese come istituzione sia dettagliata in maniera rigorosa e venga ricostruita in tutti i suoi odiosi particolari, essa non viene spiegata. Ci vien detto che le cose funzionavano così, ma non il perché.

6. La ragione di tutto ciò è che a Polanski (e al co-sceneggiatore Harris) del caso Dreyfus interessa una cosa soltanto: il complesso dei meccanismi di costruzione e decostruzione della verità. E questi meccanismi sono senz’altro universali da che mondo è mondo, per cui il caso Dreyfus non può essere che solo un esempio. Una specie di caso sperimentale. Un esempio certo paradigmatico, ma solo un esempio. Dreyfus come personaggio lo si vede solo all’inizio del film e poi alla fine, con qualche intermezzo ricostruttivo delle sue vicende processuali, quando la narrazione lo richiede. Il vero protagonista del film di Polanski non è Dreyfus - cioè l’ebreo perseguitato, la vittima dell’antisemitismo - ma il colonnello Piquart, quello che riveste il ruolo dell’investigatore. All’inizio Piquart sembra uno sprovveduto, uno dei tanti che aveva avuto un ruolo marginale nell’affaire. Uno che aveva creduto esattamente quello che avevano creduto, più o meno in buona fede, proprio tutti. Tanto che viene promosso a comandare l’ufficio investigativo, un ufficio così segreto da essere designato eufemisticamente come Ufficio Statistica. Tuttavia, poco a poco la sua figura s’irrobustisce e si consolida, fino a guadagnare un posto centrale e determinante nella vicenda. Il modello umano che si concretizza progressivamente sotto gli occhi dello spettatore è quello di uno Sherlock Holmes che ha, come unico suo scopo, la soluzione di un puzzle investigativo e quindi la decostruzione delle prove addotte a carico di Dreyfus, lo smascheramento dei depistaggi e la scoperta della sua innocenza. Non Zola e l’opinione pubblica sono i motori della vicenda, bensì la pervicacia investigativa di una specie di Holmes al di qua della Manica. Del resto, le avventure di Holmes nella fiction di Conan Doyle sono del tutto contemporanee alle ben più effettuali indagini di Piquart.

7. La prova più lampante di quanto andiamo sostenendo è che quasi due terzi del film è impegnato nella ricostruzione e nella esibizione, invero davvero straordinaria, puntuale e documentatissima, delle tecniche investigative del tempo. Nell’esibizione delle carte, dei dossier e degli archivi. E nel ricorso alle varie nuove professionalità connesse alle indagini, come il grafologo, il fotografo, ecc. Il film di Polanski è sostanzialmente un film sulle tecniche investigative fin de siècle. Una specie di ricerca sull’essenza stessa delle tecniche investigative e sulla figura stessa dell’investigatore, colui che è in grado di vedere ciò che gli altri non vedono. Colui che è in grado di rivolgere la propria attenzione ai margini del testo, ai margini, si badi bene, del quadretto incorniciato nell’ufficio di Piquart, dove ci sono i frammenti della falsa prova che ha incastrato Dreyfus.

Piquart, in seguito alla sua promozione, prende possesso del suo ufficio e dei suoi poteri, fino a quando non comincia a sospettare che qualcosa non torna. Invece di girarsi dall’altra parte, di accomodarsi alla comune opinione, si accinge semplicemente a seguire le tracce, come un novello Guglielmo da Baskerville. Le tracce, se si vogliono seguire, ci sono sempre e in abbondanza. Non possiamo non lasciare tracce – dice Ferraris, sulle orme di Derrida. E le tracce lo conducono a scoprire le prove dell’innocenza di Dreyfus e, invece, della colpevolezza del colonnello Esterhazy. Una volta trovate le prove, si tratta tuttavia di fare i conti con il sistema di potere che ha fabbricato e sostenuto la menzogna. E di qui, tutti gli avvenimenti successivi, i depistaggi, l’allontanamento di Piquart, le campagne di stampa e i ricorsi degli avvocati dell’opposizione. Si tratta di fatti conseguenti che tuttavia sono raccontati da Polanski quasi frettolosamente. Le reazioni del potere, dei fabbricanti della verità ufficiale, sono quelle che tutti ci aspettiamo, ampiamente prevedibili e quindi in fin dei conti poco interessanti.

8. Ciò che interessa veramente a Polanski dunque è il processo dell’indagine. Si tratta dunque di un caso Dreyfus che vien trattato sotto il profilo di una spy story. Una spy story di altissimo livello, ma pur sempre una spy story. Attraverso questa riduzione, forse un po’ naïve e spregiudicata, Polanski riesce però a enunciare e a sostenere alcuni principi di carattere generale, non del tutto nuovi, ma che non fa mai male ribadire, e di cui forse ai tempi nostri c’è estrema necessità. Non c’è verità senza testo. La condanna di Dreyfus, a torto o a ragione, si è basata sulle carte. I testi possono dire la verità, ma possono anche essere usati per mentire. L’uso veridico o menzognero dei testi dipende dai rapporti di potere e, soprattutto, dalle istituzioni di potere che hanno il controllo della produzione testuale. La produzione dei testi, e il loro uso, in ogni epoca storica (dunque anche nella Francia di fine Ottocento) obbedisce a quelli che sono i pregiudizi diffusi nelle società dei tempi. Tuttavia, ogni produzione testuale, sia essa veridica o menzognera, non può che lasciare essa stessa delle tracce. Immersi nella testualità, poiché le nostre vite e le nostre istituzioni sono fatte in gran parte di testi, non possiamo non lasciar traccia. Così, grazie alle tracce, grazie ai margini del testo, accanto alle vicende della costruzione della menzogna si configura la possibilità di una sua decostruzione. Piquart è uno Sherlock Holmes decostruzionista alle prese con i margini di un testo. Un vero e proprio Guglielmo da Baskerville che usa consapevolmente il metodo Morelli, che si serve cioè di minime tracce per ricostruire il senso del testo manifesto. Una strategia minimalista per determinare l’autenticità o la falsità dell’opera. Su tutti questi argomenti c’è una letteratura enorme, che tuttavia qui risparmiamo volentieri al lettore.

9. Il discorso centrale del film dunque, dietro al fulgore della Francia fin de siècle, dietro alla mirabile ricostruzione degli ambienti, dei costumi dell’epoca, risulta essere un teorema quanto mai intellettualistico e astratto: una riflessione sulla testualità e sulla scrittura e sulle loro conseguenze sociali. In contrasto con questa tendenza di fondo, il film viene ricondotto a una dimensione esistenziale, in prima persona, da un unico personaggio, l’amante o la fidanzata di Piquart. Si noti che è l’unica donna che compare nel film. Forse andrebbe anche notato che il personaggio è interpretato dalla stessa compagna di Polanski, Emanuelle Seigner. La ricerca della verità dell’investigatore Piquart ha come risultato, in un primo tempo, la distruzione della vita privata della donna e, successivamente, la sua ricostruzione al suo stesso fianco, anche se alla fine, tenendosi fuori dalle convenzioni, i due decidono di non sposarsi. Il lavoro sul testo, l’investigazione, dunque – sembra dire Polanski - non riesce mai, per quanto ciò sia necessario, a essere un esercizio freddo del puro logos, ma ha sempre profonde conseguenze esistenziali. Testo ed esistenza sono due estremi che pur nella loro eterogeneità finiscono per intrecciarsi continuamente. Solo alla fine, discutendo con la sua compagna, Piquart sembra così smettere le fredde vesti dell’interprete mind oriented e sembra diventare più propriamente umano. Ma ritorna subito il Piquart arido interprete della verità nell’incontro faccia a faccia – che chiude il film – con Dreyfus, un incontro del tutto freddo e privo di empatia. Se testo ed esistenza s’intrecciano continuamente, è il caso tuttavia di tenerli ben distinti, onde evitare condizionamenti impropri.

10. Il film, che è incentrato, come s’è detto, sulla questione dell’interpretazione, pone dunque consapevolmente il problema di un’etica dell’interpretazione (diciamo pure, in senso habermasiano). In un mondo come il nostro in cui la testualità si è moltiplicata in modo vertiginoso, in cui tutto viene preso pacchianamente per buono, in cui si trovano sempre schiere di imbecilli creduli, Polanski e Harris, attraverso il caso Dreyfus, ci ricordano che non tutto è come sembra. Che quel che ci sembra ovvio è sempre il risultato di un’attività di costruzione, di scrittura da parte di chi ha il potere di farlo e se ne arroga il diritto. O anche solo da parte dell’opinione prevalente e/o del pregiudizio prevalente di un’epoca. Per un principio etico indispensabile alla sopravvivenza della nostra cultura e della nostra società, allora, non perché siamo onesti, buoni, umani o altruisti, dobbiamo prestare sempre la massima attenzione ai meccanismi della produzione testuale, dobbiamo guardare oltre il testo manifesto, oltre il testo incorniciato - come fa effettivamente il bravo Piquart - dobbiamo guardare ai margini del testo, al mondo del non ancora detto o al mondo che per qualche motivo è stato costretto al silenzio, e recuperare quel che non sembra ovvio, quello che ci viene costantemente oscurato e negato dal mare della testualità stessa nel quale siamo costantemente immersi e in cui rischiamo costantemente di annegare.



Giuseppe Rinaldi

23/11/2019



martedì 29 ottobre 2019

“Joker” di Todd Phillips

 














1. Le sole cose che ci sono piaciute di questo film, che ci è apparso incredibilmente sopravvalutato dal pubblico e dalla critica, sono la recitazione del bravo Joaquin Phoenix, anche se talvolta forzata ed esasperata, e una certa qualità estetica della fotografia, che in certi passaggi è piuttosto efficace. Non basta per farne un “film d’autore”, oppure un capolavoro, com’è stato scritto. Non basta per farne un “film politico”. Soprattutto, non basta per ricevere il Leone d’Oro a Venezia 2019. Un incidente di percorso dunque? A noi pare proprio di no. Fino a qualche tempo fa il cinema di consumo e di mero intrattenimento si accontentava di alimentare i suoi profitti abitando, magari anche floridamente e confortevolmente, una sua propria nicchia di confino. Oggi quello stesso cinema mira a diventare il cinema per definizione, il cinema spettacolare e totale, l’unico cinema possibile. Questo esito è stato pazientemente e lungamente preparato, nell’ambito della cultura di massa degli ultimi decenni, a partire proprio dai generi ultra popolari - anche dai fumetti, come si vedrà - fino alle odierne serie televisive e alla loro diffusione sui network e sulla rete. Tutto ciò ha determinato la formazione di un pubblico e di una critica ormai totalmente analfabeti, del tutto avvezzi a prodotti sempre più artificiosi e di largo consumo. La novità è che ora si tratta di prodotti furbescamente confezionati da manipoli di abili scribacchini e dotati di pretenziosi accorgimenti, tali da farli sembrare capolavori imprescindibili. Sto esagerando? Diamo intanto un’occhiata al testo.

2. Cerchiamo anzitutto di inquadrare il nostro oggetto e di capire di cosa si tratta. “Joker” è un film smaccatamente di genere, di carattere ultra popolare. È propriamente un cinecomic, ossia un film che realizza la trasposizione cinematografica di storie e personaggi del mondo dei fumetti. Qui il fumetto in questione è il celebre e storico Batman, edito dalla DC Comics, uscito per la prima volta nel 1939. Joker è un personaggio minore della saga, dove tuttavia vi compare fin dall’inizio. Si tratta di un feroce clown criminale, antagonista di Batman, apparso fin dal 1940. Il film di Phillips vorrebbe essere una specie di romanzo di formazione e vorrebbe raccontare al pubblico la storia di come il Joker sarebbe diventato, appunto, l’antagonista di Batman. È una curiosità della quale noi avremmo fatto volentieri a meno ma che, comunque, non possiamo che ritenere del tutto legittima, soprattutto dal punto di vista degli estimatori della saga batmaniana. Tutto ciò rientra perfettamente nella tendenza, iniziata proprio presso i fumetti e proseguita poi nelle serie televisive, a costruire mondi narrativi sempre più articolati e complessi, capaci di superare i limiti spaziali e temporali dei supporti fisici ove sono ospitati. Mondi narrativi sempre più totali, tendenti quindi a debordare. Da questo punto di vista, va riconosciuto che la trama del film s’inserisce perfettamente nell’universo narrativo dell’uomo pipistrello. Ne consegue tuttavia che un simile progetto non possa che trovare un senso presso quel pubblico che quell’universo narrativo già conosce, o per averlo frequentato da bambino (come peraltro è accaduto al sottoscritto) o per esserne diventato un fan. Numerosi accenni presenti nel film sarebbero, infatti, completamente indecifrabili se il pubblico non conoscesse Gotham City, Bruce Wayne, l’episodio dell’assassinio del padre di Bruce e così via.

3. Proprio per questi suoi caratteri strutturali di fondo, la storia proposta dal film è davvero elementare, esattamente quanto può esserlo la sceneggiatura di un albo a fumetti. Avrebbe potuto stare benissimo in uno speciale della DC Comics, dal titolo “Il giovane Joker”. Il film ci presenta la storia (chi non vuol sapere della trama, a questo punto, lasci pure perdere,…) dell’emarginato psicopatico Arthur Fleck, che vive con la anziana mamma Penny, che lavora presso una sordida agenzia di clown e che sogna di fare l’attor comico di successo. Ingenuo, imbranato e disturbato, va soggetto a crisi ricorrenti durante le quali ride sconsideratamente, senza alcuna relazione con il contesto. La risata fuori contesto serve ovviamente a sottolineare il mancato allineamento del personaggio al suo ambiente di vita e di lavoro. Si capisce che ha avuto trascorsi border line, assume una dose spropositata di psicofarmaci ed è assistito, invero piuttosto burocraticamente, dai servizi sociali. I suoi sconnessi quaderni di appunti – abbondantemente esibiti al pubblico – mostrano, altre agli evidentissimi limiti nel livello di istruzione del protagonista, una marcata emotività, impulsività, incoerenza, mancanza di controllo e di lucidità. Il padre di Arthur, in perfetto omaggio al nostro Recalcati, è del tutto sconosciuto. Nel corso del film il protagonista, seguendo uno schema alquanto frusto, scoprirà verità alquanto amare circa il proprio padre e scoprirà una ancor più drammatica verità nascosta circa la propria madre; una verità tale da provocare le sue reazioni più sconsiderate. Insomma, ci troviamo in presenza di un grave disadattato che vive per di più immerso in una società che è descritta come individualista, egoista, cattiva e violenta.

4. Arthur, per com’è presentato, non è (e non vuol neppure essere) un personaggio complesso e problematico, è piuttosto un complesso di tick, un idealtipo, una macchietta, accuratamente descritta e ben rifinita fin che si vuole, magari anche esteticamente “bella”, ma che resta pur sempre una macchietta. Non ha alcuna articolazione, non c’è alcuna costruzione, non c’è alcuna maturazione, nessuna problematicità. Le sue reazioni sono elementari, istintive, ed è del tutto prevedibile. È prevedibile anche nella sua imprevedibilità, dovuta appunto, secondo il testo filmico, al suo carattere psicopatico. Il film, dunque, nella sua struttura di fondo è davvero semplice e non ha davvero alcun bisogno di chiose o di approfondite interpretazioni. Non siamo di fronte a un Polanski o a un Assayas. Siamo purtroppo di fronte a una sceneggiatura scritta da un po’ di lavoranti a tavolino, con le stesse tecniche delle serie televisive. Non ci sono guizzi o impronte autoriali di sorta. Che sia un film scritto a tavolino lo si arguisce dal fatto che sono accuratamente confezionati diversi molteplici piani di lettura, tutti perfettamente compatibili tra loro, quello del fumettone per ragazzini, quello del classico per i fan pignoli che sanno tutto di Batman e Gotham City, quello per gli intellettuali cinefili e quello per gli intellettuali politicizzati, sia conservatori che progressisti. Insomma, decisamente si strizza l’occhio a un vasto pubblico e quindi si cerca – come è effettivamente accaduto - di restar simpatici un poco a tutti. Ci sono gli schizzi di sangue tipo Suburra ma ci sono anche molte citazioni che vorrebbero apparire dotte e raffinate, come quella di Charlot. Oppure a Taxi Driver. Ci sono poi i riferimenti all’attualità, sia in una versione compatibile con la destra (la metropoli assediata da psicopatici e criminali) sia in una versione compatibile con la sinistra (la sociogenesi del crimine e l’uso della violenza come forma di protesta contro l’ingiustizia).

5. Il film – come del resto i fumetti di Batman – ha un impianto fastidiosamente e schematicamente moralistico. Là dove Batman rappresenta la lotta reiterata del bene contro il male, nel contesto della metropoli tentacolare, qui il film vorrebbe produrre una riflessione sulla natura stessa del male e, in particolare, sulla sua genesi. Sono sostenute dalla trama, con una certa chiarezza e compiutezza, due tesi di fondo: la prima è quella della dipendenza sociale della devianza e la seconda è quella di un generalizzato pessimismo antropologico. Le due tesi messe insieme contribuiscono a conferire all’universo narrativo rappresentato un marcato carattere distopico. Vorrei subito anticipare la mia conclusione, tanto per contraddire taluni amici che si sono mostrati un po’ troppo entusiasti del film in questione. Qui non siamo in presenza di un’utopia rivoluzionaria, bensì di una distopia nichilista. Le distopie nichiliste, per quanto possano essere radicali e anti sistema, si sa che non hanno mai giovato al progresso e alla rivoluzione e hanno sempre finito per portare acqua al mulino della reazione. Credo di non sbagliare affermando che questo film, nonostante il suo apparente radicalismo, non faccia che portare acqua al mulino del più squallido populismo, come argomenterò in seguito. Ma vediamo in dettaglio.

6. La trama del film è anzitutto palesemente portatrice della tesi – alquanto semplicistica, rozza e scontata – secondo la quale chi delinque lo fa – a torto o a ragione - per colpa della società. E, ancor più, secondo una versione apparentemente sinistrese, chi delinque è, in fin dei conti, un eroe inconsapevole, un contestatore della società ingiusta, in ultima analisi un innovatore. È una vecchia e ben nota teoria che ha teso, in tempi diversi e con motivazioni diverse, ad assimilare la devianza alla rivoluzione politico sociale e all’innovazione. Dalle nostre parti (parlo di Alessandria) abbiamo avuto, fin dall’Ottocento, il brigante Mayno della Spinetta. Arthur Fleck, infatti, stando al testo filmico, è un po’ alquanto disturbato ma tutto ciò non è colpa sua. Non sa bene quel che fa e le sue sventure non hanno a che fare con i suoi limiti, le sue scelte o le sue discutibili iniziative: le sventure gli cadono semplicemente addosso. Anzi, soggettivamente egli sarebbe altruista e ben disposto. Si comporta come un bambino. La sua vocazione più sentita è quella di far ridere e divertire la gente. S’impegna a studiare le barzellette, cerca di imparare le tecniche della comicità. Studia e ammira i comici famosi. Desidera essere apprezzato. Farebbe di tutto per piacere ed essere popolare.

La nostra “anima bella” ha tuttavia fatto i conti senza la cattiva società metropolitana. Gotham City, la città immaginaria ove si svolge la vicenda, è chiaramente una trasfigurazione di New York e rappresenta un tipo ideale dell’odierna società occidentale, questo almeno secondo – ahimè - i più triti stereotipi delle scienze sociali del secolo scorso. Si tratta di una società alquanto semplificata, dove primeggia una ristretta élite dominante del denaro e una altrettanto ristretta élite dominante dei mezzi di informazione e di intrattenimento. A questo, che costituisce il mondo di sopra, si contrappone il mondo di sotto della massa degli emarginati. Si tratta di una perfetta contrapposizione tra alto e basso, che oggi sappiamo costituire la prospettiva tipica dello stile di pensiero populista. Naturalmente, nella descrizione di Gotham City, proliferano i luoghi comuni. Il mondo della politica è insensibile, corrotto e inefficace. L’informazione è bugiarda e il mondo dell’intrattenimento è suadente, perfido e manipolatore. I quartieri della città sono degradati, com’è degradata la vita dei cittadini. Al povero Arthur, già fuori di testa per conto suo, viene tagliata anche l’assistenza sociale e viene così privato degli psicofarmaci che usa abitualmente. Quando il sistema ti priva anche degli psicofarmaci, vuol proprio dire che siamo agli sgoccioli. Insomma, saranno l’egoismo generalizzato e l’incapacità della politica a liberare la belva malvagia potenziale che sta dentro di lui.

7. E qui possiamo venire al secondo motivo, cioè al pessimismo antropologico, il motivo decisamente più subdolo, pervasivo, ma anche accattivante, della morale del film. La novità – se così si può definire – è che la schematica spaccatura sociale messa in scena non dà luogo a una contrapposizione morale o politica tra i buoni e i cattivi, come nel sacrosanto Batman tradizionale. A Gotham City cattivi sono proprio tutti, anche se diversamente cattivi. I cattivi della classe dominante, grazie anche ai complici mezzi d’informazione, sono infatti del tutto consapevoli e perfettamente in grado di giustificare la loro posizione sociale e di giustificare le proprie condotte, tanto da poter continuare a mantenere il loro potere. I cattivi della classe emarginata, che non dispongono degli strumenti della produzione del consenso, non possono fare altro che manifestare invece esplicitamente la loro intrinseca cattiveria nei loro minimi gesti quotidiani. Insomma, ci troviamo in presenza di una società urbana dal carattere hobbesiano, dove vale comunque il principio dell’homo homini lupus. La trama insiste particolarmente e volutamente sul motivo dell’isolamento sociale dei singoli, sull’indifferenza nei confronti degli altri e sul venir meno di qualsiasi codice morale, con gli esiti inevitabili della violenza gratuita e della sopraffazione di tutti contro tutti. Le istituzioni, ovviamente, sono marce e non sono in grado di porre rimedio a questo quadro degenerato, anzi, lo alimentano. Ma proseguiamo pure dando uno sguardo agli sviluppi della trama.

8. Arthur, fin dall’inizio, mentre svolge in strada il suo modesto e inoffensivo lavoro di clown pubblicitario, è fatto segno del feroce bullismo dei giovincelli del quartiere. In autobus è fatto segno della violenza gratuita dei tre bellimbusti, appartenenti al mondo di mezzo della middle class, gruppo sociale senza carattere e senz’anima che si genuflette ai potenti e che rivolge la propria violenza contro i più deboli. Infine, per un’iniqua ma inesorabile concatenazione dei fatti, Arthur viene anche licenziato, senza alcuna giusta causa, da parte del suo capo menefreghista. In questo quadro ultra drammatico, il timido, confuso e incapace Arthur è indotto a reagire dal suo stesso istinto di sopravvivenza. E riesce a reagire - grazie anche e soprattutto all’arma di cui viene più o meno casualmente in possesso. La pistola è lo strumento che, in perfetto stile americano, farà di lui un “uomo libero”. Del resto il possesso delle armi costituisce la vera garanzia dell’eguaglianza, come recita implicitamente la stessa Costituzione americana. La vicenda della pistola è emblematica. Ricevuta da un sordido collega, Arthur comincia a portarla con sé, senza saperla neppure usare, quasi come un feticcio. Tuttavia Arthur se la lascia sfuggire goffamente per terra durante uno spettacolo comico con i bambini e questa sarà proprio una delle cause del suo licenziamento. Si può dire che, stando al testo del film, la pistola costituisca la vera terapia, il vero farmaco, attraverso cui l’emarginato e vittima incolpevole Arthur Fleck scopre la propria vera identità e diventa finalmente se stesso, ovverossia il Joker. Con questa sua formazione o “maturazione” identitaria, il Joker riuscirà a indicare la stessa via di liberazione a una moltitudine di altri emarginati e vittime incolpevoli simili a lui. Detto per inciso, nel film si assume tranquillamente che le pistole circolino più o meno liberamente, che se sei uno sfigato perseguitato, una pistola può sempre dare un senso di sicurezza e che, in fin dei conti, possa servire in extremis a riscattare i deboli dalle angherie e dall’oppressione. Insomma, nessuna parola, nessuna riflessione che possa impensierire la lobby delle armi. Siamo in presenza di una sceneggiatura che deve piacere proprio a tutti.

9. La svolta narrativa nella vicenda è data dall’episodio dell’autobus. Arthur, mascherato da clown, ingenuo, imbranato, ma ora segretamente armato di pistola, viene aggredito vigliaccamente dai tre giovinastri di cui s’è detto ed egli – quasi senza credere a se stesso – si trova a reagire e riesce a farli fuori uno dopo l’altro, nel più puro stile western, e a fuggire. Il caso finisce ovviamente sui giornali di Gotham e la polizia cerca affannosamente il clown assassino. Inaspettatamente, tuttavia – questo è un elemento narrativo che abbiamo trovato effettivamente interessante – la figura dell’ignoto clown assassino, ma anche giustiziere/ vendicatore, viene immediatamente adottata dalle masse emarginate come segno di identità e come simbolo di una rivolta che, in men che non si dica, si scatena irresistibilmente in diversi punti della città. Lo slogan dei rivoltosi “Uccidi il ricco” viene riportato in forma cubitale sui giornali. Minacciose maschere da clown compaiono un po’ ovunque. Oltre a tutto, la maschera clownesca è perfetta per nascondere il volto dei “vendicatori” che scendono in piazza. La rivolta dei clown mascherati è senz’altro uno dei motivi conduttori della trama del film. Esso viene ripreso più volte - ed è senz’altro uno degli aspetti notevoli del film, anche e soprattutto sul piano dell’efficacia visiva. Del resto, questo motivo costituisce una palese strizzata d’occhio– seppure generica e qualunquista - da parte del tavolo degli sceneggiatori all’attualità, a tutti i movimenti dal basso, di destra o di sinistra, dai Gilet gialli ai Black Blocks, fino ai manifestanti di Hong – Kong. Ma anche ai terroristi e agli sparatori solitari, visti come minaccia all’ordine pubblico.

10. La maschera del clown vendicatore non può che portare alla memoria dello spettatore appena avveduto l’illustre precedente della maschera di Guy Fawkes, ripresa dal film “V per vendetta” di James McTeigue. È davvero significativo, per la nostra analisi, che il film di McTeigue sia stato tratto da una serie a fumetti, guarda caso proprio della DC Comics! Anche in quel caso si trattava dunque di un cinecomic. Il personaggio di V notoriamente si ispira al controverso Guy Fawkes, autore della Congiura delle polveri del 1605. Nella serie a fumetti e nel film, V è un anarchico che lotta contro un regime totalitario distopico. Fumetto e film hanno avuto un grande successo a livello popolare e la maschera di Fawkes (o di V, che dir si voglia) è stata notoriamente subito adottata dagli irregolari del dark web, dalla variegata galassia anarchica e da una serie di movimenti politici come Occupy Wall Street o gli Indignados. Come si vede, il confine tra realtà è fiction è ormai divenuto davvero labile. All’uscita del film di Phillips – prendendo la cosa un po’ alla lettera e prendendo per buono l’interscambio ormai ineluttabile tra realtà e rappresentazione – qualcuno, soprattutto negli States, ha seriamente temuto lo scoppio di gesti individuali di imitazione o di esplosioni di rabbia collettiva. Paradossalmente, la maschera del Joker è effettivamente comparsa sulla scena, nella settimana in cui stiamo scrivendo, in una manifestazione di piazza in Libano. Probabilmente è solo l’inizio di una gloriosa carriera. Crediamo di non sbagliare aspettandoci, nei prossimi tempi, diverse ulteriori comparsate della maschera del Joker, magari proprio accanto a quella di Guy Fawkes. Un tempo qualcuno aveva pensato che i movimenti rivoluzionari potessero nascere nientemeno che dalla filosofia tedesca. Oggi, la buffa realtà è che prendono effettivamente spunto dagli albi a fumetti e dai cinecomics. Anche i movimenti rivoluzionari non sono più quelli di una volta.

11. Sicuramente il pezzo clou del film è quello in cui il Joker ha l’occasione di partecipare allo show televisivo e – del tutto inaspettatamente - fa saltare le cervella al noto comico e presentatore Murray Franklin (interpretato da Robert De Niro). Lasciamo da parte la tesi – che pure è stata avanzata da qualche critico – che il tutto costituisca una specie di sogno nella mente malata del protagonista. Tesi per la quale, nella furbesca sceneggiatura, non ci sono agganci pro o contro. Atteniamoci pure alla lettura più convenzionale, secondo la quale nello sviluppo narrativo il fatto sia effettivamente avvenuto. Qui il film raggiunge effettivamente il suo momento culminante e radicale: l’intero sistema industriale del rimbecillimento collettivo e del controllo (di cui era già stato ampiamente mostrato il cinismo e l’opportunismo) viene concretamente annientato da un gesto radicale, massimamente violento, massimamente minaccioso ma anche dall’ambiguo risvolto liberatorio. L’annientamento in diretta di uno dei celebri esponenti mediatici del sistema rappresenta l’annientamento simbolico di tutto il sistema stesso di Gotham City. Sembra suggerire il film, a questo punto, che con il sistema è impossibile venire a patti. Contro il sistema è possibile solo un gesto ultimativo che non ha più alcuna logica razionale, che rappresenta soltanto una reazione istintiva e profonda. Dal punto di vista della mente malata (o iperlucida) di Arthur è la constatazione che non c’è proprio niente da ridere. La sceneggiatura – spingendosi a vette inusitate - tocca qui il tema della rivolta del corpo contro il sistema dell’oppressione, questione di cui ha ampiamente trattato una certa biopolitica estremista, assai popolare soprattutto nel nostro Paese. Secondo questa tesi, tanta è l’oppressione che sono gli stessi corpi a liberare irrazionalmente la loro rabbia. L’irrazionalità (e la follia) sarebbe l’ultimo luogo dove può consumarsi la rivolta. Una rabbia che può scatenarsi ovunque e contro chiunque. Il film mostra, oltretutto, come la scena del killeraggio si svolga in diretta televisiva e come questa abbia un’incredibile risonanza e contribuisca così definitivamente a fare del Joker – del tutto inconsapevole e involontario - il simbolo identitario di una rivolta collettiva che tende a espandersi a macchia d’olio. Si noti che il Joker non dirige la rivolta, non ne sarebbe capace. Egli semplicemente si mostra, viene subito riconosciuto come leader dalla moltitudine e viene subito imitato.

12. Dobbiamo davvero credere a questa tesi e considerare il Joker come l’alfiere di una nuova rivoluzione biopolitica contro il sistema? Ritorniamo per un attimo ai due blocchi di teoria sociale che stanno solidamente dietro alla sceneggiatura: la sociogenesi del crimine e il pessimismo antropologico. La società distopica di Gotham è fatta per produrre macchine diversamente cattive e non può fare altro. Non c’è posto per le anime belle. Come non c’è posto per una comicità autentica, capace di permettere agli uomini di relazionarsi in modo sano (come forse si suggerisce avvenga nel caso dei bambini). A Gotham si può solo scegliere tra la comicità artificiosa di Murray Franklin o la comicità dissociata e potenzialmente assassina del Joker. La rivolta dei giustizieri mascherati è in grado di ritorcere il male ma non è in grado di produrre alcuna società nuova. La stessa maschera del clown indossata dall’assassino/ vendicatore assurge qui al simbolo dell’innocenza perduta per sempre. Non c’è alcuna bontà originaria nell’essere umano. Se per caso ci fosse – come magari nel caso dei bambini – la società si premunirebbe nello spegnerla immediatamente. Chi si ribella – il Joker viene presentato come un ribelle – magari potrà anche essere nel giusto (qui il modello è quello della giustizia commutativa, per cui il colpevole deve subire lo stesso danno che ha subito la vittima) ma non sarà certo un buono, non sarà cioè portatore di alcun modello positivo di umanità. Di alcun modello effettivamente innovativo. Detto in altri termini, secondo la distopia descritta nel film, il conflitto sociale può essere solo ed esclusivamente di tipo dissociativo. Abbiamo già ricordato Hobbes. Stiamo parlando cioè di un modello che è del tutto pre-contrattualistico e che è destinato a restare tale.

 Se non possiamo più andare in cerca della società buona perché un simile progetto è dichiarato impossibile, non conforme alla natura umana o alla realtà effettuale della società, allora possiamo solo andare a caccia del capro espiatorio. Di un capro espiatorio qualunque, intanto a Gotham City sono tutti corresponsabili e tutti potenziali nemici. Si tratta di individuare una qualunque radice del male, contro la quale vendicarci adeguatamente. Le vittime possono fare giustizia/ vendicarsi solo al costo di diventare, esse stesse, carnefici. Questo, in realtà, è il vero nucleo – tutt’altro che rivoluzionario – del messaggio contenuto nel film. Questo messaggio non è altro, tuttavia, che il messaggio tipico del populismo contemporaneo, cui il film strizza l’occhio furbescamente e abbondantemente. Il popolo non è antropologicamente buono, non è un modello positivo di umanità. Il popolo si costituisce sempre contro. Il popolo che risponde all’appello vendicativo semplicemente ha ragione. Il popolo vuole la sua vendetta contro il suo nemico. Chiunque può rivestire i panni del nemico del popolo, perché il populismo – come sostengono i populisti stessi - non è né di destra né di sinistra. Nemico del popolo può essere il politico corrotto, il capitalista egoista, il ricco, il mafioso, l’immigrato, quello che non paga le tasse, l’omosessuale o l’ebreo. L’importante è che la vittima indossi finalmente la sua maschera e diventi, almeno per un giorno, il carnefice di turno. Tutti – si suggerisce implicitamente - hanno un nemico irriducibile cui piacerebbe sparare in testa, in diretta, davanti a tutto il mondo. Insomma, il Joker sparatore del film di Phillips è decisamente polivalente e adatto per tutti gli usi. Il Joker killer può costituire, agli occhi dello spettatore, il vendicatore finalmente costruito a propria immagine e somiglianza. Tutto fa brodo. Qui si vede ulteriormente la furbizia della sceneggiatura che accenna vagamente a fatti inquietanti ben noti, a problemi di enorme portata, guardandosi bene tuttavia dall’analizzare le questioni e dal prendere posizione. Il tutto è lasciato alla cooperazione spontanea del lettore, la quale tuttavia viene sempre soltanto indirizzata verso le soluzioni più superficiali e semplicistiche. Bravo lettore!

13. Così la rivoluzione irriducibile contro il sistema diventa un’oretta o poco più d’intrattenimento multimediale pirotecnico che pretende di essere anche esteticamente raffinato, filologicamente corretto (rispetto alla saga di Batman), di elevato livello culturale (con abbondanza di citazioni e di riferimenti all’attualità) e pieno di considerazioni apparentemente profonde di filosofia sociale. Così schiere di ragazzini usciranno dal cinema confermati nel fatto che il sistema in cui vivono è marcio e immondo, che bisogna guardarsi intorno perché c’è sempre qualcuno che ti vuole fregare, che fare qualche pazzia ogni tanto è una sacrosanta protesta e che avere un’arma in tasca ogni tanto non guasta. E, non ultimo, che il massimo della protesta è dare completamente fuori di testa, magari una volta ogni tanto, nel fine settimana. Un vero e proprio corso completo di educazione civica. A che pro spendere finanze per introdurre l’educazione civica nelle scuole? Intanto, contro quel mondo insicuro, perfido e malvagio, a mettere a posto le cose, chiamato dal bat-segnale posto sul grattacielo più alto di Gotham, arriverà poi Batman, il giovane Bruce Wayne che s’intravvede nel film. Il Batman rude giustiziere buono che, nell’immaginario dell’America di oggi, riveste indubbiamente le sembianze di Donald Trump. Quello che è in grado, finalmente, di rendere il male con il male, infischiandosene della legalità. Il Joker ribelle irriducibile è ahimè solo l’altra faccia di Donald Trump, in una colossale storia a fumetti di carattere totale che ormai ha completamente riempito la testa dell’elettore medio delle democrazie occidentali.

14. Ci siamo particolarmente dilungati sui contenuti della storia perché nel film, oltre all’enfatica virtuosistica recitazione di Phoenix e agli estetismi della fotografia, non c’è molto d’altro. Il problema non è che si facciano film del genere. Si sono sempre fatti. La spazzatura purtroppo non è emendabile. Il problema vero è che un film del genere abbia vinto il Festival del Cinema di Venezia. Avete sentito qualche protesta? Avete letto recensioni infuocate dei critici cinematografici? Qualcuno ha gridato allo scandalo? Qualcuno si è stracciato le vesti, si è incatenato per protesta o si è dato fuoco sul tappeto rosso? Pare proprio di no. Tutti contenti! La stupidità asinina purtroppo ormai è diventata la norma anche negli ambienti dove un tempo si sussurrava con rispetto la parola “cultura”. Chiunque si opponga all’andazzo ormai è confinato nel rumore di fondo. È un dato di fatto ormai che l’industria culturale riesce a produrre merci seriali che assomigliano talmente ai prodotti autoriali tanto da sembrare – alle menti appena un poco distratte e, magari, appena un poco prezzolate – del tutto indistinguibili. Se così stanno le cose, viva le merci seriali! Perché impignolirsi nella battaglia persa di fare i distinguo più sottili tra ciò che è autentico e ciò che è inautentico, quando le masse impazzano e consumano a più non posso la brodaglia artificiosa che viene loro servita? Finalmente anche gli intellettuali, così bistrattati, possono sentirsi davvero popolari. Finalmente masse ed élite possono parlare lo stesso linguaggio. Opere come il “Joker” di Phillips sono la vera soluzione alla tormentata dialettica tra intellettuali e popolo. Opere così raffinate, ricche e ben congegnate che non possono non piacere a tutti, dove ciascuno ci trova la sua lettura, il suo ammiccamento, il suo senso superficiale e/o recondito. Non si tratta di “opere aperte”, come aveva teorizzato il buon Umberto Eco, bensì di opere che potremmo definire – rivendichiamo qui la paternità del concetto – “ad ampio spettro di significazione”, opere cioè in grado di dare a ciascuno il suo, dove ognuno può leggerci solo e soltanto, o principalmente, quello che gli interessa. Opere che non sono altro che lo specchio preciso del fruitore, più o meno come accade di ogni pagina web. Sono opere perfettamente allineate con lo spirito dei tempi attuali e sicuramente destinate ad avere un enorme successo. Noi abbiamo sempre pensato che la cultura fosse un’altra cosa.



Giuseppe Rinaldi

29/10/2019