giovedì 17 novembre 2011

La tecnica, la politica e lo spettro di Weimar

 

1. Nei periodi di crisi si evidenziano aspetti della realtà politica e sociale che altrimenti sarebbero destinati a restare nell’ombra. Chi osservi quel che sta succedendo sulla scena politica italiana non può far a meno di notare l’aspro conflitto semantico che si è aperto tra tecnica e politica. Nella teoria politica si ritiene, giustamente, che il governo dei tecnici (da cui il termine tecnocrazia) sia incompatibile con la democrazia, perché le scelte che riguardano il bene comune non possono essere demandate a gruppi di esperti, ma devono essere prese da coloro che sono titolati a definire il bene comune e cioè dai cittadini, attraverso i loro rappresentanti. Naturalmente i cittadini e i loro rappresentanti possono ricorrere al consiglio degli esperti (ed è sempre bene che lo facciano) ma l’espressione della volontà non può mai essere consegnata agli esperti. Democrazia e tecnocrazia stanno dunque in antitesi. Ne consegue che, a rigore di logica, in democrazia non esiste il governo dei tecnici: se un governo (quale che sia la sua composizione) ha il consenso dei rappresentanti dei cittadini, esso è, per definizione, un governo politico.


2. La scelta intorno alla quale ci siamo arrovellati in questi giorni non è dunque quella tra democrazia e tecnocrazia. Con l’espressione “governo tecnico” intendiamo in realtà oggi qualcosa di diverso dalla tecnocrazia: intendiamo riferirci a un governo politico come qualsiasi altro (con tanto di fiducia da parte delle Camere) ma interamente composto di esponenti che non appartengono ufficialmente al mondo della politica e che sono scelti soprattutto in base alle loro competenze. Questo particolare criterio di scelta degli esponenti del governo ha una sua ragione di fondo in tutte quelle situazioni in cui, evidentemente, il mondo della politica ufficiale non si mostra in grado di esprimere le competenze necessarie per assicurare un buon governo. Si tratta cioè di quelle situazioni in cui il sistema della politica ufficiale fornisce un rendimento inaccettabile, in cui esso non è più in grado di assicurare la sopravvivenza della società stessa.


3. Ricorrere a esponenti di governo presi al di fuori del mondo della politica ufficiale rappresenta dunque l’ultima spiaggia dei sistemi democratici. Scadimenti dei sistemi democratici di questo tipo non sono impossibili. Si vada, in proposito, a rileggere la storia davvero istruttiva della Repubblica di Weimar. Tutti sanno che la democrazia è un sistema delicato che richiede un’accurata manutenzione e che, se lasciato a se stesso, in balia delle fazioni, degli interessi particolari e della stupidità, può facilmente implodere. Quando, di fronte a problemi gravissimi, di natura interna o esterna, il sistema politico non è più in grado di esprimere soluzioni efficaci, quando non riesce più a identificare e correggere gli errori che commette, quando non è neppure più in grado di produrre un adeguato ricambio, si può facilmente entrare nella fase del non ritorno.


4. È questo purtroppo il caso del nostro Paese. Nel giro di pochi mesi non ci siamo trovati soltanto di fronte a un governo incapace (cosa nota da tempo), ci siamo trovati di fronte a una crisi di governabilità che già si era protratta per anni in forma latente e che è esplosa di fronte alla crisi finanziaria di questa estate. La sfiducia dei mercati nei confronti del nostro debito sovrano riguarda certo l’operato negativo del governo Berlusconi, ma riguarda anche e soprattutto il blocco del nostro sistema politico, l’incapacità del nostro sistema politico di funzionare a un livello appena decente e di far fronte agli eventi. La crisi finanziaria di questa estate si è così saldata con la crisi di governabilità producendo una miscela esplosiva (di cui molti politici, oggi, in Italia pare non si siano ancora effettivamente accorti[1]).


5. I soggetti più responsabili e più consapevoli di questa situazione (in primis il presidente Napolitano) hanno allora proposto e sostenuto un nuovo governo, composto di esponenti non appartenenti alla politica ufficiale, come un governo di emergenza, per far fronte alla crisi dei mercati. Questi stessi soggetti hanno anche ritenuto improponibile un immediato ricorso alle urne, in base a una considerazione facilmente accessibile a ogni persona di buon senso e cioè che le elezioni anticipate, con l’attuale legge elettorale, avrebbero mantenuto il Paese in lunghi mesi di conflittualità e di incertezza dovuti alla campagna elettorale e non avrebbero comunque poi garantito un ceto politico più competente (avremmo avuto, in tal caso, nuovamente un parlamento di  nominati) e neppure una maggioranza solida (infatti l’attuale porcellum, con l’attuale frammentazione delle forze politiche, non garantisce alcuna maggioranza stabile al Senato). Insomma, il ricorso immediato alle urne non farebbe che accentuare la crisi di governabilità in cui ci siamo infilati.[2]


6. A leggere le dichiarazioni di parte politica di questi giorni, è però del tutto evidente come la consapevolezza della presenza di una grave crisi di governance, sia quasi completamente assente, sia nelle fila della maggioranza, sia tra quelle dell’opposizione. Stiamo assistendo a balletti argomentativi di questo genere: il governo Monti dovrebbe essere un governo a breve termine (curiosamente, per fare in breve ciò che la politica ufficiale non è stata capace di fare in lungo!); i membri del governo Monti dovrebbero rinunciare esplicitamente a candidarsi alle prossime elezioni, per non fare ombra ai politici ufficiali. Il governo Monti sarebbe un’ammucchiata e confonderebbe le posizioni politiche che devono invece restare ben distinte (le quali però sono così ben distinte che non sono più in grado di fare nulla). Il governo Monti poi sarebbe un governo costituito di tecnocrati, oppure di uomini della finanza, cioè di quegli stessi che avrebbero causato la crisi finanziaria; esso rappresenterebbe la lunga mano nientemeno che della finanza internazionale, interessata solo a fare della macelleria sociale. Il governo Monti costituirebbe un tentativo anticostituzionale di espropriare il popolo italiano del potere di eleggere i propri rappresentanti, rappresenterebbe addirittura una specie di colpo di Stato contro la Costituzione. Secondo altri ancora, Monti sarebbe addirittura la mano lunga dello straniero, rappresenterebbe cioè il commissariamento da parte di Bruxelles nei confronti dell’Italia e quindi un esproprio della nostra sovranità nazionale.


7. È davvero interessante e significativo che questo coacervo di valutazioni sia stato espresso quasi indifferentemente da esponenti di destra, di centro e di sinistra (compresa la sinistra estrema e i giovani “occupatori”). L’unico tratto comune sembra davvero essere la totale assenza di consapevolezza circa la grave crisi di governance che stiamo attraversando. Per essere chiari fino in fondo, è il caso di sottolineare che, nell’inefficienza globale del sistema politico italiano, hanno una responsabilità rilevante anche il bizantinismo e la balcanizzazione dell’opposizione, che è riuscita ad arrivare alla piuttosto prevedibile caduta del governo Berlusconi[3] in una situazione di totale divisione, senza primarie e dunque senza un candidato leader riconosciuto, senza un programma comune, in disaccordo quasi su tutto, con quella che dovrebbe essere la grande novità, il terzo Polo, anch’esso diviso in tre o quattro partiti dalle percentuali ridicole.[4]


8. Mai come oggi è divenuto evidente come la politica ufficiale, nel nostro Paese, rappresenti un coacervo organizzato d’interessi particolari, talvolta anche d’interessi di cricche affaristiche e criminali, completamente miope e incapace di produrre quel rendimento minimo che possa assicurare non tanto lo sviluppo, quanto la sopravvivenza del Paese. Di fronte a questa realtà, le teorie del complotto della finanza internazionale ai danni dell’Italia sono favole. In una simile situazione, di fronte ai pochi che si sono resi conto dell’esigenza di ricorrere a una governance estranea al mondo della politica ufficiale, agli interessi particolari, ai veti incrociati, allo scopo di riparare rapidamente al disastro che è stato prodotto, la maggior parte dei politici ufficiali teme che un’eventuale successo del governo tecnico mostri palesemente a tutti la natura disfunzionale e parassita della politica reale. Ecco che così tutti si ritrovano a difendere le virtù della politica, il popolo sovrano, le proprietà taumaturgiche del ricorso alle urne, l’esigenza che il governo tecnico sia una breve parentesi, strettamente sorvegliata dalla vera politica che conta. Il PdL si appresta a fare il “governo ombra” per impedire che i pericolosi tecnici possano prendere piede. I difetti della politica ufficiale nel nostro Paese sono noti e, a parole, sono tutti d’accordo. Si parla da anni di riforma dello Stato, di riordino delle autonomie locali, di giustizia fiscale territoriale, di riforma della legge elettorale, di diminuzione dei costi dell’apparato politico, di vincoli al numero dei mandati, di diminuzione dei parlamentari, di eliminazione dei privilegi dei politici, di revisione delle norme sul finanziamento dei partiti e dei giornali dei partiti, di norme rigorose per la selezione del ceto politico (comprese norme contro i voltagabbana e contro la compravendita dei parlamentari) e di norme nei confronti dei parlamentari inquisiti e condannati, di norme per l’istituzione delle primarie ex lege, di uno stato giuridico per i partiti e per i sindacati e, dulcis in fundo, di una regolazione del conflitto d’interessi. Sono queste le questioni non risolte che determinano il blocco del sistema politico e la crisi di governabilità.


9. Il vero problema di questo Paese è che la politica ufficiale non funziona. Quel che abbiamo imparato a nostre spese, in questi ultimi mesi, è che il cattivo funzionamento della politica, lungi dal costituire uno dei nostri tanti tollerabili e simpatici difetti, può portarci direttamente alla catastrofe in un batter d’occhio, che l’Argentina e la Grecia sono appena dietro l’angolo.  La crisi attuale rappresenta un’occasione, forse l’ultima, per una presa di coscienza della vera natura del problema e per dare l’avvio a un cambiamento radicale. Tutti quelli che hanno davvero a cuore le sorti del nostro Paese, oltre ad appoggiare nell’emergenza il governo Monti, dovrebbero comprendere che la maggiore urgenza che abbiamo è quella di una rigorosa e improcrastinabile riforma del sistema politico che ci ritroviamo, di tutta la politica ufficiale, riforma preliminare a qualsiasi altra riforma. Altrimenti continueremo a oscillare tra governi “politici” impotenti e incapaci e governi “tecnici” d’emergenza. I governi tecnici ci faranno stringere la cinghia e i governi politici provvederanno subito a scialacquare quanto avremo risparmiato, con grande gioia di tutti gli Scilipoti.

 

Giuseppe Rinaldi (17/11/2011 -08/07/2021 rev.)

 

 

 

NOTE

[1] La Lega, ad esempio, dopo avere irresponsabilmente tenuto in piedi un governo che ci ha portato al tracollo, ha deciso ora che tutto ciò non la riguarda più e che è il caso di passare all’opposizione. La Lega sfascia e gli altri devono rimettere insieme i pezzi.

[2] Tanto per continuare con l’esempio di Weimar, quante volte sono andati a votare i tedeschi a ridosso del 1933? A considerare il numero delle consultazioni elettorali effettuate in quel periodo, si potrebbe sostenere che Weimar fosse la repubblica più democratica del mondo.

[3] Bersani, evidentemente in preda a qualche allucinogeno, ha rivendicato esplicitamente il merito di aver fatto cadere Berlusconi. Lo stesso allucinogeno deve essere quello usato da Alfano quando ha dichiarato che Berlusconi si è dimesso per il bene del Paese e non per aver perso la maggioranza in Parlamento.

[4] Non sto sostenendo che destra e sinistra sono uguali, ma che destra e sinistra non sono consapevoli del fatto che la questione della governabilità viene prima di ogni altra questione di parte e che entrambe hanno altamente contribuito, ciascuna con i propri apporti originali, a rendere il sistema altamente ingovernabile.

 

 

 





venerdì 7 ottobre 2011

Questo non è un Paese per l'etica. Obbiezioni e risposte












 

1. In un recente articolo[1] riguardante il codice etico per i candidati proponevo, seppure in maniera abbozzata, un’analisi della generale odierna tendenza verso la definizione di sempre nuove norme e garanzie, capaci di porre un argine ai rischi diffusi cui il singolo è sempre più esposto nell’ambito delle sue interazioni sociali. Sottolineavo il fatto che la definizione di norme e garanzie tende a produrre artificialmente un quadro di maggior fiducia che può migliorare la vita sociale a vantaggio di tutti. All’interno di questa tendenza collocavo la crescente diffusione, negli ultimi decenni, dei codici etici nell’ambito della politica, sia all’interno delle istituzioni, sia all’interno dei partiti, sia nel rapporto tra gli elettori e i candidati.

Ben lungi dall’essere, la mia, un’analisi acriticamente ottimistica, intravedevo tuttavia, accanto ai rischi fin troppo ovvi di strumentalizzazioni, la possibilità di un uso positivo dei codici etici in campo politico. Affermavo che “Spesso, questi codici non prevedono organi di controllo e sanzioni che possano essere comminate. Sono manifestazioni di buona volontà, talvolta si riducono a operazioni d’immagine. Da questo punto di vista poterebbero semplicemente essere considerati come parte della chiacchiera globale. Tuttavia questi codici, a lungo andare, se presi sul serio, possono avere dei risvolti positivi. Intanto servono a stabilire pubblicamente quali siano i parametri del mondo possibile che gli elettori considerano preferibili. In altri termini possono aiutare l’elettore a definire i requisiti di qualità del prodotto politico che dovrebbe aspettarsi. Servono a stabilire una comune opinione, di carattere universale, che diventa per ciò stesso difficile, per chi abbia delle tentazioni, trasgredire apertamente. Insomma, servono a individuare e confinare certi comportamenti deleteri e a costringerli, per lo meno, alla clandestinità. Una volta che abbiano raggiunto un consenso ampio di pubblico, questi codici possono poi anche trovare una definizione normativa più rigorosa e ufficiale e possono anche, quindi, giungere ad avere degli organi di controllo e delle sanzioni. […] Insomma, da un primo vincolo di tipo morale, si può passare a vincoli sempre più stringenti in termini normativi.”

Concludevo che “… sarebbe un errore considerare con sufficienza questa tendenza all’esplicitazione dei principi etici ispiratori alla base dei programmi elettorali dei vari candidati e alla stipulazione di codici di comportamento, o di patti, con gli elettori. Certo, può essere usata dai candidati come fumo negli occhi, ma può anche essere usata in termini costruttivi, dai movimenti partecipativi, per migliorare la qualità della politica.”

2. A proposito delle mie tesi ho ricevuto svariate obbiezioni, di cui ringrazio sinceramente gli autori,[2] che meritano senz’altro di essere riprese e considerate con la massima attenzione. Ciò vale anche se non riesco a scacciare l’impressione che i discorsi relativi all’etica, presso il nostro pubblico di sinistra che si ritiene molto disincantato, vengono accolti con un qualche fastidio e vengono inevitabilmente collocati nella categoria del moralismo. Nell’accezione comune, i moralisti sono ingenui, perché non tengono conto di quale sia la vera natura umana, e presuntuosi, perché pretendono di dettare le regole. Ma passiamo alle obbiezioni.

3. La prima obbiezione, senz’altro fondata, riguarda la genericità degli impegni previsti dai codici etici, la mancanza di precise definizioni delle fattispecie giuridiche, l’assenza di sanzioni e di relativi organismi di controllo. In sostanza, senza una precisa individuazione della specificità dei comportamenti e senza l’individuazione di procedure sanzionatorie efficaci, tutti i bei discorsi sui codici etici si ridurrebbero a un mero flatus vocis, con l’aggravante dell’ingenuità da parte di quelli che vi ricorrono. Il ragionamento non fa una grinza. Va tuttavia osservato che non tutti i codici etici sono generici. Ad esempio, la Raccomandazione del Consiglio europeo[3] è molto particolareggiata. Il codice etico interno dell’IDV è estremamente dettagliato e prevede minuziosamente i comportamenti, le sanzioni e gli organi di controllo. È chiaro che il livello di definizione di questi documenti dipende anche dall’uso che se ne fa, se si tratta di fare una raccomandazione, se si tratta di regolare la vita interna di un partito, se si tratta di stabilire un patto tra gli eletti e gli elettori oppure, ancora, se si tratta di fare delle domande ai candidati circa il loro futuro comportamento, qualora fossero eletti. Va inoltre osservato che spesso si è assistito a un processo di passaggio dalla formulazione di documenti vaghi e generici verso documenti sempre più strutturati, precisi, con sanzioni e organi di controllo sempre meglio definiti. Anche i documenti più vaghi possono dunque essere considerati come indicatori di una tendenza verso lo sviluppo di una maggiore sensibilità normativa sulle questioni scottanti. Possiamo così intravedere una positiva dialettica tra la crescita di una nuova consapevolezza politica e la conseguente elaborazione di norme nuove ed efficaci.

4. Una seconda obiezione riguarda la fattibilità di un controllo da parte dei cittadini direttamente interessati. Dicevo nell’articolo citato: “È del tutto possibile conferire a dei Comitati indipendenti di cittadini il compito di controllare l’effettivo andamento dell’attività di governo e di segnalare, al pubblico e ai mezzi d’informazione, le eventuali violazioni delle promesse elettorali e dei codici etici condivisi.” In queste righe è ahimè contenuta una parola sensibile (“indipendenti”) che scatena la suscettibilità della gente di sinistra. Se c’è un pregiudizio che circola è che nessuno è veramente indipendente, tutti sono sempre soltanto di parte. Coloro – come il sottoscritto - che ritengono sia possibile ricorrere a organismi indipendenti sono degli ingenui, oppure sono decisamente in cattiva fede.[4] Dalla diffidenza nei confronti degli organismi indipendenti discende che sarebbe difficilissimo trovare qualcuno in grado di mettere in piedi un organismo di controllo. In realtà, quando si parla di Comitati indipendenti non si sostiene che coloro che ne fanno parte non dovrebbero professare soggettivamente alcuna opinione. Si sostiene che questi Comitati dovrebbero operare con metodologie precise, trasparenti e intersoggettive. Un esempio può essere il famoso Osservatorio di Pavia che rileva la diffusione della comunicazione politica sui mezzi di informazione. Il problema non è se quelli dell’osservatorio sono di destra o di sinistra, chi li paga, perché lo fanno, a chi giova, e così via; il problema è se utilizzano dei metodi di rilevazione e analisi attendibili. Ho già citato, nello scorso articolo, il caso del Contratto con gli italiani di Berlusconi. Ebbene, c’è chi è andato a esaminare, dati alla mano, se è vero o non è vero che Berlusconi ha onorato il suo contratto con gli italiani. Tutto questo si può fare indipendentemente dagli orientamenti politici soggettivi, esplicitando con chiarezza il metodo che si intende seguire (in questo caso è il metodo che garantisce l’indipendenza). Viene da osservare ancora che, nel nostro Paese, non siamo in generale abituati alla presenza di organi indipendenti di controllo. Del resto, il modo in cui, nel nostro Paese, viene trattata la magistratura, che costituisce l’organo indipendente di controllo per eccellenza, la dice lunga sui nostri ritardi.

5. Una terza obiezione, di carattere piuttosto radicale, rileva che l’opinione pubblica è altrettanto poco sensibile all’etica degli stessi politici che essa dovrebbe monitorare. Più in generale, sarebbe un’ingenuità aspettarsi un’opinione pubblica sana in una situazione in cui la politica è corrotta. L’opinione pubblica è, realisticamente, lo specchio della politica e viceversa. L’immagine che ne deriva è quella del serpente che si morde la coda, per cui, volendo cambiare le cose, non si sa da quale punto cominciare. Tralascio il dibattito - che sarebbe assai interessante - circa il rapporto tra l’opinione pubblica del nostro paese e la nostra classe politica, e cioè se è proprio vero che classe politica e opinione pubblica si rispecchino sempre fedelmente. Circa l’obbiezione generale, mi limito a osservare che l’opinione pubblica non va considerata come un dato di fatto, ma come un prodotto di precise operazioni culturali. L’opinione pubblica può essere più o meno informata, più o meno matura, più o meno responsabile. L’attività di controllo degli elettori sui propri eletti è sicuramente un’attività che, seppure in piccolissima parte, è in grado di far maturare l’opinione pubblica stessa. L’esercizio dell’opinione pubblica rappresenta un antidoto efficace alla manipolazione dell’opinione pubblica.

6. Una quarta obbiezione concerne che i codici etici, lungi dall’essere eminentemente di tipo procedurale, finiscono inevitabilmente per tirare in ballo degli specifici contenuti e, dunque, per costituire degli elementi programmatici che possono essere accolti o rifiutati sulla base di considerazioni politiche. Un esempio tipico può essere quello delle cosiddette “quote rosa”. L’eguaglianza di genere nella distribuzione delle candidature può essere considerato, secondo una certa logica, un fatto positivo, mentre, secondo un’altra logica, può essere considerato come una sciocchezza del politically correct. La garanzia antimafia che un candidato può fornire ai propri elettori è senz’altro legata a un implicito programma antimafia su cui, a parole, sono tutti d’accordo, ma su cui possono esserci delle differenze sostanziali. Oppure, le garanzie di rispetto del patrimonio ambientale possono essere considerate, da un lato, come principi doverosi di difesa di un bene comune e, dall’altro, come ostacoli allo sviluppo economico (ne sa qualcosa il compagno Soru). Non ci troveremmo dunque a scrivere dei codici etici, ma a scrivere dei veri e propri programmi politici, del tutto questionabili. L’osservazione è senz’altro pertinente: un conto sono i codici etici che dovrebbero regolare gli aspetti più procedurali della politica e un conto sono i programmi che, in un certo senso possono essere considerati come la lista della spesa, dove i singoli elementi possono essere messi o tolti a seconda della varietà degli orientamenti politici. Non c’è una ricetta precisa per distinguere il programma dal codice etico. Il codice etico tende a far parte del programma, e viceversa. Come regola approssimativa, si può affermare che nel codice etico ci dovrebbe stare tutto quello che ci possiamo attendere da un partito o da un candidato, indipendentemente dai loro specifici programmi. In questo modo si comprende come il ragionamento sul codice etico possa avere anche una funzione di aggregazione dello stesso mondo politico intorno ad alcuni princìpi condivisi. È chiaro comunque che alcune regole etiche generali possono immediatamente fare a pugni con certi elementi programmatici, oppure con gli interessi profondi di certi candidati o di certi partiti (i candidati di un partito che abbia come obiettivo fondamentale quello di occupare le poltrone difficilmente prometteranno ai loro elettori di dimettersi, qualora fossero sottoposti a indagine).

7. Una quinta obiezione, di ordine più generale, può essere sintetizzata dal motto “Sarebbe bello ma non è realistico”. In sostanza si rileva che tutta questa materia (maturazione dell’opinione pubblica, controlli, codici etici, impegni, garanzie, fiducia) appartiene a un mondo possibile, alquanto desiderabile, che tuttavia in effetti non esiste. Si tratta dunque di un’accusa di eccessiva astrattezza, di eccessivo ottimismo, di possedere una visione del mondo alla Pangloss. Un modo per dire che la politica deve stare coi piedi per terra, deve confrontarsi con la realtà così com’è e non con la realtà come la vorremmo. Certo, non si può che concordare con chi reclama che i progetti politici tengano conto della realtà effettuale. Non si può tuttavia concordare quando, sull’altare della realtà effettuale, viene sacrificato qualunque progetto che voglia cambiare le cose. È singolare poi che questa obbiezione provenga soprattutto da quelli che si pongono l’obiettivo di cambiare le cose.

8. Ci dovremmo allora domandare specificatamente di quanta astrattezza abbiamo bisogno, quanta astrattezza possiamo sopportare, qual è lo scarto ottimale tra gli ideali e la realtà. Mi pare che nella cultura politica della sinistra (il sottoscritto non fa eccezione) sia presente un che di schizofrenico che induce, da un lato, a un realismo machiavellico secondo il quale gli esseri umani sarebbero guidati, nelle loro scelte, principalmente dai loro istinti e dai loro interessi personali, e, dall’altro, a una mirabile utopia in cui, senza nessuna costrizione, spontaneamente gli stessi individui di prima dovrebbero cooperare, perseguire l’interesse comune, sacrificarsi per la comunità, lottare per la libertà e l’eguaglianza. Non si capisce mai quale sia la magica bacchetta capace di trasformare un feroce individualista in un altruista impegnato.  Quest’opposizione tra il male generalizzato e il bene puro è senz’altro alla radice di molti mali della sinistra, da un lato, di tutti gli accomodamenti squallidi che conosciamo bene (interessi personali, lotte di potere, spaccature, scissioni) e, dall’altro, di quella continua chiacchiera retorica sui grandi principi, sui grandi ideali. Gli accomodamenti squallidi sono la merce quotidiana, mentre i grandi ideali rappresentano il sol dell’avvenire. Diceva Merton che, nella scienza, le teorie di medio raggio sono le migliori. Ciò vale anche per il rapporto tra gli ideali e la realtà.

9. Concludendo, si tratta dunque di obbiezioni senz’altro fondate ma, allo stesso tempo, di obiezioni non fondamentali. La vera obiezione fondamentale che ho potuto cogliere è quella che ho percepito nel sottofondo di molti discorsi, sebbene mai compiutamente esplicitata, e cioè l’estraneità, se si vuole, lo scetticismo, da parte della cultura politica della sinistra, nei confronti dell’etica e nei confronti delle sue applicazioni pratiche. Mi par di cogliere gli echi lontani della convinzione, entro cui molti di noi hanno avuto la loro educazione politica, che l’etica sia, tutto sommato, una sovrastruttura e che quindi sia profondamente sbagliato portarla al centro del discorso politico. Secondo questa prospettiva, il discorso politico deve occuparsi fondamentalmente di due cose, della dimensione economica e della dimensione del potere. Tutto resto non conta. Peccato che queste concezioni - oltre ad avere costantemente fallito - mostrino oggi tutti i loro limiti di fronte alla riflessione contemporanea intorno alla società e alle istituzioni. Secondo la filosofia analitica e secondo la linguistica, una promessa, un impegno, una sottoscrizione sono atti illocutori[5] attraverso cui si definiscono le istituzioni stesse, dalle più semplici alle più complesse. Le istituzioni, se esistono, esistono soltanto nella testa dei singoli individui. Se sono solide, lo sono soltanto perché sono credute da una moltitudine di persone. Non possiamo continuare a essere scettici e a prendere le distanze nei confronti dei fondamenti delle istituzioni e poi lamentarci del fatto che le istituzioni non funzionano.

 

Giuseppe Rinaldi (7/10/2011 – rev. 03/07/2021)

 

NOTE

 

[1] L’articolo Un etica per la politica si trova nell’archivio di Città Futura e sul blog Finestrerotte.

[2] Il fatto di ricevere, ogni tanto, delle obbiezioni rafforza la convinzione che pubblicare le proprie opinioni non sia del tutto privo di senso.

[3] L’articolo relativo si trova nell’archivio di Città Futura e sul blog Finestrerotte.

[4] Argomenti di questo genere sono stati levati costantemente dagli insegnanti contro tutti i tipi di controllo e di misurazione di rendimento del lavoro scolastico. Gli insegnanti sarebbero disposti a farsi controllare, se i controllori fossero al di sopra di ogni sospetto; poiché non ci sono controllori al di sopra di ogni sospetto, allora è meglio non farsi controllare.

[5] Si tratta cioè di enunciati che realizzano di per sé ciò che dichiarano, che realizzano immediatamente il proprio contenuto.












martedì 20 settembre 2011

Un'etica per la politica (1.3)

 








1. Nel nostro Paese, nonostante le pressioni incalzanti per favorire una sistematica deregulation in qualsiasi ambito, bisogna riconoscere che la marcia dei diritti, quel processo inarrestabile verso l’espansione e la codificazione di sempre nuovi diritti, preconizzato da Bobbio qualche anno fa,[1] ha continuato a svilupparsi, seppure in maniera silente e sotterranea. La sua principale manifestazione pare sia quella di sottoporre a sempre nuovi vincoli una serie di ambiti della vita sociale che tradizionalmente erano rimasti al di fuori di qualunque regolazione. Insomma, mentre da più parti si sollevavano plateali proteste contro un eccesso normativo, contro la pretesa pervasiva delle istituzioni pubbliche di regolare qualsivoglia aspetto della vita sociale, nello stesso tempo, proprio a partire dalla società civile, si sviluppava una sempre più pervasiva domanda di regole. Questa domanda si è espressa non soltanto in termini di provvedimenti normativi obbligatori e legalmente sanzionati, ma anche in termini di principi e codici di comportamento fondati sul consenso, sulla moral suasion. Tra la norma sanzionatoria e la moral suasion si possono, in effetti, trovare infinite gradazioni di prescrittività e di coattività.

2. Sul piano storico globale, un esempio tipico di questa tendenza è costituito dalle molteplici Dichiarazioni e Carte dei diritti, promosse da organizzazioni internazionali, che negli ultimi decenni hanno teso a definire particolari categorie di diritti: i diritti dell’uomo, i diritti della donna, i diritti dell’infanzia, dei profughi, ecc. Per quanto sostenute generalmente da un ampio consenso, per quanto, quindi, segno di una chiara tendenza all’estensione dei diritti, queste Carte spesso sono state tradotte con estrema difficoltà nelle legislazioni degli Stati nazionali o nel diritto internazionale, e spesso sono rimaste lettera morta. Hanno svolto tuttavia, e svolgono tuttora, la funzione importante di definire un accordo di massima intorno a ciò che è desiderabile, a ciò che è lecito pretendere, a ciò per cui ci si sente legittimati a combattere. Anche nelle specifiche società nazionali, si è assistito, negli ultimi decenni, a una proliferazione di nuovi diritti o a nuove specificazioni di vecchi diritti. Accanto all’effettiva produzione normativa, si sono tuttavia progressivamente affiancati strumenti regolativi meno costrittivi, sia in ambito pubblico sia in ambito privato. Mi riferisco all’enorme quantità di decaloghi, carte dei principi, di carte dei diritti, di guide, di raccomandazioni che tendono a organizzare, fin nei minimi dettagli, i settori più disparati e gli aspetti più elementari della vita sociale. Questa proliferazione di nuove regole, peraltro abbastanza caotica e dispersiva, ha la caratteristica di non derivare da qualche filosofia della politica o da qualche sistema etico o religioso ben preciso, quanto di scaturire da esigenze spontanee. Ciò pone indubbiamente problemi di coerenza, problemi di possibili conflitti, senza per ciò stesso far venir meno il dato di una crescente domanda di regole. Proviamo, di seguito, a fare qualche esempio.

3. Un settore degno di rilievo, ad esempio, è costituito da tutto quel che afferisce alla cosiddetta privacy. Com’è noto, le società arcaiche erano società quasi del tutto prive di senso del privato. Solo con la differenziazione culturale e sociale è stato possibile definire l’ambito del privato e, all’interno di questo, l’ambito del privato del singolo individuo.[2] Il diritto alla privacy è stato fatto valere, ovviamente, nei confronti dello Stato (nei casi, ad esempio, della corrispondenza, delle intercettazioni delle conversazioni telefoniche) ma anche a ogni livello della vita sociale, come nel caso, ad esempio, della diffusione di notizie circa la vita privata degli individui. Gli ambiti coperti dalla riservatezza sembrano essere in continuo aumento e, come molti altri casi, si è anche assistito a una serie di esagerazioni, segno che la definizione di questa sfera di diritti è ancora piuttosto incerta. Se è bene che il datore di lavoro non sappia qual è la malattia per cui il dipendente si assenta dal lavoro, non è altrettanto sicuro che l’esito negativo di un Esame di Stato non debba essere pubblicato. Un altro caso controverso attinente alla difesa della sfera del privato è costituito dalla pubblicità telefonica, che, nel nostro paese, ha trovato una regolamentazione, a dir poco, di tipo salomonico.

4. Un settore che ha conosciuto uno sviluppo notevole è quello concernente i cosiddetti diritti del malato. Si tratta di un settore molto ampio all’interno del quale hanno trovato posto normative che garantiscono sempre più il diritto al risarcimento in caso di mala sanità, fino a normative che concernono la fairness nei confronti del paziente. Un altro capitolo che ha avuto uno sviluppo tumultuoso é quello attinente alla sfera della produzione e dei consumi. Anche in questo campo, oltre a ciò che è già solidamente regolato nell’ambito del codice civile, si sta manifestando la tendenza a un ampliamento di prerogative e garanzie (la restituzione con la clausola “soddisfatti o rimborsati”, la riparazione in caso di cattivo funzionamento, il ritiro dell’usato). In un settore affine a quello dei diritti del consumatore si collocano le strategie comunicative delle imprese produttrici di beni di consumo che mirano a fornire garanzie supplementari, tutele, rassicurazioni, informazioni che spesso hanno che fare con l’immagine del prodotto o con certi requisiti dei processi di produzione. Così si può garantire che il tonno in scatola sia stato pescato con criteri di sostenibilità, si può avvertire il giocatore incallito che è meglio “giocare responsabilmente”, si può mettere l’accento sul risparmio energetico che si potrà conseguire attraverso una certa lampadina, oppure sul fatto che un determinato prodotto è del tutto naturale, e così via.

5. Un altro settore, ancora, che ha subito un abbondante sviluppo regolativo riguarda il linguaggio pubblico. A parte quanto già previsto dai codici, si assiste a una tensione sempre più marcata tra la tendenza, da un lato, a garantire fino all’estremo la libertà di parola e, dall’altro, a controllare puntigliosamente la parola stessa, soprattutto quando questa sia pronunciata in pubblico. Validi esempi sono costituiti dalla tendenza verso il turpiloquio del linguaggio politico, che è sempre più consentita - anche se, a parole, moralmente condannata - e dalla tendenza, sicuramente contrastante, verso la messa all’indice di determinate espressioni considerate disdicevoli. In quest’ambito, abbiamo non solo la pubblica condanna nei confronti di discorsi politici volgari e offensivi, ma anche la tendenza a condannare la pubblicità ingannevole, oppure offensiva, la tendenza al minuto controllo terminologico a proposito di argomenti sensibili (a proposito, ad esempio, di certi argomenti storici, oppure di certe categorie sociali). In questo ambito si colloca anche il discutibilissimo politically correct, che tuttavia è riuscito a imporre le sue varie acrobazie linguistiche (“diversamente abili”, “operatori ecologici”, “presidenta”, ecc…). Insomma, siamo nella piena espansione di nuovi vincoli che si traducono tuttavia in altrettanti nuovi diritti per categorie più o meno ampie di persone.

6. Ci si può domandare quali siano le ragioni profonde di questa tendenza generale che abbiamo evidenziato. A parte le mode culturali, è sempre più chiaro che, con la differenziazione sociale che procede in maniera tumultuosa, si sono creati degli ambiti di scambio, normalmente lasciati all’iniziativa individuale, che sono sempre più potenzialmente rischiosi, settori in cui ciascuno può facilmente essere vittima indifesa. È aumentata la possibilità di incorrere in piccole o grandi violenze quotidiane in cui ciascuno di noi può, di volta in volta, comparire come vittima o come offensore. I nuovi vincoli, in fin dei conti, servono ad aumentare la prevedibilità, a dare maggiore sicurezza, a diminuire il rischio che è sempre più insito nelle varie transazioni sociali. Tutto ciò, quando funziona, tende a tradursi in un aumento di fiducia e quindi in una facilitazione delle transazioni sociali. In fin dei conti, se è vero che, per certi versi, desideriamo maggiore libertà, è altrettanto vero che, per diminuire i rischi quotidiani in cui possiamo incorrere, tendiamo a invocare norme, regole, codici che, comunque, rappresentano una qualche restrizione di libertà. Ciò testimonia a favore dell’opinione, peraltro non nuova, ma che i nostri fautori della deregulation evidentemente stentano a capire, che la libertà è sempre una libertà regolata.

7. Questa domanda diffusa di normazione costituisce un terreno assai variegato, in continua espansione, dove è difficile produrre delle classificazioni soddisfacenti. Si tratta di un terreno nel quale il diritto sconfina nell’etica, dove il pubblico e il privato si sovrappongono in maniera inestricabile, dove l’economia confina con la comunicazione. In campo etico si parla sempre più spesso di etica applicata, nell’ambito della comunicazione e dell’organizzazione si parla sempre più di culture organizzative, nell’ambito delle professioni si parla di deontologia o di etica professionale, mentre in campo politico si parla sempre più di garanzie e di etica politica. Nel mondo anglosassone (che, come al solito, ci precede di qualche decennio) gli artefatti normativi di cui stiamo parlando hanno cominciato a comparire più o meno negli anni ‘70, sono stati chiamati codici etici o codici di condotta negli affari e hanno dato luogo allo sviluppo di una vera e propria etica degli affari. Secondo una classificazione che va per la maggiore, questo complesso di regolamentazioni è stato distinto in tre categorie principali. I codici etici veri e propri, che contengono la definizione di valori e principi che caratterizzano gli scopi dell’organizzazione. La loro funzione è quella di definire, per i membri dell’organizzazione, le loro varie responsabilità nei confronti del pubblico. Talvolta questi codici etici vengono individuati come la mission dell’organizzazione stessa o come il complesso degli impegni nei confronti dei dipendenti, dei clienti, dei sostenitori. Questi codici valgono come massima norma di riferimento interna e come immagine offerta al pubblico, all’esterno. I codici di comportamento, che sono di solito intesi come interpretazioni e illustrazioni dei principi e dei valori dell’organizzazione. Si tratta di regole generali cui i membri dell’organizzazione si devono ispirare nel momento in cui devono prendere delle decisioni qualificanti. Insomma, questi determinano lo stile di comportamento dell’organizzazione. I codici di condotta, che sono il complesso di regole specifiche che indicano ai membri dell’organizzazione che cosa esattamente ci si attende da loro, oppure quali siano i comportamenti ritenuti disdicevoli. Spesso in questi codici di condotta sono incluse le sanzioni per le infrazioni in diversi campi. Questi codici tendono ad assicurare l’omogeneità di comportamento tra i membri dell’organizzazione e proteggere l’organizzazione stessa da comportamenti indesiderati da parte dei suoi membri. Di solito questi codici di etica degli affari coprono una serie di ambiti applicativi abbastanza caratteristici.

8. La definizione di questi artefatti normativi, da alcuni decenni, è pratica comune nell’ambito delle professioni e delle associazioni professionali, nell’ambito delle istituzioni della pubblica amministrazione, nell’ambito dei servizi e nell’ambito delle organizzazioni private. Anche nel nostro Paese, recentemente, sono stati introdotti principi di questo genere, nella pubblica amministrazione e nei servizi, basti ricordare le carte dei servizi o i contratti formativi; nelle scuole sono ben conosciuti i piani dell’offerta formativa. Un aspetto che ha suscitato l’attenzione della pubblica opinione nel nostro Paese concerne la definizione, da parte dei pubblici servizi, di tempi certi per l’espletamento di ciascuna pratica.

9. La tendenza che stiamo esaminando non poteva non coinvolgere anche il campo della politica. Il mondo della politica possiede indubbiamente un’incerta collocazione: da un lato, esso tende a farsi Stato e quindi a svolgere un ruolo istituzionale ufficiale (ad esempio, l’uomo politico che riveste la carica di sindaco); dall’altro, esso affonda le sue ramificazioni nella società civile e nelle relazioni interpersonali (ad esempio, le relazioni tra gli elettori e il candidato). Abbiamo poi le organizzazioni politiche (partiti, sindacati, associazioni di vario genere) le quali si trovano a mezza strada tra il pubblico e il privato,[3] possiedono al proprio interno un risvolto burocratico e organizzativo, ma che si rivolgono anche ad un vasto pubblico di partecipanti (associati, affiliati) e di “clienti” (ad esempio, gli elettori). Ciascuno di questi complessi livelli di interazione che caratterizzano la sfera politica è suscettibile di presentare, per chi ne è coinvolto, ampi margini d’incertezza, tanto da porre seri problemi di fiducia. Ciò accade, in particolare, nella situazione del nostro Paese, che ha visto crescere negli ultimi anni fenomeni assai rilevanti di antipolitica. Si è aperta così la possibilità di varie forme di regolazione attraverso qualche tipo di codice, sia esso codice etico, codice di comportamento o codice di condotta, che sia in grado di diminuire i rischi che sono intrinseci alle transazioni di tipo politico, di aumentare la fiducia e di identificare e confinare comportamenti negativi. In quanto organizzazioni, i partiti, i sindacati e le associazioni similari possono avere un loro codice etico che rappresenta la loro mission, e svariati codici di condotta, volti a regolare il loro comportamento interno e nei confronti del pubblico. Lo stesso dicasi per le istituzioni che sono composte di eletti (consigli, giunte, sindaco, ecc.). Ma ciò vale anche per i candidati, che hanno dei legami con le loro rispettive organizzazioni, ma anche con il pubblico, con i potenziali elettori.

10. Sono quindi stati sviluppati anche nel nostro Paese, nell’ambito della sfera politica, diversi artefatti normativi che mirano a regolamentare questi complessi rapporti. Nel nostro paese l’esempio più famoso è stato il “Contratto con gli italiani”, stipulato pubblicamente da Silvio Berlusconi nel 2001.[4] In quell’occasione, pur essendo diffusa la sensazione che si trattava, fondamentalmente, di un espediente di comunicazione, molti commentatori riconobbero, comunque, di essere in presenza di uno stile politico decisamente innovativo, almeno per il nostro paese. Esso ha lasciato una traccia nel luogo comune secondo cui, per vincere le elezioni in Italia, bisogna scrivere un programma di pochi punti, formulati in termini assai elementari e comprensibili da tutti.

11. Da allora in poi, si sono susseguiti, seppure con grande confusione, i tentativi di mettere per iscritto decaloghi, carte, contratti, codici di comportamento che i vari candidati s’impegnano a seguire, secondo quella sorta di espediente di razionalità imperfetta che consiste nel legarsi le mani anticipatamente, come ha bene spiegato Elster.[5] Gli aspetti che vengono più spesso presi in considerazione, in questi artefatti, sono spesso legati all’incertezza cui va incontro l’elettore nel fidarsi di un determinato candidato (la quale è collegata spesso all’attualità, agli scandali), oppure riguardano particolari aspetti che si ritiene che siano particolarmente sensibili presso gli elettori. Da una breve rassegna, raccolta attraverso Internet, gli argomenti più ricorrenti sono: la rinuncia al comportamento partigiano, tipico della lotta politica, nel momento in cui si sia eletti ad una carica istituzionale (espresso tipicamente nella frase “sarò il sindaco di tutti”); la promessa esplicita di non fare (in caso di secondo turno) patti sottobanco allo scopo di avere i voti di qualche frazione; l’impegno a rispettare un criterio di parità di genere nell’attribuzione delle cariche (le cosiddette “quote rosa”); in seguito al coinvolgimento di diversi uomini politici in scandali di vario genere, è diventato d’obbligo garantire agli elettori che i candidati, o coloro che potrebbero essere chiamati a ricoprire incarichi esecutivi, non siano sottoposti a indagini o non abbiano conseguito condanne. Sempre in seguito agli stessi eventi, soprattutto in determinate aree del Paese, è abbastanza frequente l’esplicita dichiarazione di estraneità agli ambienti mafiosi; sempre per lo stesso motivo, una serie di regole concerne il rapporto tra politica e affari, in particolare per quel che riguarda il finanziamento delle campagne elettorali e la trasparenza relativa alla scelta dei fornitori e agli appalti pubblici. Un altro aspetto ricorrente riguarda le informazioni circa il proprio operato che normalmente ci si impegna a fornire a chiunque sia interessato a controllare gli eletti. In ultimo, l’intenzione di sottoporre ai cittadini periodici rendiconti del proprio operato, nonché l’intenzione di sottoporre alla popolazione, attraverso particolari strumenti di partecipazione, come assemblee pubbliche, consultazioni, referendum, la richiesta di pareri concernenti questioni scottanti o particolarmente problematiche. Ultimamente, sarà un effetto del default incombente, compare anche il criterio della buona tenuta del bilancio.

12. Un esempio tipico, a mio giudizio assai interessante, di questi codici di autoregolamentazione dei candidati e degli eletti è costituito da una Raccomandazione, elaborata nel 1999 dal congresso dei Poteri Locali del Consiglio d’Europa. Si tratta del Codice europeo di comportamento per gli eletti locali e regionali, [6] un documento molto articolato, esemplare per chiarezza, che copre praticamente tutti gli ambiti di attività degli eletti. Il documento, pur essendo (sarà un caso) poco conosciuto nel nostro paese, può tuttavia costituire un’utile base di partenza, sia per gli elettori, sia per i candidati, per stipulare il loro patto di rappresentanza.

13. Questi codici etico-politici possono, naturalmente, suscitare facili ironie e alimentare il sospetto che siano facilmente usati come espedienti propagandistici e poi tranquillamente ignorati, una volta eletti (come ha fatto Berlusconi, con il suo “Contratto con gli Italiani”[7]). Spesso, questi codici non prevedono organi di controllo e sanzioni che possano essere comminate. Sono manifestazioni di buona volontà, talvolta si riducono a operazioni d’immagine. Da questo punto di vista poterebbero semplicemente essere considerati come parte della chiacchiera globale. Tuttavia questi codici, a lungo andare, se presi sul serio, possono avere dei risvolti positivi. Intanto servono a stabilire pubblicamente quali siano i parametri del mondo possibile che gli elettori considerano preferibili. In altri termini possono aiutare l’elettore a definire i requisiti di qualità del prodotto politico che dovrebbe aspettarsi. Servono a stabilire una comune opinione, di carattere universale, che diventa per ciò stesso difficile, per chi abbia delle tentazioni, trasgredire apertamente. Insomma, servono a individuare e confinare certi comportamenti deleteri e a costringerli, per lo meno, alla clandestinità. Una volta che abbiano raggiunto un consenso ampio di pubblico, questi codici possono poi anche trovare una definizione normativa più rigorosa e ufficiale e possono anche, quindi, giungere ad avere degli organi di controllo e delle sanzioni. Ne sa qualcosa il sindaco di Roma, Alemanno, che si è trovato con una Giunta quasi tutta di maschi, in presenza di un regolamento che obbligava la presenza di una certa quota di femmine. Lo stesso vale per la norma che obbliga un equilibrio di genere all’interno dei Consigli di amministrazione delle imprese private. Insomma, da un primo vincolo di tipo morale, si può passare a vincoli sempre più stringenti in termini normativi.

14. Per questo sarebbe un errore considerare con sufficienza questa tendenza all’esplicitazione dei principi etici ispiratori alla base dei programmi elettorali dei vari candidati e alla stipulazione di codici di comportamento, o di patti, con gli elettori. Certo, può essere usata dai candidati come fumo negli occhi, ma può anche essere usata in termini costruttivi, dai movimenti partecipativi, per migliorare la qualità della politica. È del tutto possibile conferire a dei Comitati indipendenti di cittadini il compito di controllare l’effettivo andamento dell’attività di governo e di segnalare, al pubblico e ai mezzi d’informazione, le eventuali violazioni delle promesse elettorali e dei codici etici condivisi. 

Giuseppe Rinaldi (20/09/2011 – rev. 03-07-2021)

 

NOTE

[1] N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino, 1992.

[2] Quest’ultima sottolineatura è importante, poiché ci sono società che conoscono la differenza tra pubblico e privato, ma nell’ambito del privato (ad esempio, nella famiglia estesa) può non essere riconosciuta alcuna forma di privacy per i singoli membri, soprattutto se si trovano in particolari condizioni di status come, ad esempio, quella di essere minori di età, oppure quella di essere donna.

[3] Com’è noto, nel nostro Paese, partiti e sindacati hanno sempre rifiutato una regolamentazione legislativa.

[4] Si ricorderà che, più che un semplice codice di comportamento, si trattava di un vero e proprio contratto (per quanto discutibile sul piano formale), che prevedeva una sanzione in caso di inadempienza (Berlusconi prometteva che non si sarebbe più candidato).

[5] Cfr. J. Elster, Ulisse e le sirene, Il Mulino, Bologna, 1983.

[6] Raccomandazione n. 60 del 17 giugno 1999 del Congresso dei Poteri Locali del Consiglio d’Europa. Dato l’estremo interesse del documento, ho proposto a Città Futura la sua pubblicazione, in un articolo a parte.

[7] Cfr., in proposito, Luca Ricolfi, Dossier Italia. A che punto è il “Contratto con gli italiani”, Il Mulino, Bologna, 2003 e, sempre di Ricolfi, Tempo scaduto. Il “Contratto con gli italiani” alla prova dei fatti, Il Mulino, Bologna, 2006.







lunedì 1 agosto 2011

Cittadini & compagni (2.3)

1. Certe volte (*) si ha la piacevole impressione di tornare indietro nel tempo, se non fosse per il fatto che ciò spesso accade per futili motivi. Non so dunque se ringraziare, o no, Vendola per averci riproposto un tormentone estivo senz’altro degno dei tempi passati, ma forse anche acuta rappresentazione dei tempi presenti: è il caso di abolire l’appellativo compagni? Pensavamo, in effetti, di avere ben altri problemi ma, a quanto pare, la questione ha suscitato qualche vespaio, rivelando che i problemi del cambiamento culturale, quando non sono affrontati e riflettuti esplicitamente, tendono a sedimentarsi nel profondo e, come insegnava Freud, tendono rispuntare quando uno meno se lo aspetta.

2. Parafrasando Don Abbondio, “Compagni, … chi sono costoro?”. Tanto per cominciare, qualche notizia di natura linguistica può essere utile. Secondo l’autorevole Cortelazzo, Zolli, compagno è un derivato del latino medievale e avrebbe significato di “colui che mangia lo stesso pane”. La prima definizione citata risale al 1282 e recita “chi si sente legato ad altri da affinità spirituale o ne affronta la stessa sorte”. Per derivazione, la compagnia sarebbe “l’atto, il modo, l’effetto dello star abitualmente insieme con altri”. Con questo significato, tra l’altro, il termine divenne popolare tra i gesuiti che diedero vita a una nota compagnia. Tra l’Ottocento e il Novecento, com’è noto, questo appellativo, nel nostro Paese, è stato adottato nell’ambito dei movimenti e dei partiti legati alla sinistra, tra socialisti, comunisti, anarchici e radicali (eh sì, anche Pannella sarebbe un compagno!), per designare i loro appartenenti.

3. Tutto ciò vale almeno per l’Italia, poiché in altri paesi lo stesso concetto viene reso con termini assai differenti. Ad esempio, in Francia l’equivalente del nostro compagno, riferito alle organizzazioni politiche della sinistra, non è il suo analogo linguistico diretto, compagnon, bensì camarade, che però, linguisticamente, corrisponde ahimè al nostro camerata (il che può fare anche rizzare un po’ i capelli agli antifascisti). Ovviamente, camerata fa riferimento al linguaggio militaresco, ed è stato suggerito dall’esigenza, nell’ambito dalla vita militare, di condividere la stessa camerata e quindi di condurre, in qualche misura una vita comune, con obiettivi comuni e una sorte comune. Il termine camarade era, a quanto pare, già in voga nel periodo della Rivoluzione francese, ben prima della nascita delle organizzazioni del movimento operaio. Va segnalato che il Partito Comunista Francese utilizza tuttora il termine camarade per distinguersi dal partito socialista, il quale, invece, a partire dal 1914, ha deciso di chiamare i propri aderenti (beati loro!) con il termine di citoyen. Mentre gli anarchici francesi, tanto per cambiare, si chiamano, tra di loro, compagnons. In inglese il termine di riferimento, di provenienza francese, comrade, è stato usato in passato sia dai movimenti di destra sia da quelli di sinistra. Attualmente è maggiormente caratterizzato a sinistra e i membri del Labour Party si chiamano tra di loro con questo termine, cioè si chiamano tra loro camerati. Un simile uso è diffuso anche negli Stati Uniti. In tedesco, il termine kamerad è stato usato primariamente in ambito militare e, di qui, è passato poi nel partito nazista, assumendo una caratterizzazione tipicamente di destra, come del resto è avvenuto in Italia. Il termine invece usato in Germania con riferimento politico, nell’ambito della sinistra, è genosse (termine che può essere reso con socio, ma dall’etimo abbastanza inquietante, poiché risalente all’uso di condividere la stessa terra, o più ampiamente, di appartenere alla stessa stirpe). In spagnolo, il termine più usato attualmente è compañero anche se tra le formazioni internazionali della guerra civile, sia di destra che di sinistra, è stato ampiamente utilizzato il termine camarada. In russo, il termine che viene usato (adottato dei marxisti russi per tradurre comrade che era usato nel movimento internazionale) è tovarisch che aveva il significato vagamente di socio in affari, compagno di viaggio o di avventura. In polacco, il termine towarzysz è di origine tardo medievale e indicava gli ufficiali di cavalleria piccoli nobili del Regno di Polonia, e dunque il termine rinvia al cameratismo di tipo militare - nobiliare.

4. Come si vede, il disordine linguistico regna sovrano. Poiché l’analisi etimologica, a parte le curiosità storiche, sembra solo disorientare, sembra allora meglio concentrarsi sul concetto e sul suo significato. Da dove è nata l’esigenza di usare un termine esclusivo – quale che sia – per designare gli appartenenti ai movimenti organizzati della sinistra (e della destra)? Sembra anzitutto si possa individuare una motivazione di tipo fortemente egualitario, volta a sottolineare lo stato di parità di coloro che ne sono fatti oggetto. Questi termini sono stati introdotti, almeno in origine, per sopprimere gli usuali e molteplici termini utilizzati, soprattutto nella buona società aristocratica o borghese, per differenziare le persone. Paradossalmente dunque, anche nel cameratismo fascista c’era un elemento egualitario, legato, ad esempio, all’esperienza degli ex combattenti. Si tratterebbe dunque di un espediente politicamente corretto, per sottolineare l’eguaglianza degli appartenenti. In effetti, accanto all’uso di un epiteto comune, spesso vengono usati altri rituali tendenti a sottolineare l’eguaglianza, primo fra tutti, l’eliminazione delle formalità e l’uso di darsi del tu (nelle lingue dove ciò è possibile). Ciò naturalmente, data l’origine militaresca di molti di questi termini, non impediva il riconoscimento e la pratica di una ferrea subordinazione gerarchica.  

5. Una seconda motivazione, assai più importante, sembra invece abbia a che fare con l’esigenza di marcare il senso di appartenenza a una comunità organizzata considerata molto più importante delle altre. La qualificazione di compagno ha il significato di rivendicare l’esistenza della comunità dei compagni come di una comunità più autentica rispetto alle altre comunità concorrenti. L’adozione di un nuovo nome comune sottolineava il cambiamento esperito dall’individuo quando diventava membro dell’organizzazione (in ciò è del tutto analogo all’assunzione del titolo di cittadino quando si entra a far parte della Repubblica).  Nel movimento internazionale, il termine comrade è stato indubbiamente utilizzato come elemento identitario in opposizione all’appartenenza alle singole patrie nazionali. In termini funzionali, fu comunque usato per designare la patria comune dei proletari, una patria universale, antitetica alle singole patrie. Del resto un noto canto anarchico recitava “Nostra patria è il mondo intero”.

6. L’uguaglianza dei membri e la marca di appartenenza a una comunità organizzata importante ed esclusiva sembrano dunque dar ragione dell’adozione di questa terminologia. Tra questi due elementi, l’appartenenza è sicuramente l’elemento più complesso, che merita un ulteriore approfondimento. Nel caso della sinistra, si tratta di un’appartenenza che non dipende dalla nascita, dal sangue o dal suolo; non dipende neppure dalla posizione sociale, poiché, anche nelle forme ideologiche più dogmatiche, si è sempre ritenuto possibile rinunciare alla propria classe di origine per entrare a far parte della comunità dei compagni. Si tratta di un’appartenenza per scelta, dunque di un’appartenenza di natura morale. Ciò significa che, nell’immaginario, coloro che appartengono alla comunità organizzata dei compagni acquisiscono uno status di natura morale che gli altri non possiedono. Si tratta di un cambiamento di stato percepito e definito come esperienza che è assai comune e che si ritrova in moltissime organizzazioni. Il nuovo status morale di solito viene pubblicamente proclamato attraverso qualche tipo di cerimonia. Se il fatto di diventare compagni è dunque il prodotto di una specie di battesimo che genera una distinzione tra gli uomini comuni e gli affiliati (comunque avvenga, in una trincea, oppure nelle piazze, oppure attraverso il rituale della tessera), allora diventa interessante definire in cosa consista questo nuovo modo di essere, quali qualità si  ritiene che vengano acquisite. Vediamo allora cosa comporta, sul piano morale, la compagnia, o, se si preferisce, il cameratismo di sinistra.

7. È anzitutto abbastanza evidente che il significato morale di questa terminologia è strettamente legato alle tre parole d’ordine della rivoluzione francese e, in particolare, alla fraternité. Tutte le declinazioni del contenuto della compagnia sono declinazioni della fraternité, ovvero di quell’elemento relazionale che stabilisce vincoli assai stretti, come quelli che si suppone esistano tra fratelli. Si tratta in sostanza di un allargamento della fratellanza, dalla famiglia naturale alla comunità organizzata. Che la fratellanza sia una relazione di stretta unione è ovviamente un mito, come del resto testimonia la vicenda di Caino e Abele, tuttavia questa era l’idea diffusa. La fratellanza allude così al fatto che tra i compagni si dovrebbe stabilire un particolare vincolo di solidarietà, simile a quello dei fratelli. Volendo essere rigorosi, si potrebbe anche sostenere l’esigenza, in caso di conflitto, di privilegiare i fratelli/compagni sui fratelli naturali. Insomma, diventando compagni si entra a far parte di una nuova e più grande famiglia, la vera famiglia. Anche i cristiani, tra loro, si chiamano fratelli. E non solo i cristiani.

8. In secondo luogo, avendo la nuova comunità organizzata un carattere decisamente monopolistico rispetto alle altre appartenenze, questa tende a caratterizzare l’intera esperienza individuale, portando così inevitabilmente alla soppressione della demarcazione tra pubblico e privato. Su questo tema ci sono pagine interessantissime nel Manifesto marxiano. L’appartenenza alla comunità dei compagni tende a mettere in secondo piano le altre comunità di appartenenza e in particolare le tipiche comunità della vita privata, le amicizie, le parentele, la famiglia naturale, le altre associazioni. L’avvento del leninismo e della figura del rivoluzionario di professione ha ulteriormente contribuito a sacrificare il privato rispetto al pubblico. Nelle forme più estreme della compagnia, pubblico e privato vengono strettamente a coincidere, per cui il modello di vita del compagno si applica in tutte le situazioni, da quelle pubbliche a quelle più intime. È bene ricordare ad esempio che nel partito comunista cinese si praticava un minuzioso controllo sulla vita intima dei militanti, che avrebbe fatto impallidire qualunque gesuita.

9. In terzo luogo, in tutti i movimenti, di matrice socialista, comunista, anarchica e radicale, la comunità organizzata è stata sempre considerata come la prefigurazione del modello di uomo e della futura società che si voleva costruire, secondo l’ideologia di volta in volta condivisa. Ciò è tipico anche dei movimenti religiosi, ove la società terrena deve rappresentare la prefigurazione della società degli eletti. Nel corso della storia dunque, la qualificazione di compagno ha dato luogo all’elaborazione di un modello umano di riferimento. Come i santi della Chiesa cattolica, illustri figure di compagni sono state additate come maestri, come modelli di vita, modelli di militanza, di impegno, di sacrificio. L’adozione dell’organizzazione burocratica, che si è affermata molto presto nella storia della maggior parte dei movimenti e dei partiti della sinistra, ha portato il modello umano di riferimento a diventare un elemento fondamentale e pervasivo della cultura dell’organizzazione. L’organizzazione stessa provvedeva a educare i nuovi compagni, a trasmettere loro gli insegnamenti di tipo intellettuale, di tipo morale e di tipo ideologico. Ugualmente, il modello burocratico ha portato all’instaurazione di meccanismi di controllo, di valutazione della virtù dei compagni ed eventualmente, anche di condanna e di esclusione.

10. Questi tre elementi, la fraternità, la centralità della politica nella vita e il modello dell’uomo nuovo sembrano dunque costituire i pilastri morali fondamentali che hanno caratterizzato l’adesione alle comunità organizzate dei compagni. Vale la pena di osservare, con grande rispetto, che questa ispirazione morale è stata presa molto sul serio da milioni di persone che autenticamente ed eroicamente, si sono sacrificate per la causa in cui credevano. Va però anche osservato che non sempre questi tentativi sono stati ricompensati da successi e spesso le buone intenzioni si sono tramutate nel loro opposto. L’eterogenesi dei fini è sempre in agguato.

Se questa è la complessa trama di significati che sta dietro alla parola, allora è il caso di chiedersi se, al giorno d’oggi, nel nostro paese, l’uso di questo termine abbia ancora un qualche senso. Ci sono ancora dei modelli di militanza, o di appartenenza, come quelli in nome dei quali è stato coniato, in passato, l’appellativo di compagno? È bene che continuino a esserci? Ci sono ancora dei compagni? C’è ancora bisogno di compagni? A questa domanda si possono dare sostanzialmente tre risposte, che non riguardano tanto il nome della cosa, quanto il tipo di cultura politica che s’intende promuovere e sviluppare.

11. La prima risposta propende per il mantenimento, anzi, per la riscoperta del modello tradizionale del cameratismo di sinistra. I sostenitori di questa opzione protestano legittimamente contro i tentativi di mettere da parte la parola, ma pretendono anche che alla parola corrisponda il recupero del contenuto effettivo. Non c’è nulla di male in questo tentativo. Chi propende per questa soluzione deve però, anzitutto, render conto delle degenerazioni che ha subito questo modello di militanza, cioè di compagnia. Si deve spiegare come mai, nelle organizzazioni di compagni, non si sia realizzato effettivamente l’obiettivo dell’eguaglianza, al di là del darsi formalmente del tu, e come mai le differenze (di potere, di genere,…) continuino a sussistere, quando non siano addirittura aumentate. Si deve poi spiegare come mai la fratellanza venga quotidianamente vanificata nel comportamento quotidiano di un gran numero di sedicenti militanti. Chi ha vissuto negli ambienti della sinistra, spesso le più grosse fregature se l’è prese proprio dai compagni. Invece di sottomettere il privato al pubblico, l’irruzione del privato nel comportamento pubblico ha spesso poi ancora comportato l’insorgenza di fenomeni degenerativi come le idiosincrasie personali, il carrierismo, le lotte di potere, i favoritismi, l’indulgenza per i “compagni che sbagliano”, l’uso dell’organizzazione come strumento di potere personale, e così via. Quanto all’uomo nuovo, fatte salve alcune figure morali indiscutibili che sono maturate entro questo modello, non si può proprio dire che i compagni siano significativamente diversi dagli altri, si può anzi affermare che spesso si tratta di uomini comuni, con tutti i loro difetti e imperfezioni. Il modello morale dell’uomo nuovo ha soprattutto contribuito a produrre il mito della superiorità morale della sinistra, che non di rado è ancora di grande impaccio nella politica quotidiana. Se poi andiamo a considerare la capacità di queste organizzazioni addirittura di prefigurare una società nuova, dovremo concludere che la nuova società assomiglia davvero tanto al vecchio modello burocratico, neanche tanto bene applicato. Chi propende per questa soluzione deve, secondariamente, anche spiegare come un effettivo recupero di questo modello sia compatibile con le esigenze dei moderni partiti elettorali. Va ricordato che, nella tradizione, il termine compagno veniva applicato non solo agli iscritti, ma anche agli elettori (i comizi si facevano puntualmente appellandosi ai compagni - la futura società sarebbe stata una società di compagni). Quanti elettori oggi sono disposti a essere appellati come compagni? In ogni caso, se lo fossero, quale significato avrebbe questo appellativo, se non quello di un consumato rituale? Il sospetto è che l’uso sistematico (e sostanziale) dell’appellativo di compagno finisca oggi per condannare le organizzazioni che lo adottano a una condizione di eterna minoranza, alla costituzione di un élite sempre più separata.

12. La seconda risposta possibile afferma invece che i modelli di appartenenza e militanza a sfondo etico, come quello di cui stiamo discutendo, appartengono al passato. Nell’ambito di questo orientamento, si prende atto della scomparsa dei partiti di massa di tipo ideologico e della loro sostituzione con i partiti elettorali, cosiddetti pigliatutto. Si tratta di partiti che si rivolgono all’intero corpo elettorale, indipendentemente da interessi di classe o da prospettive ideologiche, e che offrono agli elettori dei programmi, in genere piuttosto stringati, che spesso si assomigliano alquanto. L’elettore, senza alcuno specifico commitment, senza obblighi di fedeltà, di volta in volta sceglie il programma che gli sembra migliore. Ci si rivolge dunque non al militante fedele, ma all’elettore infedele che è sempre disposto a cambiare posizione. I militanti di questi partiti elettorali non sono diversi dagli elettori, sono soltanto dei volontari che s’impegnano un po’ di più, in particolari occasioni (ottenendo spesso, in cambio, dei benefit di varia natura). È chiaro che, in una simile prospettiva, contrassegnare con una specifica terminologia la differenza tra i sostenitori e i non sostenitori può essere un espediente estremamente dannoso, soprattutto sul piano elettorale. La prova di questo “laicismo” è che queste organizzazioni solitamente, tranne momenti di convention di tipo emotivo o celebrativo, non fanno pressoché alcuna formazione nei confronti dei loro volontari o dei loro militanti. Perché non hanno più alcun modello umano particolare da promuovere, alcun modello specifico di vita politica o di società. È chiaro che, in tal caso, la lotta politica interna si riduce al confronto sui programmi, che tuttavia si traduce poi, in ultima analisi, in conflitto per il potere, dove gli ideali, i contenuti, sono ridotti a espedienti retorici. I realisti sono pronti a scommettere che questo sia il modello inevitabile verso cui stiamo andando. Chi propende per questo modello deve però spiegare come si possa generare e mantenere un senso di appartenenza che non sia solo legato all’interesse immediato per i contenuti del programma, o all’interesse nella lotta politica interna. Si deve anche spiegare come si possa raggiungere un’ampia consistenza elettorale senza uno strato organizzato di volontari o militanti, dotato di consapevolezza, capace di discutere ed elaborare le scelte e capace di propagandarle. Questi partiti elettorali finiscono spesso per essere partiti televisivi o partiti personali e i militanti non hanno niente da fare, a meno che non siano interessati alla lotta politica interna. Ma, in più, deve spiegare anche come si possa procedere alla formazione di una classe dirigente qualificata. In simili partiti la classe dirigente si può formare solo attraverso la cooptazione nei gruppi di potere che si scontrano all’interno del partito. Se questo può andare nella direzione della selezione del più forte, non è detto che i più forti abbiano poi le qualità politiche necessarie, quelle che saranno indispensabili nel momento in cui si dovranno mobilitare gli elettori.

13. La terza risposta è quella meno scontata, la più difficile, ma anche, forse, la più promettente. Mentre i primi due modelli ci sono già, basta guardarsi intorno, il terzo rappresenta per ora soltanto una prospettiva minoritaria. Forse però è proprio ciò di cui abbiamo bisogno. I sostenitori di questo modello non ritengono utile attardarsi su questioni nominalistiche, anche se sono propensi a ritenere che la parola compagno sia ormai troppo storicamente connotata, ma ritengono piuttosto che occorra urgentemente rifondare un modello morale di militanza. Un nuovo modello di cameratismo che possa ispirare il mondo progressista, al di là delle vecchie fratture di scuola che appartengono alla storia ideologica del Novecento. Questo nuovo modello può benissimo ispirarsi ai tre principi della rivoluzione francese, senza però puntare specificatamente sulla fraternité: insomma, una fraternité fortemente temperata dalla liberté (soprattutto in termini di libertà di pensiero e pluralismo) e dalla egalité (soprattutto nel senso di una burocrazia debole e di una effettiva partecipazione democratica). Per quanto concerne la questione del rapporto tra pubblico e privato, questo nuovo modello dovrebbe valorizzare, ciascuno nel proprio ambito, la dimensione pubblica e quella privata, senza sacrificare l’una all’altra. Dovrebbe tuttavia essere ben attento e consapevole dell’interazione tra pubblico e privato (ad esempio per quel che concerne gli aspetti della legalità, dei conflitti di interesse, oppure delle relazioni di genere). Quanto alla prefigurazione della buona società futura, fatte salve le differenti motivazioni individuali che devono essere ammesse in un ambito pluralistico, l’unico modello di società e l’unico tipo di uomo da prefigurare necessariamente, a livello della cultura dell’organizzazione, non può essere che quello repubblicano e democratico. In questo senso, devo confessare che – anche se non credo sia facilmente realizzabile nel nostro paese – la scelta del partito socialista francese di usare l’appellativo di cittadino, al posto di camarade / compagno, mi sembra convincente. Tutti dovrebbero essere cittadini, dunque ci si rivolgerebbe davvero a tutti. Essere cittadini autentici poi non è davvero facile, e ciò darebbe, forse per la prima volta nel nostro paese, l’avvio a un serio dibattito su cosa intendiamo per buon cittadino. Organizzazioni politiche di cittadini autentici, fortemente improntate a un’etica civica sentita e condivisa, avrebbero forse qualche carta in più per non degenerare. La boutade di Vendola non rimarrà solo un temporale estivo se solleciterà a sviluppare il dibattito in questa direzione.

14. Dei compagni, a quanto pare, oggi ci è rimasto soltanto il nome. Nomina nuda tenemus. Un marchio sempre più deteriorato, che alcuni sono disposti a difendere a tutti i costi e che altri sono disposti ad abbandonare al suo destino, senza rimpianti. Se vogliamo difenderne il nome, dobbiamo trovare il modo di riempirlo di significato, di evitare che si riduca, come sta già succedendo, a un’etichetta vuota. Altrimenti è meglio cambiare marchio, oppure anche adottare nessun marchio, ma concentrarsi urgentemente sull’elaborazione di un modello di cameratismo etico - politico adeguato ai tempi, da coltivare e da proporre a tutti coloro che sono ancora disposti, in forma non strumentale, a coinvolgersi in politica nelle file progressiste.

 

Giuseppe Rinaldi (01/08/2011 – 05/07/2021 rev.)

 

(*) Questo articolo è stato pubblicato il 01/08/2011 sul giornale on-line Città futura. L’occasione dell’articolo fu un’uscita di Vendola nella quale si poneva il problema dell’uso del termine compagno. Al di là dell’occasionalità del pretesto, l’articolo presenta una serie di riflessioni sulla dimensione morale della militanza che sono quanto mai attuali.