giovedì 18 marzo 2021

PD. Il partito che non c'è









1. Dice Zingaretti nel suo post: «Lo stillicidio non finisce. Mi vergogno che nel PD, partito di cui sono segretario, da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid, c’è il problema del lavoro, degli investimenti e la necessità di ricostruire una speranza soprattutto per le nuove generazioni». Scrive ancora Nicola Zingaretti: «Visto che il bersaglio sono io, per amore dell’Italia e del partito, non mi resta che fare l’ennesimo atto per sbloccare la situazione. Ora tutti dovranno assumersi le proprie responsabilità. Nelle prossime ore scriverò alla Presidente del partito per dimettermi formalmente. L’Assemblea Nazionale farà le scelte più opportune e utili».[1] Aggiunge ancora Zingaretti: «Io ho fatto la mia parte, spero che ora il Pd torni a parlare dei problemi del Paese e a impegnarsi per risolverli. A tutte e tutti, militanti, iscritti ed elettori un immenso abbraccio e grazie». Quando dice «Io ho fatto la mia parte, … » Zingaretti tuttavia si inganna o ce la racconta un po’. Se le cose sono al punto che egli stesso descrive, evidentemente anch’egli, come tanti altri, non ha fatto esattamente proprio tutto quello che andava fatto.

2. È trascorso poco più di un anno dalla formazione del governo Conte II (5 settembre 2019) che aveva visto la partecipazione del PD al fianco del M5S, in una formula un poco azzardata che comunque era di centro sinistra. Come si ricorderà, la scelta di entrare nel Conte II fu, per il PD, estremamente travagliata. Tuttavia per molti osservatori – ed esattamente anche per chi scrive – quella scelta rappresentava l’ultima spiaggia per il PD, dopo la avventura renziana e la fallimentare prestazione elettorale del marzo 2018 che lo aveva ridotto al 18% e politicamente lo aveva messo all’angolo. L’ingresso del PD nel governo Conte II aveva anche lo scopo implicito di portare a termine la legislatura e rinviare così le elezioni, per le quali il PD e la sinistra più in generale non erano per niente pronti. Le proiezioni elettorali relative all’applicazione della riduzione del numero dei parlamentari davano, infatti, risultati sconfortanti.

Matteo Renzi era stato il primo sostenitore di questo nuovo indirizzo del PD. Tuttavia, pochi giorni dopo l’ingresso del PD nel governo giallorosso, Matteo Renzi, ex segretario eletto per ben due volte con le primarie, decise di compiere la più grave scissione del PD stesso e di andare a costituire un a sua nuova formazione politica, Italia Viva. È chiaro che Renzi voleva stare nel governo, ma con una propria formazione politica personale. A cosa potesse servire quella mossa tattica l’abbiamo capito solo un anno dopo, con la crisi del Conte II.[2]

3. Le aspettative più ottimistiche suggerivano che il PD, entrando nel governo Conte II, oltre allo scansamento delle elezioni, avrebbe avuto una occasione unica per uscire dalla grave e mai risolta crisi interna successiva alla sconfitta elettorale del 2018. Inoltre avrebbe avuto tutto il tempo per ricostituirsi, per ritrovare una propria chiara identità politica e per ripresentarsi al Paese, a fine legislatura, come il partito leader della sinistra ampiamente intesa. La valutazione implicita era che il PD – data la sua maggiore esperienza politica – avrebbe potuto contribuire a traghettare anche il M5S, anch’esso ormai in aperta crisi dopo l’avventura con Salvini, verso posizioni più istituzionali, irrobustendo così il campo riformista. Insomma, il PD poteva, inaspettatamente, concedersi ancora, fino alla fine della legislatura, un paio d’anni di protagonismo pubblico e di ristrutturazione interna per uscirne rinnovato e irrobustito, nuovamente in grado di competere con successo in termini elettorali. Il presupposto di tutto ciò era che il PD fosse un partito effettivamente riformabile dal proprio interno e che avesse effettivamente una sana intenzione di riformarsi, visto che le magagne erano sotto gli occhi di tutti. Qualcuno, già fin da allora, osservava che queste erano soltanto ingenue aspettative. In effetti, col senno di poi, nulla di questo è accaduto. La fiducia che molti – nonostante le molte evidenze contrarie – avevano riposto nel PD non è stata affatto onorata. Ora ci troviamo con le pesanti dimissioni del Segretario e con sondaggi disastrosi (15-18%).

4. Il bilancio delle prestazioni del PD nel governo Conte II è piuttosto deludente. Contrariamente alle aspettative degli ottimisti, il PD nella coalizione di governo si è mostrato incapace di qualsiasi iniziativa politica qualificante, incapace di fare i conti con i propri dissidi interni, completamente succube di Conte (e del M5S). Insomma, il governo Conte II, invece che occasione di rifondazione e rilancio, è stato semplicemente usato dal PD come un momento di pacificazione temporanea delle proprie fratture interne. Anzi, ancor più come un momento di dilazione dei problemi. Il PD nella sua forma attuale, insomma, ha mostrato, nell’ultimo anno, di non essere minimamente riformabile. Di non avere neppure la consapevolezza dell’urgenza di una riforma radicale. Di essere completamente prigioniero dei propri giochi di potere. Nulla è stato fatto per riprendere un rapporto con gli elettori che se ne erano andati. Nulla è stato fatto per riprendere piede nei territori, che hanno subito ulteriori smottamenti elettorali a livello locale. Zingaretti e gli altri dirigenti “correntisti” del PD hanno continuato a ballare nei palazzi romani senza badare all’iceberg che galleggia nelle loro acque. Il tutto sarebbe continuato indefinitamente. Invece, con la fine improvvisa del Conte II, decisa da Renzi e dai suoi, anche quel regime di pace temporanea ha avuto fine e così l’inconsistenza intima e profonda del PD è nuovamente emersa di fronte all’opinione pubblica. Gli attacchi contro Zingaretti sono venuti soprattutto dai renziani che erano rimasti nel PD, che contano tra le loro file un buon numero di parlamentari.[3] Zingaretti non ha potuto che prenderne atto. La situazione del PD oggi è esattamente uguale a quella successiva alla rovinosa sconfitta elettorale del 4 marzo 2018. Esattamente uguale a come la segreteria Renzi lo aveva lasciato con, in più, la grave scissione di Italia Viva sul groppone. 

5. Affinché la nostra analisi della situazione odierna del PD non appaia come viziata da qualche pregiudizio, proveremo in quel che segue a darne un’adeguata interpretazione, portando a supporto i dati di fatto del caso. Il PD ormai ha alle sue spalle un lungo periodo di presenza nel nostro sistema politico. Si tratta notoriamente di un partito nato dai rimasugli del mondo comunista e del mondo democristiano.[4] Si trattava di mondi che si erano aspramente avversati e che ora cercavano una strada comune. La grande speranza che aveva mosso la formazione del PD, dopo un lungo e travagliato periodo di crisi del PC e della DC in seguito alla fine della Guerra fredda, era quella di costruire una nuova forza politica democratica e riformista che fosse in grado di superare le contrapposizioni ideologiche tipiche dell’epoca che si andava chiudendo. L’ambizione dei fondatori, provenienti dall’esperienza dell’Ulivo, fu quella di utilizzare uno schema di partito completamente nuovo, radicalmente diverso da quelli dei due principali partiti che l’avevano preceduto. Il nuovo partito doveva essere post ideologico e doveva basarsi sostanzialmente sul programma e sul leader. Sul piano organizzativo doveva essere un partito leggero. 

6. Il PD nacque, come si ricorderà, con la “vocazione maggioritaria”, cioè con l’intento di stare in un sistema di alternanza che evitasse le frammentazioni e le alleanze pasticciate del proporzionale. Per questo doveva essere un partito altamente inclusivo (tale da raccogliere la maggioranza degli italiani) e profondamente democratico anche nelle sue pratiche. Il modello di democrazia che fu utilizzato in quel frangente fu tuttavia nettamente di importazione, ben diverso da quello della tradizione europea. Il PD intendeva esplicitamente rompere con il modello del partito socialdemocratico, il modello del partito – apparato, dotato di una cultura politica di tipo ideologico e di una struttura organizzativa di tipo burocratico. Il modello nuovo era quello dei partiti americani (modello che in realtà non era affatto nuovo, ma era piuttosto un relitto storico!). Non a caso il PD nacque come il partito delle primarie, il partito cioè che consegnava agli elettori (e non solo agli iscritti) la facoltà di votare direttamente gli organi dirigenti. Questo modello di democrazia interna si accompagnava, dal punto di vista istituzionale, al sistema elettorale maggioritario e al presidenzialismo. Come vedremo, proprio nei profondi limiti di questo progetto stanno ancora le attuali sofferenze del PD. 

7. Si trattava dunque di andare oltre al modello del partito – apparato, tipico della DC e del PCI, di costruire piuttosto un partito di movimento, un partito leggero senza apparato, consegnato agli elettori i quali avrebbero scelto, con la loro mobilitazione attraverso le primarie, un leader e un programma. Lo scopo principale dell’attività politica, secondo questo modello, era quello di andare alle elezioni e conquistare il governo. Perciò il segretario, più che svolgere il ruolo di capo di un’organizzazione politica strutturata e permanente (cioè il capo di una burocrazia), non poteva che aspirare a diventare capo del governo in caso di vittoria elettorale. Il partito veniva così pericolosamente a confondersi con la compagine di governo e, grazie allo spoils system, lo stato maggiore del partito si trasferiva ipso facto al governo. Il segretario si chiamava ancora “segretario”, ma in realtà era inteso come il candidato a premier. Detto in altri termini, il partito altro non doveva essere se non il comitato elettorale del candidato a premier.

Le conseguenze (senz’altro non volute e non previste) si fecero subito sentire dopo il primo insuccesso del 2008. Accadde che all’interno del partito ci si cominciò a dividere non sugli orientamenti politici di fondo ma sulle cordate, sui potenziali candidati e sui loro supporter. La questione non fu affatto avvertita, ma avrebbe pesato enormemente di lì in poi. Vi era in questo nuovo modello una componente plebiscitaria destinata a fare del PD un partito del leader[5] e poi, come vedremo, un partito dei non-leader in competizione, cioè dei leader delle correnti. In altri termini, l’accantonamento della classica componente burocratica permanente del partito di stampo europeo trasformava il PD in una specie di movimento delle primarie permanenti, dove a pesare non erano più le strutture democratiche interne ove avveniva il dibattito politico ma le istanze in cui si sceglievano i leader a tutti i livelli. Fu data una netta prevalenza alla decisione a discapito della discussione interna e del processo democratico di formazione della volontà. Il problema non era tanto costituito dal confronto tra i modelli di società da realizzare quanto dalla competizione per l’esercizio del potere.[6] Mentre il “vecchio” partito assomigliava più che altro a un legislativo, il nuovo partito doveva avere soprattutto i tratti di un esecutivo. Così inavvertitamente la tattica finiva per prevalere nettamente sulla strategia, preludio questo dello smarrimento dei fini e della identità politica. Il mito sottostante era quello del capo del governo eletto dal popolo e che dispone dei pieni poteri per attuare indisturbato il suo programma. Col senno di poi, si trattava di un’ingenuità colossale.[7] 

8. L’unica occasione nella quale il modello fu messo in pratica abbastanza alla lettera fu proprio all’esordio, con la segreteria Veltroni e con le elezioni del 2008. Nonostante il buon risultato elettorale (un 33% mai più eguagliato!) il PD non riuscì a vincere le elezioni. Il risultato negativo avrebbe dovuto condurre subito a una profonda riflessione teorica e pratica circa il modello di partito appena adottato. Si poteva continuare sulla strada veltroniana del partito leggero di tipo americano – e allora si doveva confermare Veltroni e prepararsi per la successiva prova elettorale, facendo intanto una buona opposizione, allargando i consensi e cercando eventualmente di selezionare un programma e un candidato migliori. Oppure si poteva cassare quella sperimentazione e ritornare consapevolmente a qualche forma, magari ammodernata, di partito – apparato, di burocrazia, come nella tradizione socialdemocratica. Non si fece né una cosa né l’altra. Si preferì congelare l’esistente. Insomma, un partito nuovo rimasto a metà. 

9. Dopo il periodo di transizione della segreteria di Franceschini (dal 21 febbraio al 7 novembre 2009), il pasticcio definitivo fu consumato con la segreteria Bersani.[8] Si mantenne l’opzione del partito leggero, privo di una forte struttura democratica o “legislativa” interna, privo cioè di una organizzazione permanente. Per mantenere il mito del rifiuto della burocrazia formalizzata si diede luogo così, di fatto, alla proliferazione delle correnti, organizzazioni informali incentrate su singole persone, cioè su quelli che erano, di fatto, dei notabili. Messe da parte le istanze interne di discussione e deliberazione, i diversi orientamenti politici furono impersonati dai capi corrente e il dibattito politico (quello che prima si faceva con le mozioni e con i congressi a tutti i livelli) fu ridotto a rapporti di incontro o scontro tra le correnti. Le correnti del PD sono state solitamente chiamate così, ma il loro vero nome dovrebbe essere quello di fazioni. 

10. L’emergere del correntismo naturalmente fu favorito anche dalla diversa provenienza politica degli aderenti al PD, dalla miriade di gruppi che avevano composto l’Ulivo. Sarebbe stato necessario un esplicito lavoro di amalgamazione culturale, di elaborazione e sviluppo di una cultura politica effettivamente ispirata ai principi della democrazia, un’intensa attività di formazione dei quadri. Tuttavia il “partito leggero” non poteva minimamente sobbarcarsi simili compiti. E non intendeva neppure farlo programmaticamente. Il partito leggero finì per costituire solo un ombrello superficiale, di facciata, che copriva la persistenza delle vecchie frequentazioni personali e delle vecchie tradizioni politiche o para politiche. Il PD di Bersani fu così il partito della proliferazione delle fazioni e della loro cristallizzazione. Le fazioni ovviamente non risolsero il problema della conquista del governo e però contribuirono grandemente a limitare la democrazia interna del partito (nonostante la costante retorica delle primarie). 

11. In un mio articolo del 2013, pubblicato su Città Futura (27/4/2013), presentavo un panorama agghiacciante del sistema delle correnti dell’allora PD che val la pena di riportare alla memoria in questa sede: «[…] l’attuale Partito Democratico è composto da ben sedici correnti ufficiali […]. Ci sono ben sette correnti di area socialdemocratica: i Riformisti e Democratici/Dalemiani, i Veltroniani, A Sinistra, Democrazia e Socialismo, Semplicemente Democratici, Vivi il Pd - Cambia l’Italia, Insieme per il Pd. Ci sono poi cinque correnti cosiddette di area cristiano-sociale cui appartengono i Popolari/Quarta Fase, i Democratici Davvero/Bindiani, i Teodem, gli Ulivisti e i Cristiano Sociali. Abbiamo poi tre gruppi di area liberale e cioè l’Associazione TrecentoSessanta/Lettiani, i Democratici Rinnovatori e Coraggiosi (sic!) e i Liberal Pd. Non manca poi ancora l’area ecologista cui – del tutto inspiegabilmente – appartiene un solo gruppo, quello degli Ecologisti Democratici. Queste sarebbero le cosiddette sensibilità del PD. Questa sarebbe tutta intera la famosa ricchezza di punti di vista del PD. Se consideriamo che le grandi ideologie politico sociali del Novecento, quelle almeno che sono potabili in una democrazia, non sono più di tre o quattro, si resta davvero meravigliati di fronte alla sottigliezza dei Democratici, capaci di organizzarsi e darsi battaglia per delle questioni che i comuni mortali sono del tutto incapaci di percepire». Questo quadro impressionante si colloca nell’ultimo periodo della segreteria di Bersani, appena prima dell’avvento di Renzi alla segreteria, nel dicembre dello stesso anno. La fonte era banalmente la Wikipedia dell’epoca. 

12. Sul piano politico le cose non andavano meglio. Il PD di Bersani abbandonò subito la “vocazione maggioritaria”, senza tuttavia trarre le dovute conseguenze. Il degrado correntizio interno fece da contrappunto al tentativo di costruire, una coalizione di centro sinistra che potesse risultare vincente. Poiché il modello del PD comunque aveva fatto scuola, si cercò di costruire la coalizione attraverso le primarie. Nel luglio 2012 Bersani vinse le primarie di coalizione di Italia. Bene comune (contro Renzi, Vendola, Puppato e Tabacci). Nelle elezioni del 2013 la coalizione non sfondò e riuscì a prevalere appena per un pugno di voti. Bersani divenne così il premier di coalizione incaricato di formare il nuovo governo. L’incarico tuttavia non andò a buon fine e ciò determinerà la formazione del governo Letta, un governo di coalizione, con un premier (Enrico Letta) che dovette essere diverso dal segretario del PD (Bersani) e dal premier di coalizione designato (Bersani).[9]

Per meglio comprendere il senso catastrofico di questi avvenimenti è il caso di considerare il contesto della situazione politica di quegli anni. Il 12 novembre 2011 il governo Berlusconi era stato costretto alle dimissioni ed era stato sostituito dal governo tecnico di Monti (16 novembre 2011 - 21 dicembre 2012). La segreteria Bersani si era trovata dunque ad agire sulla scena politica in uno dei momenti di massima crisi del Centro Destra e del berlusconismo. Ciò nonostante il PD bersaniano, pur a capo della coalizione di centro sinistra, non era riuscito a prevalere con nettezza e a formare un suo governo. La percentuale specifica di voti del PD alle politiche del 2013 era passata dal 33% del 2008 al 25%. Questa débâcle complessiva fu definita con la famosa circonlocuzione della “non vittoria”.

Bersani si dimise da segretario il 20 aprile 2013, in seguito al mancato sostegno all’elezione a Presidente della Repubblica di Romano Prodi, dovuto ai franchi tiratori interni. Anche questa era una spia evidente di quella palude che il PD era già diventato.[10] Bersani fu sostituito temporaneamente da Epifani, in attesa come al solito di un chiarimento interno che non avverrà mai. Il modello pasticciato del partito delle correnti cadde facilmente in discredito anche presso l’opinione pubblica e Bersani fu spesso bersagliato dai comici. Il PD tuttavia – incapace di qualsiasi riflessione sulla propria strategia - restava caparbiamente un partito leggero, secondo lo schema originario. Esso così divenne esposto – proprio attraverso le primarie – alle facili scalate da parte degli aspiranti leader per prendere in mano il partito e per ottenere così ipso facto a un incarico di governo. Questo fu appunto il percorso seguito da Matteo Renzi[11] – percorso impensabile in un’organizzazione partitica tradizionale, fosse anche quella della vecchia DC. Le primarie infatti permisero a Renzi, in un solo colpo, di prendere in mano il partito e il governo (dando subito il benservito a Letta). Renzi divenne segretario del PD il 15 dicembre 2013, attraverso le primarie. 

13.Il successo di Renzi alle primarie del 2013 fu dovuto al fatto che gli elettori già non ne potevano più del partito bersaniano, accusato non a torto di essere ormai pura espressione della vecchia politica. Si era nel periodo dell’insorgente antipolitica e la parola d’ordine della rottamazione renziana fu interpretata dagli elettori in uno spirito “veltroniano” di ritorno alle origini, come una liberazione, come la ripresa di una prospettiva innovativa. Renzi tuttavia, anziché fare quel che andava fatto, cioè preoccuparsi prima di tutto di risollevare le già drammatiche sorti interne del partito, non vide di meglio che usare la propria posizione per diventare capo del governo. Renzi pose fine al governo Letta (“Stai sereno, …”) e poi subentrò egli stesso, con una coalizione abbastanza raffazzonata che comunque aveva il PD come fulcro.[12] Nella prospettiva renziana, il partito era nulla più che il comitato elettorale che portava al governo il proprio leader.

Poiché il PD continuava a essere partito leggero, le linee politiche (che venivano ora a coincidere con le linee del governo) si concentrarono tutte nelle mani di Renzi, cui vanno perciò attribuiti i pochi meriti e i molti demeriti del suo governo e soprattutto della sua contemporanea attività di segretario del PD. La contraddizione fondamentale di Renzi fu quella di ragionare in termini di maggioritario in una situazione obbligata di coalizione. Renzi, capo del partito sul modello americano, non si è mai reso conto di essere al più l’equivalente dell’anatra zoppa. Questo errore di prospettiva ha determinato le sue mosse auto lesioniste. Lo ha condotto in un primo tempo alla alleanza con Berlusconi[13] sulla questione delle riforme istituzionali con il cosiddetto “Patto del Nazareno”. La qual cosa gli attirò fondatamente la critica di avere, in un certo senso, contribuito alla riabilitazione dell’avversario. Infine, in seguito alla rottura con Berlusconi sulla questione dell’elezione del Presidente della Repubblica, Renzi è stato indotto a voler fare la riforma istituzionale da solo, contro tutti.

Va aggiunto, per valutare appieno il contributo di Renzi, che la sua prevalenza pigliatutto[14] nel PD scatenò una silenziosa guerra fredda da parte della opposizione interna, che si allargò e coinvolse – contro Renzi, capo di partito e capo di governo – buona parte di coloro che si consideravano a qualche titolo “di sinistra”, dall’ANPI all’ARCI, fino alla CGIL. Fu proprio questo l’agguerrito fronte che si schiererà contro Renzi al Referendum. Così accadde che, com’è noto, Renzi fu impallinato dal fuoco nemico ma anche e soprattutto dal fuoco amico. È stata questa una lunga e lacerante guerra privata dentro alla sinistra (che non ha interessato più di tanto gli elettori) che è finita con lo “sfascio comune delle parti in lotta”, cioè con la fuoriuscita della ala sinistra dal PD da un canto e con l’allontanamento di Renzi dall’altro. 

14. Dopo il flop referendario del 2016, e le sue conseguenti dimissioni da capo del governo, Renzi comunque, dopo il breve intermezzo della segreteria di Matteo Orfini,[15] grazie alle ulteriori primarie del 30 aprile 2017,[16] tenne ancora in mano il PD – dove c’era stata una sorta di renzizzazione strisciante e in tanti erano diventati opportunisticamente “renziani”. Ciò fino alla sconfitta elettorale del 2018. Naturalmente, fedele alla sua concezione strumentale del partito, Renzi, anche in quel frangente in cui non era più capo del governo, non fece nulla per riformare l’organizzazione interna del PD. Le proposte di riorganizzazione che venivano da studiosi come Fabrizio Barca, attivo nel PD tra il 2013 e il 2015, furono bellamente ignorate. Era chiaro a chiunque che la struttura organizzativa originaria strideva sempre più rispetto a ciò che il partito stava di fatto diventando. Val la pena di ricordare esplicitamente che Renzi, anziché rimettere in piedi il partito sul piano organizzativo, ha costruito, all’interno dello stesso partito, una formazione frazionistica personale, la famosa “Leopolda” (attiva dal 2010, fin da quando Renzi era ancora sindaco di Firenze) attraverso la quale ha provveduto a elaborare la propria piattaforma politica e a realizzare solidi intrecci con intellettuali e mondo economico (e a raccogliere cospicui finanziamenti). Renzi segretario del PD, invece di lavorare per ricostruire il partito ha sempre lavorato per costruire la sua fazione personale. Il partito, in questa prospettiva, non è mai stato considerato come un patrimonio comune da costruire e preservare, ma solo un trampolino di lancio, da calpestare per saltare da qualche parte. Non a caso, proprio alla Leopolda del 2019 ci fu la promozione del suo nuovo partito Italia Viva.

15. Veniamo ora in estrema sintesi ai tempi più recenti. Quel che restava del PD, dopo lo stravolgimento renziano, dopo la scissione della sinistra (25 febbraio 2017) e la sconfitta elettorale del 2018, non sarà più in grado di fare alcuna riflessione circa la propria organizzazione interna e la propria strategia. Dopo un lungo temporeggiamento avvenuto nel corso della smarrita segreteria di Martina, Zingaretti fu eletto segretario, con un rituale veltroniano, da partito maggioritario (ancora con un milione e mezzo di votanti). Tuttavia lo scarso conto in cui la carica di segretario del PD era ormai tenuta è esemplificata dal fatto che Zingaretti non si è neanche dimesso dalla Presidenza della Regione Lazio. Un segretario a mezzo tempo, una sinecura. Del resto i concorrenti alla segreteria erano lo stesso Martina e Roberto Giachetti, non certo significative alternative. Ora era evidente a tutti che il vincitore avrebbe dovuto accontentarsi di stare nell’angolo. Con il partito ridotto al 18%, era chiaro che non si poteva più pensare alla vocazione maggioritaria. Ma non c’erano ora più neanche le condizioni per fare un qualche tipo di politica delle alleanze, visto che il solo alleato possibile ora avrebbe dovuto essere il M5S che era non disponibile. Sul piano interno il partito è rimasto sempre un “partito leggero”, ma ormai era divenuto tanto leggero da essere evanescente, completamente dominato dalle nuove correnti (o fazioni) che ammontano attualmente ad almeno una decina.[17] Ricordiamo il povero Zingaretti in questo periodo ripetere come un mantra: «Noi non abbiamo paura delle elezioni!». Se si fosse andati ad elezioni in quelle condizioni, il PD sarebbe stato spianato. Solo l’insperata e, col senno di poi, immeritata coalizione con M5S e con LEU ha permesso a Zingaretti e al PD di togliersi momentaneamente dall’angolo. Tuttavia, come abbiamo già esaminato in apertura, l’occasione non è stata adeguatamente sfruttata e anche questa esperienza è stata fallimentare. 

16. Il completo disinteresse, da parte dei numerosi leader che si sono succeduti,[18] per l’organizzazione interna ha prodotto, nel corso della storia del PD, la sparizione progressiva della presenza del partito sul territorio. Tutto il patrimonio di presenza sul territorio dei vecchi partiti originari, PC e DC, è stato completamente dissipato. Compresa la risorsa della militanza. Sul piano locale accadeva intanto esattamente la stessa cosa che era accaduta al centro: gli amministratori che vincevano le elezioni prendevano nelle loro mani sia il partito locale sia la carica amministrativa, ma finivano per trattare il partito locale come una loro dépendance privata, utile per la loro carriera politica. Non è più il partito locale che nomina e revoca gli amministratori, ma sono gli amministratori che s’impadroniscono del partito locale e lo usano per i loro scopi. Questo è il motivo, tra l’altro, per cui il PD sta diventando il partito degli amministratori. Questa situazione ha notoriamente prodotto la desertificazione della militanza, degli iscritti e della partecipazione politica. Il tutto preludio della progressiva perdita di presenza a livello territoriale. Se Bonaccini – come dicono in molti - prenderà alla fine in mano il PD, fatte le debite differenze, col partito si comporterà in modo del tutto analogo a quello di Renzi. 

17. Oltretutto il PD ha pagato duramente questo costante ripiegamento su se stesso. In questo lungo periodo di chiusura autoreferenziale sulle proprie dinamiche interne e di progressivo raffreddamento del rapporto con iscritti, elettori e società civile, il PD ha abbandonato un immenso terreno politico che è stato occupato da altri. Il M5S di Grillo è cresciuto parallelamente alla costante crisi del PD, su tematiche che virtualmente appartenevano alla sinistra e che erano state totalmente ignorate dal PD stesso. Mentre Grillo riempiva le piazze, il PD svuotava le sezioni e si concentrava sui giochi di corrente e sulla sua vocazione di governo. Perfino l’idea discutibile della democrazia diretta attraverso la rete del M5S costituiva comunque una proposta alternativa al vuoto di democrazia e partecipazione che era venuto manifestandosi nel PD.[19] Il PD non seppe minimamente contrapporsi validamente all’antipolitica e al populismo che conquistavano spazi sempre più ampi. Il pubblico del M5S fu costituito, almeno all’inizio, in gran parte di giovani e in gran parte di potenziali elettori del PD che non si vedevano più rappresentati. Un’altra parte di costoro, com’è noto, si era rivolta alla Lega. Alle elezioni del 2018 il PD è stato pesantemente sconfitto proprio da quel popolo che il PD stesso aveva abbandonato e che aveva trovato posto sotto la bandiera grillina. Alla faccia del partito inclusivo e maggioritario di Veltroni. A conoscenza di chi scrive, a tutt’oggi, mai il PD ha fatto una riflessione pubblica sulle cause della sconfitta del 2018. 

18. La conclusione di questa nostra analisi è che il dopo Zingaretti apre una strada assai difficile e perigliosa per il PD: non potrà più cavarsela con ulteriori differimenti di tempo, con un segretario reggente, tanto per tirare a campare. Non potrà cavarsela eleggendo un segretario donna, vista la irrilevanza della questione di genere rispetto ai problemi strutturali che ha questo partito.[20] Ma non potrà neanche cavarsela con un nuovo segretario leader, uomo o donna che sia, novello Renzi, o magari novello Letta, che per l’ennesima volta prenda in mano il “partito leggero” e lo usi per tentare di andare al governo (tanto più che, col proporzionale che si preannuncia, non ci sarà proprio più niente da “prendere”).

Quello che va messo finalmente in discussione è il peccato originale del PD: il modello del partito movimento leggero, aperto alla scalata del leader e privo di qualsiasi pratica effettiva di democrazia interna e divenuto così, per ciò stesso, pieno di correnti. Il PD, dunque, sarebbe un partito da ripensare da cima a fondo, magari anche sulla base di una rigorosa e spregiudicata analisi degli errori del passato. Nessuno degli attuali leader del PD pare avere questa consapevolezza e avere le capacità di compiere una simile impresa. Tanto meno le numerose correnti. Men che mai la pletorica Assemblea che si è riunita qualche giorno fa. Men che mai ancora il consesso dei parlamentari eletti – ancora in gran parte succubi dell’impronta renziana.[21] Men che mai i sindaci e amministratori, cui va benissimo il partito “leggero” da usare secondo i comodi del caso. 

19. Scriviamo queste ultime righe appena dopo l’Assemblea (online) del PD che ha appena incoronato, pressoché all’unanimità, Enrico Letta come nuovo segretario, il decimo in quattordici anni, al posto del dimissionario Zingaretti. Letta, ammesso che sia stato scelto con sincerità e che non sia presto silurato (“Stai sereno, …”), ha di fronte a sé un sentiero veramente accidentato. L’unanimismo che apparentemente circonda la sua elezione è palesemente solo una risposta di circostanza alla “vergogna” citata da Zingaretti nel suo post di dimissioni. E poi l’Assemblea non è il gruppo parlamentare, oppure la banda degli amministratori dai quali vengono le più feroci resistenze a qualsiasi cambiamento.

Letta è stato scelto in mezza giornata, con lo stesso stile con cui il PD, in passato, ha scelto i suoi segretari reggenti pro tempore (Franceschini, Epifani, Orfini, Martina). Sotto la spinta della necessità, senza alcun autentico dibattito politico, unicamente sulla base di un discorso programmatico dello stesso Letta. L’analogia con quanto avvenuto poco tempo fa con Draghi non può sfuggire: un intero parlamento rissoso e inconcludente vota, a grande maggioranza, un capo del governo che viene da fuori, un podestà straniero, sulla base di un discorso programmatico. Abbiamo assistito con Draghi al commissariamento della politica a livello istituzionale e ora, con Letta, abbiamo assistito al commissariamento del PD. Di ciò si tratta. Davvero il punto più basso della storia di questo partito. Letta comunque, proprio per la situazione di emergenza politica in cui è stato eletto, è un commissario pro tempore cui però sono stati affidati tutti i poteri e su cui – almeno da parte di coloro che hanno scelto con sincerità – gravano enormi aspettative.

Notiamo che la scelta di Letta è divenuta possibile solo dopo l’uscita di Renzi dal PD, visto che era stato lo stesso Renzi a dare il benservito al governo Letta. Questa coincidenza ora potrebbe forse rendere possibile al PD una riflessione approfondita sul significato della passata renzizzazione del PD e, più un generale, sul degrado del partito stesso, a partire fin dalla sua fondazione (cosa che del resto abbiamo proprio cercato di fare anche noi, nel nostro piccolo, con questo articolo). Facciamo fatica a immaginare tuttavia come ciò possa realizzarsi effettivamente. 

20. Vediamo comunque quali potrebbero essere in generale le prospettive che stanno di fronte alla segreteria Letta. Ne elenchiamo tre. A) Letta potrebbe accontentarsi di fare il mediatore delle correnti (cosa che dovrà comunque fare, come minimo), più o meno come Zingaretti, cercando di tenersele buone. Se farà il segretario a tempo pieno magari potrebbe avere maggior successo del predecessore. Essendo abile e preparato potrebbe sperare di far guadagnare al partito qualche punto percentuale in più di consenso. È la strada più facile e forse l’unica possibile, visto lo strapotere delle correnti stesse che non è stato minimamente cancellato. Finirebbe più o meno come è finita con Draghi: una “nuova” segreteria con qualche “tecnico fedele” ma però piena dei vecchi correntisti, ognuno dei quali chiederà conto. Se si fermasse qui tuttavia non cambierebbe la situazione involutiva del partito e ciò presumibilmente non risparmierebbe al PD una prossima sconfitta elettorale. B) Potrebbe tuttavia sperare di poter fare – dopo l’elezione del Presidente della Repubblica - un salto “alla Renzi” per avere un posto di governo. Magari potrebbe sperare di succedere a Draghi, se questo sarà eletto Presidente della Repubblica e se, dopo, non si andrà subito a elezioni anticipate (come però è assai probabile). Costituirebbe ciò un ennesimo uso personale di quel che resta del PD (dei “cocci”, è stato detto). Ma non è certo questa la cosa principale di cui il PD ha bisogno. C) Oppure potrebbe mettersi a lavorare a tempo pieno, come segretario, per cambiare profondamente il PD stesso. Per portarlo a una crescita elettorale, o forse anche al governo, proprio in conseguenza di un radicale cambiamento. Potrebbe – visto che Letta è un buon politologo e le doti personali non gli mancano – cercare di rivedere profondamente l’architettura stessa del PD (alla cui fondazione Letta stesso ha ahimè contribuito), cercando prima di tutto di capire perché il PD è una struttura dis-organizzativa che, fin dalla sua fondazione, genera mostri in continuazione. Cercando di riprendere un rapporto con quei tre milioni e mezzo di elettori delle primarie del 2007. Letta dovrebbe assolvere, in altri termini, a un ruolo di rifondatore del PD, ruolo del tutto analogo a quello che esercitò Veltroni alle origini. Tuttavia, rimettere insieme tutto quello che è stato dissipato, con l’avallo e col supporto dei dissipatori stessi, appare alquanto problematico e forse un tantino illogico. Un simile tentativo gli varrebbe comunque la feroce opposizione delle correnti che non potrebbero altro che fargli la fronda e generare nuove spaccature. Il fatto è che il PD, per la sua natura attuale, si può facilmente usare. Cambiarlo sembra davvero piuttosto difficile.

Non possiamo che fare i migliori auguri al neo-segretario, dato che è senz’altro persona generosa, onesta e intelligente. Credere tuttavia che il PD, d’un tratto, si metta sulla strada del cambiamento, solo perché in fretta e furia, sotto la pressione della vergogna, ha dovuto scegliere come segretario una brava persona, costituisce indubbiamente, alla luce dell’esperienza passata, una notevole ingenuità. Siamo già stati delusi troppe volte e non si vede proprio perché questa volta debba andare a finire diversamente. Occorreranno davvero fatti molto solidi per smentirci. 

Appendice a 

a1. Può essere utile – oltre all’interpretazione generale che abbiamo tentato, sulla quale il lettore potrà essere più o meno d’accordo – passare a esaminare qualche dato di fatto. Vediamo allora intanto una breve rassegna degli andamenti elettorali del PD, fondato il 14 ottobre 2007, il cui primo leader e segretario fu Walter Veltroni. Alle politiche del 2008, alla Camera, guadagnò il 33,18% (circa 12 milioni di voti); alle politiche del 2013 i consensi scesero al 25,42% (circa 8,6 milioni). Alle politiche del 2018 i consensi scesero ulteriormente al 18,76% (6,1 milioni). In sostanza, gli elettori tra il 2007 e il 2018 si sono dimezzati. Il PD alla Camera è passato complessivamente da 217 deputati nella XVI legislatura a 92 deputati nella XVIII, con una perdita del 58% rispetto agli inizi. 

a2. Visto che il PD era nato per dare finalmente la parola agli elettori, può essere utile dare anche un’occhiata ai votanti delle primarie. Il 14 ottobre 2007, quando Veltroni fu fatto segretario, andarono a votare in 3.554.169. Il 25 ottobre 2009 votarono in 3.102.709 (con l’elezione di Bersani). Abbiamo poi le due tornate che videro Renzi segretario: l’8 dicembre 2013 votarono 2.805.775 elettori e il 30 aprile 2017 votarono 1.838.938 elettori (un milione in meno). Infine, le primarie con le quali fu eletto segretario Zingaretti (attualmente dimissionario), tenute il 3 marzo 2019, videro la partecipazione di 1.583.083 elettori. In dodici anni gli elettori delle primarie si sono più che dimezzati (- 55%). Nessuno si è mai dato la briga di spiegare il perché. O di inventarsi qualcosa per impedire questa discesa e per risalire la china. Le cose non sono andate meglio nel campo degli iscritti. Nel 2009 gli iscritti ammontavano a 831.042 e si sono ridotti a 412.675 nel 2019: [22] in dieci anni gli iscritti si sono dimezzati. La cosa divertente è che da più parti si sentono voci di dura critica nei confronti delle primarie e circolano proposte per restringere agli iscritti la facoltà di eleggere il segretario. Il fatto è che però nessuno sa bene, nel PD, cosa debbano fare gli iscritti, visto che la vita politica interna al partito è prossima allo zero. Il forte sospetto è che ormai gli iscritti siano anch’essi solo espressione delle correnti e non facciano altro che attività correntizia. Il problema fondamentale, come abbiamo sostenuto poc’anzi, è la contraddizione insanabile tra il partito delle primarie e la ridotta democrazia interna che genera il partito delle correnti. 

a3. A questo quadro di involuzione partecipativa e rappresentativa non possiamo non far cenno a un altrettanto preoccupante quadro di involuzione organizzativa. Il PD è talmente leggero che non ha un giornale quotidiano degno di questo nome, non una TV. I siti web che si riferiscono al PD sono di una qualità penosa. Lo stesso dicasi per le poche fonti di informazione che sono attribuibili al partito (ad esempio Youdem). Non ci sono più intellettuali che in qualche modo siano pubblicamente identificati con gli orientamenti del Partito. Non ci sono centri studi che siano in grado di fare ricerca ed elaborazione. Le Feste dell’Unità (di tradizione comunista) diffuse sul territorio sono praticamente sparite. L’attività propagandistica sul territorio (mailing, gazebo, iniziative pubbliche, siti web locali, campagne politiche, campagne di finanziamento) è del tutto inesistente. Nessuna o quasi forma di associazionismo locale legata al partito. Nessuna iniziativa di formazione politica (né centrale né locale) rivolta ai militanti e ai giovani. 

a4. Nel corso del tempo, il PD è andato incontro a un processo di progressiva balcanizzazione. La struttura centrale è un feudo solitario che non ha praticamente più alcun controllo sulla strutture regionali e comunali. Le strutture regionali e comunali sono altrettanti feudi solitari nelle mani dei potentati locali. Si pensi ad alcuni bizzarri governatori capopopolo che fanno riferimento al PD. Ciò porta inevitabilmente allo sconquasso interno tutte le volte che ci sia da decidere sulle candidature. Quando le candidature riguardano posizioni importanti (grandi città, regioni) allora ci si affanna a paracadutare da fuori qualche leader noto. Con conflitti e con la puntuale diatriba tra primarie e non primarie. Si veda l’allucinante dibattito per le candidature a Roma. Un altro esempio davvero incredibile è il dibattito interno al PD che sta avvenendo per la candidatura del nuovo sindaco di Torino. Ho spiegato in un altro saggio come ormai il PD, a livello locale, sia di fatto ridotto a comitato elettorale[23] che si sveglia pochi mesi prima delle elezioni, spesso per spaccarsi sui candidati. Questa situazione di latitanza della presenza locale ha portato a perdite di voti e a sconfitte sempre più frequenti anche nelle elezioni locali stesse. A livello regionale, i Presidenti del PD si contano ormai sulla punta delle dita e alcuni di loro si comportano come feudatari locali perfettamente autonomi dal partito stesso. Se il PD fosse un supermercato, la chiusura progressiva dei punti vendita dovrebbe forse preoccupare un po’ i dirigenti. L’assenza di attività politica a livello locale e l’assenza di formazione fa sì che il ceto politico del partito sia ormai composto prevalentemente da amministratori, di età piuttosto avanzata, che usano il partito per la propria carriera. 

a5. In compenso il PD attuale è ben ricco di correnti interne. Qui non posso che tornare a rifarmi a Wikipedia. Il PD peraltro non ritiene di informare il pubblico circa le proprie correnti interne. Anzitutto l’enciclopedia ci informa che le correnti possono essere suddivise, dal punto di vista qualitativo, in tre aree, l’area socialdemocratica, l’area liberale e l’area cristiano sociale. La prima area comprende Piazza Grande (Zingarettiani), Democrazia, Europa, Società o DEMS (Orlandiani), Left Wing (Orfiniani, detti anche “Giovani Turchi”), Laburisti Dem (Cesare Damiano), Radicalità per ricostruire (Cuperliani). L’area liberale comprende Base riformista (ex renziani, Guerini e Lotti), RiforDem (Gentiloniani), Energia democratica (Ascani, Giachetti), Fianco a Fianco (Martina, Del Rio). All’area cristiano sociale appartiene una sola corrente, AreaDem (Franceschiniani). Ci informa Wikipedia che esponenti di spicco di quest’area sono sono Dario Franceschini, Piero Fassino, Sergio Chiamparino, Marina Sereni, Roberta Pinotti, Federica Mogherini, Luigi Zanda e David Sassoli. Se non andiamo errati abbiamo almeno 10 correnti.[24] Alle dieci correnti tuttavia va aggiunta la corrente informale e trasversale delle donne del PD. Le quali, pur essendo anche loro ben adagiate in qualche corrente, non trovano di meglio che lamentarsi perché Zingaretti non ha rispettato le “quote rosa”. Dopo l’uscita della lista dei ministri, alla vigilia del terremoto Zingaretti, per una settimana l’unico dibattito interno al PD che è trapelato ha riguardato il mancato rispetto delle “quote rosa”. Dopo le dimissioni di Zingaretti si sono sentiti molti clamori secondo i quali il nuovo segretario doveva essere necessariamente una donna. 

a6. A leggere i nomi fantasiosi delle correnti e cercando di indovinare i loro eventuali orientamenti politici, vien da pensare che vi sono rappresentate almeno nominalmente quasi tutte le correnti politiche del Novecento. Un discreto minestrone. È chiaro che più che di competizioni ideali o di diverse piattaforme programmatiche trattasi di mere marche distintive da usare nella guerra interna. Invano si cercheranno documenti politici di approfondimento per far conoscere i contenuti delle diverse correnti.[25] Invano cercherete articoli, saggi, libri dei capicorrente in cui si esprima il loro articolato punto di vista sul mondo. È chiaro che non di confronti ideali si tratta, quanto di cordate. L’elenco delle correnti è davvero istruttivo e ci spiega quel che possiamo aspettarci – dopo un nuovo interminabile processo di decantazione - da un eventuale futuro Congresso del PD. È davvero impensabile che queste correnti possano dare vita a un qualche effettivo dibattito di tipo autenticamente politico. Tutto quel che ci si può aspettare è una resa dei conti, un aggiustamento dei rapporti numerici e una ridistribuzione delle cariche. La scelta di un segretario che vada bene a tutti. Del resto è esattamente quel che era avvenuto nel congresso precedente. Insomma, un partito completamente lottizzato, in cui la lottizzazione costituisce l’interesse principale della classe dirigente. Gli elettori, a dispetto di quello che sta scritto sullo Statuto, sono solo dei noiosi inconvenienti. 

a7. Poi, per avere un’idea compiuta della decadenza, vanno contati quelli che c’erano nel PD e sono usciti. Le scissioni hanno costellato l’intera storia del PD.[26] Si noti che ben due scissioni (quelle numericamente più importanti) sono state operate da personaggi (Bersani e Renzi) che del PD sono stati segretari eletti attraverso primarie. Nel PD le scissioni le fanno gli ex-segretari! Per la consolazione del lettore, riportiamo la cronaca delle scissioni:[27] 11 novembre 2009 – Alleanza per l’Italia guidata da Francesco Rutelli (dissoluzione nel 2016); 26 maggio 2015 – Possibile guidato da Giuseppe Civati; 4 luglio 2015 – Futuro a Sinistra guidato da Stefano Fassina (confluito in Sinistra Italiana nel 2017); 25 febbraio 2017 – Articolo Uno guidato da Roberto Speranza e da Pier Luigi Bersani; 28 agosto 2019 – Azione guidato da Carlo Calenda; 17 settembre 2019 – Italia Viva guidato da Matteo Renzi. Si tratta di un elenco davvero impressionante. Secondo una distinzione di scuola, potremmo cercare di distinguere scissioni fatte “a destra” e scissioni fatte “a sinistra”. Ma alcune non sapremmo proprio dove metterle. Un fatto da notare, in questo elenco, è la personalizzazione spinta di queste scissioni, le quali sono avvenute quasi tutte intorno ai progetti e alle ambizioni personali di singoli personaggi o leader. 

a8. Come si vede ampiamente da questi dati grezzi, il PD allo stato attuale è un partito che, in una dozzina di anni o poco più, ha dissipato completamente il proprio patrimonio politico, facendo finta di niente, senza chiedersi neanche il perché. 

Giuseppe Rinaldi (18/03/2021)


NOTE


[1] La dichiarazione di Zingaretti è stata rilasciata il 04/03/2021.

[2] Ho analizzato la tattica e la strategia di Matteo Renzi in un mio recente saggio pubblicato sul mio blog. Cfr. Finestre rotte: Della tattica e della strategia di Matteo Renzi .

[3] Sono quelli che erano stati messi in lista dallo stesso Renzi.

[4] Ho tratteggiato con un certo dettaglio la storia della formazione del PD nel mio saggio Ridendo e scherzando, pubblicato sul mio blog. Cfr. Finestre rotte: Ridendo e scherzando .

[5] All’epoca, questo plebiscitarismo era fondato sulla critica dei partiti-apparati, cioè su una sorta di anti-politica ante litteram. Piacevano molto i partiti snelli e decisionisti. Il tutto naturalmente legato alla scelta maggioritaria. È interessante considerare che nel nostro Paese il fenomeno della leaderizzazione della politica, prima che con le recenti derive populiste, ha avuto a che fare con la diffusione dei modelli presidenzialisti. Il presidenzialismo è stato, storicamente, forse non intenzionalmente, un’anticamera del populismo sovranista. La figura di Renzi populista di sinistra ne è un esempio tipico. Sul partito del leader ha scritto autorevolmente Mauro Calise. Si veda il mio articolo La democrazia del leader, pubblicato sul mio blog. Cfr. Finestre rotte: La democrazia del leader .

[6] Sul piano culturale, questo afflato decisionistico è senz’altro legato, almeno nel nostro Paese, alla irresistibile diffusione, tra i nostri inqualificabili post marxisti, del pensiero politico e giuridico del nazista Carl Schmitt.

[7] Non entro qui nel merito di come questo modello funzioni effettivamente nel caso americano. Ribadisco che il sistema partitico ed elettorale americano, più che una gran novità, è un residuo del passato, un po’ come la monarchia in Gran Bretagna, che funziona bene, se funziona, solo lì. Sicuramente quella che fu importata nel nostro Paese fu una versione mitizzata con cui si tentava di porre rimedio a mali della politica che erano tipicamente nostri nazionali. Comunque c’erano delle differenze che avrebbero dovuto essere tenute in debito conto. La prima considerazione è che gli USA sono una federazione governata con un sistema presidenziale. Secondariamente in America vige ampiamente il principio di sussidiarietà. In terzo luogo, la prospettiva politica nordamericana ha un carattere prettamente individualistico, ricalcato sulla competizione del mercato. Inoltre, la politica americana non può davvero essere presa come un modello di buon funzionamento tanto da essere esportato. Certo, quando nacque il PD non c’era ancora stato un Trump, ma c’erano già stati dei pessimi segnali.

[8] Bersani vinse le primarie il 25 ottobre 2009, contro Franceschini e Marino.

[9] Il governo Letta durò dal 28 aprile 2013 al 14 febbraio 2014. Era appoggiato dal PD, PdL, NCD, Scelta Civica e altre formazioni minori. Nel novembre, il Popolo della Libertà (divenuto Forza Italia) ritirerà l’appoggio a Letta. Alfano (Nuovo Centro Destra) continuerà ad appoggiare Letta.

[10] Il 20 aprile 2013 Giorgio Napolitano fu rieletto alla Presidenza della Repubblica per la seconda volta, poiché le forze politiche si trovavano in una situazione di stallo dovuta ai veti incrociati.

[11] Renzi aveva perso le primarie di coalizione contro Bersani.

[12] Il governo Renzi (22 febbraio 2014 -12 dicembre 2016) era appoggiato, oltre che dal PD, dal Nuovo Centro Destra di Alfano, da UDC, Scelta Civica, PSI, Democrazia solidale e Centro Democratico. Aveva poi l’appoggio esterno di un certo numero di formazioni minori.

[13] Renzi era appena diventato segretario del PD (15 dicembre 2013). Per compiere le riforme istituzionali stipulò con Berlusconi (18 gennaio 2014) il cosiddetto “Patto del Nazareno” (assai criticato da sinistra). Renzi diverrà capo del governo, licenziando Letta, il 22 febbraio 2014. Tuttavia poi, con fare megalomane, non trovò di meglio che procedere alla rottura con Berlusconi, la sua stampella per la realizzazione delle riforme istituzionali. Si ricorderà che l’occasione della rottura del patto fu costituita dall’elezione del Presidente della Repubblica Mattarella (nel febbraio 2015). Renzi così rimase isolato nel suo progetto di riforma costituzionale e il 4 dicembre 2016 fu sconfitto al Referendum.

[14] L’idea che chi vince le primarie prende tutto (tipica dello spoils system americano e del maggioritario decisionistico a esso associato) non aveva nulla a che fare con la tradizione europea dei partiti democratici, che ha quasi sempre visto confrontarsi tra loro maggioranze e minoranze. In tal modo le minoranze si sono sentite autorizzate ad andarsene.

[15] Matteo Orfini, il “giovane turco”, tenne la segreteria tra il 19 febbraio e il 7 maggio 2017.

[16] In queste primarie si confrontarono Matteo Renzi, Andrea Orlando e Michele Emiliano.

[17] Per l’elenco delle correnti attuali si veda in Appendice.

[18] Merita ricordali, uno per uno, questi segretari: Veltroni (primarie), Franceschini, Bersani (primarie), Epifani, Renzi I (primarie), Orfini, Renzi II (primarie), Martina, Zingaretti (primarie). Letta è il decimo. Dieci segretari in 14 anni! Volendo comprendere se per caso gli elettori del PD non abbiano gettato al vento qualche strepitosa opportunità, possiamo esaminare anche chi erano i contendenti per ciascuna elezione primaria. Nel 2007 i contendenti erano Veltroni, Bindi e Letta. Nel 2009 i contendenti erano Bersani, Franceschini e Marino. Nel 2013 i contendenti erano Renzi, Cuperlo e Civati. Nel 2017 i concorrenti erano Renzi, Orlando ed Emiliano. Nel 2019 i concorrenti erano Zingaretti, Martina e Giachetti. Ognuno può giudicare la qualità delle leadership alternative, maturate all’interno del PD, che sarebbero state disponibili.

[19] Questo fatto mostra con chiarezza che, nei termini della democrazia interna ai partiti, non esistono scorciatoie: il partito delle primarie ha fallito quanto il partito della rete.

[20] Ciò non vuol dire che il problema non esista: su 15 candidati alle primarie nel corso del tempo c’è stata una sola donna, Rosy Bindi.

[21] Gli attuali parlamentari del PD furono messi in lista proprio da Renzi nell’ultimo periodo della sua segreteria. Si ricorderà anche la scissione di Articolo Uno, avvenuta principalmente per il fatto che, altrimenti, nessuno di loro sarebbe stato messo in lista.

[22] È questo il dato più recente che ho trovato.

[23] Cfr. il mio recente saggio sul declino della politica a livello locale, pubblicato sul mio blog. Cfr. Finestre rotte: Alessandria 1993. Il declino della politica. Parte II

[24] Si faccia il confronto con le correnti del 2013 che abbiamo citato nel corpo del saggio. Confrontando le correnti del 2013 con quelle del 2021 val la pena di notare la sparizione dell’ecologismo, la forte riduzione delle componenti socialdemocratiche e la crescita delle componenti che si auto definiscono liberali.

[25] I documenti programmatici dei vari candidati alle primarie, documenti che sono stati scritti probabilmente solo perché sono d’obbligo, sono patetici, per il linguaggio sciatto con cui sono scritti, per la genericità e l’incompetenza che dimostrano.

[26] Non solo del PD. La storia della sinistra è costellata di scissioni.

[27] La fonte è sempre Wikipedia.




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