mercoledì 20 dicembre 2017

Rosatellum for Dummies

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1. La nuova legge elettorale (il cosiddetto Rosatellum, approvato in via definitiva il 24 ottobre 2017) contiene diversi aspetti inconsueti e alquanto poco intuitivi che tuttavia è bene conoscere, allo scopo di comprendere quel che ci possiamo attendere dalle prossime consultazioni elettorali. Si tratta, insomma, di capire cosa potrebbe succedere nel sistema politico italiano per effetto della nuova legge elettorale, poiché, com’è noto, le leggi elettorali sono elementi davvero centrali nella strutturazione e nella manutenzione dei sistemi politici. In quel che segue, si cercherà di esporre in forma critica e nella maniera più chiara possibile le caratteristiche di fondo del nuovo sistema elettorale. Si cercherà altresì di produrne una valutazione complessiva e di formulare qualche previsione sul suo funzionamento. Premetto che non sono un esperto della materia. Le mie conoscenze sono quelle che ci si può attendere da un cittadino appena decentemente informato e le mie valutazioni saranno basate sul comune spirito critico che dovrebbe essere patrimonio di tutti e non solo degli specialisti.

2. Considerato in termini generali, il Rosatellum è un sistema elettorale misto[1] che può essere concepito essenzialmente come un proporzionale corretto con una piccola quota di maggioritario.[2] Si tratta dunque di un sistema dove a competere sono per lo più le liste (dei partiti e dei gruppi politici organizzati[3]) e non i candidati in qualità di singoli individui. Il Rosatellum prevede, infatti, che il 61% dei seggi sia distribuito tra le liste con un criterio proporzionale ai voti ottenuti. Le liste sono bloccate in ordine rigoroso di graduatoria e sono decise dalle forze politiche.[4] Solo il 37% dei seggi è distribuito con un sistema maggioritario uninominale, dove a competere, per l’unico seggio in palio in ciascun collegio, sono i singoli candidati. Tuttavia, come si vedrà, questi candidati uninominali sono indissolubilmente collegati alle liste, ricevono il voto dalle liste e trasferiscono automaticamente il loro voto alle liste stesse. Per completezza d’informazione, diremo che il restante 2% dei seggi è destinato al voto degli italiani all’estero, definito con un meccanismo particolare.

3. La nuova legge elettorale si applica – è forse il caso di sottolinearlo - all’attuale sistema bicamerale che è stato salvato e rimesso in vigore dalle note vicende relative al Referendum del 4 dicembre 2016. In proposito, va aggiunto che il Rosatellum si è reso necessario (questa è forse la sua unica e sostanziale giustificazione) per omogeneizzare le regole elettorali tra i due rami del Parlamento, le quali erano state rese disomogenee dal fatto che l’italicum era stato previsto solo per la Camera e, poi, dalla sforbiciatura operata dalla Corte costituzionale. Almeno in quest’opera di omogeneizzazione, l’intento pare riuscito. Per molti aspetti il nuovo sistema elettorale, in effetti, è analogo sia per la Camera sia per il Senato. La differenza di maggior rilievo è quella tradizionale per cui la distribuzione dei seggi per la Camera avviene a livello nazionale, mentre per il Senato avviene su base regionale. Va detto che, in ogni caso, il nuovo sistema, per quanto reso relativamente omogeneo, non è in grado di scongiurare una situazione di maggioranze diverse alla Camera e al Senato, dovute magari a differenze di pochi seggi. Si tratta anzi di un’eventualità molto probabile, visto l’accentuato tripolarismo del nostro attuale spazio politico.

4. L’aspetto politico più rilevante della nuova legge, elemento questo spesso trascurato dai commentatori, è il fatto che non è previsto alcun premio di maggioranza o di governabilità alla lista o alla coalizione che abbia ottenuto il maggior numero di voti. Non è neppure previsto un doppio turno che consenta lo spareggio tra i primi classificati.[5] Questo vuol dire che ciascuna lista tiene esattamente i voti/ seggi che ha preso nel corso del processo elettorale (da sola o in coalizione con altre). Lo scopo fondamentale del processo elettorale, come previsto dalla nuova legge, sarebbe dunque quello di “rappresentare” in maniera relativamente fedele gli schieramenti di partito presenti nell’elettorato.[6] «Poi si vedrà», come ha asserito Bersani.
Insomma, invece di assicurare a priori la governabilità attraverso un qualche meccanismo di premio o di doppio turno (per riuscire finalmente a “sapere il giorno dopo le elezioni chi ha vinto e chi governa per un’intera legislatura”) il Rosatellum rimanda a dopo le elezioni ogni decisione circa la formazione del governo (tranne il raro caso in cui una singola lista riesca a guadagnare più del 50% dei seggi, sia alla Camera sia al Senato). Un certo fondamentalismo rappresentazionale sembra abbia dunque definitivamente vinto sull’esigenza di dare un governo stabile al Paese.[7]
Questa scelta di fondo, si noti bene, è avvenuta nella attuale situazione dell’arena politica che è  praticamente tripolare, una situazione per di più in cui un importante partito, il M5S, non è disposto a fare alcuna alleanza di governo con chicchessia. Ciò non potrà che conferire ai partiti (quelli grandi e soprattutto quelli piccoli) la facoltà ultima di decidere la composizione del governo. Insomma, i partiti sono al centro del nuovo sistema elettorale e saranno soprattutto al centro nel momento della composizione del governo. Se questo è l’approdo dell’antipolitica degli ultimi anni, se questo è il risultato finale delle varie proposte di riforma istituzionale che si sono succedute, c’è veramente da allibire. Tutto questo – lo ribadiamo - significa una cosa sola: i partiti sono tornati.[8]

5. La nuova legge elettorale ammette le coalizioni ma queste servono soltanto per il computo dei voti e la distribuzione dei seggi durante il processo elettorale e non hanno alcun effetto diretto sulla formazione del governo. Una coalizione tra liste che sia costituita secondo il Rosatellum vale ai soli fini elettorali e, di fatto, è sciolta il giorno dopo le elezioni, salvo la volontà delle liste coalizzate di proseguire la loro collaborazione in altri modi. L’unica traccia materiale della coalizione avvenuta saranno quei parlamentari eletti col maggioritario che dovranno il loro seggio al concorso dei voti di diverse liste, alle quali dovranno in qualche modo fedeltà. In caso di rottura politica tra le liste che li hanno sostenuti, fatto non impossibile, anzi piuttosto probabile, molti di costoro dovranno scegliere a chi obbedire. Ciò perché, nonostante l’apparenza, i veri protagonisti sono i singoli partiti (con le loro liste) e non le coalizioni.
La filosofia di fondo accolta dal legislatore è dunque la solita di tutti i sistemi proporzionali: prima si costruisce la rappresentanza in parlamento (alla quale si attribuisce una finzione di oggettività) e poi si vede se e come è possibile formare un governo. Con ciò avremo sempre governi deboli, sottoposti continuamente ai ricatti di gruppi e gruppetti, e di breve durata. Il tutto sacrificato in nome del mito della rappresentazione oggettiva dell’elettorato. I sostenitori del proporzionale spinto sono stati dunque ampiamente accontentati.[9] Costoro però sembrano non essersene accorti, perché i mugugni contro il Rosatellum vengono anche e soprattutto da parte dei proporzionalisti delusi. Delusi da cosa? Questo è il sistema che i proporzionalisti hanno sempre sognato! Certuni non si accorgono neppure d’aver vinto, quando hanno vinto.

6. Se così stanno le cose, perché nel dibattito politico di queste settimane si parla tanto di coalizioni, prefigurando addirittura delle coalizioni di governo e dei premier di coalizione? In verità, il fatto che in questi giorni si parli di programmi della coalizione e di premier (cose di cui si sta ampiamente discutendo ad es. nel Centro Destra) non c’entra nulla col Rosatellum. Il Rosatellum in realtà non prevede affatto programmi di coalizione e leader di coalizione. Si tratta evidentemente di espedienti puramente propagandistici e spettacolari, allo scopo di presentarsi apparentemente uniti di fronte agli elettori. Sintomatico di questa volatilità delle coalizioni realizzate col Rosatellum è il fatto che qualche tempo fa qualcuno ha proposto di andare dal notaio per siglare un patto di coalizione (come fosse contratto privato!). Nel Centro Destra, Salvini ripete sempre, un giorno sì e uno no, che il premier della coalizione candidato al governo sarà il capo della lista che ha ricevuto maggiori voti (cioè il premier si decide dopo). Queste pratiche retoriche e queste acrobazie verbali tradiscono tuttavia una certa nostalgia per i premi di coalizione e per un leader della coalizione che sia anche premier in pectore. Signori miei, non è più così. Il premio di coalizione e il candidato premier erano previsti dalle leggi elettorali che voi stessi avete rifiutato e affondato. Forse avete perso qualche puntata.
Si noti che la nuova formazione denominata Liberi e Uguali, nata esclusivamente per partecipare alle elezioni (anche se taluni speranzosi vorrebbero si trasformasse in un partito politico vero e proprio) non è affatto una coalizione bensì una lista singola (cioè, essa figura giuridicamente, ai sensi del Rosatellum, non come un partito bensì come un gruppo politico organizzato).[10] I tre partiti che hanno dato vita alla lista infatti non compariranno in coalizione. Sulla scheda elettorale i simboli di MDP, di Possibile e di SI non ci saranno. Ci sarà solo il simbolo di LeU e il nome di Grasso in quanto leader. Siamo dunque di fronte a una lista di un singolo movimento politico organizzato, che s’identifica con un leader (tanto da avere il suo nome stampato sul simbolo) e che dovrebbe presentare un suo specifico programma politico. Dietro alla lista ci sono tre micro partiti politici che non si presenteranno alle elezioni, che sosterranno la lista ma che manterranno pienamente la loro autonomia organizzativa. La ragione fondamentale di questa scelta sta nel fatto che il Rosatellum per le coalizioni prevede uno sbarramento al 10%, mentre lo sbarramento per le liste è al 3%. Evidentemente i partiti promotori non si sono sentiti di rischiare la soglia del 10%.

7. Quali sono allora i veri vantaggi in termini elettorali delle coalizioni secondo il Rosatellum? Ci sono due tipi di vantaggi:
a) Le coalizioni tra liste possono sperare di vincere più facilmente nei collegi uninominali. Infatti il candidato uninominale deve essere associato alla coalizione e dunque questi può sperare di ottenere un voto in più degli altri per avere il seggio che è messo in palio. Insomma, in una coalizione, le diverse liste si mettono d’accordo sul nome di un candidato nel collegio maggioritario e si impegnano a votarlo e farlo votare. Così hanno più probabilità di farlo vincere.
b) Le coalizioni tra liste, nella parte proporzionale, possono accedere al riparto dei seggi in quanto coalizioni e quindi possono godere di qualche vantaggio aritmetico. In particolare poi le coalizioni hanno dei vantaggi per quel che concerne le soglie. Possono incamerare anche i voti delle piccole formazioni coalizzate che non abbiano superato la soglia del 3% (purché abbiano conseguito almeno l’1%). In sostanza le coalizioni consentono di abbassare lo sbarramento per le singole liste dal 3% all’1%. Ciò può dare qualche spazio più agevole alle piccole formazioni, allargando il voto utile. Ad esempio, se una lista Bonino fosse coalizzata col PD, un elettore radicale potrebbe tranquillamente votare la lista Bonino, certo che il suo voto andrebbe a beneficio della coalizione e non andrebbe disperso (la soglia minima in tal caso sarebbe quella di avere l’1% a livello nazionale).

8. Un altro aspetto politicamente rilevante da considerare, nel valutare le conseguenze del Rosatellum, è la questione della frammentazione politica. Tutti, a parole, ammettono che la frammentazione politica sia un male, ma poi nessuno vuole davvero evitarla. Le soglie di sbarramento costituiscono uno dei classici metodi per impedire la frammentazione politica. Nel Rosatellum ci sono davvero tante soglie, assai contorte, che però, complessivamente, hanno scarsi effetti di contenimento della frammentazione. Molto rumore per nulla.
La svolta proporzionalista implica che le soglie siano piuttosto basse e che, quindi, anche partiti molto piccoli possano avere qualche seggio. Quest’opportunità è accresciuta dalla permanenza del bicameralismo e dal numero davvero alto di parlamentari. Insomma, c’è posto per tutti. Tutte le sacrosante sensibilità politiche saranno accuratamente rappresentate in modo veramente democratico. E, soprattutto, tutti potranno poi entrare – a elezioni avvenute - nel mercato per la formazione del governo, chiedendo ovviamente in cambio qualcosa.
  Il meccanismo delle soglie previste dal Rosatellum è piuttosto intricato (e per questo non ci inoltreremo in tutti i dettagli). Ridotta la questione all’osso, ci sono due soglie che possono avere effetti sensibili di ordine generale: a) la soglia del 3% per le liste (cioè partiti e gruppi politici organizzati) e la soglia del 10% per le coalizioni. Diciamo subito che si tratta di soglie che, lungi dall’esser rigide, possono essere aggirate facilmente.
A) La soglia più autentica è quella del 3% per le liste. In generale un partito o gruppo politico organizzato che abbia presentato una lista concorre alla spartizione dei seggi solo se ha superato la soglia del 3%. La soglia è tuttavia in un certo senso aggirabile. Come abbiamo già anticipato, se la lista che non ha superato la soglia del 3% sta in una coalizione, i suoi voti al di sopra dell’1% non sono completamente gettati ma sono ereditati dalla coalizione stessa e concorrono alla distribuzione dei seggi. Solo i voti sotto all’1% sono effettivamente persi. Quindi, in questo caso, le coalizioni possono essere in grado di rastrellare e utilizzare i voti di formazioni che altrimenti non arriverebbero al 3%.
B) Vediamo ora il limite per le coalizioni. Le coalizioni tra liste devono raggiungere come minimo il 10% dei voti a livello nazionale (sia alla camera che al senato). Qualora però ciò non accada, le conseguenze non sono molto gravi: i seggi sarebbero attribuiti alle singole liste come se fossero non coalizzate (in questo caso, le singole liste incorrerebbero però nello sbarramento del 3%).
Da tutto ciò si comprende come il contrasto alla frammentazione politica previsto dal Rosatellum sia davvero debole. C’è il modo per dare la speranza di un posto quasi a tutti. Come dire, quasi tutti potranno avere nei fatti una specie di diritto di tribuna. Maggiore è la frammentazione politica, ovviamente più difficile sarà, dopo le elezioni, costruire delle alleanze di governo per arrivare ad avere la maggioranza sia alla Camera sia al Senato. In questo processo, le piccole formazioni potranno essere anche determinanti (soprattutto se ci saranno maggioranze diverse alla Camera e al Senato) e potranno imporre le loro richieste e i loro veti.

9. Possiamo passare ora a questioni leggermente più concrete. Tanto per capire il funzionamento del meccanismo, vale la pena di riportare qualche informazione sulle ripartizioni territoriali previste nel processo elettorale. La legge determina il numero delle circoscrizioni che sono lievemente diverse per la Camera e il Senato. Per il Senato, le circoscrizioni sono 20, coincidenti senza eccezioni con il territorio delle Regioni. Per la Camera dei deputati, le circoscrizioni sono 28. Esse coincidono prevalentemente con il territorio delle Regioni. Tuttavia per alcune Regioni più popolose si hanno più circoscrizioni: 4 per la Lombardia; 2 per il Piemonte, per il Veneto, per il Lazio, per la Campania, per la Sicilia. Ciascuna circoscrizione è poi suddivisa in collegi uninominali (maggioritari) e in collegi plurinominali (proporzionali). Di norma i collegi uninominali sono più piccoli e i collegi plurinominali sono costituiti dall’aggregazione di un certo numero di collegi uninominali contigui. Da tutto ciò deriva che la suddivisione territoriale del voto è diversa per la Camera e il Senato, anche se possono esserci delle sostanziose sovrapposizioni. Si ricordi anche che i seggi per la Camera sono assegnati su base nazionale, mentre al Senato sono assegnati su base regionale.
Vediamo in pratica come funziona. Un elettore alessandrino, mettendo una crocetta sulla scheda elettorale della Camera e una su quella del Senato:

- contribuirà a eleggere 1 deputato in collegio uninominale (collegio di Alessandria – senza però Acqui e Casale!)
- contribuirà a eleggere 8 deputati in collegio plurinominale, su lista breve bloccata (collegio di Alessandria, Asti, Cuneo e Alba)
- contribuirà a eleggere 1 senatore in collegio uninominale (collegio di Alessandria, Asti e Acqui – ma non Casale!)
- contribuirà a eleggere 7 senatori in collegio plurinominale, su lista breve bloccata (collegio di Vercelli, Novara, Cuneo, Alessandria/Asti)

 Cioè, le due crocette del nostro elettore, come si può ben vedere, andranno a spalmarsi su quattro entità territoriali davvero molto diverse per dimensione, popolazione e un’infinità di altre caratteristiche. Per lo meno, in caso di bisogno, gli elettori alessandrini avranno un sacco di Santi in paradiso cui rivolgersi! Si tenga conto comunque che, mentre si può presumere (anche se niente lo obbliga) che i candidati nei collegi uninominali appartengano al territorio locale, i candidati nei collegi plurinominali non è detto che provengano dal territorio, possono anzi essere paracadutati nelle liste da ovunque, per scelta dei partiti e dei gruppi politici organizzati.

10. Un’importante caratteristica dei sistemi elettorali concerne le modalità di selezione dei candidati. In teoria, le candidature dovrebbero nascere dal territorio ove risiedono gli elettori, cioè i candidati dovrebbero essere legati in qualche modo alla zona cui si raccolgono i voti. Vediamo come il Rosatellum realizza questo principio. Anzitutto, come si è detto, nel Rosatellum le zone di riferimento dei diversi collegi sono ben quattro e molto diverse tra loro per dimensione e popolazione. Perciò la condizione della territorialità dei candidati sarà soddisfatta molto confusamente. Inoltre, secondo un certo senso comune diffuso, i candidati territoriali dovrebbero essere scelti sul territorio. In realtà accade spesso che i candidati siano paracadutati da altrove, solo per il fatto che si ritiene che un certo collegio o una certa lista siano sicuri. Ebbene, nel Rosatellum non è posto alcun limite a questo fenomeno. Un politico di Reggio Calabria può tranquillamente essere presentato a Bergamo. Le liste sono sovrane nella dislocazione dei candidati. Infine, una buona norma sarebbe quella che dice «una testa una candidatura», cioè un singolo si candida una sola volta in un solo posto. Se non ti vogliono quelli del collegio A, perché mai dovrebbero volerti quelli del collegio B, C, D o E? Invece nel Rosatellum accade tutt’altro. Sono previsti dei vincoli sul numero delle candidature individuali, tuttavia si tratta di vincoli abbastanza deboli. Un singolo candidato può presentarsi in un solo collegio uninominale e tuttavia può presentarsi anche in cinque diverse liste plurinominali. In caso di vittoria in diversi ambiti non potrà però scegliere e per lui è previsto un meccanismo di attribuzione prefissata del seggio.
Il Rosatellum di fatto dà facoltà ai partiti e ai gruppi politici organizzati di decidere le candidature singole nei collegi maggioritari e le candidature multiple nei collegi proporzionali. Saranno i partiti e i gruppi politici organizzati a decidere di permettere a un candidato – ritenuto prezioso – di presentarsi in molte diverse liste plurinominali, aumentando così le sue probabilità di vittoria. Insomma, se si vuol far vincere qualcuno a tutti i costi, la strada è comunque aperta. Ci saranno dunque candidati di serie A, presentati in più liste, con enormi probabilità di uscire da una parte o dall’altra, e candidati di serie B, poveretti loro, presentati in una sola lista (magari neanche in prima posizione).

11. Un altro vincolo sulle candidature che va per la maggiore è quello di genere. Non entriamo qui nella questione complessa circa l’opportunità o meno di introdurre vincoli di genere alle candidature. Ci basta costatare che il politically correct di genere è stato ampiamente accolto nel Rosatellum. Sono previsti, infatti, dei vincoli di genere piuttosto tassativi: gli esponenti di ciascuna lista (da due a quattro) devono seguire la regola dell’alternanza di genere. In più, nel complesso dei collegi uninominali e nelle posizioni di capolista nei collegi plurinominali, i candidati di ciascun genere devono essere compresi tra il 40% e il 60% del totale. Il calcolo è effettuato a livello nazionale per la Camera e a livello regionale per il Senato.
Sul politically correct di genere di solito nessuno si lamenta, poiché non si vuol fare brutta figura, soprattutto con l’elettorato femminile. Questo meccanismo costituirà tuttavia una limitazione oggettiva alla formazione delle liste poiché, oltre alla bontà in sé della candidatura, i partiti dovranno considerare anche il genere del candidato. Candidati buoni ma di genere sbagliato potrebbero non essere messi in lista, come potrebbero essere messi in lista candidati meno buoni però di genere giusto. Poiché solitamente in politica nel nostro Paese c’è un’eccedenza di uomini rispetto alle donne, in molte situazioni ci sarà la rincorsa a cercare il candidato donna - diciamolo pure chiaro - anche col rischio di designare un candidato di minore qualità o puramente di facciata. L’obiezione secondo la quale ci sarebbe abbondanza di buone candidature in entrambi i generi è ridicola e consolatoria. La classe politica italiana è pessima in generale (si vedano i sondaggi sulla fiducia degli italiani nei politici) e non si può dire che le pratiche di eguaglianza di genere finora messe in pratica abbiano prodotto una sensibile inversione di tendenza. Quando nei sondaggi gli italiani criticano la politica pare proprio non avvertano alcuna differenza tra la politica al maschile e quella al femminile.

12. Nonostante – come s’è ampiamente visto – i grandi protagonisti della competizione elettorale siano i partiti e i gruppi politici organizzati, la nuova legge dà un certo spazio ai nominativi dei candidati. Ciò introduce la questione alquanto interessante del ruolo della personalizzazione nel Rosatellum. La principale fonte di personalizzazione è legata al fatto che il collegio maggioritario uninominale non può che essere riferito a una persona ben precisa (che dovrebbe essere ben conosciuta dal pubblico, poiché il collegio è di piccole dimensioni). La seconda è dovuta al fatto che i collegi maggioritari plurinominali sono caratterizzati dalle liste corte (da due a quattro nominativi che devono essere stampati sulla scheda. Si badi bene che le liste corte non sono una saggia e originale iniziativa dei legislatori ma sono state rese pressoché obbligatorie da una sentenza della Corte.
La legge dunque, pur assegnando la regia fondamentale del processo elettorale ai partiti e ai gruppi politici, almeno nella confezione della scheda elettorale sembra voler evidenziare i nomi dei candidati,attraverso i collegi uninominali e le liste corte, invitando così l’elettore a riflettere non solo sui simboli dei partiti e dei gruppi ma anche sulle caratteristiche personali dei candidati.  La scheda, in effetti, mostra implacabilmente all’elettore: a) quali simboli di lista stanno dietro, o accanto, ai nomi; b) quali nomi stanno dietro ai simboli partitici. È indubbiamente una giusta complementare informazione.
Questo è senz’altro un interessante elemento di novità che potrebbe però anche creare esiti imprevisti. Siamo nell’epoca dell’antipolitica e i simboli dei partiti possono suscitare forti attrazioni ma anche forti repulsioni. Ma siamo anche nell’epoca della personalizzazione e della politica del rancore[11] per cui la presenza esplicita dei nomi in un collegio uninominale o in una lista può condurre a effetti inaspettati. Può indurre un guadagno di consensi se il nome è prestigioso e universalmente apprezzato, ma può anche indurre a una perdita secca di consensi se il nome è controverso (chi non ha mai sentito dire: “Io quello/a non lo/a voto manco morto!”). Siccome nell’epoca della politica del rancore è più facile odiare che amare, è possibilissimo che questo fatto banale produca delle sorprese in termini di risultati (questo perché i meccanismi del rancore, come del resto quelli del cuore, possono essere i più vari e i più misteriosi).
Resta sullo sfondo di tutto ciò una domanda: che fine ha fatto la retorica delle primarie? È pur vero che per la scelta dei candidati potrebbero essere usate le primarie, anche se queste si addicono soprattutto nell’ambito del maggioritario. Pare però che le primarie siano sempre meno di moda. Nell’ambito del Rosatellum ci sarebbero poi dei limiti tecnici: è difficile immaginare l’uso delle “primarie di coalizione” poiché i singoli partiti e le coalizioni vorranno mettere in atto liberamente tutte le loro alchimie distributive dei candidati. E poi le coalizioni non hanno necessariamente nemmeno un leader, perché servono – come si è visto – a ben poco.
Quella delle primarie è un’altra delle riforme fondamentali mai fatte: sarebbe ora di fare una legge sulle primarie che renda le primarie vere e proprie istituzioni e non semplicemente espedienti propagandistici di legittimazione che si possono usare o meno quando fa comodo, come succede oggi in Italia. Ma le primarie sono legate a qualche forma di maggioritario effettivo e non solo di facciata. E poi, per una simile legge, occorrerebbe anche una riforma dei partiti; anche questa è una riforma fondamentale mai fatta e che è ben lontano anche solo dal prospettarsi.[12]

13. Nel Rosatellum dunque, il ruolo oggettivamente preponderante delle liste è in conflitto con la personalizzazione, cioè con la puntuale esibizione dei nominativi dei candidati. Ciò si vede in particolare nella configurazione della scheda elettorale, prevista nei minimi dettagli, che senz’altro avrà un suo peso nel determinare l’effetto finale sull’elettore dell’intero sistema.
In evidenza, in testa a ogni blocchetto di lista o di coalizione, è riportato, a caratteri cubitali, il nome del candidato per il collegio maggioritario. Questo sarà indubbiamente un nome conosciuto dall’elettore, poiché i collegi del maggioritario sono più piccoli di quelli del proporzionali. Sotto, ci sono i simboli dei partiti o gruppi che lo sostengono e cui andrà la parte proporzionale del voto (quella che distribuirà più del 60% dei seggi, cioè la gran parte della posta in palio!). Come a dire che il nome cubitale è lo specchietto per attirare le allodole verso le liste che sono il vero bottino.
Pur tuttavia accanto ai simboli ci sono anche, in rigoroso ordine di valore e di alternanza di genere, i nomi dei candidati delle liste dei singoli partiti o gruppi. Qui potranno esserci anche degli sconosciuti (poiché il collegio proporzionale è decisamente più grande del collegio maggioritario e poi perché ci saranno gli stranieri paracadutati presentati in più collegi). Sulla base dell’effetto complessivo (il mix persona - partito) l’elettore farà la sua scelta. Tutto ciò dunque – dal punto di vista dell’elettore – può andare liscio se l’elettore incontrerà perfetta congruenza politica tra i simboli di lista e i nomi stampati sulla scheda. Qualora l’elettore riscontri incongruenze (ad es. uno o più nomi detestati, oppure un nome prediletto finito in una lista detestata, oppure un nome che “viene da fuori”) potrebbe essere indotto a comportamenti di accettazione o rifiuto strani e imprevedibili. Insomma anche il format della scheda può amplificare le attrazioni e/o le repulsioni, rendendo difficile prevedere l’esito della consultazione.

14. L’elettore ha a disposizione poche e semplici strategie per votare. A) L’unica strategia che permetterà all’elettore di massimizzare le sue (già scarse) opzioni di scelta è quella di crocettare una lista (cioè la patacca di un partito o di un gruppo politico organizzato). Così facendo, il voto andrà automaticamente al candidato uninominale della coalizione, ma ciò contribuirà anche a incrementare la proporzione di voti distribuiti a quella specifica lista rispetto alle altre liste della coalizione. Insomma, in un certo senso, votando la lista si può contemporaneamente mandare avanti il nominativo uninominale preferito e decidere di mandare avanti quella lista rispetto alle altre della coalizione. B) L’elettore particolarmente sensibile alla personalizzazione del voto tuttavia può scegliere di apporre soltanto la croce sul nome del candidato uninominale maggioritario. In tal caso l’elettore rinuncia a decidere quale lista della coalizione preferisce ma il suo voto sarà comunque ereditato dalle liste della coalizione. In tal caso, attenti bene, il suo voto sarà distribuito tra le liste coalizzate in proporzione ai voti che queste hanno esplicitamente ricevuto nel collegio. C) Nel caso in cui la lista prescelta non sia in coalizione, sarà ovviamente indifferente votare per il candidato maggioritario o per la sua lista: la scelta per l’uno scivolerà implacabilmente sull’altra e viceversa. Segno che il maggioritario è più che altro illusorio.
Si sentono spesso mugugni per il fatto che non è stato previsto il voto disgiunto (come avviene per l’elezione dei sindaci). Molti vorrebbero scegliere una lista e, poi, beati loro, scegliere il nome del candidato maggioritario di un’altra lista o coalizione. Il fatto è che la filosofia della legge elettorale è nettamente proporzionale e, quindi, non avrebbe senso scegliere prima una lista e poi – scegliendo il nome nel collegio uninominale – scegliere ancora un’altra lista per collegamento. O scegli una lista o ne scegli un’altra, non puoi fare due scelte che si contraddicono. Bisognava allora separare nettamente i collegi uninominali dalle liste plurinominali. Ma questa sarebbe stata un’altra legge elettorale e probabilmente non sarebbe stata mai approvata. Dietro a questa ingenua richiesta di voto disgiunto sta tuttavia una sorta di nostalgia per il maggioritario, ma come s’è detto, il maggioritario è stato ammazzato dal Referendum del 4 dicembre 2016. Non puoi ammazzare il maggioritario e poi rivendicare i benefici del maggioritario!

15. Questi che abbiamo fin qui presentati ci sono parsi gli elementi essenziali che caratterizzano il nuovo Rosatellum e quindi i punti da tener presenti nel formularne una valutazione critica complessiva. Naturalmente sono anche i punti da tenere presenti per esercitare il proprio diritto di voto con consapevolezza. Secondo noi, in estrema sintesi, anche se le nostre valutazioni sono già state spesso anticipate producendo le diverse analisi dei singoli aspetti, il Rosatellum si caratterizza per questi elementi di fondo:
A) Il nuovo sistema elettorale è un sistema strettamente proporzionale con qualche mascheratura superficiale da maggioritario che tuttavia non ne intacca la natura di fondo. Si è visto ampiamente, nell’analisi che abbiamo fin qui condotto, che la componente proporzionale emerge costantemente dietro a tutti i dettagli. La componente maggioritaria dunque funziona più che altro come uno specchietto per le allodole.
B) La frammentazione politica, uno dei mali estremi del sistema politico italiano, è scarsamente mitigata anzi, se possibile è accentuata dalle numerose ma confuse soglie di sbarramento. Il chiacchiericcio intorno alle coalizioni è solo aria fritta, poiché le coalizioni secondo il Rosatellum non hanno alcun rilievo nel momento della formazione del governo. Chiunque potrà coalizzarsi e avere qualche seggio, per poi riprendere subito la propria libertà e decidere da che parte stare al momento della formazione del governo. Nessun limite è stato posto alle fratture e alle moltiplicazioni dei gruppi parlamentari che decidano di dar vita a nuove micro formazioni politiche. Non è previsto nessun provvedimento contro i cambi di casacca. Basterebbe una legge di due righe che dichiari che chi cambia la casacca con la quale è stato eletto decade obbligatoriamente e subentra il successivo (tanto più che gli elettori sono costretti a scegliere le liste dei partiti più che le persone).
C) Le liste (cioè “i partiti e le forze politiche organizzate”) hanno un ruolo preponderante in tutti i passaggi del processo elettorale, nella scelta delle candidature e delle coalizioni e nel computo per la distribuzione dei seggi. Ciò significa in Italia – lo ribadiamo ancora - una sola cosa: il ritorno dei partiti.  Alla faccia dell’antipolitica e della lotta contro la partitocrazia. Alla faccia soprattutto di tutti coloro che, per anni, si sono lamentati per i governi che non erano votati dagli italiani. A parte il fatto che in Italia c’è un regime parlamentare e i governi non possono essere “votati” dagli italiani, d’ora in avanti, e per un bel po’, i governi in Italia saranno fabbricati, tenuti in vita e fatti decadere dalle segreterie dei partiti, dai loro leader o, peggio, da gruppetti di parlamentari scissionisti. E questi partiti sono, si badi bene, senza alcun vincolo legale, perché una legge sui partiti secondo l’art. 49 della Costituzione proprio non la vogliamo fare. E, come conseguenza di tutto ciò, il Parlamento, inteso come il luogo della formazione della volontà politica, conterà sempre meno – a dispetto di ben due Camere e di uno spropositato numero di parlamentari. Si noti, tra parentesi, per tutti quelli che se ne sono scordati, che è proprio il Parlamento l’organo istituzionale direttamente votato dagli italiani.
D) Per conseguenza dei punti precedenti, il principio della personalizzazione (attraverso le liste brevi nominative e la quota di seggi nominativi assegnati col maggioritario) che è stato sventolato come una conquista è stato implementato solo in termini superficiali e quindi funge solo da complemento (o al più da disturbo) al proporzionale. Scegliere un nominativo equivale a scegliere un simbolo e viceversa. Così non si parlerà più di primarie e chi cercherà di fare le acrobazie tra le liste per scegliere le persone migliori, non potrà che ricascare in mezzo alle liste e trovarsi a dare il suo supporto alle liste stesse, magari senza volerlo.
E) In ultimo, l’aspetto più catastrofico. Il nuovo sistema, per l’assenza di premi di governabilità e/o per l’assenza di un doppio turno, ignora totalmente la questione della stabilità e della governabilità e rinvia la formazione del governo alle contrattazioni post elettorali. Ciò produrrà il ritorno massiccio del regime dei governi di coalizione, con consistenti rendite di posizione per le piccole formazioni. Si noti che, poiché i cambiamenti di casacca continueranno a esser permessi, continueranno a nascere e morire movimenti e formazioni partitiche sviluppatisi da scissioni avvenute dentro o fuori il Parlamento. Con scopi che nulla hanno a che vedere con la funzione di rappresentare gli italiani.

16. In sintesi ancora più estrema, questa legge elettorale sembra un mesto tentativo – davvero fuori tempo – di ripristinare il sistema politico della Prima repubblica. Un incredibile déjà-vu. La risposta che la politica (stiamo parlando specificatamente della XVII legislatura) ha saputo dare ai problemi insoluti di riforma istituzionale del nostro Paese è, in pratica, un bel ritorno al passato. A quello che – almeno noi nati negli anni ’50 - abbiamo già visto, già sperimento, e a tutto quello che ha contribuito grandemente a ridurci in questo stato. Come tutto ciò possa contribuire a rafforzare la democrazia e la partecipazione dei cittadini è alquanto misterioso. A rovescio, è altrettanto misterioso come tutto ciò possa combattere il populismo dilagante e la cattiva politica.
In termini di conseguenze pratiche – come i sondaggi attuali stanno delineando – l’unica cosa che si può esattamente prevedere è il blocco del sistema politico. Il M5S non riuscirà a governare da solo, come vorrebbe.[13] Probabilmente non riuscirebbe a governare neanche con un eventuale apporto della Lega. Il Centro destra, a meno di un miracolo non riuscirà a governare da solo. Il PD non riuscirà a governare, né con l’apporto eventuale degli acerrimi nemici di LeU né con l’apporto di Forza Italia. È oltremodo evidente che, se si vuol proprio individuare un principio sotterraneo che abbia guidato le forze che hanno promosso e sostenuto il Rosatellum, questo principio non può che essere il seguente: «Piuttosto di far governare un altro, è meglio che non governi nessuno!». Insomma, col proporzionale in fin dei conti non vince nessuno così, in un certo senso, vincono tutti. Un tipico principio da Prima Repubblica o, se si vuole, da Repubblica dei Partiti. Ritorniamo dunque alla politica del rancore e alla teoria della sconfitta utile di cui si è già ampiamente parlato.[14]

17. Da dove origina tutto ciò? Storicamente, come abbiamo già avuto più volte modo di sottolineare, questa legge elettorale è la diretta conseguenza del Referendum del 4 dicembre 2016. Una sconfitta del SÌ per 40 a 60 che ha segnato la fine (per qualche decennio) di qualsiasi tentativo di riforma istituzionale, la fine del maggioritario, delle primarie, del premio di governabilità e del doppio turno. Dunque sono padri di fatto di questa legge, volontari o involontari,[15] tutti gli appartenenti a quell’ampio eterogeneo fronte che ha scelto di votare e far votare NO al referendum. Secondo Wikipedia, alla voce relativa al Referendum del 4 dicembre, questi sono stati i principali sostenitori del fronte del NO: «Partiti per il no: Conservatori e Riformisti, Forza Italia, Fratelli d'Italia, Lega Nord, Movimento 5 Stelle, Rifondazione Comunista, Sinistra Italiana - Sinistra Ecologia Libertà, Unione di Centro. Altre organizzazioni per il no: ANPI, ARCI, CGIL, Cobas, CUB-Confederazione Unitaria di Base, FIOM, Italianieuropei, Libertà e Giustizia, Magistratura democratica, Rete degli studenti medi, Unione degli universitari, UGL-Unione Generale del Lavoro, USB-Unione Sindacale di Base». L’elenco è sicuramente incompleto. Questi sono i veri padri del Rosatellum, non certo il PD (che aveva sostenuto il maggioritario a doppio turno) o il tanto vituperato Ettore Rosato.
Costoro si difenderanno certamente asserendo che, votando NO, intendevano raggiungere ben altri validi obiettivi e non intendevano avallare un sistema elettorale proporzionale da Prima Repubblica. Certo, magari non intendevano, ma questo è stato oggettivamente il risultato. Spesso gli sbadati producono dei disastri che non intendevano.  In sociologia si chiamano effetti perversi, mentre in psicologia si parla di effetto boomerang. Gioverebbe anche una piccola riflessione sulla differenza tra l’etica dell’intenzione e l’etica della responsabilità. Si è preferito difendere improbabili valori (su cui neanche si concordava – in un incredibile schieramento da Fratelli d’Italia a Rifondazione Comunista!) che cercare di essere, una volta tanto, responsabili.
Si badi bene che con ciò non si vuol sostenere che le riforme istituzionali di Renzi e Napolitano fossero esenti da difetti. Avevano anzi molti limiti, molti difetti, i quali certo hanno anche contribuito alla loro mancata approvazione.[16] Senz’altro però non avevano proprio nulla a che fare col proporzionale spinto e con le sue conseguenze che andremo a sperimentare nella consultazione elettorale del prossimo marzo e nei successivi tentativi che si faranno per formare un governo. Se le conseguenze saranno gravi e oltremodo dannose per il sistema politico italiano, e per tutti noi, come sembra si possa ragionevolmente prevedere, può darsi che la proposta di riforma Renzi – Napolitano, col senno di poi, possa cominciare ad apparire come il male minore, anche a chi l’ha avversata. Ormai però i giochi son fatti e non possiamo più rimettere il dentifricio nel tubetto.

Giuseppe Rinaldi
20/12/2017


NOTE

[1] I due sistemi che possono essere considerati in un certo senso “puri”, e dunque non misti, sono il sistema maggioritario e il sistema proporzionale.

[2] Per quanto possa essere dummy il mio lettore ideale destinatario, do qui per scontata la conoscenza del significato di proporzionale e maggioritario.

[3] Questa è la dizione ufficiale che si trova nello stesso testo legislativo.

[4] Sulle liste bloccate esiste una polemica lunga. Le liste furono bloccate perché si diceva che le preferenze fossero portatrici del voto mafioso e clientelare. Il controllo dei partiti sulle candidature avrebbe così impedito forme d’infiltrazione criminale. Tuttavia la degenerazione dei partiti in gruppi affaristici e le stesse infiltrazioni mafiose nei partiti hanno riproposto la opportunità di dare ai cittadini la possibilità di scegliere i candidati. La svolta proporzionale – derivata dal Referendum – non poteva però che portare con sé anche una ripresa di controllo dei partiti sulle liste. Questa trasformazione tuttavia è avvenuta senza alcuna riforma dei partiti e di ciò si vedranno le conseguenze. La questione tuttavia è moderata dal fatto che le liste sono brevi (2-4 nomi) e i nomi saranno stampati sulla scheda elettorale. I diversi partiti e gli elettori quindi non potranno avere troppe scuse se metteranno in lista e voteranno degli impresentabili.

[5] Il premio di coalizione era previsto dal Porcellum. Si noti che il PD, nonostante la cosiddetta non vittoria di Bersani del 2013, ha potuto godere di un premio di coalizione. Sennò la XVII legislatura sarebbe finita dopo poche settimane. L’Italicum prevedeva il doppio turno.

[6] Si ricordi che la rappresentazione non è mai perfetta. Qualche tipo di distorsione è comunque sempre presente in tutti i sistemi elettorali.

[7] Su questo punto vedi il mio articolo: I democratici con la patente (e quelli senza), del 1 agosto 2017, pubblicato sul mio blog Finestrerotte.

[8] L’unico modo per contenere la protervia partitocratica sarebbe stato quella di fare una legge di regolamentazione dei partiti. Legge che ovviamente tra tanto populismo e tanta antipolitica nessuno ha voluto fare.

[9] Vedi il mio articolo già citato I democratici con la patente (e quelli senza), del 1 agosto 2017 sul blog Finestrerotte.

[10] La legge definisce esattamente cosa significa partito e/o gruppo politico organizzato e quali siano i relativi adempimenti per partecipare al processo elettorale.

[11] Così il CENSIS nel suo ultimo rapporto ha definito la situazione attuale del nostro Paese.

[12] In molte occasioni pubbliche ho sostenuto l’opportunità prioritaria di fare – nel nostro Paese – una legge sui partiti, in ottemperanza dell’art. 49 della Costituzione, ma sono sempre stato ignorato dagli astanti, quando non sberleffato. Tutti in Italia dicono di odiare i partiti ma tutti rifiutano di fare l’unica cosa sensata per mettere al loro posto i partiti: una bella legge di regolamentazione dei partiti, come ad esempio quella tedesca.

[13] Molti affermano che il M5S sia il più danneggiato dal Rosatellum. Che addirittura sia stato studiato per questo scopo. Ma val proprio la pena di ricordare che “chi è causa del suo mal, pianga se stesso”. Con il sistema elettorale che sarebbe uscito se avesse vinto il SI’ al Referendum e quindi con un premio per la governabilità e doppio turno (insomma, un Italicum aggiustato – che avrebbe avuto comunque un premio di maggioranza) il M5S avrebbe avuto molte più probabilità di vincere e di riuscire a governare.

[14] Vedi il mio recente articolo: La teoria della sconfitta utile, del 3 dicembre 2017 sul blog Finestrerotte. L’articolo è stato pubblicato anche su Città Futura on-line.

[15] Com’è noto, nel mondo sociale, gli effetti delle scelte possono anche essere del tutto sconosciuti agli autori delle scelte stesse. Esiste un’ampia letteratura sugli effetti perversi del comportamento sociale che sarebbe il caso di meditare.

[16] La maggior parte di coloro che hanno votato NO al Referendum non erano certamente costernati per la cattiva qualità della legge di riforma e avevano in mente di raggiungere ben altri obiettivi. L’Italia purtroppo non è piena di Zagrebelsky. Per chi fosse eventualmente interessato, la mia analisi approfondita della proposta di riforma costituzionale si trova nell’articolo: Cronache marziane, del 30 novembre 2016 sul blog Finestrerotte.

 

domenica 3 dicembre 2017

La teoria della sconfitta utile

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1. Cominciano a uscire i sondaggi sulle intenzioni di voto che tengono conto della nuova legge elettorale (il cosiddetto rosatellum) e del nuovo disegno delle circoscrizioni. Il quadro è piuttosto preoccupante, almeno per coloro che hanno a cuore i destini del centro sinistra. Dai risultati di un recentissimo sondaggio Ixé (30/11/2017) - cito dall’Huffington Post – se si votasse oggi lo scenario risulterebbe questo: «Alla Camera la coalizione di centrodestra è prima con il 35,5% e 270 seggi, poi c'è il M5S con il 29,4% e 165 seggi seguito dalla coalizione di centrosinistra con il 28,6% e 162 seggi; infine la Sinistra con il 6,5% e 25 seggi. Al Senato stesse percentuali e seggi assegnati in questo modo: 135 al centrodestra, 85 al M5S, 81 seggi al Centrosinistra e infine 8 alla Sinistra».
Com’è evidente, se i risultati effettivi saranno vicini a questi - anche con un ampio margine di oscillazione – avremmo due conseguenze degne di nota: a) il PD si sta appressando ormai a diventare il terzo partito e b) non ci sarà in generale alcuna possibilità di formare una qualche maggioranza coerente e stabile. Il che consegnerà il Paese nuovamente ad altri cinque anni di coalizioni innaturali e stentate, governi deboli e instabilità. Certo, in tal caso si potrebbe anche andare subito a nuove elezioni per correggere il tiro, ma certamente - come accadde già nel 2013 – nessuno vorrà lasciare il certo per l’incerto e quindi tutti gli eletti resteranno avvinghiati agli scranni appena conquistati.

2. D’altro canto, che ormai i giochi siano fatti e che la sconfitta del centro sinistra sia inevitabile è un’impressione diffusa e persistente, sia presso i protagonisti che presso gli osservatori. È interessante il fatto che, nel dibattito di questi giorni, stia tornando in auge la questione del voto utile. Ne ha parlato Scalfari con preoccupazione. Ne ha parlato D’Alema, con una certa soddisfazione. Cosa comporta il voto utile? Qualora l’elettore di centro sinistra, con lucidità e realismo, dia ormai per spacciata la propria parte, questi potrebbe saggiamente cercare di usare il proprio voto per favorire la soluzione considerata come la meno peggio. Non è una mera ipotesi, è già successo platealmente in Sicilia. Il fatto è che non è neanche del tutto chiaro in cosa possa consistere il meno peggio. Così, una parte di loro potrebbe votare, turandosi il naso, per la destra berlusconiana (in funzione anti Salvini, sperando magari in un nuovo Patto del nazareno) e un’altra parte potrebbe rassegnarsi a votare per il M5S, considerando un governo Salvini/ Berlusconi  come l’estremo male. Tutto ciò – tra l’altro – non farebbe che aumentare i voti rispettivi della coalizione di destra e del M5S, ai danni del PD.  D’Alema – lo ha dichiarato esplicitamente – si aspetta dall’applicazione della strategia del voto utile una perdita di voti devastante per il PD.

3. Accade così che - come insegna autorevolmente D’Alema - accanto a quella del voto utile stia emergendo a sinistra una strategia davvero insolita, anche se già variamente sperimentata, che è quella della sconfitta utile. Si ricorderà che all’indomani della pesante sconfitta elettorale siciliana del centro sinistra, alcuni uomini della sinistra stricto sensu ebbero a dire che il risultato del 6% della coalizione di Fava rappresentava un successo. La sconfitta utile è dunque quella auspicata ai danni del PD dalla coalizione che si appresta a nascere tra MDP, SI e Possibile, pare con la leadership di Grasso. Non si sa ancora come si chiameranno, anche se qualcuno dice Liberi ed Eguali (nome che a noi ricorda la sfortunata impresa di Babeuf). La sconfitta utile per costoro è la sconfitta del PD e, segnatamente, quella di Matteo Renzi (il quale ha già ricevuto molte batoste, evidentemente considerate ancora non sufficienti). Di fronte a questo obiettivo primario, quel che potrebbe accadere al sistema politico italiano, al sistema Paese, a tutti noi, per costoro è decisamente secondario. «Ci penseremo dopo!» ha detto esplicitamente Bersani.

4. La teoria della sconfitta utile ha dei fondamenti scientifici e si basa sul fatto oggettivo che se non si è abbastanza forti per vincere, si può essere tuttavia abbastanza forti per far perdere qualcuno. Proprio in questi giorni il CENSIS ha affermato, nel suo ultimo rapporto, che l’elemento caratteriale tipico dell’Italia odierna pare essere diventato il rancore. Ce ne eravamo accorti. L’espressione del proprio rancore contro il proprio nemico giurato offre evidentemente una soddisfazione così grande da mettere in secondo piano, ad esempio, cinque anni di instabilità politica, cinque anni di un governo Salvini o cinque anni di un governo Di Maio. Il che significherebbe la vanificazione totale di quel minimo di ripresa economica cui stiamo oggi assistendo. Detto per inciso, noi alessandrini ne sappiamo qualcosa. La politica del rancore e la teoria della sconfitta utile è stata utilizzata ad Alessandria dal cosiddetto quarto polo, ed ha funzionato alla perfezione. I renziani del PD sono stati spazzati via ma ora in città governa il centro destra. I sacrifici degli alessandrini compiuti negli ultimi cinque anni saranno con ogni probabilità vanificati. Una sconfitta senz’altro utile dunque, ma a chi?

5. I sondaggi attribuiscono più o meno un 6% alla nascitura coalizione di sinistra stricto sensu. Se raggiungerà questo risultato, il compagno Grasso (o chi per lui) dichiarerà anch’egli di avere ottenuto un grande successo. Se poi dovesse raggiungere il 10% dichiarerà di avere conseguito una vittoria  epocale, dirà di avere invertito un trend involutivo della sinistra, di avere rimesso il lavoro al centro dell’agenda politica e di avere sconfitto il neocentrismo renziano. Applaudiranno compatti tutti i sostenitori orfani della coalizione sociale di Landini, la CGIL della Camusso e tutte quelle formazioni parapolitiche sedicenti di sinistra che al referendum hanno fatto votare contro Renzi.
Bene, perfetto. Secondo questa fulgida e lungimirante visione, nella situazione d’instabilità permanente che seguirà l’utile sconfitta del PD, nella prospettiva di un governo Salvini/ Berlusconi o di un governo Di Maio, i lavoratori e la bersaniana “nostra gente” verranno subito a trovarsi in una situazione migliore di prima. Salvini o Di Maio elimineranno il jobs act e reintrodurranno l’articolo 18, daranno ascolto alle rivendicazioni della CGIL, firmeranno un sacco di contratti vantaggiosi per i lavoratori ed elimineranno l’odiata “buona scuola” renziana. Saranno eliminati gli ottanta euro e tutte le altre prebende renziane e con il ricavato si faranno gli investimenti pubblici per far ripartire lo sviluppo. Il debito pubblico scenderà vertiginosamente, tutti pagheranno doverosamente le tasse, i posti di lavoro cresceranno come funghi e si ridurrà la disoccupazione giovanile. Soprattutto ci sarà l’accoglienza dei profughi e la cittadinanza per tutti i figli di immigrati nati in Italia. Sicuramente avremo più peso in Europa e faremo passi avanti decisivi nella costruzione dell’Europa politica. E poi, dimenticavo, sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno. Insomma, grazie alla sconfitta utile, con la vittoria di Salvini/ Berlusconi, o con quella di Di Maio, i lavoratori e il popolo della sinistra (“la nostra gente”) andranno tutti a stare decisamente meglio. Più o meno come ad Alessandria.


Giuseppe Rinaldi

3/12/2017

 


venerdì 6 ottobre 2017

I replicanti sognano unicorni? Note sulla filosofia di Blade Runner

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1. Se c’è un film di fantascienza[1] che, nell’immaginario popolare, ha segnato un periodo della nostra storia recente, questo non può essere che Blade Runner di Ridley Scott. Che l’abbia segnato è abbastanza certo, ma non è facile spiegare il perché. In quest’articolo che, come si vedrà, si occupa di filosofia piuttosto che di critica cinematografica, cercherò di spiegare, a me stesso e ai miei dieci lettori, perché Blade Runner ha parlato e parla tutt’oggi al nostro senso comune in modo così immediato da non avere bisogno di dichiarazioni esplicite. E di spiegare anche perché l’attrazione che proviamo per questo film è in realtà una specie di attrazione perversa, che può limitarsi ad alimentare in noi un atteggiamento malinconico e pessimistico, da catastrofe incombente, ma che può anche rischiare di portarci su strade filosofiche decisamente accidentate e perigliose.

2. Prima di procedere, affronterò alcune questioni preliminari. Notoriamente, Blade Runner[2] è tratto da un racconto di Philip K. Dick dal titolo Gli androidi sognano pecore elettriche?[3] Non mi occuperò tuttavia del rapporto tra il testo letterario e quello filmico. Peraltro il film è soltanto ispirato al racconto e diverge in molti aspetti rilevanti dal testo letterario. Comunque Dick, che non ha potuto vedere il risultato finale, pare abbia seguito la lavorazione del film e che ne fosse, alla fine, piuttosto soddisfatto.
Scott ha dichiarato esplicitamente che Blade Runner è una pura opera di intrattenimento e che, quindi, non ha alcuna velleità d’altro genere. Tuttavia com’è noto ormai – la consapevolezza dell’autore può anche essere molto diversa da quanto l’opera intrinsecamente dice. Per capire l’effetto di Blade Runner sul pubblico, per chiarire il suo rapporto con la sua epoca, si tratta allora di farne una lettura testuale, eventualmente anche al di là delle intenzioni dell’autore. Ci si accorgerà allora che una filosofia implicita (o se si vuole per lo meno uno stile filosofico) è sistematicamente ben presente. Si tratta di una filosofia che ben decodificabile, anche se non può avere quella coerenza che si richiede a un trattato accademico. Del resto, molti filosofi hanno elaborato delle pure fantasie intorno alle quali hanno costruito interi sistemi filosofici. La distanza tra la filosofia e la fiction è minore di quanto non sembri a prima vista.
Data la relativa complessità della questione, dividerò l’analisi in due parti. In una prima parte cercherò di compiere un’operazione analitica, andando a rileggere, in forma sparsa, quegli aspetti del film che abbiano un qualche interesse di natura filosofica. In una seconda parte cercherò invece di identificare, con nome e cognome, alcune matrici filosofiche presenti nel film e cercherò di darne una formulazione esplicita e un inquadramento critico. Poiché del film sono state prodotte diverse versioni, preciso che mi riferirò al final cut del 2007, l’unico in cui Scott pare abbia avuto la piena libertà autoriale.

3. Filosoficamente, l’opera appartiene alla categoria delle distopie, cioè delle utopie negative. Sono quelle opere che leggono nel nostro presente, piuttosto che i segni di un progresso, di un futuro radioso o di un mondo paradisiaco, i segni di una catastrofe incombente. Proprio in relazione al suo carattere distopico, Blade Runner si fa anzitutto notare per il particolarissimo trattamento del tempo. Il tempo non è il tempo lineare cui siamo abituati. Il futuro che vi è rappresentato si colloca in un tempo privo di direzione, dove passato, presente e futuro sono completamente appiattiti. Si tratta dunque di un film di fantascienza che, per prima cosa, sembra voler proporre una diversa nozione del tempo, una specie di fine del tempo così come comunemente lo conosciamo. Ciò è evidente anzitutto nella fotografia e nella scenografia ove si mescolano elementi di un futuro tecnologicamente assai progredito con elementi di un passato polveroso (le ventole onnipresenti, i fumi, la nebbia, le case decadenti, l’atmosfera da suk o da quartiere cinese, i computer che assomigliano a vecchie telescriventi, lugubri edifici gotici e palazzi che evocano piramidi egizie). Passato, presente e futuro sono compresenti, completamente inchiodati in un’attualità decadente che incombe e opprime.

4. Veniamo ora ad alcuni accenni essenziali al contesto storico sociale della narrazione. Nel futuro 2019 – si tenga presente che il film è uscito nel 1982 - gli umani hanno ormai colonizzato altri mondi. Coloro che possono permetterselo e sono stati autorizzati hanno ormai abbandonato la Terra verso le colonie nello spazio. Nel film si vede più volte una specie di velivolo che fa propaganda e raccoglie le adesioni per andare nel new world. Si noti l’inversione dei ruoli: il “nuovo mondo” americano è ormai imputridito, è diventato decisamente vecchio, e la popolazione fugge verso un altro “nuovo mondo” collocato ora nello spazio. Nelle città terrestri c’è una grave crisi demografica e gran parte degli edifici sono ormai in abbandono. Una periferia putrida contrasta con enormi aggregati urbani iper moderni, la cui architettura richiama però modelli arcaici. Nei quartieri bassi di Los Angeles, dove la storia del film è per lo più ambientata, c’è una spiccata orientalizzazione demografica e culturale. Ciò si vede dalle facce, dalle insegne, dalla lingua parlata. In giro si parla uno slang misto di inglese e cinese di cui nel film vengono esibiti alcuni divertenti campioni. Los Angeles sembra diventato un enorme quartiere cinese. Il film ci ha fornito una visione profetica della colonizzazione dell’Occidente da parte dell’Oriente, cosa che sembra stia effettivamente consumandosi in questi ultimi tempi.

5. L’ipotesi da cui prende il via il film è che il progresso tecnico abbia permesso a una bioindustria denominata Tyrell Corporation (il cui motto è «Più umano dell’umano!») la fabbricazione di androidi biologici del tutto simili agli uomini, seppure con certe facoltà fisiche aumentate. Nel film sono chiamati replicanti. Sono in pratica indistinguibili dagli umani ma completamente subordinati. Sono usati come schiavi, guerrieri o oggetti sessuali. Tuttavia, i replicanti dell’ultima generazione Nexus 6, dislocati soprattutto nelle colonie, hanno sviluppato una loro autonomia, si sono ribellati e ciò ha prodotto una specie di guerra civile tra umani e replicanti. In conseguenza di ciò, la Terra è stata interdetta ai replicanti ed è stato organizzato un particolare corpo di polizia, i Blade Runner, per scovare e ritirare (un eufemismo che sta per uccidere) gli eventuali replicanti intrusi. Il caso a tutti gli effetti poliziesco che muove la vicenda del film è costituito appunto dalla penetrazione a Los Angeles di un gruppo di replicanti di ritorno dallo spazio.
Centri e periferie, colonizzazione, schiavitù, ribellione e guerra civile. Come si può ben vedere, si tratta di un cupo condensato della storia del mondo, dalla preistoria ai giorni nostri, che è proiettato – come si diceva - in un futuro del tutto appiattito e senza tempo. Tutto il possibile è già accaduto e dunque tutto può soltanto ripetersi. Il futuro assomiglia tanto al passato che conosciamo già, amplificato e deformato come in un incubo. Questa impostazione è del tutto consona – sto anticipando – alla visione postmoderna del mondo.

6. Il film inizia con un’immagine emblematica: un occhio misterioso, inquadrato in primissimo piano, in cui si riflette il mondo esterno, una Los Angeles del 2019 rappresentata come un mostro tecnologico dotato di una vita propria, che produce boati assordanti, con torri che sbuffano fiammate e fumi in un cielo sempre buio. Un paesaggio apocalittico. L’occhio probabilmente (non è detto esplicitamente) appartiene al primo replicante intruso destinato a entrare in scena, quello di Leon. Il tema dell’occhio è un tormentone che sarà ripetuto più volte. L’occhio è, infatti, il luogo fisico dove si rispecchia il mondo esterno, ma anche il luogo dove si cela la verità o il tentativo di dissimulazione della verità circa il proprio mondo interno. Il motivo dell’occhio tornerà spesso in tutto il film, ad esempio a proposito di Hannibal Chew, il fabbricante genetico di occhi, oppure a proposito del gufo artificiale del palazzo della Tyrell, e così via.

7. L’occhio è il protagonista nel test cui viene sottoposto, da parte di un agente della Blade Runner, il replicante in incognito Leon, uno dei Nexus 6 fuggitivi, che si è fatto assumere alla Tyrell Corporation come uomo di fatica. Il test accuratamente descritto, detto di Voight-Kampff, serve a smascherare i replicanti e prevede l’utilizzo di una macchina, una specie di poligrafo,[4] in grado di misurare vari parametri biometrici, tra cui la dilatazione dell’iride. Il che avviene durante la somministrazione di un certo numero di domande atte a creare una forte tensione emotiva.
L’esame cui è sottoposto Leon pone, fin dall’inizio, il problema della sottile differenza tra gli umani e i replicanti. Costoro, dal punto di vista biologico, sono perfettamente uguali agli umani e dunque indistinguibili. La sola differenza apprezzabile – così si sostiene - sarebbe costituita da una diversa capacità di controllo delle reazioni emotive. I replicanti sono privi di esperienza e di storia personale per cui non sanno controllare bene le loro reazioni emotive e così falliscono il test. L’esame condotto dall’agente della Blade Runner nei confronti di Leon è assai formale e psicologicamente piuttosto invasivo. Leon è già di per sé un po’ fuori di testa e non si intende affatto con l’esaminatore. Finché, in seguito a una domanda non gradita concernente sua madre, tira fuori una pistola nascosta, gli spara e l’ammazza. E riesce a dileguarsi.
Il caso dell’assassinio del poliziotto e della fuga di Leon – che pare avere altri complici - inducono il capitano Bryant a richiamare in servizio Rick Deckard, un leggendario terminatore di replicanti, il quale tuttavia è assai riluttante. Deckard viene scovato in una specie di quartiere cinese dal claudicante poliziotto Gaff e viene da lui accompagnato alla centrale di polizia, dove – sotto la minaccia di un ricatto - sarà costretto a tornare in servizio e a farsi carico della missione. Gaff è una figura ambigua, un personaggio secondario, che però starà sempre alle costole di Deckard, per tutto il film, senza tuttavia mai intervenire, limitandosi ad abbandonare in giro diversi piccoli origami di carta che commentano le vicende. Solo alla fine Gaff si rivelerà un personaggio rilevante ai fini della comprensione dell’intera vicenda.

8. Poiché Leon e gli altri androidi fuggitivi appartengono al nuovo modello Nexus 6, il primo intervento di Deckard avviene proprio alla Tyrell Corporation, per sperimentare l’efficacia del test Voight-Kampff anche su quel tipo di modello. Qui Deckard incontra prima la bella Rachael, collaboratrice di Tyrell, e poi lo stesso Tyrell in persona. Tyrell chiede espressamente a Deckard di provare prima il test sulla sua collaboratrice, intendendo che questa sia umana, per avere, dice, una prova in negativo. Assistiamo così a una seconda ampia e dettagliata esecuzione del test Voight-Kampff, questa volta condotto su un umano. Deckard tuttavia, dopo poche domande, in separata sede rivela a Tyrell che la sua collaboratrice è un replicante. Tyrell spiega a sua volta che lei non lo sa, poiché la Tyrell, con un esperimento, le ha impiantato falsi ricordi. La Tyrell Corporation, infatti, nell’intento di incrementare la somiglianza dei suoi androidi con gli umani, ha progettato di dotare i suoi nuovi modelli di ricordi artificiali. Il test comunque turba alquanto Rachael che, evidentemente, aveva già qualche sospetto circa la propria natura di replicante. Proprio questo sospetto darà origine al complesso rapporto di Rachael con Deckard, che sarà uno dei motivi conduttori del film.
Le due vicende di Leon e Rachael con il poligrafo servono a introdurre i personaggi e a definire la situazione di partenza della storia. La questione filosofica che è posta con chiarezza, fin dall’inizio, è quella della differenza tra ciò che è compiutamente umano (considerato come unico e irriproducibile) e ciò che è meramente biologico (e dunque tecnicamente riproducibile). Se vogliamo, si tratta di chiarire se esista qualcosa come un’identità umana separata dalla componente biologica. Filosoficamente, si tratta di una domanda circa la natura ultima di ciò che i filosofi continentali hanno chiamato Spirito.[5]

9. Non seguiremo nel dettaglio la trama del film che, nella lettura più superficiale, è costituita dalla caccia, da parte di Deckart, ai diversi replicanti tornati sulla Terra. Si tratta di Leon, di cui abbiamo già detto, delle due donne Zhora e Pris, e di Roy Batty che è definito come un “modello da combattimento”. I replicanti sono capeggiati da Roy e sono venuti sulla Terra, cercando di penetrare nella Tyrell Corporation, perché vogliono «più vita», cioè vogliono trovare il modo di togliere la scadenza (di quattro anni) che è stata immessa nel loro corredo genetico quando sono stati fabbricati. Nel corso del film tuttavia, come si vedrà, il numero dei replicanti è destinato ad aumentare.

10. Oltre alla difficoltà di dominare le emozioni, di cui s’è detto, l’altro elemento correlato che distingue gli umani dai replicanti è la memoria. È questa una delle tematiche più interessanti del film. La memoria personale va oltre il livello del mero biologico e, in un certo senso, garantisce l’unicità della persona. Le esperienze immagazzinate nella memoria e rielaborate sono un unicum che rende unica la persona stessa. È la persona così costruita che si rapporta con le emozioni e con la sua base biologica. Per questo la Tyrell Corporation, nell’intento di rendere i replicanti sempre più simili agli umani, ha provato a dotarli di falsi ricordi e di relativi documenti falsi (come nel caso di Rachael). La possibilità tecnica di riprodurre le memorie individuali non può che creare una situazione d’incertezza generalizzata circa le diverse identità dei diversi soggetti. I singoli non possono più essere completamente certi di essere autentici, dell’autenticità dei propri stessi ricordi e dei propri documenti. L’ontologia dei singoli individui è così messa radicalmente in discussione. Questa nuova situazione di incertezza identitaria fa anche sì che i ricordi – quelli creduti autentici - siano tenuti nella massima considerazione, come un bene prezioso cui aggrapparsi per non smarrirsi.
Il film è pieno di riferimenti alla questione della memoria e della sua riproducibilità. Il rude operaio replicante Leon è legato alle foto che testimoniano del suo passato e sarà proprio grazie a queste che Deckard riuscirà a pedinare lui e a identificare e a ritirare la sua amica Zhora. L’identificazione di Zhora in una delle foto di Leon avviene, tra l’altro, con un procedimento d’ingrandimento fotografico del tutto simile a quanto avviene in Blow – up di Antonioni. Il che resta pur sempre una questione di memoria, seppur registrata attraverso la fotografia. Rachael a sua volta basa la sua ferma convinzione di essere umana su un pacchetto di foto che la ritraggono nella sua infanzia e su una serie di ricordi privati d’infanzia che non ha mai rivelato a nessuno. Ricordi che tuttavia Deckard mostra di conoscere nei minimi dettagli, essendo notoriamente ricordi che la Tyrell impianta nei suoi androidi.

11. La problematica dei ricordi coinvolge tuttavia inaspettatamente anche Deckard. Nella sua stanza, Deckard ha un pianoforte e sul leggio, assieme a uno spartito musicale, ha una serie di vecchie fotografie in bianco e nero, disposte in maniera quasi religiosa. Si presume riguardino il passato familiare di Deckard. Rachael, quando si trova in casa di Deckard, dopo l’eliminazione di Leon, decide di imitare la pettinatura di una giovane donna ritratta in una delle foto. In un momento successivo Rachael si mette a suonare il pianoforte – forse suona la musica dello spartito – dicendo però poi che lei non sapeva di saper suonare. Si noti che il pianoforte, che è così assurto a una specie di luogo della memoria, è lo stesso luogo in cui Deckard aveva sognato, a occhi aperti, un unicorno in corsa attraverso una foresta. Unicorno che tornerà platealmente nel finale. Le foto che si trovano sul pianoforte, i ricordi personali di Deckard e i suoi sogni sono davvero suoi o sono ricordi impiantati? Il film fa dunque nascere progressivamente il sospetto che Deckard, che conosce così bene la mente dei replicanti, possa essere anch’egli un replicante.
Avere una vivida memoria del proprio passato e avere anche a disposizione dei reperti materiali di supporto non fornisce dunque alcuna certezza di essere davvero un umano e di non essere un replicante. Sul piano filosofico una simile eventualità ha notevoli conseguenze. Se anche la memoria individuale si può fabbricare e impiantare, allora tutto il passato può essere fabbricato come qualsiasi altra cosa. Il passato diventa merce. In una bella battuta Rachael afferma: «Io sono il business». I fabbricanti del passato diventano dunque i veri fabbricanti della storia e non esiste più alcun processo storico oggettivo o oggettivabile. È questo un altro argomento che sostiene l’ipotesi della fine della storia per com’è stata normalmente conosciuta. Tutto ciò richiama certi dettagli della trama del formidabile 1984 di Orwell. Là c’era addirittura un piano elaborato di ricostruzione sistematica della storia, con tanto di produzione di documenti falsi, a uso e consumo del sistema di potere vigente.

 12. Il progettista genetico J. F. Sebastian è anch’egli un replicante – anche se la notizia ci vien data molto di sfuggita – dunque un prodotto della Tyrell Corporation. Egli tuttavia vive in città mescolato agli umani e pare non essere soggetto ad alcun controllo o restrizione. Come replicante ha anch’egli dei problemi con il tempo, soffre cioè di una forma d’invecchiamento fisico precoce. Viene presentato come un tecnico obbediente, complice e addirittura amico di Tyrell,[6] con il quale Tyrell ha buoni rapporti e con cui ama giocare a scacchi. Il film suggerisce che Sebastian, poiché è gentile, inoffensivo e ingenuo, sia una vittima, sia cioè strumentalizzato dal suo padrone. Nel suo tempo libero si comporta come un bambino dotato di grande fantasia, produce buffi giocattoli animati, che riempiono la sua casa e lo distolgono dalla solitudine. Manifesta insomma un lato umano assai marcato. Impersona abbastanza chiaramente il complice involontario del sistema. Ignorando di avere già Roy sulle sue tracce, Sebastian rimorchia Pris, incontrata per caso, e la conduce a casa sua, non sospettando neppure di chi si tratti. Ma poi, quando a Pris si aggiunge Roy, non fa fatica a riconoscere che si tratta di replicanti. Del resto lui è uno del mestiere. Sarà proprio Sebastian a svolgere inconsapevolmente il ruolo del traditore, cioè il ruolo di consegnare il proprio stesso “padre” Tyrell alla vendetta delle sue creature. Una specie di Giuda sui generis. I complici involontari del sistema spesso presentano una natura ambigua.

13. Pris, pur essendo un modello Nexus 6, è stata progettata per fare la prostituta d’alto bordo. Appare confusa, smarrita, talvolta stupida, governata da emozioni elementari. Ciò nonostante è munita di grande prestanza fisica ed è anche capace di pronunciare, di fronte alla richiesta di Sebastian di mostrargli cosa sa fare, una classica citazione filosofica: «Penso dunque sono». Morirà impallinata da Deckart, non prima però di avere dato vita a una scena estremamente significativa sul piano filosofico che ci interessa.
Pris è rimasta sola nella casa di Sebastian, in mezzo ai suoi numerosi vivaci e chiassosi pupazzi meccanici. Deckart, intento a perquisire l’appartamento di Sebastian dopo la sua morte, entra con la pistola in pugno e si trova immerso in un mondo mitologico e fiabesco. In questo frangente del film, non solo il tempo è appiattito, ma entra prepotentemente in scena anche ilmondo dei miti e delle favole. Pris, che si è dipinta una mascherina nera sugli occhi, è ferma, immobile, con un velo in testa, sembra una sposa o una ballerina classica, bambola tra le altre bambole. Deckard si aggira nella stanza in mezzo ai pupazzi fantastici che sono mostrati accuratamente allo spettatore. Quando, insospettito, alza il velo di Pris, all’improvviso scatta la colluttazione.
I giocattoli meccanici di Sebastian, e la stessa Pris - sembra suggerire a questo punto il film - fanno dunque parte dell’eterno sogno dell’uomo di produrre delle copie di sé. È il sogno, o l’illusione, della rappresentazione mimetica. In questo senso, le favole, i miti, i personaggi dei romanzi e – perché no? – quelli del cinema sono soltanto degli antenati dei replicanti. Si trovano tutti sulla stessa linea evolutiva dei replicanti biologici della Tyrell Corporation. La replicazione biologica degli umani attraverso la scienza non sarebbe altro che una specie di espressione ultima, e aberrante, della perversione mimetica coltivata in passato dagli umani, attraverso la poesia, la letteratura e l’arte in generale. La mimesi alla fine finisce per diventare realtà, creando seri problemi di distinzione e fagocitando i suoi stessi creatori. Tornerò più avanti sulla questione del rapporto tra mito e realtà.

14. Una parte consistente del film è impegnata dal confronto di Roy Batty con due diversi importanti antagonisti, Tyrell e lo stesso Deckard. Il primo confronto avviene con Tyrell. È un confronto carico di significati psicologici, morali e religiosi, con qualche elemento di critica della scienza e della tecnica. Tyrell è il fabbricante degli androidi, quindi metaforicamente un padre delle sue creature. Siccome creatore è anche una specie di Dio. Come scienziato rappresenta Sisifo che ha donato la luce agli uomini, ma anche l’Adamo peccatore che ha mangiato i frutti proibiti dell’albero del bene e del male. Durante il loro incontro/ scontro, i sentimenti che intercorrono tra i due sono ambivalenti. Tyrell non si ribella più di tanto all’incontro con Roy. Roy sembra provare, all’inizio, un certo affetto o per lo meno un certo rispetto verso il suo creatore. Il padre/ Dio ha tuttavia i suoi limiti. Tyrell spiega a Roy che ciò che è stato stabilito all’atto della fabbricazione non si può cambiare. Non si può in alcun modo allungare la vita degli androidi programmati. Quando Roy capisce di non avere alcuna possibilità di prolungare la propria vita, uccide Tyrell in modo feroce. E qui abbiamo un’altra occorrenza del motivo degli occhi. Anche il povero Sebastian, che ha introdotto Roy all’incontro con il padre/ Dio farà la stessa fine.
Qui i riferimenti filosofici si sprecano. L’uccisione del padre è ovviamente un celebre tema psicoanalitico. La morte di Dio è un altrettanto celebre motivo filosofico nicciano. Volendo, possiamo anche riconoscere il motivo letterario della creatura che si ribella al creatore, da Prometeo e dal Satana biblico fino al Golem e al Mostro di Frankenstein. Durante lo scontro con Tyrell, Roy che è una macchina biologica mostra tuttavia di avere una coscienza morale superiore rispetto a quella del suo fabbricatore. Dice infatti Roy: «Ho fatto cose discutibili. Cose per cui il Dio della biomeccanica non ti farebbe entrare in paradiso». L’idea che qui si suggerisce, di un mondo creato da un Dio malvagio è, se non andiamo errati, di origine gnostica.

15. Il secondo confronto del replicante Roy avviene proprio con Deckard. Mentre il confronto con Tyrell aveva posto problemi morali e religiosi, il confronto con Deckard pone una serie di problemi, legati al rapporto con l’altro, alla memoria e alla morte. Secondo il plot, i due non si conoscono. Roy sa soltanto che Deckard ha “ritirato” i suoi compagni Leon, Zhora e Pris e vuole vendicarsi. Va sottolineato, a questo proposito, che Roy mostra una inaspettata pietà, del tutto umana, per i suoi compagni morti. È noto, detto qui incidentalmente, che il culto dei morti è per gli antropologi uno dei segnali della presenza di una coscienza riflessiva e di una cultura già del tutto umana.
Data la superiorità fisica di Roy su Deckard, il cacciatore diventa cacciato. Roy rimugina tutte le sofferenze dalla sua vita e vuole che Deckard capisca cosa vuol dire essere cacciato, vivere continuamente nel timore, per cui si diverte con Deckard come il gatto con il topo. Ma il vero tema che qui vien posto è quello della morte. Roy sente che le forze gli vengono a mancare e che la morte è vicina. Il perfetto replicante modello Nexus 6 è prossimo alla scadenza. Nell’atmosfera gotica del palazzo in cui si svolge il confronto, dopo un lungo e violento inseguimento dell’ormai frastornato Deckard, Roy si presenta con una colomba bianca in mano che ha scovato sul tetto. Ha una delle mani trafitta da un chiodo. Quando Deckard sta precipitando, Roy con le sue ultime forze lo afferra e lo tira su di peso. Mette da parte dunque la vendetta e questo poiché ha bisogno di un testimone della sua esistenza e, soprattutto, della sua morte. Il famoso ultimo monologo «Ho visto cose, …» è anch’esso incentrato sul motivo dell’identità personale e della memoria, poiché così conclude: «E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo. Come lacrime nella pioggia». Alla Tyrell Corporation che fabbrica ricordi falsi, Roy Batty contrappone i suoi ricordi autentici, destinati però all’oblio.
La morte di Roy è un po’ appesantita da una sorta di sovraccarico simbolico fin troppo pop. La colomba che vola via - simbolo di un’anima che non avrebbe dovuto esserci e che forse c’era tuttavia - e la mano trafitta da un chiodo, che ricorda il martirio di Cristo. Ma anche certe sottolineature horror, come quando Roy sbuca beffardo sfondando un muro con la testa, impersonando la bestia irriducibile che bracca il perseguitato. Tuttavia Roy è un personaggio compiuto, forse il più compiuto del film.
Il replicante Roy è stato da molti commentatori accostato al superuomo nicciano. L’accostamento è del tutto plausibile ma non perché – come ci è capitato ahimè di leggere – in quanto androide è bello e perfetto. Roy può essere avvicinato al superuomo di Nietzsche perché la sua vita è collocata in un luogo fisico e morale che si trova ormai al di là del bene e del male, perché dopo la morte di Dio (l’assassinio del padre) egli non ha più alcun vincolo morale, è assolutamente libero e padrone della sua volontà. È la manifestazione pura della volontà. Tanto che accetta la sua morte (cioè niccianamente vuole il proprio destino) e per di più, alla fine, fa quello che ritiene di dover fare, mette da parte la vendetta salvando Deckard. Ciò non per altruismo – si badi bene - ma per mostrare la propria nobiltà, secondo un codice aristocratico che sarebbe certamente piaciuto a Nietzsche. E per lasciare una scintilla della propria memoria. Un gesto che deve durare per tutta l’eternità, nello spirito dell’eterno ritorno. La morte di Roy è dunque anche e soprattutto un gesto estetico. Con ciò Roy esce dalla serialità dell’androide e entra nell’umano o – se si è nicciani – nel regno misterioso dell’oltre uomo.

16. Rick Deckard, il ritiratore di replicanti, sarebbe tutto sommato il personaggio meno interessante del film. È tipicamente un antieroe. Ha buone doti di investigatore ma non ha grande prestanza fisica. Spesso si prende un sacco di botte e si salva soltanto perché altri (guarda caso, si tratta per due volte di replicanti) decidono di salvarlo. Compie malvolentieri la sua missione, costretto dallo spregevole capitano Bryant che praticamente lo ricatta. Fa quel che deve fare perché non può farne a meno. Ciò che lo rende simpatico è la sua profonda malinconia. Anche lui è costretto a condividere il mondo degradato in cui si rifugiano coloro cui dà la caccia, anche lui vive quell’aria malsana in senso fisico e in senso morale. Anche lui – personaggio  romantico per eccellenza - sogna un altrove che non è neppure in grado di figurarsi, finché non incontra la replicante Rachael, che gli salva la vita e che alla fine fuggirà con lui.
Sarebbe il personaggio meno interessante se non fosse per il fatto che anch’egli pare abbia un grave problema di identità cui abbiamo già accennato. Mentre è concentrato nelle sue indagini, seduto nei pressi del suo pianoforte/ altare dei ricordi personali, ha una visione, una specie di sogno ad occhi aperti. Un unicorno bianco che galoppa in una foresta. Cosa c’entra l’unicorno? Il collega poliziotto Gaff, che sembra seguire attentamente da vicino le indagini di Deckard, ha il vezzo di fabbricare origami di carta e di abbandonarli nei posti più vari. Questi origami sembrano proprio costituire un commento a quanto sta accadendo a Deckard. Ebbene, nel finale, il pupazzetto abbandonato da Gaff davanti all’ascensore dove avviene la fuga di Deckard e di Rachael rappresenta proprio un unicorno. Questo significa – e Ridley Scott pare lo abbia esplicitamente ammesso – che anche Deckard, il coatto e malinconico cacciatore di replicanti, è un replicante. Ciò poiché Gaff mostra di conoscere i suoi sogni.
Quel che interessa qui, sul piano filosofico, è che questa ipotesi o questa possibilità – che lo stesso Deckard sia un replicante - introduce un particolare supporto alla tesi della identità tra umani e replicanti che sembra essere tuttavia in contrasto con la prima parte del film, dove si sottolineavano gli elementi di differenza. Ora, umani e replicanti sono così simili da finire per essere la medesima cosa. Siamo tutti umani ma potremmo essere tutti replicanti. E potremmo avere dimenticato la chiave distintiva. Semplicemente perché una chiave distintiva non c’è. Ma questo il film si guarda bene dal dirlo.

17. Il finale del film è stato riscritto rispetto alla prima versione, dove invece Deckard e Rachael potevano fuggire romanticamente verso una nuova vita. Ciò oltretutto era reso possibile dal fatto che Rachael era presentata come una replicante priva di scadenza. Nel final cut le cose sono assai più problematiche. Nulla si dice circa una non scadenza di Rachael. Dopo la morte di Roy, arriva il claudicante Gaff - la polizia nei film arriva sempre in ritardo - che lancia al malconcio Deckard una pistola (forse quella che aveva perduto nella colluttazione con Roy) e si complimenta con lui per avere finito il lavoro.
In realtà noi sappiamo che il “lavoro” non è finito, perché anche Rachael è ricercata dalla Blade Runner. Gaff, andandosene via, aggiunge una frase equivoca di difficile comprensione. Nel doppiaggio italiano è «Peccato che lei non vivrà. Sempre che questo sia vivere!». La versione inglese suona più o meno così: «Peccato che lei non vivrà. Ma del resto chi è che vive veramente?».[7] Con questa frase criptica Gaff – che mostra di sapere molte più cose di quanto non appaia - intanto ricorda che Rachael è un androide a scadenza e che quindi morirà. Intende tuttavia qualcosa in più. Qualcosa che, in un certo senso, vorrebbe esprimere il contenuto esistenziale dell’intero film. Vuol dire che, poiché abbiamo perduto, se mai c’è stato, il senso autentico della vita (si pensi agli individui replicati e alle memorie contraffatte), allora vite artificiali e vite autentiche ormai non hanno più alcuna distinzione. Vivere o morire dunque è lo stesso, poiché anche la vita è diventata una specie di morte. Salvare la propria vita biologica significa comunque essere condannati a una non vita. La distopia rappresentata è ormai un mondo morto, una casa di morti. La conciliazione tra umani e replicanti, che il film sembra più volte suggerire, viene risolta da Gaff, con una conciliazione sì, ma in totale negativo. I vivi sono uguali ai morti.
Deckard perplesso non capisce più di tanto (e lo spettatore con lui), raccatta la pistola che tiene bene in vista e torna dove aveva lasciato Rachael e la trova sotto un telo. Sembrerebbe morta, magari scovata e forse uccisa da Gaff. Così si spiegherebbe il messaggio secondo cui “Il lavoro è finito”. In realtà non è morta, è solo addormentata e i due si apprestano a fuggire. Mentre sta uscendo, Rachael davanti all’ascensore calpesta un piccolo origami a forma di unicorno. Deckard vede l’origami, lo raccatta e a questo punto ricorda la frase di Gaff. Capisce che Gaff era stato lì e aveva risparmiato Rachael, forse per dare loro la possibilità di fuggire e sparire, o forse (comprendiamo noi a questo punto) in virtù della considerazione che tra la vita e la morte ormai non fa più nessuna differenza.

18. Gaff dunque, oltre a Roy Batty, si conferma come il secondo effettivo superuomo nicciano del film. Lui che finora era stato solo un commentatore, compie una scelta morale assolutamente autonoma, come pura volontà di potenza, al di là del bene e del male. A partire da una considerazione del tutto personale sulla svalorizzazione totale dell’esistente e sulla coincidenza della vita e della morte, decide che non vale la pena di ritirare/ ammazzare Rachael, denunciando anche così – cosa non secondaria - l’inconsistenza della missione della Blade Runner.
Anche Deckard viene messo di fronte alla domanda fondamentale: chi è che vive veramente? Domanda che per lui vorrebbe dire: chi è davvero umano e chi è replicante? Nell’origami con l’unicorno sta probabilmente la risposta circa la vera identità di Deckard. Egli tuttavia sembra non accorgersi della profondità della questione, sembra non riuscire a decifrare del tutto la metafora dell’unicorno, accenna con lo sguardo di avere capito la scelta di Gaff e si appresta a scappare con Rachael. Non sapremo mai se Rachael ha davvero una scadenza e se Deckard è davvero un replicante e, soprattutto, se ne è consapevole. Del resto, le vite degli umani presentano più o meno le stesse incertezze di quelle dei replicanti.

19. Com’è stato ampiamente mostrato, nel testo filmico ci sono molti temi filosofici, seppure non sempre coerentemente sviluppati – del resto siamo di fronte a un’opera di pura fiction. È legittimo tuttavia domandarsi se i diversi temi filosofici di cui il film è zeppo non finiscano per configurare una o più tesi filosofiche compiute, dotate di una qualche coerenza. In tal caso, si potrebbe fare qualche sforzo per esplicitarle. Il rischio di una simile operazione è sempre quello della sovra interpretazione. Tuttavia il successo dell’opera e il suo perdurare nell’interesse da parte del pubblico suggeriscono che un qualche messaggio nascosto ci sia e che, per di più, abbia funzionato, sia arrivato e continui ad arrivare al destinatario. Procederò per gradi, identificando alcune tesi filosofiche di medio raggio, cercando poi di formulare una qualche sintesi.
19.1. Una prima tesi, che è forse la tesi di fondo, concerne palesemente la struttura temporale, di cui abbiamo già detto. Nel film di Scott il futuro e il passato si sovrappongono continuamente, la freccia del tempo lineare è annullata. Il tempo diventa piatto (o, se vogliamo, circolare). Con questo è dato il benservito a una visione della storia che ha retto per secoli, e cioè la visione giudaico - cristiana. La prospettiva temporale del film è la stessa prospettiva dell’angelo della storia di Benjamin[8] che non ha più alcuna direzione dove andare, che ha lo sguardo rivolto al passato e che vede solo e sempre i cumuli delle rovine. Non c’è più alcun futuro, alcuna speranza, possiamo contemplare soltanto la miseria del passato che si accumula e ci soverchia. In questo senso, il film rappresenta una specie d’introduzione implicita al tema della «fine della storia» e dell’assenza di una qualsiasi redenzione. La fine della storia è stato un tema filosofico assai popolare, almeno a partire da Hegel. Tuttavia la questione della fine della storia è stata posta assai più recentemente e in modo esplicito proprio nell’ambito del pensiero postmoderno. Fukuyama, nel 1992, ha scritto il famoso saggio La fine della storia e l’ultimo uomo.[9]
19.2. Una seconda tesi, assai diffusa nel film, concerne la concezione negativa della conoscenza, un tema davvero classico, risalente addirittura alla Bibbia. Lo sviluppo della conoscenza umana rappresenta un turbamento del cosmo, un male in sé, un peccato contro Dio e finisce per ritorcersi contro la tracotanza dell’uomo stesso. La negatività dell’impresa conoscitiva raggiunge poi il suo massimo quando essa è asservita al profitto e perde qualsiasi senso del limite. Il motto della Tyrell Corporation è «Più umano dell’umano». Si tratta di un tema filosofico assai diffuso. In origine era un tema di natura prettamente religiosa, poi negli ultimi secoli si è solidamente impiantato tra i filosofi continentali. La polemica contro la tecnica, la scienza e la cosiddetta ragione strumentale è stato un luogo comune dell’anti illuminismo,da Herder fino ai giorni nostri. In proposito possiamo citare - tra gli altri - Hegel, Marx, Schopenhauer, Nietzsche, Husserl, Heidegger, Spengler, Lukács, Marcuse, Horkheimer e Adorno.
Il film sembra riferirsi proprio a una di queste correnti in particolare. Si sostiene nel film che il progredire della conoscenza, guidato dall’impulso del dominio e del profitto, genera un paradosso. Esso, invece di liberare l’uomo, invece di tradursi in un’umanizzazione dell’uomo, si traduce nel suo contrario. Si traduce in un asservimento dell’uomo, nella sua alienazione e nella sua rovina (e particolarmente nella rovina della civiltà occidentale). L’unica soluzione dunque è fermarsi, anzi tornare indietro, in quella lontana epoca in cui la ragione umana non era ancora stata eclissata dalla ragione strumentale. Ci si ricordi, in particolare, della figura di Sebastian nella quale, oltre al peccato originale della sua origine, troviamo fusi insieme l’elemento del mito (le figure che abitano in casa sua e che egli costruisce) e l’elemento della ragione strumentale (è lui il progettista genetico al servizio della Tyrell Corporation).
Queste concezioni assomigliano in modo impressionante alle tesi contenute nella Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno[10] e in altri simili lavori della scuola di Francoforte. Volendo, si può citare esplicitamente anche L’uomo a una dimensione di Marcuse.[11] Sono tesi di matrice hegelo – marxista che, elaborate negli anni Quaranta, sono state riprese e rilanciate dal movimento del Sessantotto e sono state fatte proprie – pur con sfumature assai diverse – dalle filosofie postmoderne. Sono tesi che sono penetrate a fondo nella cultura di massa contemporanea e ne costituiscono ora quasi un sostrato inconsapevole. Comunque, tesi non dissimili si trovano nella tradizione heideggeriana, dove la tecnica rappresenta il destino perverso dell’Occidente che ha occultato il proprio rapporto con l’Essere, rappresenta il destino della metafisica occidentale e con ciò la sua fine. Una certa interpretazione storiografica ha posto il giovane Lukács alle origini sia della visione heideggeriana sia delle teorie di Horkheimer, Adorno e Marcuse.
19.3. Ma c’è di più. Sempre sulla scia di una dialettica dell’illuminismo, nel film troviamo una puntuale evocazione analogica della dialettica del servo e del signore di hegeliana memoria. La storia e la società sono luogo di perpetuo conflitto. L’uomo tracotante, eccedendo ogni limite, vuole il dominio assoluto, si erge a signore del creato, si crede Dio. Diventa egli stesso creatore e padrone dei suoi servi. Ma, come raccontava Hegel, i servi sottomessi si ribellano al loro signore, poiché il signore, che ha creato i suoi servi e li domina, ha bisogno dei servi e finisce per dipendere da essi. Nelle intenzioni di Hegel, tuttavia, la vicenda avrebbe dovuto portare a una sintesi, cioè a un reciproco riconoscimento del servo e del signore. Nel film invece non c’è alcuna conciliazione. Il servo Roy Batty si ribella, uccide il signore e in tal modo uccide anche se stesso, pur in forma nobile e nichilista come s’è visto.[12] Il film dunque sembra prendere partita per l’impossibilità della conciliazione. Dopo Hegel, la storia della mancata conciliazione è stata raccontata più volte. Basti pensare all’annuncio della morte di Dio da parte dello Zarathustra nicciano, oppure alla freudiana uccisione del padre. Anche il vecchio Edipo ne sapeva già qualcosa. Una dialettica senza conciliazione è del resto il fulcro della confusa dialettica negativa di Adorno. Ciò in altri termini vuol dire che, nel contesto di una fine della storia, il conflitto ha perso qualsiasi funzione costruttiva e si accontenta di marcare una guerra senza fine, una guerra perduta in anticipo, una guerra suicida contro l’esistente.
19.4. Un altro tema filosofico di fondo, senz’altro collegato ai precedenti, è costituito dalla minaccia della sparizione della individualità. Se si preferisce, la disarticolazione del soggetto. È un tema su cui i filosofi hanno sempre lavorato, con soluzioni alquanto difformi. Si tratta cioè di capire se il processo di individualizzazione, che si è sviluppato particolarmente in Occidente, sia da considerarsi un bene o un male, se sia da considerarsi un peccato contro Dio (al pari della conoscenza) oppure una liberazione e un progresso. Su questa alternativa molti filosofi hanno esitato, come ad esempio Freud e Max Weber. Anche Nietzsche ha oscillato alquanto.
In una sua versione standard, la tesi sostiene, in modo invero assai discutibile, che un’individualità autentica forse sia esistita, in un tempo passato, quando però questa si trovava in una spontanea relazione con la natura, con la vita, con la società, con la totalità cosmica. Insomma, un’armonia originaria del soggetto con l’oggetto, variamente sostenuta e argomentata. Con l’ingresso nella storia e/o con la razionalizzazione, l’armonia originaria è andata perduta. La causa del tracollo è sempre la brama di conoscenza e di dominio, la tecnica, che hanno reso l’individuo isolato, astratto (in senso hegeliano), riproducibile, seriale.[13] L’individuo ha così perso il rapporto con la totalità ed è stato mercificato o reificato, come avrebbe detto Lukács. Se si possono riprodurre i corpi, le emozioni e le memorie, allora l’originalità individuale è destinata a venir meno. «Io sono il business!» dice la replicante Rachael. Insomma, il processo di individualizzazione tipico dell’occidente è considerato come una progressiva catastrofe dell’umano.
Le tesi sull’individualità presenti nel film sembrano richiamare in particolare la Teoria del Romanzo di Lukács[14] e L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica di Benjamin.[15] La produzione ripetitiva dell’oggetto (simboleggiata nel film dai replicanti) tipica dell’industria e della merce impedisce ogni individuale autenticità, proprio come aveva teorizzato Benjamin. L’aura dell’opera individuale è perduta per sempre, nessuno può più pensare di essere un originale unico. Anche se ci pensiamo presuntuosamente come originali unici, corriamo pur sempre il rischio di essere dei replicanti (e questa è proprio la situazione di Deckard). Nella post-modernità, nonostante noi continuamente rimpiangiamo o sogniamo un’unicità perduta, non possiamo che essere dei replicanti, magari inconsapevoli, che ingannano sistematicamente se stessi. Tutto ciò è rappresentato come una perdita, anche se non è mai ben spiegato in cosa consista esattamente l’oggetto unico irrimediabilmente perduto (se non una delle molteplici metamorfosi dello Spirito).

20. In sintesi, ricapitolando, abbiamo la fine della storia, una concezione negativa della conoscenza, una dialettica senza conciliazione e la crisi dell’individualità. Sono tutti motivi tipici della filosofia continentale e che sono sati ampiamente ripresi nell’ambito della filosofia postmoderna. In questo quadro siamo in grado di comprendere perché il conflitto tra umani e replicanti, che pure è l’elemento principale della trama del film, resti privo di soluzione. Il conflitto si configura come un conflitto tra l’uomo e la sua immagine degradata, l’uomo e la sua mimesi, alla quale l’uomo stesso ha conferito realtà e vita. Nel film, il conflitto tra umani e replicanti è messo in scena con una grande accuratezza analitica. Esso tuttavia – come s’è visto - prende la forma di una dialettica senza conciliazione. Umani e replicanti, nonostante il lavorio dell’intreccio narrativo, non riescono a stabilire con chiarezza i reciproci confini e si scambiano continuamente i ruoli. Gli umani perdono progressivamente la loro umanità, mentre i replicanti, in talune situazioni, mostrano maggiore umanità degli umani stessi. Questo scambio continuo sarebbe una prova in più del fatto che essi sono effettivamente interscambiabili. Essi potrebbero essere la stessa cosa, però non si può o non si vuole ammettere che siano la stessa cosa. L’esito finale resta così un nodo privo di soluzione. Del resto sembra proprio che, nell’impossibilità di una soluzione, Gaff, con la sua finale equivalenza tra il vivere e il morire, evochi la «comune rovina delle parti in lotta», secondo una nota battuta di Marx.
Il finale privo di soluzione (a parte la consolatoria ma del tutto aperta fuga di Rachael e di Deckard) può essere valutato in maniera assai diversa, come un ammirevole caso di opera aperta che lascia completamente allo spettatore il suo duro lavoro interpretativo, oppure come la confessione di un fallimento del complesso meccanismo narrativo messo in cantiere. Un fallimento che, in tal caso, sarebbe dovuto anche alla stessa matrice filosofica che è stata continuamente evocata e utilizzata nel film. In una battuta, come il film non porta alla fine da nessuna parte, anche la filosofia continentale che sta dietro al film non porta da nessuna parte.

21. La problematica profonda che sta dietro al conflitto tra umani e replicanti – e che sembra tuttavia sfuggire totalmente alla consapevolezza del film - è quella dell’accettazione o del rifiuto di Darwin e della sua teoria evoluzionistica. La teoria di Darwin, unita ai risultati odierni della genetica e delle neuroscienze, sostiene esattamente che noi siamo dei replicanti. Non siamo certo stati prodotti dalla Tyrell Corporation ma siamo stati effettivamente prodotti attraverso un meccanismo elementare di prova ed errore dall’Orologiaio cieco dell’evoluzione.[16]
Posto che sia divenuto possibile replicare esattamente un essere umano dal punto di vista biologico, cervello compreso, con tutti gli annessi e connessi,[17] che differenza ci sarebbe tra un umano normale e un umano replicato? Sarebbe possibile distinguerli? Se la risposta fosse «No», allora bisognerebbe dare ragione a Darwin, dunque umani e replicanti sarebbero esattamente la stessa cosa. Se la risposta fosse invece «Sì», allora si dovrebbe dare ragione alla filosofia pre darwiniana, l’uomo sarebbe qualcosa di altro, oltre l’elemento biologico genetico e culturale. Si dovrebbe tornare così alla questione dell’anima, al dualismo cartesiano tra la materia e lo Spirito. Allora dovrebbe però essere possibile costruire un qualche test (magari come il Voight-Kampff!) capace di rilevare le differenze.[18]
Nel quadro ipotetico assunto dal film, gli elementi in base ai quali rilevare la differenza tra umani e replicanti sono davvero deboli e – peraltro – nello stesso contesto narrativo se ne fa rilevare l’inconsistenza. Il primo criterio – come s’è visto - è quello di una supposta incapacità di governare le emozioni da parte dei replicanti. Il secondo sarebbe il fatto di possedere o meno ricordi personali. Entrambe le ipotesi sono smantellate dallo stesso plot narrativo, poiché al disordine emotivo degli androidi si può sopperire attraverso la fornitura di ricordi e alla deficienza di ricordi personali si può sopperire attraverso la loro fabbricazione o il loro impianto in laboratorio. Più banalmente, usando il senso comune, per uguagliare androidi e replicanti basterebbe lasciare che gli androidi potessero nascere e poi fare le loro esperienze e memorizzarle, come chiunque altro. La pecora Dolly è nata e ha fatto le sue brave esperienze da pecora, come qualunque altra pecora. e non è successo nulla di strano. Ha fatto la sua bella vita da pecora.

22. Nonostante la debolezza delle argomentazioni atte a distinguere gli umani dagli androidi, il presupposto dato per scontato dal film resta pur sempre quello che ci sia una differenza tra umani e replicanti, che gli umani abbiano qualcosa di diverso, una loro essenza che i replicanti non possono avere. Nello stesso tempo tuttavia l’indeterminatezza del finale e i continui interscambi tra umani e replicanti insinuano nello spettatore che quell’essenza, se mai c’è stata, è sempre più inafferrabile e precaria. Insomma, quell’essenza umana ideale che dovrebbe essere a tutti i costi difesa e salvaguardata non è mai mostrata.
Il fatto è che, nel corso stesso del film, ci si rende conto che quell’elemento umano distintivo, speciale ed essenziale, non può più essere mostrato, non ha più alcun fondamento. Nel mondo di Blade Runner l’autentico e l’inautentico sono ormai un unico blob. La colomba che vola via rappresenta l’anima improbabile di un replicante. Piuttosto che ammettere una qualche specificità umana positiva, una qualche forma di essenza, di anima o di Spirito, Gaff non riesce a fare altro che dichiarare la perfetta equivalenza della vita e della morte. Gaff dunque dichiara la morte di Dio, dichiara l’impraticabilità fattuale di ogni umanesimo, ma non sa guardare oltre.
C’è dunque nel film un’impossibile conciliazione, un nichilismo di fondo, proprio perché il suo orizzonte - come quello del pubblico cui si rivolge - è pre darwiniano. È cioè un orizzonte dove comunque lo Spirito è ancora in strenua lotta contro la materia. Guarda caso, questo è proprio l’orizzonte della filosofia continentale degli ultimi secoli. L’ossessivo test Voight-Kampff è un test che in realtà mira a identificare il nemico, a trovare il punto di separazione tra la materia e lo Spirito, come faceva Cartesio quando discettava della ghiandola pineale. Ebbene, Darwin ci ha mostrato che quel punto di separazione proprio non c’è. E quindi siamo tutti macchine biologiche, siamo tutti progettati geneticamente e, come gli androidi del film, abbiamo tutti dei ricordi innestati, derivanti cioè dalla interiorizzazione della cultura, abbiamo anche noi una data di scadenza e non avremo alcuna vita eterna. Per Darwin, i replicanti siamo noi.
Non abbiamo ancora digerito Darwin, per questo abbiamo così paura dell’oggetto e, in particolare, dell’oggetto biologico sconosciuto[19], e non ci rendiamo conto che proprio noi siamo quell’oggetto tanto temuto e bandito. Noi in realtà – sostiene Darwin - siamo un prodotto tecnico dell’Orologiaio cieco. Noi siamo la tecnica nella sua espressione più alta. Un automatismo tecnico che non ha intelligenza (alla faccia dell’intelligent design) e che tuttavia riesce a produrre una qualche intelligenza che in qualche modo funziona. Solo in certa filosofia contemporanea di orientamento analitico si sta facendo qualche passo avanti verso una conciliazione effettiva del soggetto e dell’oggetto, il che comporta però un superamento del dualismo in una visione compiutamente naturalistica. Ciò permetterebbe un riconoscimento pieno della nostra natura seriale e, nel contempo, della nostra relativa unicità individuale. Passando però per Darwin. Ma tutto ciò è ancora di là da venire.

23. Il film dunque, inconsapevolmente, fa propria una tradizionale folk philosophy religiosa e romantica che dà per scontata la distinzione tra lo Spirito e la materia o, se si preferisce, che vuole subordinare la materia allo Spirito. Una materia sempre vituperata che prende di volta in volta le sembianze del meccanico, del biologico, del tecnologico, del seriale, della ragione strumentale, del calcolo, della logica formale, del dominio, della merce e così via. La popolarità del film è evidentemente dovuta alla sua capacità indubbia di mettere in scena questo conflitto d’altri tempi che riesce ad appassionare il vasto pubblico solo perché, nonostante Darwin, siamo rimasti ancora radicalmente dualisti. Il film, a onor del vero, pone rigorosamente il problema dell’insufficienza del dualismo, mostra tutta la sua implausibilità, ma poi si arresta sull’orlo della soluzione. Preferisce uccidere lo Spirito e contemplarne le membra sparse, come nel nichilismo finale di Gaff, piuttosto che ammettere che lo Spirito è il prodotto ultimo di una macchina biologica, genetica e culturale.

24. Blade Runner è dunque un’opera postmoderna per eccellenza. Un’opera decisamente anti moderna, direi. Forse un’opera anche filosoficamente reazionaria, rivolta al passato. Ha saputo rappresentare e divulgare in modo popolare quei temi tipici del postmoderno che, in fin dei conti, costituiscono l’ultima spiaggia della filosofia continentale, la quale ormai si esprime sempre più soltanto come narrazione della decadenza dello Spirito, come consapevolezza della fine di un’epoca. Tutto ciò agitando sconsolatamente temi come la fine della comunità, la fine del sacro, la fine del progresso, la fine delle rivoluzioni, la fine delle ideologie, la fine della storia, la fine del soggetto, la fine dei valori. La fine, insomma, di una certa idea pre darwiniana dell’uomo.
Il film ha avuto l’indubbia capacità di fare da specchio a un’epoca, a un modo di sentire dell’epoca. Un’epoca in cui la cultura popolare, diventata cultura di massa egemone, non è stata in grado accogliere, elaborare e padroneggiare i cambiamenti e le trasformazioni indotti e resi possibili dal progresso tecnico. Non è stata in grado, in altri termini, di farsene una ragione e li ha rifiutati come fossero una cattiva ragione. Forse è proprio in seguito a questa costatata incapacità che è stata riesumata la metafora dei barbari e della barbarie. In questa nostra epoca, le visioni della decadenza ci parlano intimamente perché noi stessi ci sentiamo decaduti, perché l’immagine che ci è stata innestata (come si dice nel film) dalla cultura che ci ha formati è divenuta logora troppo in fretta. È un film che ci parla diffusamente della perdita di un mondo, ma non ci aiuta in alcun modo a costruire un nuovo mondo. Anzi, fa di tutto per mantenerci a contemplare  le rovine dello Spirito in una specie di sospensione ipnotica, mantenendoci così anche fuori dalla storia.
Storicamente, nei termini di una storia della cultura, è un film che rispecchia in pieno la colonizzazione che, proprio in quegli anni Ottanta, stava avvenendo, in America, ad opera delle filosofie continentali, secondo l’asse Nietzsche, Heidegger, Gadamer e secondo le varie espressioni del post strutturalismo.[20] È davvero curioso che nel film ci siano quasi esclusivamente riferimenti alle filosofie del vecchio mondo! A quei movimenti filosofici stranieri che portarono alla diffusione, nelle facoltà umanistiche americane, dei cosiddetti Cultural Studies, uno strano pastrocchio di arte, scienza e letteratura, venduto come cultura umanistica e che oggi sempre più spesso è preso come esempio del degrado della cultura americana (e non solo). Sono quelle correnti che sono state giustamente satireggiate da Sokal.[21] Anche qui possiamo riconoscere una bella dialettica che però sembra abbia funzionato al contrario di quella di Horkheimer e Adorno. Quella cultura che ha diffuso e reso popolare, in tutto l’Occidente, la narrazione della decadenza è oggi fortunatamente sempre più spesso presa come un caso di decadenza. Oggi, di tutta quella fioritura rimane ben poco. Rimangono senz’altro molte macerie. Ma questa è un’altra storia.

Giuseppe Rinaldi
4/10/2017

  

 OPERE CITATE

1955 Benjamin, Walter
Schriften, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main. Tr. it.: Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino, 1995.

2008 Benjamin, Walter
The Work of Art in the Age of Its Technological Reproducibility, and Other Writings on Media (Eds.: Michael W. Jennings, Brigid Doherty, and Thomas Y. Levin), The Belknap Press of Harward University Press, Cambridge, Mass..

1986 Dawkins, Richard
The Blind Watchmaker, Longman Scientific and Technical, UK. Tr. it.: L'orologiaio cieco. Creazione o evoluzione?, Rizzoli, Milano, 1988.

1992 Fukuyama, Francis
The End of History and the Last Man, The Free Press, Glencoe. Tr. it.: La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano, 1996.

1944 Horkheimer, Max & Adorno, Theodor W.
Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, S. Fischer Verlag GmbH, Frankfurt am Main. Tr. it.: Dialettica dell'illuminismo, Einaudi, Torino, 2010.

1916 Lukács, Gyorgy
Die Theorie des Romans, Berlino. Tr. it.: Teoria del romanzo, SE SRL, Milano, 1999.

1979 Lyotard, Jean-François
La condition postmoderne, Les Éditions de Minuit, Paris. Tr. it.: La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano, 1981.

1964 Marcuse, Herbert
One-Dimensional Man. Studies in the Ideology of the Advanced Industrial Society, Beacon Press, Boston. Tr. it.: L'uomo a una dimensione. L'ideologia della società industriale avanzata, Einaudi, Torino, 1967.

1997 Sokal, Alan & Bricmont, Jean
Impostures intellectuelles, Odile Jacob, Paris. Tr. it.: Imposture intellettuali, Garzanti, Milano, 1999.

1983 Vattimo, Gianni & Rovatti, Pier Aldo (a cura di)
Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano.

 
NOTE

[1] La stesura di questo articolo è avvenuta prima dell’uscita del sequel, ad opera di Denis Villeneuve, Blade Runner 2049. Mi riservo eventualmente di tornare sull’argomento dopo avere visionato il nuovo film.

[2] Il film è uscito nel 1982. Non ebbe un grande successo. Nel corso del tempo ne furono confezionate diverse edizioni. Nel 2007 – così spiega Wikipedia - in occasione del 25º anniversario dell’uscita della pellicola, la Warner Bros. ha pubblicato The Final Cut, una versione digitalmente rimasterizzata e l’unica su cui Scott ha avuto totale libertà artistica.

[3] Il racconto di Philip K. Dick Do Androids Dream of Electric Sheep? è uscito nel 1968. Questa è una data piuttosto emblematica. Tra il 1968 e il 1982 – data dell’uscita del film – si era consumata, in molti Paesi del mondo, una vera e propria utopia rivoluzionaria e si erano sperimentati la sconfitta e il riflusso.

[4] Il test evoca chiaramente la ben nota macchina della verità o poligrafo, strumento dalle dubbie prestazioni, che è sempre stato connotato come strumento invasivo da parte del potere nei confronti dei singoli individui.

[5] Uso qui questo termine in senso del tutto generale e dunque necessariamente impreciso.

[6] Anche Tyrell è un uomo solo. Un caso esemplare di etica calvinista e di spirito del capitalismo. Ma anche un caso esemplare del tipo della solitudine del tiranno, circondato da gufi meccanici e da belle replicanti che non sanno neppure di esserlo. È così solo che ha bisogno della compagnia dell’infantile Sebastian, che tuttavia è un buon giocatore di scacchi. La partita a scacchi con Sebastian segnerà indirettamente la fine di Tyrell, per mano del figlio illegittimo, il replicante Roy, che ha seguito Sebastian all’appuntamento.

[7] Nel testo inglese: «It’s too bad she won’t live. But then again, who does?».

[8] Cfr. Benjamin 1955.

[9] Cfr. Fukuyama 1992.

[10] Cfr. Horkheimer & Adorno 1944.

[11] Cfr. Marcuse 1964.

[12] Il finale della fuga di Deckard (sospetto di essere anche lui un replicante) e di Rachael è troppo poco per pensare a una conciliazione tra gli umani e i replicanti.

[13] C’è ovviamente una diversa versione dello sviluppo dell’individualità, legata alla nozione illuministica della emancipazione e della liberazione del soggetto individuale. Questa narrazione è tuttavia piuttosto estranea alla filosofia continentale.

[14] Cfr. Lukács 1916.

[15] Cfr. Benjamin 2008.

[16] La metafora dell’orologiaio cieco si trova in Dawkins 1986.

[17] Una cosa analoga è effettivamente avvenuta qualche decennio fa – non esattamente nel modo descritto dal film – con la clonazione della pecora Dolly.

[18] In questo senso il film sembra uno di quegli esperimenti mentali cui ci ha abituato la filosofia analitica, la quale si è domandata piuttosto seriamente cosa significa essere un pipistrello, oppure se sia possibile che noi siamo un cervello in una vasca. La questione è chiaramente metafisica e più precisamente ontologica.

[19] Su questa paura, lo stesso Ridley Scott ha costruito la fortuna della saga di Alien.

[20] Il film è uscito nel 1982. Nel 1979 Lyotard pubblicava il suo rapporto dal titolo La condition postmoderne, che è considerato una specie di manifesto del postmodernismo. Nel 1983 usciva in Italia Il pensiero debole di Vattimo & Rovatti, considerato anch’esso come il manifesto italiano del postmodernismo.

[21] Cfr. Sokal & Bricmont 1997.