mercoledì 23 ottobre 2013

Contraddizioni del terzo tipo (1.3)

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“Gli uomini sembrano portati a reagire di fronte a un problema, o proponendo qualche teoria e aderendovi il più a lungo possibile (se è erronea possono anche perire con essa, piuttosto che disfarsene), oppure combattendola, una volta scopertene le deficienze”.
(K. Popper 1940: 532)
 
 
Il marxismo si è radicalmente contrapposto alla scienza moderna rivendicando il possesso di un metodo, il metodo dialettico, che sarebbe capace di compiere una critica radicale della stessa scienza moderna e, quindi, capace di conseguire una conoscenza più autentica, in grado non solo di rappresentare più veridicamente la realtà ma anche di trasformarla. Ciò ha finito per produrre una contrapposizione tra la logica dialettica marxista e l’epistemologia delle scienze che ha attraversato tutta la storia del marxismo e che, per molti aspetti, continua tuttora. Si tratta di una contrapposizione che pare ormai abbia completamente perso di vista la nozione delle proprie stesse radici nella storia del pensiero filosofico e scientifico e che quindi sia condannata alla ripetizione stanca di un formulario rituale. In questo articolo, prendendo le mosse dalle analisi e dal dibattito suscitato da Lucio Colletti negli anni Settanta e Ottanta, si è cercato di delucidare la questione della dialettica marxiana e di riprenderne saldamente i termini alla luce di un suo più ampio inquadramento nella storia del pensiero filosofico che giunge fino a coinvolgere l’ontologia aristotelica.
Colletti aveva affrontato la questione della dialettica marxiana mediante un chiarimento rigoroso circa la differenza tra le opposizioni reali, che sono del tutto compatibili con la scienza moderna, e le contraddizioni dialettiche di fonte hegeliana che sarebbero invece intrinsecamente incompatibili con essa. Le contraddizioni marxiane sarebbero solo un sottoprodotto delle contraddizioni hegeliane. Nell’articolo si mostra come, per ottenere una chiarificazione definitiva della questione, sia necessario ricorrere a un terzo tipo di contraddizioni che sono definibili come contraddizioni ontologiche. Sono contraddizioni che hanno senso solo all’interno della metafisica aristotelica e della scolastica, che sono passate tacitamente nell’hegelismo e di lì ereditate supinamente dal marxismo, grazie al famoso «capovolgimento» della dialettica hegeliana operato da Marx. Il metodo dialettico marxiano altro non sarebbe quindi che aristotelismo scolastico applicato al campo dell’economia, della società e della politica del XIX° secolo.
 
1.     Contraddizioni logiche e opposizioni reali
1.1         Contraddizioni e conoscenza scientifica
Negli anni Settanta, nel nostro Paese, tra le tante cose che sono successe, si è sviluppato un interessante e intenso dibattito sui fondamenti epistemologici della teoria marxiana. Poi, nel breve volgere di pochi anni, l’interesse per questa problematica è venuto meno e di marxismo oggi non si parla più.[1] Può darsi che non si tratti di una gran perdita, ma quel che inquieta sono le modalità assolutamente poco riflessive con cui il marxismo è diventato improvvisamente di moda e poi, altrettanto improvvisamente, è stato abbandonato. Le infatuazioni culturali repentine solitamente non producono sedimentazione alcuna, non fanno progredire la conoscenza ed espongono gli infatuati a pericolose ripetizioni, a insidiosi ritorni del rimosso, sotto spoglie appena modificate. Non è dunque tempo sprecato un esercizio di riflessione che permetta di fare i conti con alcune problematiche di quegli anni che sono state molto agitate, ma assolutamente poco comprese e poco superate. È probabile che una parte dello stallo in cui si trova oggi il nostro Paese sia dovuto proprio alla superficialità con cui determinate ideologie sono state abbracciate e poi abbandonate.
 Uno dei protagonisti di quella stagione culturale è stato senz’altro Lucio Colletti, un intellettuale rigoroso, di statura internazionale, che ha prodotto numerosi contributi, in particolare sul rapporto tra Hegel e Marx e sul problema della dialettica. Tra questi merita di essere ricordata la sua sintesi più importante, che si trova in Colletti 1969 e numerosi scritti come Colletti 1974a, Colletti 1974b e Colletti 1980. Colletti, seppure non sia stato il primo, ha avuto il grande merito di formulare in modo chiaro e di approfondire il problema dei rapporti tra Hegel e Marx, soprattutto in relazione alla questione della scientificità del marxismo. Bisogna ricordare in proposito che egli è stato l’allievo più significativo di Galvano della Volpe, l’intellettuale italiano che, più di ogni altro, aveva scommesso sulla possibilità di porre il metodo marxiano a fondamento delle scienze sociali. La problematica affrontata da Colletti ruotava dunque intorno ai fondamenti del metodo marxiano e, ancor più specificatamente, intorno alla dialettica marxiana.
Le originali conclusioni cui era giunto Colletti alla metà degli anni Settanta[2] avevano suscitato un certo clamore ed erano state accolte da alcuni con estremo sconforto e da altri come una liberazione. Secondo Colletti ci sono soltanto due tipi di contraddizioni che sono compatibili con la scienza moderna e che vanno tuttavia assolutamente tenuti distinti: a) le contraddizioni di tipo logico, che si riferiscono esclusivamente alla coerenza del discorso, le quali obbediscono al «principio di non contraddizione» e sono trattate nella logica formale e b) le opposizioni reali che obbediscono alle leggi della fisica e quindi ricadono nell’ambito epistemologico delle scienze della natura. Le famose contraddizioni dialettiche, dette talvolta anche contraddizioni reali, di cui l’hegelismo e il marxismo avevano fatto un uso fondativo, sarebbero invece contraddizioni di tutt’altro genere e non avrebbero, dunque, alcun solido fondamento scientifico. Questa conclusione metteva una drammatica pietra tombale sull’ambizione, sempre ricorrente ma mai portata davvero a termine, di porre il marxismo a fondamento di una rigorosa scienza sociale, alternativa alla cosiddetta scienza sociale «borghese».[3]
 In aggiunta a queste severe conclusioni, Colletti denunciava l’esistenza di una pesante coltre di arretratezza culturale negli ambienti del marxismo ufficiale, ove spesso non ci si era neppur resi conto dell’esigenza di distinguere rigorosamente tra i vari tipi di contraddizioni. Tra le conseguenze indesiderate di questa complessiva arretratezza Colletti segnalava già allora con preoccupazione lo spostamento del marxismo su posizioni sempre più antiscientifiche e irrazionalistiche. In questo sbandamento si potevano annoverare cose anche molto diverse tra loro, come il materialismo di stampo positivistico, le incredibili formulazioni del diamat, l’uso maoista della dialettica oppure, ancora, il marxismo heideggeriano, il cosiddetto pensiero negativo e gli intrecci tra marxismo e strutturalismo.
1.2       L’anomalia delle contraddizioni reali marxiane
Le conclusioni di Colletti avevano tuttavia lasciato un grave problema aperto, che egli stesso aveva dichiarato essere di difficile soluzione. Il problema riguardava la definizione di quale fosse l’autentica posizione di Marx nei confronti delle «contraddizioni dialettiche» o «contraddizioni reali» di cui sono effettivamente disseminate le sue varie opere e, soprattutto, quelle della maturità. L’uso della dialettica fatto da Marx, alla luce delle conclusioni di Colletti, risultava effettivamente inspiegabile, tanto da gettare un’ombra decisa sulla fondazione e sulla coerenza interna della teoria marxiana. Ci permettiamo di riassumere la questione attraverso il montaggio di alcuni passi dello stesso Colletti che si possono reperire in Colletti 1974b.
Racconta dunque Colletti, quasi come in un romanzo filosofico, quanto segue: «Leggendo e rileggendo il Capitale e, soprattutto, le prime sezioni che, per ammissione stessa di Marx sono le più difficili […] mi parve di capire che la teoria del valore era tutt’uno con la teoria dell’alienazione e del feticismo. Il “lavoro astratto”, o creatore di “valore” era il lavoro alienato stesso. Riprendeva così forza ciò che avevo intuito molti anni prima […] cioè che i processi di ipostatizzazione, la sostantificazione dell’astratto, l’inversione di soggetto e predicato, etc., lungi dall’essere per Marx soltanto modi difettosi della logica di Hegel di riflettere la realtà, erano processi che egli ritrovava […] nella struttura e nel modo di funzionare della società capitalistica stessa».[4] Continuando la sua narrazione, poco oltre Colletti aggiungeva: «Della Volpe non è mai riuscito a dar conto della teoria del feticismo in Marx. E non, ovviamente, perché non volesse, ma perché, nel suo schema di discorso, questa teoria non poteva trovar posto. E tuttavia […] questa teoria è essenziale nel discorso economico di Marx. Essa entra a costruire […] la teoria del capitale, del profitto, dell’interesse e della rendita fondiaria».[5]
Non restava dunque che prendere atto della presenza di un’anomalia piuttosto grave nel cuore stesso della teoria marxiana. Le caratteristiche di quest’ anomalia emergente sono state sintetizzate da Colletti in questi termini: «Il senso di ciò che sto dicendo è che ci sono due Marx. Da una parte, c’è il Marx delle prefazioni al Capitale che si presenta come il continuatore e il coronatore dell’economia politica come scienza, impostata da Smith e Ricardo. Dall’altra c’è il Marx critico dell’economia politica […] che intreccia (e rovescia) il discorso di Smith e Ricardo con una teoria dell’alienazione, di cui gli economisti non sanno nulla. Nel primo caso, il discorso economico-scientifico è riferito a una realtà che è assunta nei modi positivi con cui l’assume ogni scienza. Nel secondo, la realtà, di cui si discorre, è sottosopra, «a testa in giù»: non è la realtà sic et simpliciter, bensì è la realizzazione dell’alienazione. Non è una realtà positiva, ma da rovesciare e negare».[6] Se l’analisi di Colletti aveva un qualche fondamento, bisognava allora necessariamente concludere con lui che: «Le contraddizioni del capitalismo - dalla contraddizione fra capitale e lavoro salariato a tutte le altre - non sono, per Marx, «opposizioni reali» (come sulla scia di Della Volpe, ho creduto anch’io fino a ieri), cioè opposizioni oggettive ma «senza contraddizione»: bensì sono contraddizioni dialettiche nel senso pieno della parola».[7]
 Bisognava così prendere atto del fatto che, nell’opera marxiana, non si trattava effettivamente di contraddizioni logiche e neppure di opposizioni reali, ma di una strana famiglia di contraddizioni che, pur non essendo del tutto ascrivibili alle contraddizioni hegeliane (Marx aveva, dopotutto, preso le distanze da Hegel e compiuto il famoso «capovolgimento»), rimanevano pur sempre contraddizioni dialettiche. Si trattava, dunque, di contraddizioni dialettiche specificatamente marxiane. Marx, nonostante il «capovolgimento» della filosofia hegeliana, sembrava del tutto convinto che il capitalismo fosse un’entità intrinsecamente contradditoria mentre, dal punto di vista del metodo scientifico comunemente inteso, nessuna realtà poteva essere considerata «intrinsecamente» contradditoria. Le contraddizioni trovano posto solo nel discorso. Per di più, la presenza di contraddizioni reali nella società capitalista secondo Marx non era banalmente dovuto al fatto che, come era previsto dalla metafisica di Hegel, tutte le cose dovevano essere concepite come intrinsecamente contradditorie. Spiega infatti Colletti su questo punto: «La contraddizione capitalistica non deriva per lui dal fatto che anche il capitalismo è una “realtà”. Al contrario: il capitalismo è, per Marx, contraddittorio, perché è una realtà sottosopra, rovesciata, cioè «testa all’in giù». In breve: mentre, per il materialismo dialettico, di ogni oggetto si può affermare con certezza assiomatica e prima di qualsiasi sua analisi che, come a tutte le cose dell’universo, anche ad esso devono inerire contraddizioni; per Marx la contraddizione è invece il tratto specifico del capitalismo, la caratteristica o la qualità che lo individua e particolarizza non solo rispetto a tutte le altre forme di società, ma rispetto a tutti i fenomeni del cosmo. […] Teoria dell’alienazione e teoria della contraddizione, dunque, come una sola e identica teoria, - la quale (possiamo raggiungere) abbraccia e ricomprende in sé la teoria stessa del valore. […] La contraddizione, in breve, nasce dal fatto che l’aspetto individuale e quello sociale del lavoro, che sono «intimamente connessi» (perché sono aspetti di un lavoro che l’individuo compie in società), si danno una rappresentazione e un’esistenza separata l’uno dall’altro: l’aspetto individuale o concreto del lavoro nel «valore d’uso» della merce; l’aspetto sociale, invece, un’altra esistenza sua particolare - separata e, perciò, astratta da quella del primo -nel «valore» della merce».[8]
Il fatto è che posizioni del genere sono molto diffuse negli scritti di Marx precedenti al Capitale. Risalgono addirittura agli scritti del cosiddetto «giovane Marx». Si tratta insomma di una prospettiva ricorrente, una caratteristica fondativa dell’analisi marxiana. Lasciamo ancora la parola a Colletti: «La contraddizione fa capo, insomma, alla natura stessa di questa società. Dove, pur vivendo associati, gli individui sono non solo divisi e in concorrenza gli uni con gli altri, ma, proprio perché separati gli uni dagli altri, sono separati anche dalla società, cioè dal loro rapporto complessivo. Qui, dove tutti sono indipendenti gli uni dagli altri, diventa indipendente da tutti gli individui anche il loro reciproco rapporto. Il che vuol dire che il rapporto sociale (la società) si dà un’esistenza sua propria, separata o a sé, nel denaro e nel capitale, la quale, proprio perché è un’esistenza indipendente, sfugge al controllo degli uomini stessi di cui, pure, è il rapporto. È, in una parola, la contraddizione di individuo e genere, di natura e cultura, già rilevata da tutti i maggiori analisti della «società civile» borghese del ‘700 […]. La società moderna è la società della divisione (alienazione, contraddizione). Ciò che un tempo era unito, si è ora spezzato e separato. È rotta l’«unità originaria» dell’uomo con la natura e dell’uomo con l’uomo. E, proprio perché quest’unità era originaria e, per ciò, «data», non essa, secondo Marx, è da spiegare, bensì la divisione o separazione che è insorta con lo sviluppo nella storia del capitalismo e della «società civile». […] Un’unità originaria, dunque, cui succede l’età della progressiva rottura separazione, destinata culminare nel capitalismo; e, poi, sulla base delle nuove e più elevate condizioni, ricomposizione della contraddizione tra individuo e genere, cioè superamento della separazione dell’uomo dall’uomo, così come dell’uomo dalla natura. Seppure modificato, riaffiora lo schema della filosofia della storia di Hegel. E questo, appunto, che si scopre essere il secondo volto di Marx, accanto a quello dello scienziato, naturalista e empirico».[9]
2.   Contraddizioni del terzo tipo?
Colletti ha posto, nei passi che abbiamo riportato, una massa di problemi che va ben oltre la questione della contraddizione logica, da un lato, e dell’opposizione reale, dall’altro. Sono problemi che hanno a che fare con la fondazione stessa della teoria marxiana, dal punto di vista filosofico, ma anche e soprattutto dal punto di vista scientifico. È davvero straordinario che la ricerca di Colletti non abbia avuto alcun seguito significativo e che tutta la problematica sia stata messa, per così dire, nel dimenticatoio.
Intanto possiamo abbastanza facilmente sgombrare il campo dalla questione riguardante le contraddizioni logiche. È abbastanza evidente dai suoi scritti che Marx non ha mai negato l’utilità della logica classica e quindi qualsiasi interpretazione di Marx e del marxismo nel senso di una teoria trivialista della verità è destituito di qualsiasi fondamento.[10] Quest’ammissione non significa che egli non abbia polemizzato ripetutamente e instancabilmente contro i limiti conoscitivi della cosiddetta «scienza borghese» la quale, limitandosi a utilizzare la logica formale, otterrebbe solo una conoscenza superficiale, «astratta» della realtà. La logica dialettica, per Marx, evidentemente non sopprimeva la logica formale ma permetteva di andare oltre i suoi supposti limiti, per conseguire quindi un’ipotetica verità più profonda delle cose.
D’altro canto, proprio a partire dalle puntuali argomentazioni presentate da Colletti, non pare davvero che le “contraddizioni reali” di cui parla Marx possano essere considerate come le opposizioni reali conosciute dalla scienza moderna. In Colletti 1974b: 76 a proposito delle opposizioni reali si afferma quanto segue: «Conflitti di forze in natura e nella realtà, come attrazione e repulsione nella fisica di Newton, lotte di tendenze contrapposte, contrasti di forze avverse, eccetera, tutto ciò non solo non mina ma addirittura conferma il principio di (non) contraddizione. Si tratta, infatti, di opposizioni che, proprio perché reali, sono «senza contraddizione» e nelle quali, quindi, la contraddizione dialettica non ha nulla da fare». Le opposizioni reali, oltretutto, sarebbero perfettamente trattabili attraverso la comune metodologia scientifica, quella usata nell’ambito della cosiddetta «scienza borghese», e non necessiterebbero del particolare apparato aggiuntivo di un qualche tipo di metodo dialettico.
Tolte di mezzo le due possibilità più ovvie, come del resto aveva già fatto autorevolmente Colletti, le contraddizioni di cui parla Marx si potrebbero a questo punto considerare come contraddizioni hegeliane a pieno titolo.[11] Ciò indurrebbe però a considerare Marx stesso come un filosofo hegeliano e considerare dunque il Capitale nientemeno che come un’analisi della società capitalista condotta da un punto di vista hegeliano. Questo avvicinamento tra Marx e Hegel è stato effettivamente tentato da molti studiosi,[12] ma, in un modo o nell’altro, è sempre risultato insoddisfacente, poiché ha sempre comportato sia il misconoscimento di taluni aspetti rilevanti delle teorie marxiane contrastanti con Hegel sia la tendenziale considerazione di Marx come filosofo irrazionalista. Parlare di contraddizioni pienamente hegeliane in Marx significherebbe, oltretutto, ignorare le sue numerose prese di distanza dall’idealismo hegeliano. Significherebbe ignorare completamente il famoso rovesciamento di Hegel, cui Marx ha fatto più volte cenno.
Insomma, se dopo gli studi di Colletti potevamo dire di sapere con precisione cosa non fossero le contraddizioni reali marxiane, non si poteva tuttavia affermare che fossimo giunti a capire cosa fossero effettivamente, come andassero effettivamente interpretate. In Colletti 1980 l’Autore è tornato ad affrontare il problema della contraddizione reale, ribadendo la distinzione tra i due tipi di contraddizione che egli riteneva compatibili con il pensiero scientifico e cercando di approfondire ulteriormente il significato della contraddizione in Hegel. In quest’ultimo saggio egli ha avanzato esplicitamente l’ipotesi che le contraddizioni hegeliane fossero una specie di ibrido pasticciato tra le contraddizioni logiche e le opposizioni reali, una specie di contaminazione tra le due. Di conseguenza, anche le contraddizioni marxiane avrebbero dovuto essere considerate come ibridi pasticciati al pari delle contraddizioni hegeliane. Si tratta a nostro parere, di una soluzione complessivamente poco chiara, che probabilmente non rende giustizia né a Hegel né a Marx.
In realtà, e questa è la tesi che intendiamo sostenere, le contraddizioni reali di cui parla Marx non appartengono né al primo né al secondo tipo di contraddizioni individuate da Colletti. Non si tratta neppure di contaminazioni indebite tra le une e le altre, come crede lo stesso Colletti. Esse appartengono dunque a un terzo tipo di contraddizioni, di cui pare però che egli non abbia mai sospettato l’esistenza, che potremmo definire come contraddizioni ontologiche. Si tratta di contraddizioni del tutto sconosciute alla logica, all’epistemologia e alla filosofia contemporanee e che trovano tuttavia un senso soltanto nell’ambito di un’ontologia delle forme di tipo aristotelico - scolastico. La cosa non è così strana come potrebbe sembrare a prima vista, poiché il sistema hegeliano, entro il quale il giovane Marx ha maturato la propria formazione, nonostante i tentativi di mascheramento da parte dello stesso Hegel e di tutti i suoi epigoni, è sempre stato fondamentalmente un sistema aristotelico - scolastico.[13] In altri termini, Marx non dovrebbe essere considerato come il più grande discepolo di Hegel, come qualcuno ha sostenuto, bensì come il più grande discepolo di Aristotele. La presenza in Marx di questo tipo di contraddizioni è il frutto del famoso «capovolgimento» che, come si vedrà, non è stato affatto un effettivo capovolgimento. Se ciò è vero, come si cercherà di mostrare, il marxismo dovrebbe essere considerato, dal punto di vista dell’ontologia e della gnoseologia, come una dottrina arcaica fondata sulla metafisica scolastico aristotelica,[14] un vero e proprio relitto culturale di altre epoche che è sopravvissuto e continua a sopravvivere ritualmente, principalmente perché ha smarrito ogni consapevolezza delle proprie origini.
 
3.   Contraddizioni ontologiche
3.1       Logica e ontologia nel principio di non contraddizione
Per comprendere cosa possa essere una contraddizione ontologica dobbiamo risalire ad Aristotele. Una traccia consistente di questo tipo di contraddizioni si trova nella Metafisica, nelle formulazioni in cui lo Stagirita ha enunciato il principio di non contraddizione. Dice, infatti, Aristotele: «È impossibile che la medesima cosa (un medesimo attributo) appartenga e non appartenga ad una medesima cosa, nello stesso tempo e secondo il medesimo rispetto».[15] In questo passo, la caratterizzazione del principio è soprattutto di tipo gnoseologico e la sua formulazione ci risulta ancor oggi del tutto familiare. Si afferma che non possiamo sostenere che sia vero, contemporaneamente, A e ¬ A. Questo principio è una delle grandi scoperte di Aristotele ed è stato posto con successo alla base dello sviluppo della moderna logica formale. Altrove, tuttavia, lo stesso principio è stato formulato da Aristotele con una caratterizzazione più prettamente ontologica: «Esiste negli esseri un principio rispetto al quale non è possibile che ci si inganni, ma rispetto al quale, al contrario, è necessario che si sia sempre nel vero: è questo il principio che afferma che non è possibile che la medesima cosa in un unico e medesimo tempo sia e non sia, e che lo stesso vale anche per gli attributi che sono fra loro opposti in questo modo».[16] Questa seconda definizione era considerata fondamentale da Aristotele e riguardava la natura stessa delle cose. Il principio di non contraddizione aveva cioè anche e soprattutto un valore ontologico e, come tale, garantiva l’integrità degli enti, oltre che la loro conoscibilità. Nella storia della filosofia questo secondo significato è stato progressivamente messo da parte e, ai giorni nostri, il principio di non contraddizione ha ormai esclusivamente un’interpretazione gnoseologica. Ciò è avvenuto poiché l’ontologia aristotelico scolastica (quella del realismo degli universali, per intenderci) da alcuni secoli ha lasciato il campo alla visione fenomenista di tipo galileiano newtoniano.
3.2      Essenza e privazione
Date queste premesse, in che senso si può parlare di una contraddizione ontologica? Ebbene, una volta ammesse le principali premesse della metafisica aristotelica, una contraddizione ontologica si ha nel caso in cui «la medesima cosa in un unico e medesimo tempo sia e non sia». Poiché, secondo Aristotele, «l’essere si dice in molti modi», una contraddizione di tipo ontologico ha a che fare con l’alterazione dell’essenza delle cose. Comunemente, seguendo un’errata prospettiva platonizzante, si ritiene che le essenze aristoteliche fossero inalterabili. In realtà nella metafisica di Aristotele è del tutto contemplata la possibilità di un degrado dell’essenza. Si ricordi, in proposito, che anche l’aristotelico Tommaso - il quale riteneva che ciascun ente, poiché creato da Dio, fosse necessariamente e intrinsecamente uno, vero e buono - ammetteva la possibilità di una corruzione dell’essenza, ad esempio nel caso del peccato. Aristotele non si è espresso esplicitamente su queste questioni ma nella sua opera è riportata un’abbondante casistica di corruzione delle essenze.
Prima di procedere oltre, occorre considerare che le indagini più conosciute di Aristotele riguardano spesso entità di tipo biologico, ma la sua prospettiva ontologica si applicava a tutti gli enti, anche se con qualche limitazione. Egli riteneva che ci fosse vera scienza soltanto dell’«essere necessario» cioè di quegli enti specifici (che costituiscono una specie, cioè che hanno una forma) che sviluppano la loro forma sempre nello stesso modo, per quanto soggetti a variazioni accidentali. Egli riteneva d’altro canto che non fosse altrettanto facile fare scienza nel campo dell’«essere possibile» o contingente, cioè nel campo di quegli enti che possono facilmente deviare dalla loro intrinseca natura, che presentano perciò le caratteristiche di una elevata imprevedibilità o accidentalità. La prova più evidente di tutto ciò è che Aristotele non considerava neppure degna di nota la storiografia: i fatti storici non avevano una loro essenza (cioè non avevano una forma) per cui potevano soltanto essere registrati o raccontati, uno per uno. Egli riteneva di conseguenza che l’arte poetica, poiché governata da un qualche tipo di forma, fosse superiore alla storiografia. La politica come scienza andava anch’essa soggetta a molte limitazioni.[17]
Per Aristotele le contraddizioni di tipo ontologico, sebbene fossero da evitare, erano dunque del tutto possibili, soprattutto nel campo dell’essere contingente, e avevano a che fare con il venir meno dell’essenza di una cosa, con l’impossibilità di sviluppare l’essenza di una cosa, oppure con l’emergere di proprietà inconciliabili all’interno dell’essenza della medesima cosa. Esse erano più o meno tutte rapportabili alla nozione della privazione (stéresis), la quale anch’essa al pari dell’essere «si dice in molti modi». Prenderemo in esame una breve casistica.
1) In generale, secondo Aristotele è del tutto possibile che un ente[18] perda la sua forma. Non si tratta di una separazione della materia dalla forma, poiché in tal caso si cadrebbe nel platonismo. Si tratta piuttosto di una perdita della forma o di una sua degradazione. Va notato che la forma può essere perduta dal singolo esemplare (gli uomini come specie sono «animali bipedi razionali», ma un singolo uomo può perdere la ragione, oppure può diventare zoppo e cessare di essere bipede; la morte degli organismi biologici è considerata come una perdita di forma), oppure dalla specie intera. L’esempio più clamoroso, che tutti conoscono, di deformazione di un’intera specie è quello contemplato nella teoria traducianista del peccato originale: poiché Adamo (inteso qui come la specie umana) ha peccato, allora tutti i suoi discendenti saranno portatori della privazione del peccato.
2) Siamo poi in presenza di una privazione in tutti quei casi in cui un ente che sia soggetto a un cambiamento - nel senso dello sviluppo inteso come passaggio dalla potenza all’atto - non riesce a raggiungere la sua forma finale (cioè, la sua entelechia): «…privazione si ha quando una cosa non ha ciò che dovrebbe avere per sua natura, in un determinato tempo in cui dovrebbe per sua natura averla».[19] Insomma, si tratta di un’interruzione anomala del processo di passaggio dalla potenza all’atto. Anche in questa situazione la privazione può essere riferita a un singolo individuo, oppure all’intera specie (un singolo può essere privato mentre quelli della sua stessa specie non lo sono, oppure, la specie intera può essere privata della possibilità di svilupparsi e raggiungere la sua forma finale).
3) È altrettanto possibile, secondo Aristotele, che un ente sia sottoposto a tensioni interne per quel che riguarda la propria essenza, cioè che un ente possa trovarsi intimamente lacerato (cioè ontologicamente incoerente) per avere acquisito proprietà che siano tra loro incompatibili.[20] Per Aristotele non sarebbe possibile un «bipede quadrupede», non solo in termini logici, ma anche e soprattutto in termini ontologici. Un bipede quadrupede sarebbe un mostro, la sua stessa essenza conterrebbe una contraddizione ontologica. Si potrebbe obiettare che un bipede quadrupede, essendo impossibile sul piano logico non sia neppur possibile in termini ontologici. Per Aristotele tuttavia simili contraddizioni ontologiche possono di fatto accadere, soprattutto nel campo più impreciso dell’essere possibile o contingente (l’essere pratico - poietico). Può accadere facilmente, in questi casi, che sopravvenga un conflitto interno circa la natura della cosa, cioè che ci sia una cosa che assume proprietà intrinsecamente incompatibili. Va notato qui che si tratta non di un’incompatibilità logica bensì di un’incompatibilità rispetto alla natura della cosa stessa. Più che di una contraddizione logica, si tratta dunque di qualcosa di simile a un guasto intrinseco. Le cose hanno per natura un loro ordine, ma si possono guastare.
3.3      Forme degenerate
Vediamo ora qualche esempio. Ci sono dei passi, nella Politica, in cui Aristotele cerca di individuare l’essenza di ciascuna attività economica. Spesso viene effettuata la distinzione tra ciò che è naturale e ciò che è artificiale e, talvolta, alcuni sviluppi artificiali vengono condannati come innaturali. Uno dei casi più noti è il seguente. In campo economico, ragionando intorno alla proprietà dei beni, Aristotele afferma che: «Di ogni proprietà è possibile un doppio uso, l’uno e l’altro inerente dell’oggetto di per sé, ma non allo stesso modo, in quanto uno è proprio e l’altro improprio rispetto alla cosa usata, per esempio una calzatura può essere calzata o scambiata con altri prodotti».[21] Aristotele ritiene dunque che nell’essenza della calzatura ci sia l’uso di esser calzata e non l’uso di esser prodotta per lo scambio. In tal caso, perché le cose stiano al loro posto,[22] occorre che le calzature siano fatte per essere calzate e non per essere scambiate. Un mondo in cui le calzature fossero fabbricate principalmente per lo scambio, sarebbe un mondo «capovolto», più o meno come il capitalismo descritto da Marx. Insomma, di fronte all’assurdo (cioè, alla contraddizione ontologica) di un «doppio uso» è necessario che uno dei due usi sia quello proprio (coerente con l’essenza), l’altro sarà improprio (innaturale).
Mentre nella natura la forma alterata di un «bipede quadrupede» non potrebbe forse materialmente neppure esistere, nel campo pratico – poietico può facilmente accadere che le forme mostruose siano prodotte e mantenute. Può de facto esistere un’attività di produzione di calzature solo per lo scambio, oppure può esistere un’attività finanziaria che abbia di mira solo il fine del «denaro per il denaro», avendo il denaro perso di vista la propria mera essenza di mezzo. Un altro esempio analogo è la discussione contenuta nella Politica in cui Aristotele mette a confronto le forme di costituzione buone e le relative forme degenerate. Questa discussione ci permette di comprendere come egli ritenesse possibile, ad esempio, che la monarchia perdesse la propria essenza e si trasformasse in tirannide, oppure che il regime politico basato sul governo dei molti (politeia) perdesse la propria essenza e si trasformasse in democrazia (che era considerata come una forma degenerata).
Dunque, soprattutto nel campo pratico o poietico, dove si può sfuggire più facilmente alla stretta necessità, è possibile che si presentino forme degradate, si dia luogo cioè a quelle che abbiamo chiamato contraddizioni ontologiche. Soprattutto in questo campo, le buone forme sono solo possibili e non necessarie. È solo possibile (in potenza) e non necessario che ci sia una buona costituzione politica, oppure che l’uomo realizzi la parte più nobile della propria anima attraverso la contemplazione. È solo possibile e non necessario che l’attività finanziaria si mantenga nella sua natura di mezzo: può accadere però che essa perda la propria buona forma e si perverta, commutando il mezzo in fine. Soprattutto nel campo pratico poietico dunque non è detto che l’ordine razionale si traduca sempre in atto.[23] Aristotele dunque condivide che il bene sia la forma delle cose buone, ontologicamente non guaste. Qualcosa invece che «sia e non sia» quel che dovrebbe essere (si ricordi sempre la priorità dell’atto) è un’entità degradata. Queste banali considerazioni sull’aristotelismo, come vedremo, sono fondamentali per la comprensione delle “contraddizioni reali” di Hegel e soprattutto di Marx.
 
4.   La contraddizione in Hegel
4.1       La teoria della contaminazione
A quasi duecento anni dalla sua enunciazione, la dottrina hegeliana suscita ancora oggi innumerevoli controversie interpretative. Ciò indubbiamente è dovuto anche all’oscurità del pensiero dell’autore e al suo stile espressivo contorto e involuto. Si tratta di un’oscurità che, secondo alcuni interpreti, sarebbe stata del tutto intenzionale, per motivi di opportunità accademica. Comunque l’oscurità di Hegel, quali ne fossero le ragioni, ha favorito la nascita di molteplici posizioni filosofiche che così a lui si sono rifatte, senza tema di alcuna smentita. Non è detto che tutto ciò debba essere considerato un difetto, tuttavia è senz’altro fonte di problemi quando si voglia fare una ricostruzione attendibile delle idee dello stesso Hegel.
La difficoltà nel ricostruire l’autentica posizione hegeliana è palpabile nel saggio di Colletti sulla contraddizione (Colletti 1980). La questione naturalmente è stata da lui impostata in relazione ai due tipi di contraddizione che egli stesso aveva identificato nei suoi lavori precedenti. Avendo definito come scientificamente plausibili unicamente la contraddizione logica e l’opposizione reale, Colletti non ha potuto fare a meno di considerare la contraddizione hegeliana come una specie di corpo estraneo o come una specie di pasticcio enigmatico. Nel suo articolo egli ha così individuato due tipiche posizioni interpretative a proposito della natura della contraddizione hegeliana.
1) La prima posizione – con la quale Colletti espressamente afferma di concordare – sostiene l’incompatibilità radicale tra la dialettica hegeliana e il PNC. La formulazione più tipica di questa posizione è quella contenuta nell’articolo di Karl Popper sulla dialettica.[24] L’obiezione popperiana s’incentra proprio intorno alla pretesa dei dialettici che esistano delle contraddizioni reali. Popper, sulla base dell’epistemologia della scienza moderna, ha buon gioco nel dimostrare che nella realtà fenomenica di cui si occupa la scienza non possono esistere contraddizioni reali. La scienza progredisce proprio attraverso la confutazione delle contraddizioni.
2) La seconda posizione individuata da Colletti propende invece per la compatibilità della dialettica col PNC. È la cosiddetta interpretazione metaforica della contraddizione. Secondo questa scuola di pensiero, la violazione da parte di Hegel del principio di non contraddizione sarebbe solo apparente. Alcuni studiosi hanno sostenuto questa posizione affermando, in particolare, che in Hegel non si tratterebbe di contraddizioni, bensì di “contrari”. Colletti in proposito cita Boutroux e altri studiosi che ricondurrebbero la contraddizione hegeliana nient’altro che ai contrari di Aristotele.[25] L’interpretazione metaforica – se accolta - vanificherebbe le obiezioni popperiane e assolverebbe la dialettica dalla violazione del PNC.
Le obiezioni di Colletti nei confronti dell’interpretazione metaforica non appaiono in effetti troppo robuste. Esse si basano anzitutto sul fatto che i dialettici, in generale, avrebbero esplicitamente preteso di costruire una logica “nuova”. Colletti dunque sembra disposto a prendere per buone le intenzioni dei dialettici e non adombra che essi potrebbero sbagliarsi anche circa le loro stesse intenzioni. In secondo luogo, Colletti afferma che Hegel, nei suoi scritti, intende proprio parlare alla lettera di “contraddizione” e non dei contrari aristotelici. Colletti si rifà a quanto espressamente affermato da Hegel nella Scienza della logica e non adombra che le affermazioni hegeliane sulla contraddizione potrebbero costituire semplicemente uno dei tanti punti contorti della sua esposizione. Colletti comunque ammette, a favore dell’interpretazione metaforica, che il discorso hegeliano anche se contradditorio non sia del tutto assurdo e sia comunque dotato di un qualche senso.
Se Hegel si contraddice pur essendo il suo discorso non del tutto assurdo, cioè dotato di un qualche senso, ne consegue curiosamente una situazione per cui Hegel viola e non viola il principio di non contraddizione. La soluzione interpretativa proposta da Colletti è la teoria della contaminazione, come spiega egli stesso: «La spiegazione, che noi proponiamo, sopravviene a confermare, in sostanza, quella che è stata una duplice impressione mille volte rilevata dagli interpreti del pensiero hegeliano. a) Il discorso di Hegel ha indubbiamente senso. È comprensibile. Esso esibisce, in tutto l’arco del suo sviluppo, contenuti concreti ed è contesto, quindi, di significati determinati. b) I passaggi logico-dialettici, attraverso cui Hegel procede nello sviluppo del suo pensiero e per attingere quei contenuti, risultano, d’altra parte, «oscuri», «sforzati», «artificiosi» o «equivoci» (si veda, ad es., la documentazione addotta, in proposito, da Trendelenburg), in quanto sono passaggi che si compiono in violazione del principio di non-contraddizione. Concludendo. La linea interpretativa, che abbiamo illustrato servendoci dello scritto di Popper Che cos’è la dialettica?, è, a nostro avviso, quella giusta. La logica dialettica di Hegel implica effettivamente violazione e/o «superamento» del principio di non-contraddizione».[26] In altri termini, afferma sempre Colletti: «Pur non essendo, a rigore, né negazione logica né opposizione reale, la dialettica di Hegel procede contaminando le due. La “negazione dialettica” risulta, così, un ibrido che nasce dalla mescolanza indebita di “contraddizione” e “contrarietà”».[27]
Naturalmente, poiché la dialettica marxiana deriva in qualche modo da quella hegeliana, la contaminazione sarebbe stata trasferita da Hegel a Marx e questa sarebbe la spiegazione ultima della sussistenza dei «due Marx» che era stata drammaticamente fatta rilevare da Colletti. La teoria della contaminazione enunciata da Colletti coglie senz’altro alcuni aspetti importanti della dialettica hegeliana e di quella marxiana, ma a nostro parere non ne coglie la vera natura.
4.2      Essenzialismo e fenomenismo
Il problema interpretativo di fronte cui Colletti si è, in un certo senso, arrestato riguarda, a nostro giudizio, l’applicabilità proprio alla metafisica hegeliana della distinzione tra contraddizione logica e opposizione reale. Colletti è ben consapevole che questa distinzione risale a Kant e, successivamente, a Trendelemburg, che era stato uno dei primissimi critici della dialettica hegeliana. Tuttavia la possibilità stessa di operare questa distinzione è connessa allo sviluppo della filosofia e della scienza occidentali e, in particolare, risale al fatto che Kant e Trendelemburg condividevano una comune ontologia, cioè l’ontologia fenomenista di marca newtoniana.[28] Kant è famoso proprio per avere posto dei seri limiti alla metafisica tradizionale (quella aristotelico scolastica) e per avere accolto nel suo sistema la concezione dello spazio e del tempo di Newton. Che lo spazio e il tempo fossero state considerate da Kant forme trascendentali non è rilevante in questa sede: la teoria della conoscenza kantiana è stata costruita dal suo autore proprio per essere compatibile con quella di Newton. Il fatto fondamentale da considerare è che, prima di Newton, la nozione di un’opposizione reale era impossibile da concepire.
 Quando Hegel pretendeva, nella sua metafisica (che egli impropriamente chiamava Logica), che ci fossero delle “contraddizioni reali”[29] egli faceva riferimento, attraverso la tradizione della metafisica scolastica, nient’altro che all’ontologia aristotelica.[30] Ebbene, nell’ontologia aristotelica, come si è visto, è del tutto possibile che ci siano delle contraddizioni ontologiche (che ci siano cioè degli enti che “sono e non sono”) e che queste contraddizioni siano considerate come del tutto reali, tanto da prescrivere puntigliosamente l’opportunità di superarle o di evitarle. Ciò poteva accadere, come si è visto, soprattutto in quegli enti appartenenti all’essere contingente pratico poietico, quegli enti cioè che erano stati fatti particolarmente oggetto d’indagine da parte di Hegel.[31]
Perché si ammetta che ci siano delle “contraddizioni reali”, occorre essere implicitamente portatori della nozione di una “realtà non contradditoria”, cioè di una realtà coerente e non degradata. Nell’aristotelismo era stato prescritto il principio di non contraddizione nella sua versione ontologica proprio perché si riteneva che la contraddizione ontologica, per quanto non auspicabile, potesse accadere (come del resto poteva accadere la contraddizione logica). Nella metafisica di Aristotele, ciò che garantiva l’integrità ontologica degli enti non era altro che l’essenza. Nella visione newtoniana l’essenza non è invece necessaria poiché si dà per scontato che ci siano delle leggi della natura (comunque le si vogliano concepire) inviolabili cui obbedisce la natura anche nei minimi dettagli (cade cioè la distinzione tra ciò che è essenziale e ciò che è accidentale). Quando riscontriamo nella natura delle anomalie, anche nei più piccoli dettagli, riteniamo che queste siano dovute a una nostra imperfetta conoscenza e non a una corruzione di una qualche essenza della natura. Le nostre elucubrazioni soggettive circa le essenze delle cose non hanno dunque più alcun valore e sono considerate del tutto indipendenti dalla natura (e ininfluenti su di essa).
Le essenze, oltretutto, non erano guadagnate per via sperimentale, bensì con un procedimento definitorio. Nella fisica di Newton esse sono considerate un assurdo poiché non esiste alcun metodo sperimentale per rilevare obiettivamente l’essenza delle cose. Si ricordi la celebre battuta di Newton «Hypotheses non fingo».[32] Tutte le volte che l’ontologo essenzialista ritiene di avere individuato un’essenza, fa sempre riferimento a un costrutto, a una definizione (essendo egli convinto che la definizione colga quel ch’è rilevante della cosa, la forma della cosa). È noto che Hegel rifiutava esplicitamente (insieme ai metafisici tedeschi come Leibniz) l’ontologia di Galileo e di Newton. Ciò non poteva che comportare un ricorso sistematico ai vecchi concetti della metafisica di tipo aristotelico scolastico. Per Hegel poteva dunque essere del tutto ammissibile l’esistenza di contraddizioni reali.
Hegel ha violato dunque le regole della scienza moderna non tanto perché si è logicamente contraddetto ma per un motivo molto più radicale: perché ha basato la sua metafisica interamente sulle categorie aristoteliche e ha rifiutato lo spazio - tempo newtoniano, entro il quale soltanto avrebbe avuto senso l’opposizione reale. Il contrasto effettivo non è tra chi fa un discorso logico coerente e chi fa un discorso assurdo. È piuttosto tra chi pensa che ci siano essenze e chi pensa che ci siano fenomeni. Si può sostenere con un profluvio di robusti argomenti che Hegel si sia sbagliato, che le sue concezioni siano campate per aria, ma è difficile sostenere che abbia violato il principio di non contraddizione. Hegel semplicemente credeva che il cambiamento (la cosiddetta “vita dello Spirito”) riguardasse le essenze delle cose e che quindi fosse interpretabile unicamente come un passaggio dalla potenza all’atto. Questo passaggio non è altri che il famoso movimento logico, antitetico al moto fenomenistico newtoniano e citato spesso anche da Marx – è appena il caso di far notare che “movimento logico” sul piano del senso comune è una clamorosa contraddizione in termini.
Detto per inciso, esattamente la stessa cosa era creduta anche da Aristotele e tuttavia, per questo, Aristotele non è mai stato accusato di avere elaborato una visione del mondo contradditoria. Piuttosto, anche a lui potrebbero essere imputate un’ontologia o una metafisica semplicemente sbagliate, oppure arcaiche, superate. Per fare ancora un altro esempio, sarebbe curioso confutare qualcuno che crede alla transustanziazione ricordandogli che sta violando il principio di non contraddizione. Certo, magari costui si contraddice anche, ma il suo errore principale sta nel credere alle essenze. Insomma, la dialettica hegeliana in ultima analisi è solo un’oscura complicazione romantica della metafisica aristotelica, ma si basa esattamente sulla stessa visione essenzialista della realtà. Hegel e Marx possono permettersi di parlare di contraddizioni reali perché le contraddizioni di cui parlano sono a tutti gli effetti contraddizioni ontologiche, perché sono, entrambi, essenzialisti e non fenomenisti.
Oltre ai due tipi di contraddizioni che valgono oggi per noi - che siamo nativamente newtoniani e fenomenisti - e che sono compatibili con la scienza moderna, occorreva dunque considerare un terzo tipo di contraddizioni, completamente eterogeneo rispetto ai primi due tipi, considerato valido soltanto da coloro che erano rimasti impigliati nell’essenzialismo scolastico. Colletti nelle sue argomentazioni si è trovato spesso sulla soglia della soluzione del problema, ma curiosamente non ha portato l’analisi fino in fondo. La reticenza di Colletti è fondamentalmente dovuta a un pregiudizio filosofico e storiografico di fondo, cioè al fatto di ritenere impossibile che il pensiero arcaico aristotelico potesse avere avuto dei devoti seguaci nell’Ottocento e, di più ancora, che l’orgogliosa visione del mondo della classe operaia rivoluzionaria non fosse altro che scolastica riciclata.
 
5.    Un capovolgimento impossibile
La vulgata di un Marx rivoluzionario che «capovolge» il suo maestro Hegel è stata sostenuta e continua a esserlo, sebbene con fondamenti sempre meno solidi e con esiti sempre più ridicoli. Certo, Marx ha preso le distanze da Hegel su alcune questioni, ma come tutto ciò vada considerato, comincia appena ora a essere intravisto. Colletti alla fine della sua analisi osservava che: «È indubbio che la critica di Feuerbach e di Marx [nei confronti di Hegel] si rivela ancora insufficiente. Nel tono e nelle intenzioni, essa è quanto di più radicale si possa immaginare. […] E, nondimeno, nessuno dei due autori riesce a penetrare fino alle radici ultime del problema».[33] Proseguendo, in sintesi concludeva: «Il risultato è quanto di più paradossale si possa immaginare. Marx, che sottopone a critica radicale la dialettica di Hegel, ne ribadisce, al contempo e senza avvedersene, le conclusioni. Respinge, cioè, la logica della contraddizione dialettica, nel momento stesso in cui interpreta lo Stato rappresentativo moderno in termini di teoria dell’alienazione».[34] Le conclusioni di Colletti si possono sottoscrivere pienamente, ma non esattamente per i motivi che aveva in mente Colletti. Quello di Marx è stato senz’altro un capovolgimento insufficiente. Forse non è stato neanche un capovolgimento.
Colletti avrebbe dovuto radicalmente chiedersi se si poteva davvero capovolgere la dialettica hegeliana. Non è davvero facile oggi mettersi nei panni del giovane Marx e comprendere perché mai, di Hegel, bisognasse rifiutare il sistema e mantenere proprio il metodo. Anche perché, dopo Galileo e Cartesio, con «metodo» s’intendevano cose piuttosto precise. Se per «metodo hegeliano» intendiamo il metodo seguito da Hegel nella sua elaborazione filosofica, il suo «metodo della scoperta», questo era senz’altro un metodo inesistente. Esso non era mai stato esposto dall’autore e una simile esposizione sarebbe stata del tutto anti hegeliana. Hegel lo aveva detto chiaramente: non c’è alcun metodo separato dal sistema. Ciò che Marx (forse inconsapevolmente contagiato dal positivismo nascente) chiama «metodo», evocando scorrettamente in noi ascendenze cartesiane o galileiane, non è tanto il metodo seguito da Hegel, un metodo che fosse separabile dal sistema, esportabile e utilizzabile per altri scopi, ma è piuttosto una parte consistente, costitutiva del sistema hegeliano stesso. È, di fatto, la metafisica del sistema. Purtroppo per Marx, una metafisica capovolta non diventa un’anti metafisica, diventa, ahimè, un’altra metafisica. Il cosiddetto “metodo” di Hegel, una volta capovolto secondo gli intendimenti di Marx, non è risultato altro che la metafisica di Aristotele applicata alla società e soprattutto alla storia.[35] Il materialismo (anti newtoniano) cui Marx riteneva orgogliosamente di essere approdato non era altro che aristotelismo.
Capovolgere effettivamente il sistema idealistico hegeliano avrebbe comportato ammettere che l’Idea non è la sostanza che costituisce la realtà. Avrebbe soprattutto comportato il rifiuto esplicito della nozione stessa di sostanza e l’adozione di una visione fenomenista.[36] Diventare effettivamente materialisti nella prima metà dell’Ottocento significava aderire alla tradizione empirista, significava diventare galileiani - newtoniani, lockeani oppure humeani. Avrebbe potuto anche significare minimamente (seppure ambiguamente) un ritorno a Kant (il che avrebbe comportato per lo meno un’adesione alla visione fenomenista di Newton). Insomma, di scelte ce n’erano in abbondanza. Marx invece si è guardato bene dall’aderire al fenomenismo newtoniano perché in tal caso avrebbe dovuto spiegare la realtà (fisica e sociale) esclusivamente per via empirica, attraverso la sola causa efficiente. Com’è noto, Marx e, soprattutto, Engels seguivano con interesse gli sviluppi della scienza e della tecnologia del loro tempo, ma con la segreta speranza che le nuove scoperte sconfessassero l’odiato meccanicismo e avvalorassero la manfrina dialettica. Queste patetiche ingenuità sono state estesamente esposte da Engels nell’Antidhüring e nella cosiddetta Dialettica della natura. Del resto, lo stesso Marx ha confessato candidamente di avere usato la Scienza della logica di Hegel come riferimento metodologico, durante la stesura del Capitale. Se avesse aderito al fenomenismo, Marx avrebbe dovuto rinunciare a qualsiasi tipo di causa finale e dunque avrebbe dovuto rinunciare alle leggi dello sviluppo storico, in qualsiasi forma. Insomma, avrebbe dovuto rinunciare al materialismo storico e nientemeno che alla critica dell’economia politica.
In ambito marxista si sostiene comunemente, in forma piuttosto pomposa, che Marx sia un materialista vero (in contrasto con i materialisti considerati “volgari”) poiché egli avrebbe considerato come unica sostanza la prassi, ovvero l’attività umana. Questa formulazione tuttavia non significa proprio nulla se non si definisce in cosa consista la prassi marxiana. Troppo spesso ci si accontenta di proiettare retrospettivamente negli scritti di Marx la nostra attuale generica nozione di prassi. L’attività umana di cui tratta Marx non è il comportamento (riconducibile all’empirismo e studiabile mediante il metodo osservativo); non è neppure l’azione di soggetti individuali che operano in base alla loro rappresentazione interna, la quale sarebbe comunque perfettamente riconducibile alla scienza in termini di individualismo metodologico.[37] Si tratta piuttosto dell’attività di entità organiche sovra individuali, di entità spirituali (nel senso di Hegel) di tipo collettivo (classi, formazioni economico sociali,…). Si tratta di entità governate non dalle leggi causali newtoniane, non dalle deliberazioni consapevoli dei singoli soggetti, bensì dalle leggi del movimento logico, ovvero dalle leggi della dialettica. Anche quando Marx tenta di interpretare i conflitti empirici, lo schema che egli usa è sempre quello del movimento logico, della contraddizione dialettica entro essenze o fra essenze. Solo così Marx può ritenere che ci siano effettivamente “realtà contradditorie” o “realtà capovolte” da rimettere con i piedi per terra, come quelle che avevano tanto turbato Della Volpe o Colletti. Oppure può ritenere che ci siano “scissioni da ricomporre”, o, ancora, “essenze” che si perdono e che si ritrovano, come nella sua dottrina dell’alienazione. Può ritenere che dentro la merce ci siano, contraddittoriamente, due nature opposte,[38] oppure che il valore della merce magicamente possa essere “lavoro incorporato”. Marx in realtà non ha mai veramente proceduto allo studio empirico del comportamento o dell’azione. Ha provveduto a studiare, in termini aristotelico scolastici, saccheggiando oltretutto gli economisti della scuola empirica, quei contenuti che Hegel aveva catalogato nella categoria dello Spirito oggettivo e che corrispondono più o meno esattamente ai contenuti delle scienze dell’essere possibile di Aristotele, cioè dell’essere poietico - pratico. Un vecchio usato metafisico, riciclato e rivenduto con successo - come fosse un nuovo modello - alla classe operaia dell’Ottocento (e del Novecento) e a molti dei nostri presuntuosi filosofi “continentali”.
 
23/10/2013
06/09/2014 (revisione)
                                                                      Giuseppe Rinaldi
 
 
 
OPERE CITATE
 
1969 Colletti, Lucio
Il marxismo e Hegel. II. Materialismo dialettico e irrazionalismo, Laterza, Bari.
 
1974a Colletti, Lucio
Intervista politico filosofica, Laterza, Bari.
 
1974b Colletti, Lucio
Marxismo e dialettica, in Colletti, Lucio (a cura di), Intervista politico - filosofica, Laterza, Bari.
 
1980 Colletti, Lucio
Contraddizione dialettica e non - contraddizione, in Colletti, Lucio (a cura di), Tramonto
dell’ideologia, Laterza, Bari.
 
1986 Elster, Jon
An Introduction to Karl Marx, Cambridge University Press, Cambridge.
 
1965 Koyré, Alexandre
Newtonian Studies, Harward University Press, Cambridge, Massachusetts. Tr. it.: Studi
newtoniani, Einaudi, Torino, 1972.
 
1940 Mure, Geoffrey R. G.
An Introduction to Hegel, Clarendon Press, Oxford. Tr. it.: Introduzione a Hegel, Ricciardi, Milano, 1956.
 
1940 Popper, Karl R.
What is dialectic?, in Mind, New Series, Vol. 49, No. 196. (Oct., 1940), pp. 403-426. Tr. it.: Che cos’è la Dialettica?, in Popper, Karl, Congetture e confutazioni, Il Mulino, Bologna, 1972, pp. 531-570.
 
 
NOTE
 
[1] Anche se recentemente è stata, da più parti, segnalata una rinascita di interesse per il pensiero di Marx.
[2] Cfr. Colletti 1974b.
[3] Un ampio resoconto di tutte le questioni qui riassunte si trova in Colletti 1974b.
[4] Cfr. Colletti 1974b: 97.
[5] Cfr. Colletti 1974b: 97-98.
[6] Cfr. Colletti 1974b: 99-100.
[7] Cfr. Colletti 1974b: 103.
[8] Cfr. Colletti 1974b: 108-110.
[9] Cfr. Colletti 1974b: 110-112.
[10] A partire dagli anni Ottanta, sul terreno delle ricerche in campo logico, soprattutto nel mondo anglosassone, si è sviluppato, seppure come ambito marginale di ricerca, il dialetheism, ovvero il tentativo di esplorare la possibilità di introdurre la contraddizione nella logica. Secondo questa prospettiva, dialeteico è un giudizio A tale che sia esso, sia la sua negazione (¬A) sono veri. Secondo l’ipotesi dialeteica, sarebbe possibile attribuire un valore di verità a talune contraddizioni. Il dialetheism, nonostante la radicalità delle sue premesse, ha tuttavia finito per concentrarsi intorno a quelle particolari proposizioni che hanno un significato paradossale, e.g. «Questa sentenza è falsa» oppure «Io sono un mentitore». Va dunque ben notato che anche questa corrente di ricerca si è ben guardata dall’attribuire valore di verità a tutte le contraddizioni, onde evitare di incorrere nel trivialism, ovvero quella posizione devastante che propone di considerare vero tutto e il contrario di tutto.
[11] Uso questa formulazione in maniera provvisoria, poiché i maggiori esperti di Hegel non sono affatto d’accordo su cosa sia effettivamente una contraddizione hegeliana.
[12] Come è noto, uno dei primi fautori della hegelianizzazione di Marx è stato il giovane Lukács.
[13] Cfr. Mure 1940. G. Mure è stato uno dei primi a indagare i rapporti tra Aristotele e Hegel disvelando la profonda radice aristotelica di tutta la metafisica hegeliana.
[14] Colletti, in qualche passaggio, ha definito come teoria scolastica il materialismo dialettico, senza trarne tutte le conseguenze.
[15] Aristotele, Metafisica, IV, 3, 1005b.
[16] Aristotele, Metafisica, XI,1061b.
[17] È noto che Aristotele aveva raccolto i testi delle costituzioni di circa 150 città della Grecia. È evidente il tentativo di identificare una qualche forma comune alle varie costituzioni.
[18] Ci riferiamo qui agli enti più comuni, quelli che si trovano nel cielo sotto la luna, che sono composti di materia e forma e si sviluppano attraverso il passaggio dalla potenza all’atto.
[19] Aristotele, Metafisica, V, 22.
[20] È degno di nota il fatto che l’essenza venga da Aristotele definita sulla base di proprietà (concetti universali). Il fatto è che cose diverse avranno proprietà essenziali diverse nella loro definizione. Ma saranno anche intrinsecamente diverse, poiché le proprietà universali, oltre che elementi della conoscenza, sono anche elementi ontologici. Dunque, in termini gnoseologici si può cadere in contraddizione qualora si attribuiscano allo stesso oggetto proprietà contradditorie (e questa è la contraddizione logica). Ma la cosa stessa, nel corso del suo sviluppo può acquistare proprietà che sono in contraddizione tra loro. Ne deriva quindi che la cosa stessa, la cosa reale, viene a essere ontologicamente bacata, intrinsecamente contradditoria. Nel linguaggio di Aristotele si sarebbe potuto parlare di qualcosa di sbagliato, oppure semplicemente qualcosa di negativo, dal punto di vista della valutazione.
[21] Aristotele, Politica, I, 9.
[22] Aristotele, in campo etico, è un perfezionista, come del resto Marx.
[23] La stessa esigenza di esplicitare il principio di non contraddizione in termini ontologici implica che questo principio talora possa essere di fatto violato. Come si possono produrre proposizioni false, magari difficili da scoprire, come del resto documenta Aristotele nei suoi Topici, così si possono produrre enti intrinsecamente incoerenti, la cui natura “contradditoria” non appare immediatamente e deve essere dimostrata.
[24] Cfr. Popper 1940.
[25] Colletti 1980:118.
[26] Colletti 1980: 123.
[27] Colletti 1980: 121.
[28] Mi riferisco con questo termine all’emergere della concezione della natura di tipo galileiano – newtoniano, nell’ambito della prospettiva empiristica.
[29] Per il ragionamento che stiamo facendo, è del tutto irrilevante se la sostanza di riferimento sia materiale o ideale.
[30] Popper è ancora più inconsapevole di Colletti rispetto alla questione della contradizione ontologica. Egli mostra di considerare la dialettica come questione puramente gnoseologica, come una bizzarra applicazione da parte dei dialettici del metodo di conoscenza per prova ed errore (cfr. Popper 1940). Ad esempio, Popper afferma che: «Dopo avere opportunamente rilevato che le contraddizioni […] sono estremamente  fertili, e costituiscono effettivamente le forze responsabili di qualsiasi progresso del pensiero, i dialettici concludono - erroneamente – come vedremo – che non vi è alcun bisogno di evitare queste fertili contraddizioni. E affermano addirittura che esse non possono essere evitate, dato che sono presenti ovunque nel mondo» (Popper 1940: 537). Buona parte dell’articolo di Popper è impegnato a dimostrare che «…se si ammettono due asserzioni, contradditorie, si deve ammettere qualsiasi asserzione; infatti da una coppia di asserzioni contradditorie è possibile inferire validamente qualsiasi asserzione» (Popper 1940: 539). Insomma, per Popper i dialettici sarebbero sostenitori di una dottrina trivialista della conoscenza. Proseguendo nell’analisi della filosofia hegeliana, Popper mostra di non comprenderne l’origine scolastica e continua a polemizzare con Hegel sulla base del fatto che Hegel ammette contraddizioni reali, mentre la scienza moderna non può che tentare di eliminare le contraddizioni.
[31] È noto oltretutto che Hegel nutriva un profondo disprezzo per la prospettiva newtoniana (e anche Marx non era da meno).
[32] Cfr. in proposito Koyré 1965.
[33] Colletti 1980: 135.
[34] Colletti 1980: 136. Il riferimento va alla marxiana Critica della filosofia hegeliana del diritto.
[35] Con l’aggravante che Aristotele aveva considerato impossibile applicare la propria metafisica alla storia. Hegel aveva violato la consegna con i risultati che si son visti.
[36] Gli hegelo – marxisti e tutti i loro tardi (talvolta inconsapevoli) imitatori del Novecento si scagliano volentieri contro il materialismo “volgare”, contro il meccanicismo, contro il positivismo, nascondendo accuratamente che la vera alternativa è quella tra sostanzialismo e fenomenismo. Senza il fenomenismo non avremmo la scienza moderna e non avremmo avuto neppure la rivoluzione industriale, saremmo ancora immersi in un mondo di favole, dove esistono schiavi per natura, dove le donne sono sottomesse per natura, dove un pezzo di pane può diventare la sostanza divina, dove si crede che ci sia l’essenza delle razze o l’essenza delle nazioni, e così via.
[37] Su questo punto, cfr. Elster  1986.
[38] Lo schema adottato è esattamente lo stesso che usavano gli scolastici per concepire e giustificare il mistero della trinità.