lunedì 27 luglio 2015

Tra il giovane Lukács e Heidegger

Lukács_bn_

1. Accenni interessanti a possibili parentele filosofiche tra Heidegger e il marxismo si trovano nell’Introduzione del 1956 scritta da Lukács per la ripubblicazione dei suoi scritti marxisti giovanili raccolti in Storia e coscienza di classe.[1] Lukács lascia intendere, pur non affrontando direttamente la questione, che Essere e tempo sia stato scritto proprio contro Storia e coscienza di classe, utilizzandone tuttavia impropriamente numerosi concetti fondamentali. Detto brutalmente, Essere e tempo sarebbe stato una scopiazzatura, orientata filosoficamente a destra, degli scritti marxisti del giovane Lukács. Su questa strada interpretativa, Lucien Goldmann, che si dichiarava discepolo del giovane Lukács e di Heidegger, aveva iniziato un lavoro di comparazione tra i due autori e ne aveva enumerato un notevole elenco di analogie e punti in comune. Il lavoro di Goldmann fu interrotto dalla sua morte, anche se i suoi appunti sono stati pubblicati postumi. [2] La questione non è mai stata risolta, anche se va detto preliminarmente che molti dei punti in comune tra Marx / Lukács e Heidegger, segnalati da Goldmann, sono senz’altro dovuti ai comuni riferimenti hegeliani. Per esaminare un po’ più in dettaglio la questione, faremo qui un esercizio di lettura del primo saggio contenuto in Storia e coscienza di classe attraverso il quale cercheremo di mettere in luce gli elementi fondazionali della dialettica secondo Lukács e le eventuali analogie con i successivi sviluppi heideggeriani.
Si tratta di un lavoro meramente descrittivo ed esplorativo ma che potrebbe avere qualche interessante conseguenza a livello della comprensione di quel che è accaduto nella recente storia della filosofia italiana, ove il dissolvimento del paradigma neomarxista ha lasciato ben presto il posto al paradigma ermeneutico heideggeriano. La presenza di parentele antiche potrebbe spiegare la facilità estrema di questo passaggio che altrimenti resterebbe del tutto inspiegabile e misterioso.
 
2. Il primo saggio contenuto in Storia e coscienza di classe di Lukács si intitola Cos’è il marxismo ortodosso ed è stato scritto nel 1919. A dispetto del titolo, contiene una serie d’interessanti riflessioni di tipo metodologico. Esso rappresenta l’interpretazione che il giovane Lukács dava del marxismo poco tempo dopo la sua adesione al comunismo. Il contributo di Lukács è interessante perché l’Autore, prima di diventare marxista, aveva frequentato assai approfonditamente la cultura tedesca del primo Novecento. Il tratto fondamentale resta l’hegelismo, mescolato però con le filosofie della vita, con le riflessioni metodologiche di Windelband, Rikert, Dilthey e Weber. L’articolo rappresenta un tentativo di reagire alla crisi del marxismo, tornando da un lato alla fonte hegeliana e utilizzando dall’altro la riflessione metodologica tedesca sul rapporto tra le scienze della natura e le scienze umane. Esso riguarda fondamentalmente la dialettica. È noto che Marx non aveva mai trattato esplicitamente l’argomento. Dopo Marx, soprattutto per opera di Engels c’era stata la formulazione del diamat, che aveva assunto un carattere alquanto dogmatico e che, in un certo senso, accoglieva alcuni orientamenti positivistici. Nell’articolo di Lukács c’è il tentativo di formulare una concezione della dialettica che implica un forte ritorno a Hegel, ma che nello stesso tempo tiene in conto il dibattito che era stato sviluppato in Germania a proposito delle scienze storico sociali.
 
3. Per prima cosa Lukács precisa, contro la scolastica marxista dell’epoca, soprattutto quella di matrice socialdemocratica, il fatto che il marxismo, più che con specifici contenuti, coincide fondamentalmente con il metodo dialettico: «Per ciò che concerne il marxismo, l’ortodossia si riferisce esclusivamente al metodo. Essa è la convinzione scientifica che nel marxismo dialettico si sia scoperto il corretto metodo della ricerca, che questo metodo possa essere potenziato, sviluppato e approfondito soltanto nella direzione indicata dai suoi fondatori. Ma anche: che tutti i tentativi di superarlo o di «migliorarlo» hanno avuto e non possono avere altro effetto che quello di renderlo superficiale, banale ed eclettico».[3]
Da ciò ricaviamo, anzitutto, che il destino del marxismo è legato soprattutto a quello della dialettica. Se per qualsiasi motivo venisse invalidato il metodo dialettico, ne sarebbe dunque invalidato anche il marxismo. Lukács ribadisce poi che il marxismo è “scientifico”, in questo, si appresta a fare concorrenza e a sorpassare le metodologie positivistiche (che erano penetrate profondamente nel marxismo attraverso Engels e il diamat). Si noti tuttavia che i limiti del positivismo ormai erano materia comune delle discussioni accademiche non solo nell’ambito del marxismo. Siamo in un periodo in cui la filosofia sta cercando la sua rivincita, sta cioè tentando di inglobare le scienze della natura senza farsene troppo condizionare. Un esempio tipico di questa strategia è la distinzione tra le scienze della natura e le scienze dello Spirito. Un altro esempio tipico di questo atteggiamento è La crisi delle scienze europee di Husserl.
È poi sicuramente interessante la concessione implicita fatta da Lukács alla nozione stessa di metodo. È bene ricordare che Hegel aveva negato la possibilità di un metodo e che Marx stesso aveva strettamente legato il metodo al suo oggetto. Cioè, l’idea di Marx era che non fosse possibile alcun metodo «in generale». Vediamo ora in Lukács che il carattere metodologico diventa il solo elemento basilare fondante l’ortodossia marxista. È questa probabilmente un’eredità delle ampie discussioni metodologiche che erano state condotte nella cultura del tempo, che avevano messo in luce l’ambiguo carattere filosofico e scientifico del “metodo”. È proprio nello spazio di quest’ambiguità che Lukács costruisce la sua immagine del metodo dialettico.
Va da sé che, se la dialettica è un metodo, dovrebbe come minimo essere intersoggettiva, cioè dovrebbe essere possibile mettersi d’accordo intorno ai suoi principi (anche se in proposito, come vedremo, possono sorgere delle difficoltà). È proprio quanto cerca di fare Lukács nel suo articolo ed è quanto cercheremo di esaminare nei prossimi paragrafi.
 
4. Lukács cerca anzitutto di dare al suo metodo una caratterizzazione pratica. Il “metodo” dialettico dunque non va ricondotto a qualcosa di limitato e relegato al campo conoscitivo. La prima cosa importante da fissare, per Lukács, è il carattere rivoluzionario della dialettica. «La dialettica materialistica è una dialettica rivoluzionaria. Questa determinazione è così importante e decisiva per comprendere la sua essenza che deve essere chiaramente afferrata prima ancora di poter trattare dello stesso metodo dialettico, per assumere un atteggiamento corretto verso il nostro problema. Si tratta del problema della teoria e della praxis».[4]
Si tratta dunque non di un metodo per conoscere, ma di un metodo per trasformare. È un metodo che può essere usato solo da chi agisce per il cambiamento e cioè dal proletariato organizzato. Non si tratta di un metodo che può usare individualmente chiunque (come ad esempio il metodo galileiano) per scopi di conoscenza della natura. Il rapporto che viene a instaurarsi tra la coscienza e l’azione storica del proletariato è immediato: «Solo se la presa di coscienza rappresenta il passo decisivo che il processo storico deve fare verso il suo proprio fine […]; se la funzione storica della teoria consiste nel rendere praticamente possibile questo passo; se è data una situazione storica nella quale la corretta conoscenza della società si converte, per una classe, in condizione immediata della propria affermazione nella lotta, se per questa classe la conoscenza che essa ha di significa al tempo stesso una corretta conoscenza della società nella sua interezza; se di conseguenza, per una simile conoscenza, questa classe è nello stesso tempo soggetto ed oggetto della conoscenza ed in questo modo la teoria interviene immediatamente ed adeguatamente nel processo di rivolgimento della società: solo allora diventa possibile l’unità di teoria e praxis, presupposto della funzione rivoluzionaria della teoria. Una tale situazione è sorta con la comparsa del proletariato nella storia».[5]
Come si può bene intendere, l’unità di teoria e praxis sarebbe l’aspetto più caratteristico della dialettica. C’è dunque in Lukács una funzione della teoria che è del tutto rivoluzionaria e che riposa non tanto sulla conoscenza dei meccanismi economici e sociali, bensì nella coscienza della classe che mette in grado il proletariato di agire come soggetto storico. «Nella misura in cui la teoria non è altro che la fissazione e la coscienza di un passo necessario, essa si trasforma al tempo stesso in premessa necessaria per il passo immediatamente successivo».[6] Di qui deriva una critica diretta nei confronti di Engels: la dialettica non è un metodo per conoscere la natura, bensì un metodo per fare la rivoluzione. In Engels «[…] l’interazione più essenziale, il rapporto dialettico tra soggetto ed oggetto nel processo storico non viene neppure menzionato, e tanto meno quindi posto – come si dovrebbe - al centro della considerazione metodica».[7] Per Lukács dunque è sbagliata ogni «separazione tra metodo e realtà, tra pensiero ed essere». Egli, di conseguenza, critica come opportunistica la rinuncia di Bernstein alla dialettica. Qui emerge con chiarezza la differenza tra la prospettiva socialdemocratica e la allora nuova prospettiva rivoluzionaria proposta da Lukács.
 
5. Per comprendere la dialettica, secondo Lukács occorre rivedere la visione elementare e basilare che comunemente abbiamo della realtà. Lukács si domanda cosa sia un fatto. «[…] l’empirismo più ottuso nega che i fatti siano in generale tali soltanto all’interno di una […] elaborazione metodologica - che può essere diversa secondo lo scopo che si persegue nella conoscenza. Esso crede di poter trovare un fatto importante in ogni dato, in ogni statistica, in ogni factum brutum della vita economica. Ed esso non si rende conto che l’enumerazione più semplice, la catalogazione di «fatti» più scarna di commenti è già un’«interpretazione»: che già fin d’ora i fatti sono appresi a partire da una teoria, secondo un metodo, sono stati strappati al contesto della vita, nel quale in origine si trovavano, e inseriti nel contesto di una teoria».[8]
Si noti intanto en passant la qualificazione secca di «ottuso» per l’empirismo, abitudine linguistica che risale senz’altro a Marx. La violenza verbale contro gli oppositori è sempre assai intensa in tutto l’articolo. Per il resto, si propone la versione caricaturale dell’empirista che accumula dati bruti ritenendo che questi siano oggettivi e che costituiscano immediatamente la conoscenza. In realtà, avverte Lukács, i fatti sono sempre strappati al continuum della vita e sono carichi di teoria. La teoria del fatto che viene qui proposta è ante litteram ermeneutica e prospettivista. Si cerca insomma di andare altre la nozione immediata di oggettività. Si noti che i fatti sarebbero strappati dal «contesto della vita», termine quest’ultimo ripreso dalla Lebensphilosophie. Va riconosciuto che la polemica contro il «dato» privo di teoria era quasi un luogo comune dell’antipositivismo. Fin qui, dunque, nulla di eclatante, anche Nietzsche e Popper potrebbero concordare: la conoscenza non è mai un dato immediato, è sempre in qualche misura costruita.
 
6. Tuttavia, e qui sta la vera novità, secondo Lukács la presenza nella società di una prospettiva incentrata sul «dato» non è un semplice errore metodologico da correggere. È una situazione reale, necessaria, quanto mai diffusa e che è un effetto al capitalismo. Si sostiene qui che l’esistenza di fatti oggettivi, isolati gli uni dagli altri, separati dalle interpretazioni, è un risultato dello sviluppo economico sociale e, in ultima analisi, un effetto del capitalismo: «Ciò che colpisce a prima vista in un metodo di questo genere è il fatto che lo stesso sviluppo capitalistico tende a produrre una struttura della società che asseconda ampiamente una simile impostazione di pensiero. Ma proprio a questo punto e proprio per questa ragione abbiamo bisogno del metodo dialettico per non soggiacere all’apparenza sociale che cosi si produce, per poter cogliere ancora l’essenza dietro questa apparenza. I fatti «puri» delle scienze della natura sorgono, cioè, trasponendo realmente o idealmente un certo fenomeno della vita in circostanze nelle quali i suoi caratteri conformi a legge possono essere indagati a fondo senza l’intervento perturbatore di altri fenomeni. Questo processo si estende ancor più nel momento in cui i fenomeni vengono ridotti alla loro essenza puramente quantitativa, espressa in numeri ed in rapporti numerici. Ora, gli opportunisti trascurano costantemente il fatto che è proprio dell’essenza del capitalismo produrre i fenomeni di questa forma».[9]
In questo brano viene proposta una teoria davvero assai impegnativa secondo la quale possono esserci diversi tipi di oggettività per così dire in competizione. C’è anzitutto l’oggettività dei dati delle scienze della natura, i quali sono strappati dalla “vita” e trasformati in fatti puri, esprimibili attraverso le leggi della natura. Senza questo processo, l’oggettività delle scienze naturali non ci sarebbe (e Lukács non la mette in dubbio). L’oggettività del «dato», quando invece sia applicata alle scienze storico sociali, rappresenterebbe un tipo specifico di oggettività che dipenderebbe dalla storia e in particolare dallo sviluppo capitalistico. Tolto il capitalismo, questo tipo di oggettività, che è «apparenza sociale» e che corrisponde al feticismo marxiano, non ci sarebbe più.[10] Soltanto se andiamo oltre l’apparenza sociale si potrà allora accedere a un altro tipo ancora di oggettività, che è l’unico autentico, si potrà cioè cogliere l’essenza.
Lukács non ha alcun dubbio che ci siano le essenze dietro le apparenze e dà la questione per scontata. Probabilmente dubbi simili non li avevano neppure i suoi lettori, sennò si sarebbe affannato a spiegare meglio la questione. Facendo lo stesso gioco di Lukács, ci potremmo domandare come mai, nella Germania del 1919, ci fosse un pubblico che considerava come reale un tipo di oggettività come le essenze. Come mai cioè ci fosse un mondo culturale in cui l’oggettività delle essenze era data per scontata. Difficile qui dare la colpa al capitalismo. Indubbiamente, possiamo desumere oggi col senno di poi, si trattava di categorie meramente scolastiche che provenivano da Hegel e che avevano inondato tutta la filosofia tedesca successiva. Si noti come ormai l’avvertenza kantiana circa la necessità di limitarsi all’apparenza (cioè ai fenomeni) fosse stata completamente dimenticata. Si noti anche che il programma di cogliere l’essenza dietro l’apparenza era compatibile con i più disparati orientamenti filosofici del tempo e che sarebbe andato bene anche a Schopenhauer.
 
7. Accanto alla polemica contro il «dato» fenomenico abbiamo poi la immancabile polemica contro la quantificazione. I fenomeni sono computabili solo se sono già stati isolati e separati, quindi si tratta soltanto di una conseguenza della precedente oggettività arbitraria e ingannevole. La diffusione della quantificazione dunque, per Lukács, seguendo Marx, ma arrivando anche fino a Max Weber, sarebbe dovuta anch’essa all’essenza stessa del capitalismo.[11] Val la pena di ricordare anche che il primato della qualità contro la quantità era stato uno dei motivi conduttori del diamat.
 
8. Non solo l’oggettivazione feticistica e la quantificazione ma anche la tendenza verso la specializzazione sarebbe una conseguenza dell’essenza del capitalismo. Infatti: «Il carattere feticistico delle forme economiche, la reificazione di tutti i rapporti umani, l’estensione costantemente crescente di una divisione del lavoro che scompone il processo di produzione in modo astrattamente razionale, senza preoccuparsi delle possibilità umane e della capacità dei produttori diretti, ecc., trasformano i fenomeni della società e contemporaneamente, insieme ad essi, la loro appercezione. Sorgono fatti «isolati», complessi isolati di fatti, settori parziali (economia, diritto, ecc.) con leggi proprie, che sembrano essere già ampiamente predisposti nelle loro forme fenomeniche immediate ad un’indagine scientifica di questo genere. Cosicché assume necessariamente un valore particolarmente «scientifico» sviluppare conseguentemente questa tendenza - che risiede nelle cose stesse - elevandola alla scienza».[12]
Il capitalismo dunque produce quel particolare tipo di oggettività che è il fatto isolato nonché i settori parziali di fatti con leggi proprie, che sarebbero le specializzazioni scientifiche. Questi settori specialistici ricordano splendidamente le ontologie regionali di Husserl, che non sono autonome e necessitano di un fondamento. È evidente che, invece, la dialettica «[…] sottolinea la concreta unità dell’intero di fronte a tutti questi sistemi parziali ed a questi fatti isolati ed isolanti».[13] Si presume dunque che le specializzazioni siano inessenziali, siano solo una forma di apparenza corrispondente a quel tipo di oggettività apparente prodotto dal capitalismo. Dunque, per tralasciare le scienze della natura, per Lukács non avrebbero senso specializzazioni come l’egittologia, l’economia, la filologia, la letteratura, la storiografia, il diritto, ecc…
Se non va bene la separazione dei fatti, c’è un solo oggetto essenziale con cui la dialettica ha a che fare. Qui vien chiamato intero, ma è chiaro che si tratta della famosa Totalità. La dialettica scientifica ha per oggetto niente di meno che la Totalità. Una scienza della totalità non può quindi avere specializzazioni o aree tra loro separate.
 
9. A questo punto si introduce un altro limite del «dato» empiristicamente inteso e cioè l’astoricità. «La non scientificità di questo metodo, apparentemente così scientifico, risiede dunque nel fatto che esso non tiene conto e trascura il carattere storico dei fatti che si trovano alla sua base. Ma in ciò non vi è soltanto una fonte di errori (cosa del resto costantemente ignorata da questa concezione), sulla quale Engels ha espressamente richiamato l’attenzione. L’essenza di questa fonte di errori consiste nel fatto che la statistica e la teoria economica «esatta» su di essa fondata non riesce mai a tenere il passo con lo sviluppo».[14]
Insomma, nel dominio dell’umano, le cose cambiano. Questo significa che una cosa non è mai esattamente quella che è. Non ci si può mai bagnare due volte nello stesso fiume. Ciascuna cosa non è quel che è nel suo isolamento, ma è quel che è veramente soltanto nel suo sviluppo storico. Non ci sono due società uguali, due costituzioni uguali, due romanzi uguali, due guerre uguali. Ogni cosa, considerata storicamente, ha la sua peculiarità individuale. L’accusa riecheggia quella ricorrente nella riflessione sulle scienze storico sociali di non tenere un adeguato conto della individualità dei fatti storici.[15]
Il problema è che se i fatti individuali non sono separabili dalla Totalità allora avremo un solo fatto storico totale individuale che tiene dentro di sé tutto il resto. Questo è appunto l’oggetto di cui la dialettica si occupa e cioè la Totalità. Quindi è questo solo oggetto che può essere indagato storicamente, perché la storia non può essere altro che la storia della Totalità stessa. Riducendo invece la realtà storico sociale a «dato», non è possibile «tenere il passo con lo sviluppo», come la filosofia di Hegel, ci si occupa del mondo dopo che questo è bell’e fatto. Non si sarebbe in grado di prevedere lo sviluppo storico, di indirizzarlo, il segreto del quale risiede non nei particolari ma dentro il sistema totale. Come si vedrà è la contraddizione che sta dentro alla Totalità a determinare lo svolgimento o il movimento della Totalità.
 
10. La contrapposizione tra essenza e esistenza (che come s’è detto è di fonte puramente scolastica) a questo punto deve necessariamente intervenire a chiarire la costituzione interna di ogni singolo fatto individuale (il quale poi, come s’è visto, si riconduce autenticamente alla Totalità): «Perciò, se si vogliono comprendere correttamente i fatti, si deve anzitutto cogliere con chiarezza e precisione questa differenza tra la loro esistenza reale e il loro nucleo strutturale interno, tra le rappresentazioni che si formano in rapporto ad essi ed i loro concetti. Questa distinzione è il primo presupposto di una considerazione realmente scientifica che, secondo le parole di Marx, «sarebbe superflua se l’essenza delle cose e la loro forma fenomenica coincidessero direttamente».[16]
Si noti qui lo sberleffo a Kant, fatto insieme da Marx e da Lukács: noi comunemente abbiamo i fenomeni, ma non basta, perché dietro i fenomeni ci sono le essenze. Il «concetto» coglie il nucleo strutturale interno, cioè l’essenza, in contrapposizione al «dato» che si ferma all’esistenza. «Ciò che importa è dunque, da un lato, liberare i fenomeni da questa forma immediata di datità, trovare le mediazioni mediante le quali essi possano essere riferiti al loro nucleo, alla loro essenza e colti nella loro stessa essenza, e, d’altro lato, ottenere la comprensione del loro carattere di fenomeno, del loro apparire come loro necessaria forma fenomenica. Questa forma è necessaria a causa della loro essenza storica, per il fatto che essi si sono sviluppati sul terreno della società capitalistica».[17]
Alla base della dialettica marxiana, dice chiaramente Lukács, sta la differenza tra essenza e fenomeno, tra essenza e esistenza. Il fenomeno è solo datità immediata. Occorre invece individuare il nucleo strutturale interno, l’essenza. Non solo, occorre anche mostrare, partendo dall’essenza, come si generi l’apparire fenomenico (che evidentemente non è casuale e ha anch’esso una sua spiegazione necessaria in riferimento alla Totalità).[18]
 
 11. Sembra chiaro a questo punto che il mondo storico sociale va concepito come una Totalità organica[19] in sviluppo (esattamente nello stesso modo in cui Aristotele concepiva la società umana[20]). «Solo operando questa connessione, nella quale i fatti singoli della vita sociale vengono integrati in una totalità come momenti dello sviluppo storico, diventa possibile una conoscenza dei fatti come conoscenza della realtà».[21] La realtà storico sociale è dunque una Totalità. Se la totalità viene ignorata, viene cioè disgregata, si ottiene solo la conoscenza di parti senza senso. Insomma, il metodo dialettico di Lukács è un metodo olistico. Reale è solo ciò che è connesso con la Totalità. Ciò che è separato dalla totalità è solo manifestazione di irrealtà (costituisce cioè una oggettualità illusoria, prodotto di un mondo che è costitutivamente illusorio).
Dietro a tutto ciò, oltre che Hegel, ci sta Dilthey e la Lebensphilosophie. In particolare la nozione di Lebenswelt. Ma ci sta anche una certa interpretazione di Kierkegaard. Se consideriamo che un altro nome per il fenomeno apparente è quello di esistenza (anch’esso di provenienza scolastica) possiamo bene intendere le relazioni tra l’impostazione para hegeliana e l’esistenzialismo.[22] La nozione di esistenza inautentica che si trova in Essere e tempo di Heidegger è davvero molto simile alla oggettivazione illusoria di Lukács. Nelle filosofie essenzialiste dell’epoca, quel che viene spesso lamentato è la «perdita della Totalità» cioè la perdita del rapporto organico con l’essenza. Di qui la perdita dell’Essere, lo spaesamento, la reificazione, la decadenza, l’assenza del fondamento, e simili. Si presume che il singolo individuo (che vive nella società capitalistica), immerso nel fenomeno apparente, non abbia più alcuna nozione della totalità cui appartiene, cioè della vera realtà. Solo il rapporto con la totalità permette al singolo di diventare autentico, di recuperare dunque il contatto con la vera realtà.[23] In Marx / Lukács il singolo trova la sua realizzazione nella classe e nella coscienza di classe. In Heidegger l’autenticità coincide con la fine del singolo nell’essere per la morte e nella partecipazione al destino di un popolo (o di una civiltà). Quello che per Marx / Lukács è la Totalità da modificare, cioè il capitalismo, diventa in Heidegger la civiltà occidentale, cioè il terreno della mercificazione, della cosificazione, della reificazione, della quale si annuncia la fine, cui seguirà il nuovo inizio.
Sembra davvero chiaro a questo punto che anticapitalismo (Marx / Lukács) e antiebraismo (Heidegger) finiscano quasi sempre per coincidere (almeno nel periodo storico di cui ci stiamo occupando). La polemica contro la quantità e il denaro (che separano) sono sempre portate in difesa di totalità organiche (che invece uniscono). Non c’è evidentemente una strutturale differenza tra il comunismo di Marx e l’evento, il nuovo inizio, la nuova epoca della storia dell’Essere di Heidegger.
 
12. Abbiamo chiamato aristotelicamente «totalità organica» quella che Lukács chiama «totalità concreta», ma i due concetti si sovrappongono alla perfezione: «Questa considerazione dialettica della totalità, che in apparenza si allontana così nettamente dalla realtà immediata, che in apparenza costruisce la realtà in modo cosi «non scientifico», è l’unico metodo per cogliere la realtà e riprodurla nel pensiero. La totalità concreta è quindi la categoria autentica della realtà».[24] Occorre dunque abbandonare il senso comune della oggettività illusoria, prodotto dal capitalismo, per accedere alla vera realtà e riprodurla nel pensiero.
A questo punto si presenta però la questione del rapporto tra particolare e universale, che è tipico di tutti gli idealismi. Il punto di vista del singolo è sempre quello della particolarità (dell’esistenza o della deiezione, direbbe Heidegger). Come può il singolo individuo cogliere la totalità se egli stesso ne è soltanto una parte? La soluzione di Lukács è sbrigativa: l’essenza della totalità viene vien colta nel concetto e riprodotta nel pensiero. La Totalità dunque si presenta al singolo anzitutto come apparenza, come cosa capitalistica. Essa però possiede una sua essenza (il suo nucleo strutturale) che è la vera realtà. Questa vera realtà (che è già un’essenza, concreta fin che si vuole, ma essenza) è suscettibile di concettualizzazione (qui il concetto esprime l’essenza, la dice) e quindi di essere pensata, cioè riprodotta nel pensiero individuale. Nel momento in cui compare, nel pensiero individuale, il concetto della vera realtà, allora il pensiero individuale diventa pensiero collettivo (coscienza di classe) e comincia ad agire collettivamente per trasformare la vera realtà.
È interessante domandarsi cosa sia la Totalità (cioè la vera realtà) prima che questa venga pensata,[25] cioè concettualizzata nella mente di un individuo singolo. Sappiamo che essa è intera, individuale, che è essenziale e che non è fenomenica e tuttavia deve essere per definizione concreta. Nonostante sia detto anche che è pensabile, non è semplice immaginare una cosa del genere. Cosa vuol dire che la società capitalistica è una cosa intera e individuale, non fenomenica e però concreta? Che qualcosa sia concreto ma non fenomenico si direbbe una palese contradictio in adjecto. Tra le possibili soluzioni, saremmo tentati di usare il concetto di struttura. In effetti sono stati fatti molti tentativi per tradurre il capitalismo di Marx in termini di strutturalisti, ma senza alcun effettivo successo. Un’altra soluzione che sarà tentata è quella heideggeriana dell’uso del metodo fenomenologico e quindi dell individuazione di una Totalità precategoriale. A nostro giudizio, il concetto che si avvicina di più è quello del sinolo aristotelico che si realizza passando dalla potenza all’atto.[26]
Inutile dire che operativamente non si possano definire bene i confini di questa totalità concreta: come una bolla, questa totalità finisce per allargarsi e restringersi, per escludere o per ingoiare tutto, a seconda dei casi.
 
13. A questo punto, dopo avere esaminato gli elementi e la Totalità, si tratta per Lukács di render conto del movimento e quindi entra in scena la contraddizione. Si noti che Lukács accetta che nel campo delle scienze della natura non ci debbano essere contraddizioni. La conoscenza della natura deve essere non contradditoria, per cui l’avanzamento scientifico cancella le contraddizioni. Nel campo delle scienze “storico sociali” invece non abbiamo a che fare con un oggetti generici, ma con oggetti organici e totali come il capitalismo (che poi è un unico oggetto). Un aspetto fondamentale di questo oggetto è il movimento, cioè lo sviluppo, che avviene grazie alle contraddizioni interne. Le contraddizioni interne sono, in ultima analisi, dovute a soggetti collettivi, classi, che necessariamente si scontrano. Per Lukács la Totalità è autenticamente contradditoria: «[…] quando poniamo al centro della nostra attenzione il sostrato reale, materiale del nostro metodo, la società capitalistica, con l’antagonismo che le è immanente tra forze di produzione e rapporti di produzione […]in rapporto alla realtà sociale, invece, queste contraddizioni non sono segni di una comprensione scientifica della realtà ancora imperfetta, ma appartengono piuttosto inseparabilmente all’essenza della realtà stessa, alla essenza della società capitalistica. Nella conoscenza dell’intero esse non vengono superate al punto da cessare di essere contraddizioni. All’opposto: esse vengono comprese come contraddizioni necessarie, come fondamenti antagonistici di questo ordinamento della produzione. La teoria, come conoscenza della totalità, può mostrare una via per il superamento di queste contraddizioni, per la loro soppressione, solo in quanto indica quelle tendenze reali del processo di sviluppo sociale che, nel corso di questo sviluppo, sono destinate a sopprimere realmente queste contraddizioni nella realtà sociale».[27]
Esattamente come nel sinolo aristotelico si ha il passaggio dalla potenza all’atto, il capitalismo “si muove”, si sviluppa, e i protagonisti del movimento stanno dentro, tentando di far prevalere la loro prospettiva. Qui Lukács mostra di ritenere che la stessa differenza tra vero e falso che si instaura nelle scienze della natura e che colà deve essere superata, sia invece costitutiva della realtà organica del sistema capitalistico. La contraddizione dunque – come sottolineava Colletti – era reale.[28] Ne consegue che: «L’ideale conoscitivo delle scienze naturali che, applicato alla natura, serve appunto unicamente al progresso della scienza, quando viene riferito allo sviluppo sociale, si presenta come mezzo della lotta ideologica della borghesia. Per essa è una questione di vita, da un lato, apprendere il proprio ordinamento produttivo come se la sua forma fosse determinata da categorie valide al di fuori del tempo, quindi destinate dalle leggi eterne della natura e della ragione ad una eterna permanenza, dall’altro valutare come meri fenomeni di superficie, anziché come inerenti all’essenza di questo ordinamento della produzione, le contraddizioni che inevitabilmente riemergono».[29]
Lo scontro avverrebbe nel campo della battaglia ideologica tra borghesia e proletariato. Ne consegue il più totale prospettivismo: se vince la borghesia, ha ragione la borghesia e quel che dice la borghesia diventa vero (prevarrà l’oggettualità feticistica della borghesia). Se invece vince il proletariato, diventa vero il punto di vista del proletariato (prevarrà l’oggettualità essenzialistica del proletariato).
 
14. Si badi bene che la contraddizione non è in alcun modo riducibile a un semplice conflitto tra entità diverse. Tutto va sempre riferito alla Totalità. Nella contestazione che Lukács fa della teoria di Adler, egli mostra chiaramente di contestare la riduzione della contraddizione a semplice conflitto e di credere pertanto che il sistema capitalistico sia un oggetto in sé contradditorio.[30] «In questo modo, con il rifiuto o il dissolvimento del metodo dialettico va perduta al tempo stesso la conoscibilità della storia. Con ciò non si intende affermare che senza il metodo dialettico non possano essere descritte oppure possano essere descritte meno esattamente singole personalità o epoche della storia. Si tratta piuttosto del fatto che in questo modo diventa impossibile comprendere la storia come processo unitario».[31]
Qui si vede con chiarezza come il problema del rapporto tra la parte e il tutto metta continuamente di fronte a una sorta di principio di indeterminazione. Poiché la storia come principio unitario richiede che si tenga conto della verità del punto di vista proletario, senza dialettica non si conosce veramente l’oggetto storico. Ma nel momento in cui lo si conosce dialetticamente lo si sta già trasformando (cioè si sta agendo nella storia). La dialettica è un modo di conoscere e agire e non semplicemente di conoscere.
 
15. Lukács prova ulteriormente a chiarire in quale rapporto stiano le singole parti con l’intero: «[…] il rapporto con l’intero diventa la determinazione che definisce la forma di oggettualità di ogni oggetto della conoscenza; ogni modificazione essenziale, rilevante per la conoscenza, si esprime come modificazione del rapporto con l’intero e quindi come modificazione della stessa forma di oggettualità. […] Questa ininterrotta modificazione delle forme di oggettualità di tutti i fenomeni sociali nella loro interazione dialettica, l’origine della conoscibilità di un oggetto dalla sua funzione nella totalità determinata nel quale esso funge, tutto ciò fa sì che la considerazione dialettica della totalità ed essa sola! - sia in grado di comprendere la realtà come accadere sociale. […] le determinazioni riflessive delle forme feticistiche dell’oggettualità hanno appunto la funzione di far apparire i fenomeni della società capitalistica come essenze sovra-temporali. La conoscenza della reale oggettualità di un fenomeno, del suo carattere storico e della sua funzione reale nell’intero sociale formano dunque un atto indiviso della conoscenza».[32]
Si ribadisce dunque che le diverse forme di oggettualità sono un prodotto storico. Queste si definiscono per il rapporto che hanno con l’intero e possono benissimo essere in conflitto tra loro ed eventualmente sostituirsi le une alle altre nel corso della storia. Effettivamente in queste convinzioni è già contenuto molto Heidegger.
La questione del rapporto con l’intero crea una serie di paradossi assai interessanti. Uno è che è impossibile conoscere alcunché di preciso fin quando non si conosce l’intero completamente. Se si conoscesse l’intero solo parzialmente, ne deriverebbe che il rapporto della singola parte con l’intero potrebbe essere ancora ingannevole. Si badi bene che qui si parla della conoscenza dell’essenza dell’intero, e non dell’intero in tutta la sua esaustività. Comunque ciò non toglie che questa faccenda costituisca un problema: non ci può essere una conoscenza incrementale. La conoscenza dell’essenza delle parti e dell’intero c’è o non c’è.[33] Lukács inoltre sostiene esplicitamente (anche se la cosa può essere sorprendente) che i singoli elementi quando vengono rapportati all’intero (cui appartengono) mutano la loro natura oggettuale, la loro natura ontologica. In effetti va riconosciuto che solo così può stare in piedi la teoria marxiana del feticismo: il feticismo è possibile perché il capitalismo stesso produce l’ontologia/ oggettualità feticistica, cioè separa i singoli oggetti dalla totalità alla quale appartengono.
Volendo sviluppare però coerentemente il discorso, bisognerebbe pensare a una lotta tra due apparenze oggettuali che stiano sullo stesso piano: quella del proletariato e quella della borghesia. Se fosse così, dentro a una simile teoria ci sarebbe già tutto Foucault: solo il potere decide il tipo di oggettualità. In realtà per Lukács solo una delle due oggettualità è quella essenziale, mentre l’altra e fasulla (anche se non si sa più tanto bene perché: in Marx c’era il determinismo economico delle forze produttive che in Lukács resta in secondo piano).
Lukács comunque lo dice apertamente, a chiare lettere: quella feticistica è un tipo di oggettualità vero e proprio. Infatti: «Questa funzione occultante della realtà che è propria dell’apparenza feticistica che avviluppa tutti i fenomeni della società capitalistica non si limita tuttavia a celare il suo carattere storico, cioè la sua provvisorietà e transitorietà. O meglio: questo occultamento diventa possibile solo per il fatto che tutte le forme di oggettualità nelle quali immediatamente e necessariamente si manifesta all’uomo della società capitalistica il suo mondo circostante, e dunque in primo luogo le categorie economiche, occultano la loro propria essenza come forme di oggettualità, come categorie dei rapporti degli uomini tra loro, presentandosi come cose e come rapporti tra cose. Perciò, per aprire la via alla conoscenza della realtà, il metodo dialettico non deve soltanto lacerare i veli dell’eternità delle categorie, ma anche della loro cosalità».[34]
Insomma, le Totalità (di cui gli uomini fanno parte) determinano il tipo di oggettualità, cioè il tipo di cose nelle quali sono immersi, il tipo di cose che essi stessi sono. Determinano il tipo di relazione che essi instaurano con le cose: queste relazioni possono essere autentiche o inautentiche. A seconda del tipo di oggettualità in cui si è immersi, «la stessa cosa» può essere intesa come oggettualità feticistica prodotta dal capitalismo, oppure intesa correttamente in modo dialettico come rapporto tra gli uomini. Ne deriva che le «cose» mutano la loro essenza oggettuale a seconda del punto di vista.
Le analogie con Heidegger continuano a essere davvero sorprendenti.
 
16. È interessante, nel par. V conclusivo, la comparsa della nozione di essere, riferita addirittura a Marx: «Solo in questo contesto il punto di partenza del materialismo storico: «non è la coscienza dell’uomo che determina il suo essere, ma all’inverso è il suo essere sociale che determina la sua coscienza», può andare al di là della sfera puramente teoretica e trasformarsi in problema della praxis. Infatti, solo qui dove il nucleo dell’essere si è scoperto come accadere sociale, l’essere può apparire come prodotto, finora rimasto certamente inconsapevole, dell’attività umana, e quest’attività può a sua volta apparire come l’elemento determinante della trasformazione dell’essere».[35] Che l’essere sia un essere sociale, che anzi sia l’accadere sociale, che l’essere possa essere un prodotto inconsapevole dell’attività umana, ma che l’attività umana sia anche in grado di trasformare l’essere sono tutti aspetti che gettano qualche lume sui rapporti tra il marxismo e l’esistenzialismo. L’ultima opera (di fatto incompiuta) di Lukács porta, com’è noto, il titolo di Ontologia dell’essere sociale.
 
17. Lukács ribadisce, alla fine del suo saggio, quel che era già stato dichiarato come fondamentale al principio e cioè che la dialettica non è un metodo per la conoscenza individuale della realtà, ma è un metodo per la trasformazione della realtà da parte di un soggetto collettivo che opera entro una formazione economico sociale: «[…]non bisogna separare l’essenza metodica del materialismo storico dalla «attività pratico-critica» del proletariato: entrambe sono momenti dello stesso processo di sviluppo della società. Ma per questo non bisogna neppure separare la conoscenza della realtà ottenuta mediante il metodo dialettico dal punto di vista classista del proletariato».[36]
Nel proletariato dunque avverrebbe definitivamente la coincidenza tra soggetto e oggetto: «Soltanto con l’apparire del proletariato giunge a compimento la conoscenza della realtà sociale. E questo proprio per il fatto che si è trovato nel punto di vista di classe del proletariato il punto a partire dal quale la società diventa visibile come intero. Solo perché per il proletariato è un bisogno di vita, una questione di esistenza, ottenere la massima chiarezza sulla propria situazione di classe; solo perché questa situazione diventa comprensibile unicamente nella conoscenza dell’intera società - conoscenza che è l’indispensabile premessa delle sue azioni, - nel materialismo storico è sorta ad un tempo la teoria delle «condizioni per la liberazione del proletariato» e la teoria della realtà del processo complessivo dello sviluppo sociale. L’unità tra la teoria e la praxis è quindi soltanto l’altro lato della situazione storico-sociale del proletariato: dal punto di vista del proletariato, vengono a coincidere la conoscenza di sé e la conoscenza della totalità, ed esso è, al tempo stesso, soggetto ed oggetto della propria conoscenza».[37]
Con la coincidenza di soggetto e oggetto abbiamo dunque la fine dell’esilio, dello spaesamento, della cosificazione, della quantificazione e di tutte le altre sordide brutture che Lukács aveva imputato al capitalismo e che Heidegger imputerà ben presto alla civiltà occidentale e alla sua razionalità.
 
18. Qui non si vuol entrare ovviamente nel merito della questione storica se davvero Heidegger abbia copiato Lukács, senza riconoscergliene il debito. Quel che ci basta sottolineare è che effettivamente tra le due filosofie ci sono analogie davvero notevoli. Se si pensa che l’operaismo italiano degli anni Sessanta era stato influenzato in maniera considerevole dal giovane Lukács, allora non stupisce che diversi ex operaisti abbiano poi sviluppato i loro interessi in direzione della ermeneutica heideggeriana. La popolarità del paradigma ermeneutico heideggeriano nella filosofia italiana degli ultimi quarant’anni sarebbe dunque in buona parte da ascriversi al neo marxismo degli anni Sessanta e Settanta. Più che a una sostituzione, possiamo cominciare a pensare a una sostanziale continuità. Molti marxisti degli anni sessanta, attraverso il giovane Lukács, sono stati, ante litteram, degli heideggeriani senza saperlo (e qualcuno lo è stato magari anche sapendolo). Dopo la fine dei movimenti, quando Heidegger è stato «riscoperto» ed è diventato ampiamente popolare, essi non hanno fatto altro che sperimentare una specie di altrettanto heideggeriano appaesamento, un vero e proprio ritorno a casa. Heidegger permetteva di mantenere più o meno esattamente la stessa visione della realtà, senza l’ingombro della ormai inutile classe operaia, poiché questa era stata sconfitta e non s’era dimostrata degna erede della filosofia tedesca.
 
25/07/2015
Giuseppe Rinaldi
 
 
 
OPERE CITATE
1973 Goldmann, Lucien
Lukács e Heidegger, Éditions Denöel, Paris. Tr. it.: Lukács e Heidegger. Frammenti postumi a cura di Youssef Ishaghpour, Bertani Editore, Verona, 1976.
 
1922 Lukács, György
Geschichte und Klassenbewusstsein, Der Malik Verlag, Berlin. Tr. it.: Storia e coscienza di classe (a cura di Giovanni Piana), Sugar Editore, Milano, 1967.
 
 
 
NOTE
[1] Cfr. Lukács 1922.
[2] Cfr. Goldmann 1973. Il volume è stato pubblicato in italiano nel 1976.
[3] Cfr. Lukács 1922: 2.
[4] Cfr. Lukács 1922: 2.
[5] Cfr. Lukács 1922: 3. Questa prospettiva è esattamente la stessa descritta da Hegel a proposito dello Spirito oggettivo del popolo.
[6] Cfr. Lukács 1922: 4.
[7] Cfr. Lukács 1922: 4.
[8] Cfr. Lukács 1922: 7.
[9] Cfr. Lukács 1922: 8.
[10] Questa teoria è del tutto compatibile con Hegel, Nietzsche e Heidegger. Se il tipo di oggettività è storico, possiamo domandarci quale nuovo tipo di oggettività potrà esserci in un’altra epoca, in un’altra civiltà.
[11] Questa è la tradizionale accusa rivolta ai capitalisti – ebrei, volgari calcolatori. Come si vede, i “memi” viaggiano continuamente e sputano dove uno meno se li aspetta. Lukács era figlio di un Direttore di banca ebreo.
[12] Cfr. Lukács 1922: 8-9.
[13] Cfr. Lukács 1922: 9.
[14] Cfr. Lukács 1922: 9.
[15] Si noti che la soluzione più banale sarebbe quella per cui, se i fatti storici sono individuali, non c’è niente da prevedere. Quindi non c’è alcuna scienza dei fatti storici individuali. Al più ci può essere una scienza che ricostruisce l’individuale accaduto. La pretesa di Lukács e del marxismo è quella di possedere un metodo che possa operare con successo “scientifico” a proposito dell’individuale. Questo sarebbe il metodo dialettico.
[16] È una citazione di Marx dal Capitale.
[17] Cfr. Lukács 1922: 11.
[18] Qui non si fa altro che riprendere la nozione aristotelica di forma.
[19] Qui organico ha il senso anche di organismo vivente che si sviluppa secondo la propria forma interna.
[20] Cfr. il mio saggio L’ontologia sociale di Aristotele sul blog Finesterotte.
[21] Cfr. Lukács 1922: 12.
[22] Lukács era stato influenzato anche da certi aspetti di Kierkegaard.
[23] Questo trucco funziona anche in campo religioso. Ci si può sentire abbandonati da Dio. Si possono poi mettere in atto delle pratiche che ci mettano in contatto con Dio, la vera realtà che abbiamo perduto.
[24] Cfr. Lukács 1922: 14.
[25] Questa questione ha grande importanza in Essere e tempo di Heidegger: il metodo fenomenologico permetteva a Heidegger di scorrazzare per tutta la Totalità in maniera intuitiva, precategoriale.
[26] Abbiamo esposto questa nostra teoria nel saggio Contraddizioni del terzo tipo, pubblicato sul blog Finestrerotte.
[27] Cfr. Lukács 1922: 14-15.
[28] Si veda in proposito il mio saggio Contraddizioni del terzo tipo sul blog Finestrerotte.
[29] Cfr. Lukács 1922: 14-15.
[30] Nella filosofia di Aristotele possono esserci forme contradditorie in senso ontologico. Vedi sempre il mio saggio Contraddizioni del terzo tipo sul blog Finestrerotte.
[31] Cfr. Lukács 1922: 16.
[32] Cfr. Lukács 1922: 18-19.
[33] Hegel aveva tentato di risolvere questa questione con la sua fenomenologia. Un altro modo è quello degli esistenziali di Essere e Tempo.
[34] Cfr. Lukács 1922: 20.
[35] Cfr. Lukács 1922: 26.
[36] Cfr. Lukács 1922: 29.
[37] Cfr. Lukács 1922: 28.