domenica 19 luglio 2015

Dall’operaismo al “marxismo heideggeriano”

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1. Nel 1976 Massimo Cacciari, uno dei protagonisti dell’operaismo degli anni Sessanta, pubblicò su Rinascita, la rivista culturale del PCI, un articolo sui rapporti tra Heidegger e il marxismo. Lo stesso articolo, ampliato, venne poi raccolto nel volume Pensiero negativo e razionalizzazione, pubblicato nel 1977 da Marsilio.[1] Era quello il periodo in cui la stagione dei movimenti pareva conclusa e nella quale tuttavia ancora ci si domandava se fosse possibile un qualche recupero del decennio precedente in termini di spostamento verso sinistra dell’asse politico. Era comunque una stagione di bilanci e ripensamenti. Nel suo articolo, Cacciari avanzava l’opportunità, da parte dei marxisti e del movimento operaio, di aprire “finalmente” un confronto con la filosofia di Heidegger. L’obiettivo probabilmente era quella di dare vita a una qualche nuova forma di “marxismo heideggeriano”. L’articolo è interessante per il suo carattere divulgativo e per il pubblico cui si rivolgeva, i lettori di Rinascita. È interessante anche perché testimonia di un momento assai particolare nello sviluppo filosofico dello stesso Cacciari. Vale inoltre la pena di notare che, nello stesso periodo, Mario Tronti, altro esponente dell’operaismo degli anni Sessanta, stava elaborando la sua teoria dell’autonomia del politico.[2] Sia la proposta di un nuovo marxismo heideggeriano di Cacciari, sia la proposta dell’autonomia del politico di Tronti rappresentavano, in un certo senso, l’evoluzione filosofica (anche se qualcuno può ritenere si trattasse di una involuzione) di una parte significativa dell’operaismo italiano, come reazione al declino dei movimenti.
 
2. In realtà, anche se Cacciari non ne parla affatto, l’ipotesi di un marxismo heideggeriano non era nuova, anzi si può dire che, proprio negli ambienti marxisti, fosse già stata presa in considerazione e per lo più messa da parte. Il primo forse a elaborare questa ipotesi fu il giovane Herbert Marcuse, quando ancora era allievo di Heidegger e stava conducendo, sotto la sua guida, una dissertazione sull’Ontologia di Hegel. Il programma esplicito di Marcuse, all’epoca, era proprio quello di realizzare una sintesi tra l’esistenzialismo (allora così lo si definiva) di Essere e tempo e il marxismo. Anche se la faccenda non è stata ancora ben chiarita, si giunse infine a una rottura tra Marcuse e il suo maestro e la dissertazione non fu presentata. Nello stesso periodo poi Marcuse dovette lasciare il paese per sfuggire al nazismo. Marcuse ha in seguito dichiarato di avere ben presto compreso la reale portata antimarxista della filosofia di Heidegger (di cui non si conoscevano ancora gli sviluppi nazisti) e di essersene conseguentemente allontanato. Nel dopoguerra, quando Marcuse incontrò nuovamente Heidegger, gli chiese conto delle sue posizioni politiche durante il nazismo e ne ebbe una serie di risposte evasive, tanto che la rottura, anche personale, fu ulteriormente consolidata.[3] Alla netta presa di posizione di Marcuse possiamo ancora aggiungere il fatto che, più in generale, la Scuola di Francoforte, a partire da Hokheimer e Adorno, ha sempre dichiaratamente preso le distanze da Heidegger.
Accenni interessanti a parentele filosofiche tra Heidegger e il marxismo si trovano poi nell’Introduzione del 1956 scritta da Lukács per la pubblicazione dei suoi scritti giovanili raccolti in Storia e coscienza di classe. Lukács lascia intendere, pur non affrontando direttamente la questione, che Essere e tempo sia stato scritto proprio contro Storia e coscienza di classe, utilizzandone tuttavia impropriamente numerosi concetti fondamentali. Detto brutalmente, Essere e tempo sarebbe stato una scopiazzatura, orientata a destra, degli scritti del giovane Lukács. Su questa strada interpretativa, Lucien Goldmann, che si dichiarava discepolo del giovane Lukács e di Heidegger, aveva iniziato un lavoro di comparazione tra i due autori e ne aveva enumerato un impressionante elenco di analogie e punti in comune. Il lavoro di Goldmann fu interrotto dalla sua morte, anche se i suoi appunti sono stati pubblicati postumi. [4] La questione non è mai stata risolta, anche se va detto che molti dei punti in comune tra Marx / Lukács e Heidegger, segnalati da Goldmann, sono dovuti ai comuni riferimenti hegeliani.
Sul confronto tra marxismo e heideggerismo un altro ambito di ricerca importante erano stati i lavori di Kostas Axelos, che si considerava, appunto, marxista heideggeriano (forse più heideggeriano che marxista). Due suoi importanti lavori comparsi negli anni Sessanta hanno tentato di inquadrare in marxismo all’interno dello schema heideggeriano della fine della metafisica e della Tecnica come destino dell’Occidente.[5] Goldmann e Axelos, non a caso entrambi francesi, sono stati tra i più convinti sostenitori della possibilità di un marxismo heideggeriano.
Val comunque la pena di ricordare ancora che György Lukács, forse uno dei maggiori (involontari) responsabili dello scellerato connubio, dopo aver preso le distanze dai suoi trascorsi giovanili di Storia e coscienza di classe, ne La distruzione della ragione del 1954 aveva messo, correttamente, Heidegger tra i filosofi nazisti e ne aveva già additato le nefandezze teoriche e pratiche.[6] Scriveva allora Lukács: «Heidegger ha salutato in Hitler l’avvento di una nuova epoca screditandosi, così – per usare l’espressione meno forte – per sempre. Oggi, almeno nell’espressione, è più cauto, ma vuole ugualmente legarsi ai padroni di oggi e di domani come a suo tempo a Hitler».[7] Ma aggiungeva anche: «Mentre Essere e tempo era essenzialmente una sola grande polemica contro il marxismo, pur senza scoprire anche solo con una chiara allusione questo carattere, ora Heidegger si sente ormai costretto a parlare apertamente di Marx».[8] L’allusione andava proprio alla Lettera di Heidegger, citata da Cacciari come un’autentica apertura al dialogo verso il marxismo.
Questo dibattito sulla possibilità di un marxismo heideggeriano che abbiamo tratteggiato in sintesi, oltretutto, era avvenuto in tempi in cui il pensiero heideggeriano non era perfettamente noto e, soprattutto, non si conoscevano ancora bene, come ora, i risvolti nazisti dell’attività filosofica di Heidegger. Non ci si riferisce qui tanto alla ben nota questione del Rettorato, quanto alla sovrapposizione progressiva dell’ideologia nazista e della filosofia heideggeriana, che oggi è sempre più documentata, tanto da essere ormai inoppugnabile.[9] Ora che le compromissioni naziste dello stesso pensiero heideggeriano sono decisamente più chiare, lo spazio per un “marxismo heideggeriano” sembra progressivamente ridursi. Cacciari comunque, nel 1977 non dava ai suoi lettori alcun conto del dibattito precedente e presentava come una novità la proposta di un confronto tra marxismo e heideggerismo.
 
3. L’intento abbastanza palese dell’articolo di Cacciari del 1977 era quello di sdoganare Heidegger presso il pubblico del marxismo e del movimento operaio italiani. Cacciari lo dice piuttosto apertamente seppure in modo assai retorico: «È tempo di aprire da parte del movimento storico-politico che si definisce “marxismo” il confronto con il pensiero heideggeriano? È venuto il momento di tentare di rispondere ai problemi che Heidegger stesso, ed esplicitamente, pose al marxismo? […] Penso che questa domanda assuma oggi un rilievo politico diretto, che essa rivesta per il movimento operaio un peso teorico la cui importanza è pari soltanto alla ostinazione con la quale è stata fino a oggi rimossa».[10] Ci troveremmo dunque, secondo il Cacciari del 1977, in una situazione piuttosto grave, poiché il movimento operaio, nientemeno, sarebbe stato coinvolto in una rimozione del pensiero heideggeriano, fatto disdicevole che avrebbe una capitale importanza teorica, ma anche un rilievo politico diretto. È interessante che il riferimento non sia costituito soltanto dagli intellettuali marxisti (come quelli già citati) ma dallo stesso movimento operaio. Cacciari doveva avere preso molto sul serio la convinzione di Marx secondo la quale il movimento operaio sarebbe stato l’erede della filosofia tedesca.
 
4. A sostegno dell’impresa di sdoganamento, Cacciari cita l’apparente apertura verso il marxismo contenuta in alcuni noti passi della Lettera sull’umanismo di Heidegger, che è in realtà, come ben sa chi l’abbia appena letta, una lettera contro l’umanismo. Se il marxismo è un umanismo, come anzitutto e per lo più sembra vada considerato, il problema di Cacciari non avrebbe dovuto neppure essere posto. Non è chiaro, tra l’altro, se Heidegger conoscesse il marxismo in modo approfondito. Lukács ne sembra convinto, mentre Marcuse lo nega. Ad ogni modo, nella Lettera, subito dopo l’inqualificabile sproloquio sui giovani tedeschi che muoiono “diversamente” avendo conosciuto Hölderlin, Heidegger afferma che: «La spaesatezza diviene un destino mondiale. Per questo è necessario pensare questo destino in relazione alla storia dell’essere. Ciò che Marx, partendo da Hegel, ha riconosciuto in un senso essenziale e significativo come alienazione dell’uomo, affonda le sue radici nella spaesatezza dell’uomo moderno. Questa viene provocata dal destino dell’essere nella forma della metafisica, che la consolida e nello stesso tempo la occulta come spaesatezza. Poiché Marx, nell’esperire l’alienazione, penetra in una dimensione essenziale della storia, la concezione marxista della storia è superiore a ogni altra «storiografia». Ma siccome né Husserl né, per quel che vedo finora, Sartre riconoscono l’essenzialità della dimensione storica nell’essere, né la fenomenologia né l’esistenzialismo pervengono in quella dimensione in cui soltanto diventa possibile un dialogo produttivo col marxismo».[11] Ma poi subito prosegue: «Ma a tal fine, evidentemente, è necessario liberarsi dalle ingenue rappresentazioni del materialismo e dalle critiche a buon mercato che intendono colpirlo. L’essenza del materialismo non sta nell’affermazione che tutto è solo materia, ma piuttosto in una determinazione metafisica per la quale tutto l’ente appare come materiale da lavoro. […] L’essenza del materialismo si nasconde nell’essenza della tecnica, su cui si scrive molto ma si pensa poco».[12]
A legger bene, si vedrà facilmente che l’apertura di Heidegger verso il marxismo non è affatto un’apertura, è piuttosto una chiusura: nel materialismo marxista, interpretato secondo Heidegger, l’ente appare come materiale da lavoro, quindi è esso stesso una espressione del predominio della Tecnica. In sostanza, il marxismo, secondo Heidegger, non si rende conto che l’alienazione, che esso correttamente denuncia, è correlativa alla sua stessa prospettiva metafisico /tecnica.[13] Il marxismo dunque dovrebbe uscire dalla sua fissazione tutta interna alla Tecnica e mettersi a riflettere – come Heidegger - sulle origini non tecniche della tecnica, cioè sul destino dell’Essere e sulla fine della metafisica. Un riconoscimento al marxismo per essere quasi giunto alla soglia della vera questione, ma nel contempo una stroncatura. Nell’articolo di Cacciari invece sembra risuonare un malcelato orgoglio per il fatto che Heidegger avrebbe dichiarato che il marxismo era l’unica filosofia con la quale poteva essere aperto un dialogo. Heidegger “filosofo del dialogo” è davvero una bella favoletta da raccontare solo a chi non conosce la biografia heideggeriana.
 
5. La parte iniziale dell’articolo contiene un’esposizione sintetica del pensiero heideggeriano, molto partecipata dall’Autore, tanto che spesso non si capisce se stia parlando Heidegger o Cacciari. Senza spiegare al suo pubblico chi fosse e cosa abbia rappresentato Heidegger, Cacciari inizia a parlare di Essere e tempo proponendone un’interpretazione storiografica che è alquanto discutibile e della quale peraltro non sono fornite le pezze giustificative. Secondo Cacciari, Heidegger sarebbe un perfetto emblema del suo tempo e nella sua opera Essere e tempo avrebbe problematizzato «tutta la grande Kultur tedesca guglielmina». In altri termini sarebbe un filosofo emblematico di una ipotetica “crisi” culturale della borghesia tedesca. La crisi culturale postbellica tedesca, che era dovuta essenzialmente al fatto di avere perso la guerra dopo averla provocata, viene però via via interpretata da Cacciari come una crisi culturale epocale del mondo borghese, che tuttavia si allarga sempre più, fino a diventare nientemeno che la crisi dell’intero Occidente.[14] Come ben si vede, il pensiero vago è sempre al lavoro.
5.1. Seguendo l’argomentazione di Cacciari: «Heidegger risale alle radici di questa crisi [...]. Esse vengono individuate nella forma logica interna delle correnti di pensiero decisive della Kultur guglielmina [...]. Heidegger parla in Essere e Tempo della costituzione formale in generale e delle aporie intrinseche della fenomenologia husserliana, della Politica weberiana, della sociologia e dello storicismo guglielmini — e della storia del movimento operaio tedesco, nella misura in cui essa è anche parte integrante di queste correnti spirituali. In Essere e Tempo Heidegger costruisce un «tipo ideale» per la comprensione di queste correnti».[15]
Heidegger sarebbe così rappresentativo perché avrebbe individuato una assenza di fondamenti nelle principali correnti filosofiche e culturali del suo tempo: «Esse si sono sviluppate lungo due tendenze fenomenologiche che non hanno pensato il proprio fondamento e la propria determinazione storica. [...] Heidegger, nel pieno della crisi sociale e culturale della Repubblica di Weimar, non rompe esplicitamente con queste tendenze, ma piuttosto ne interroga i fondamenti, le ripercorre dall’interno, ne assume radicalmente il progetto, per giungere a dimostrarne la problematicità, o, meglio, l’aporeticità fondamentale».[16] Insomma, Heidegger avrebbe mostrato al mondo quello che nessun altro aveva mai osato neppure pensare. È tipico di un certo tipo di filosofi del sospetto ritenere che quel che appare, quel che tutti credono, non sia la cosa vera. Secondo costoro, la genialità del filosofo sta proprio nel mostrare che, dietro l’apparenza, c’è ben altro.
5.2. A questo punto bisogna sapere, poiché non sono dette chiaramente, quali sono le due tendenze fenomenologiche che, secondo Cacciari, riassumono la cultura gugliemina e che sono state disvelate come prive di fondamento: una è la filosofia dei valori (mettendo insieme un po’ caoticamente tutti, da Dilthey fino a Weber) e l’altra è la fenomenologia di Husserl (del quale Heidegger era stato allievo assai ingrato).
I limiti del primo orientamento sarebbero stati disvelati in quanto: «[…]la sintesi tra funzionalità-relatività e normatività dei «valori» tentata dalla fenomenologia «ingenua» non ha trovato, né può trovare, fondamento ontologico — e in ciò consiste il destino della sua ineffettualità storica, del suo naufragio sociale e politico. La funzionalità-relatività del «valore» si incarna nell’alienazione del soggetto — nel suo spaesamento, nella sua «miseria» — invece che nella «norma» weberiana. L’estraneazione riappare come miseria fondamentale dell’Esserci, non come possibile forma politica della sua realizzazione, ciò che invece costituiva, per diverse vie, il fine della Rationalisierung weberiana (irriducibile a semplice liberalismo) e del Politico socialdemocratico».[17]
Mentre i limiti del secondo orientamento sarebbero il fatto che: «[…] la «salvezza» ontologica del fenomeno non interroga ancora il proprio unico possibile fondamento: la questione dell’Essere in quanto tale — né la possibilità dello «schema» tra la Seinsfrage e mondo dei «valori». (Solo per cenni, in Essere e Tempo, viene in primo piano la ragione fondamentale del naufragio di questa tendenza fenomenologica: il suo pensare la filosofia come fondamento fuori dal suo esistere unicamente nella storia delle forme della scienza moderna)».[18]
In tutti e due i casi, sostiene Cacciari, manca il fondamento: il politeismo dei valori (che in realtà è stata una delle fondamentali conquiste dell’epoca e che altrove non avrebbe proprio scandalizzato nessuno) è evidentemente inaccettabile, sia per Heidegger sia per Cacciari, e d’altro canto, il progetto husserliano di fondazione intuizionistica della filosofia e delle scienze, ahimè, non sta in piedi, a meno di non affrontare – è quel che tenterà di fare programmaticamente Heidegger – la questione dell’Essere. Cacciari non spiega perché mai un’epoca non possa vivere tranquillamente senza fondamenti[19] e condivide il fondamentalismo husserliano – heideggeriano (che però nei loro tardi epigoni debolisti si trasformerà in uno sfrenato relativismo). Dato che Heidegger ha scoperto che manca il fondamento allora si può concludere con Cacciari che: «Essere e Tempo è opera tragica fondamentale del pensiero contemporaneo».[20] Destino, naufragio, tragedia, queste sono le nuove categorie concettuali che Cacciari propone all’attenzione del movimento operaio, e che a noi comunque paiono sempre tipici esempi di pensiero vago.
5.3. A questo punto, quello che per la maggior parte dei critici rappresenta il fallimento di Essere e tempo, e cioè il fatto che si tratti di un’opera incompiuta, che, partita alla ricerca dell’Essere, è stata poi costretta a continuare a girare attorno all’Esserci, diventa per Cacciari il maggior punto di merito: «Il passaggio dal Tempo all’Essere che doveva concludere la parte teoretica di Essere e Tempo non viene compiuto. Non può esserlo. Parafrasando ciò che Heidegger dirà della teologia, in una conferenza che risale allo stesso ‘27, si può affermare che Essere e Tempo appare un’opera sistematica non perché costruisca un sistema ma perché lo evita. Il sistema non può più essere concepito, in quanto non appare più esprimibile l’oggetto della forma sistematica: lo «schema» di Essere e Esserci, la trasparenza dell’Esserci. Ciò costituisce l’alienazione fondamentale dell’Esserci. L’opera che per ultima si annuncia come grande sintesi metafisica, si interrompe problematicizzando la forma metafisica come tale, e non soltanto il suo oggetto, l’Essere».[21]
Curiosamente Cacciari prende sul serio la giustificazione fornita da Heidegger per il fatto di non avere portato a termine l’opera: ciò sarebbe avvenuto a causa di una difficoltà filosofica intrinseca. È stato invece ormai abbastanza chiarito che Heidegger non ha più continuato la sua opera perché aveva raggiunto il suo scopo accademico (che era quello di prendere la cattedra che era stata di Husserl) e perché era ormai diventato nazista convinto e si poneva ora altri obiettivi che non quello di studiare i rapporti tra tempo ed essere.[22]
5.4. Insomma, secondo Cacciari, in Essere e tempo necessariamente incompiuto ci sarebbe la rappresentazione più approfondita della crisi di un’epoca: «[...]le grandi utopie della Kultur guglielmina non danno più segnali. L’analitica dell’Esserci contenuta in Essere e Tempo [...]rappresenta in realtà questa crisi».[23] Cacciari sembra seriamente convinto che l’analitica dell’Esserci di Heidegger costituisca lo specchio della crisi della Germania guglielmina, e che tutto ciò ruoti attorno a una mancanza di fondamenti. La quale però ben lungi dal costituire un incidente filosofico contingente aprirebbe una serie di questioni che si potrebbero definire epocali: «Dunque, Essere e Tempo opera la dissoluzione dell’utopia sintetica della Kultur filosofica tedesca, o, meglio, mostra all’opera questa dissoluzione. Lo spirito che anima l’opera non solo è temporale, ma vive di quest’epoca determinata, della «miseria» di quest’epoca. Il suo problema si trasforma in un problema storico: quali sono le condizioni, quale è l’origine fondamentale di questa «miseria»? è « destino » la « miseria » di questa epoca?».[24]
A questo punto Cacciari ripropone la risposta heideggeriana, contenuta nella Introduzione alla Metafisica, incentrata intorno al «disorientamento», l’«insicurezza» dell’Europa, e il «depotenziamento dello Spirito» europeo.[25] In particolare precisa che: «Heidegger vede quel «depotenziamento dello Spirito» europeo come «fatale e senza rimedio» — come il prodotto delle forze proprie di questo Spirito stesso, non come un «tradimento» o un «deragliamento» della storia — e che il «nuovo cominciamento» è per Heidegger non più «filosofico, non più partecipe della «tradizione» dello Spirito europeo così come esso si è espresso nella sua «filosofia», ma, essenzialmente, ripetizione di quanto mai visto e mai detto lungo tutto l’arco del potenziamento del Geist europeo (nel suo significato essenziale: di sistema di dominio sul dato)».[26]
In sostanza, la crisi individuata da Heidegger non è una semplice crisi tedesca, non è accidentale, è qualcosa di assai più generale e necessario: ci troviamo di fronte alla fine dello Spirito europeo, oltre il quale dovrà esserci un nuovo inizio e questo non sarà più filosofico, perché la filosofia ha esaurito tutte le proprie possibilità. Questo significa che la crisi dei fondamenti individuata da Heidegger è in realtà la crisi finale della metafisica occidentale. In altri termini, siamo posti di fronte alla crisi dell’Occidente come civiltà. Tema peraltro assolutamente non nuovo e assai trattato a quel tempo dalla destra politico filosofica – si pensi al Tramonto dell’Occidente di Spengler.
5.5. Come si vede, partendo dalla tesi minimalista, comunque impegnativa e assolutamente non comprovata, secondo cui Heidegger rappresenterebbe la cultura tedesca del suo tempo, si giunge a delineare un Heidegger profeta di una crisi epocale, che costituisce nientemeno che la fine dell’Occidente, e che dovrebbe essere seguita da una successiva nuova epoca radicalmente diversa.[27]
Il tipo di diagnosi della decadenza dell’Occidente prodotta da Heidegger, com’è noto, si basa sulla filosofia della storia di Nietzsche, sugli effetti negativi della prevalenza progressiva in Occidente della razionalità di tipo socratico, del calcolo, della scienza e della tecnologia. Il male dell’Occidente sarebbe proprio la razionalità. Così argomenta Cacciari: «La «storia» heideggeriana della «filosofia» va diretta alle cose che le diverse epoche pensano, alla definizione delle soluzioni di continuità tra epoca e epoca. Il passaggio tra esse è sempre crisi, mai rappacificante continuità — è, come dicevamo, dislocazione dei problemi, loro ri-proposizione su nuovi e diversi terreni: il loro confronto con territori sconosciuti. Tra le svolte del tempo che caratterizzano questa «storia» della filosofia occidentale, quella decisiva riguarda la subordinazione dell’ontologia alla logica, che si compie a partire dalla dissoluzione dell’universo intellettuale scolastico».[28]
La subordinazione dell’ontologia alla logica, cioè dell’Essere alla razionalità, secondo Nietzsche e Heidegger (e secondo Cacciari), sarebbe dunque il peccato originale dell’Occidente, che avrebbe indirizzato la civiltà europea verso la conoscenza, la matematizzazione, il dominio della natura, avrebbe cioè costituito la divisione tra soggetto e oggetto. Avrebbe in altri termini reificato tutte le cose. Ora che questa finalità è stata raggiunta, ora che si è giunti al dominio totale della tecnica, l’epoca è finita e, tramite la crisi, si prepara un’altra epoca.
Spiega Cacciari dettagliatamente che: «Questa «svolta» per la quale «fondamento del fondamento» divengono le categorie della ragione soggettiva, è indistricabilmente connessa, […] allo sviluppo della scienza moderna. La metafisica moderna appare come il metodo della fondazione della scienza, la strada per cui la scienza, e la ricerca scientifica, giungono a fondarsi assolutamente. Il pensiero in se conversus, la cognitio reflexiva, il mente concipio del discorso sul metodo, rappresentano l’orizzonte trascendentale che fonda la matematica in quanto modo specifico di vedere-porre le cose da parte della scienza moderna. Il metodo fonda l’affermazione galileiana: la natura ci parla in lingua matematica. Noi, i Soggetti […], conosciamo cose soltanto in quanto matematizzabili. La «potenza dello Spirito» (come si esprime Hegel a proposito appunto di Cartesio) tiene la natura sub cogitatione: la determina matematicamente. La logica del conoscere (il metodo) fonda la matematizzazione del mondo fisico. E in ciò si manifesta la nuova potenza dello Spirito. La sussunzione matematica del mondo fisico è la forma universale dell’operari dello Spirito moderno come Soggettività».[29]
Normalmente si pensa che il pensiero scientifico si sia affermato contro la vecchia metafisica. Secondo questa nuova versione, il pensiero scientifico sarebbe proprio il risultato, lo scopo, il destino, della metafisica (anche se gli sciocchi metafisici non se ne sono mai accorti!). È un’altra mirabolante scoperta, a riprova che le cose non sono mai come sembra che siano.
5.6. Continua Cacciari: «Cosa comporta questo compimento nietzschiano della metafisica? Un’analitica dell’Esserci, da un lato, come ermeneutica antropologica delle forme della volontà — lo sviluppo della scienza, dall’altro, finalmente consapevole del proprio fondamento nihilistico, liberata da ogni problema riguardante l’Essere dell’Ente, compiutamente alienata nell’analisi dei territori dell’Ente. Questa alienazione, questo processo di alienazione, non è in alcun modo un deficere della scienza. La prospettiva heideggeriana è opposta al voler ridare centralità alla filosofia, al voler «liberare» dalla alienazione storicamente determinata che la ricerca scientifica esprime. Questa alienazione è il prodotto della stessa riflessione metafisica moderna. […]Nella misura in cui parla del Soggetto e annichilisce l’Essere, la metafisica è la storia del compimento della alienazione scientifica come forza produttiva caratteristica dell’epoca moderna».[30]
Insomma, invece di combattere la scienza in nome della metafisica, si ammette ora che la scienza sia il compimento della metafisica. L’oggettivazione/ alienazione era necessaria. Per cui ora abbiamo, come risultato, da un lato un soggetto che vuole, niccianamente, senza alcun fondamento e, dall’altro, un mondo oggettivato, reificato, su cui si esercita la volontà. Questo è il mondo della Tecnica. Si noti che eravamo partiti dalla crisi della Kultur guglielmina e ora, ridendo e scherzando, siamo giunti alla crisi della Tecnica come categoria universale dello Spirito. Di fronte alle svolte epocali, alla fine di una civiltà, il rigore storiografico può ben cedere il passo.
 
6. Dopo avere spiegato il senso della fine della filosofia secondo Heidegger, Cacciari sviluppa alcune precisazioni sul senso del rapporto tra filosofia e Tecnica (sempre maiuscolizzata). Chiarisce Cacciari: «La concezione heideggeriana del rapporto tra Tecnica e «fine della filosofia», […], approfondisce il significato e la portata storica di questa «svolta». La filosofia non «finisce» perché «tradita» o «dimenticata» dallo sviluppo della scienza, ma perché si è in questo sviluppo pienamente effettuata. La filosofia termina allorché ha compiuto il proprio destino fondamentale: annichilire l’Essere dell’Ente, traducendolo senza residui in soggettività, in valutato della soggettività. La filosofia finisce perché perfetta. Il fondamentale nihilismo della filosofia moderna non ha alcun carattere, perciò, nella concezione heideggeriana, ma ancor prima nietzschiana, «irrazionalistico». Non solo tale nihilismo non distrugge la ragione, ma ne costituisce il fondamento, il metodo. Né la fine della filosofia è il prodotto di un’epoca di «decadenza» (secondo un’ottica pessimistica spengleriana, che ritroviamo nella filosofia reazionaria tedesca della crisi, in Jünger, in Bäimler, ma non in Heidegger). All’opposto, la fine della filosofia si presenta in Heidegger come progetto: essa esiste «positivamente» come analisi delle forme storiche della volontà di potenza e della sua Tecnica».[31] Che la filosofia (che poi è la metafisica) avesse un compito, un progetto, o che avesse un destino, che quel progetto sia stato ormai compiuto, che essa dovesse sparire dopo avere realizzato il suo compito[32] è una favoletta per bambini che viene ripresa con fervore da Cacciari, senza avanzare la minima perplessità.
 
7. Quel che interessa a Cacciari è di proporre proprio la Tecnica come terreno di incontro tra Heidegger e il marxismo. Si noti che Marx non si era mai occupato in modo prioritario della questione della Tecnica. Al più se ne era occupato subordinatamente all’analisi economica del capitalismo, il quale però – secondo Marx - non era mosso dal progresso tecnico, men che mai dalla razionalità, bensì dall’esigenza della valorizzazione del capitale. Si ricordi che, per Marx, dietro alla tecnica e all’economia ci sono sempre i rapporti sociali. Per Marx, chi crede all’esistenza della Tecnica come qualcosa di autonomo va soggetto all’illusione del feticismo. Cioè considera ciò che è in realtà un rapporto sociale come una cosa.
Anche secondo Heidegger / Cacciari la Tecnica è qualcos’altro. La Tecnica è la metafisica che si fa oggetto, che diventa mondo. Secondo Cacciari, Heidegger: «[…] interroga, cioè, il fondamento non-tecnico della Tecnica, il suo fondo non meramente strumentale. La Tecnica non esiste come insieme tecnico-strumentale «neutrale» di funzioni e organismi che «tengono» unicamente al risultato, all’effetto pratico. La Tecnica contemporanea è concepibile soltanto come il compimento storico del progetto di matematizzazione della natura, coincidente col problema del metodo proprio della metafisica moderna. L’essenza della Tecnica riposa sulla storia della trasformazione dell’Essere in valore e del valore in valutato della volontà di potenza. Non è strumento neutrale la Tecnica, ma il risultato, anzi, del destino storico-culturale europeo. Essa non «mistifica» nessuna «origine». Il suo destino non si è conservato spazi vuoti alle spalle dove rifugiarsi, consolarsi, «liberarsi», dis-alienarsi».[33]
Il discorso di Marx e quello di Heidegger sono chiaramente opposti. Tuttavia è chiaro che un superficiale elemento comune si può ritrovare tra la Tecnica heideggeriana, così descritta, e la teoria della merce marxiana, seppure in una versione particolare che è quella della reificazione fornita del giovane Lukács. Il destino della metafisica è la cosa, e il destino del capitale è la merce. Insomma, per entrambi, saremmo immersi in un insopportabile mondo di cose.[34] Il nemico comune sarebbe costituito dall’oggettivazione. Già Lukács nella sua prefazione del 1956 a Storia e coscienza di classe aveva considerato come fosse stato un errore madornale, dal punto di vista marxiano, il fatto di scambiare l’alienazione con l’oggettivazione.[35]
 
8. Insomma, Cacciari propone ai marxisti di adottare la filosofia della storia e l’ontologia di Nietzsche – Heidegger. Una volta capito che siamo immersi in un mondo di cose che sono ostili, non resta che rifiutare la l’oggettivazione, la reificazione o alienazione. Secondo Cacciari / Heidegger «Dobbiamo sradicarci da questa «dimora». Anzi, dobbiamo comprendere che l’essenza della vicenda storica che abbiamo attraversato consiste nel produrre tale sradicamento». Cioè dobbiamo andare oltre l’impasto metafisico - tecnico che è caratteristico della nostra epoca o civiltà.[36]
È chiaro che per Cacciari, lo sradicamento è la stessa cosa dell’alienazione. «Questo [lo sradicamento] era il Kern tragico della Kultur classica, che è insieme intuizione della crisi di tale Cultura: anche in Goethe (nietzschianamente rivisitato), ma soprattutto in Hölderlin. La peculiarità tragica della poesia-pensiero hölderliniana non consiste tanto nell’intuizione del «nascondimento» dell’Essere, della «fuga degli Dei», ma nel fatto che tale sradicamento è concepito come destino dello stesso discorso sull’Essere — ed esso va sopportato fino alle sue conseguenze estreme: wir, die Zeichen — non vir, die Subjekte. E allora giungiamo finalmente alla domanda: perché qui il «dialogo produttivo» col marxismo? In Lettera sull’umanesimo Heidegger lo pone esplicitamente sotto il segno della hölderliniana «perdita di patria», come risultato di quel nascondimento dell’Essere che costituisce nello stesso tempo la forza produttiva intrinseca della riflessione metafisica occidentale sull’Essere stesso. Questo nascondimento è perciò storico — storico in senso essenziale».[37]
Cosa significhi storico in senso essenziale non è dato di capire al di là del virtuosismo verbale (poiché è una contraddizione in termini). Insomma, comunque par di capire che i marxisti dicono che siamo alienati, gli heideggeriani che, in quanto occidentali, siamo spaesati; per cui possiamo metterci d’accordo. Purtroppo per Cacciari, basta legger bene la Lettera per rendersi conto che la “perdita di patria” di cui parla Heidegger non è l’umanità perduta dell’operaio alienato ma è la comunità greco germanica arcaica cui Heidegger aspira di far ritorno grazie alla rivoluzione nazista. Il problema è che in Heidegger quella filosofia della fine della civiltà, che piace tanto a Cacciari, serviva a evocare una nuova civiltà, il nuovo ordine che poi era l’ordine nazista.
 
9. Dopo avere identificato nella Tecnica e nello spaesamento gli elementi di convergenza tra le due prospettive filosofiche, alla fine emerge la domanda chiave di Cacciari: «È necessario, allora, fare del marxismo un estremo tentativo di fondazione filosofica della scienza, di discorso sul metodo? O non è invece piuttosto a una nuova dimensione della politica che il marxismo può aprire — non intesa come filosofia della politica, ma «volontà di potenza» storicamente organizzata e in grado di esercitarsi concretamente sulla diversa molteplicità dei linguaggi della Tecnica?».[38] Scartata dunque con disprezzo l’ipotesi di un marxismo metodologico (che rimanga sul piano della scienza, cioè, heideggerianamente, della Tecnica) che poi era quella di Galvano della Volpe (e, se vogliamo, anche quella di Lukács), il marxismo dovrebbe inaugurare una nuova dimensione della politica, evidentemente sganciata da qualsiasi prospettiva limitatamente “culturale”, che sarà così “volontà di potenza storicamente organizzata” la quale dovrebbe esercitarsi proprio sul complesso della Tecnica. Una sorta di dittatura da parte della volontà (non si capisce di chi sia e come sia determinata questa volontà) sulla ragione strumentale e quindi sul “sistema” complessivo di tipo socio tecnico, economico, e indubbiamente anche politico, che ne deriva. Si tratta dunque di passare dall’orbita di Marx a quella di Nietzsche/ Heidegger, e di iniziare a praticare una sorta di volontarismo assoluto contro e sopra la Tecnica.
9.1. È chiaro che il confronto che si dovrebbe aprire comporterebbe una specie di risucchiamento del marxismo dentro l’heideggerismo. Secondo Cacciari, i marxisti non avrebbero fondate argomentazioni per dissentire da Heidegger,[39] essi semplicemente rimuovono. È davvero interessante questo uso della categoria psicoanalitica della rimozione. Afferma Cacciari che: «[…] anche storiograficamente, occorrerà che il marxismo — per usare ancora questo termine sovraccarico di «tradizioni» e di equivoci — comprenda finalmente quanto fino a oggi ha «rimosso»: i momenti fondamentali della crisi della metafisica, dalle aporie dello schematismo kantiano alla Vollendung nietzschiana. Questa dovrà sempre più essere la sua storia, strappandola definitivamente ai decadenti, ai nostalgici, ai letterati e ai dottori dell’anima che l’hanno finora monopolizzata. E questa impostazione non permetterà forse di cogliere sotto una luce completamente diversa anche i momenti «canonici» della storiografia marxista — Hegel, anzitutto —, liberandoli dalla piatta Historie delle «storie della filosofia», per coglierne le contraddizioni, i significati «innovativi», e non per esaltarne le presunte «sinteticità» all’interno di un universale teleologismo illuminista borghese?».[40] Insomma, Cacciari vorrebbe introdurre definitivamente nel marxismo la “favola” nicciano – heideggeriana della fine della metafisica, del nuovo inizio e, soprattutto, il volontarismo politico. Come dire: non lasciamo tutte queste preziosità al nemico. Vorrebbe anche reinterpretare Hegel e Marx alla luce di Heidegger: non è chiaro con quali risultati.
Cacciari ribadisce e chiarisce ulteriormente il suo punto di vista: «Il pensiero heideggeriano interroga (e sfida) qui il marxismo: è ancora ideologia il marxismo, una ideologia, per quanto storicamente decisiva, per quanto totalmente diversa dalle altre ideologie contemporanee, dagli «ismi» che devastano il linguaggio? o può attualmente esistere come una presenza, una «volontà», una forza storica completamente originale nei confronti della Tecnica come politica?».[41] Per capire l’uso del termine “ideologia” che qui vien fatto, occorre ancora riferirsi alla Lettera heideggeriana, dove le ideologie, chiamate appunto “ismi”, sono tutte condannate con disprezzo perché riduttivamente e stupidamente umanistiche.
9.2. Ma in questa proposta di Cacciari c’è qualcosa di assai più grave. Se non andiamo errati, sotto l’etichetta della “Tecnica come politica” ci stanno anche la democrazia e le istituzioni democratiche. Heidegger nella Lettera tratta come ideologie, come “ismi”, tutte le correnti filosofiche che non sono in grado di pensare l’Essere, compresa ovviamente la liberal democrazia. La volontà o la forza storica completamente originale in Heidegger era rappresentata dal nazismo. Esso avrebbe dovuto mettere la Tecnica al suo servizio per fondare una nuova epoca caratterizzata da un nuovo rapporto con l’Essere. È proprio questo il fallimento che Heidegger, da un certo punto in poi, aveva imputato ai nazisti. Heidegger in realtà era più nazista degli stessi nazisti. Ora, più o meno, lo stesso progetto, secondo Cacciari, dovrebbe essere assunto e realizzato da un nuovo marxismo heideggeriano, capace di concepirsi “non più come ideologia” ma in termini di volontà epocale. Peccato che Cacciari abbia tralasciato di dire se aveva già in mente chi avrebbe potuto impersonare il Führer.
Dal punto dei vista della democrazia, la volontà sovrana è quella che si forma, ahimè per Cacciari, attraverso un procedimento tecnico, che è quello della regola della maggioranza. La sottomissione della “Tecnica come politica” a una volontà di altro genere (la classe? il leader, il capo? il partito? il mito?) che si ponga addirittura come fondatrice di un nuovo rapporto (non tecnico!) con l’Essere non può che lasciare esterrefatti. Siamo a quanto pare in presenza di un tentativo di introduzione del Führerprinzip nel marxismo e nel movimento operaio. I concetti fondativi del marxismo vengono sovrapposti e scambiati con quelli del nazismo, con assoluta noncuranza. Era questo ciò a cui mirava il nuovo “marxismo heideggeriano” proposto da Cacciari?
9.3. Del resto, esattamente nello stesso periodo in cui Cacciari scriveva queste cose, l’operaista Mario Tronti “scopriva” e divulgava il nazista Schmitt e si faceva propugnatore di una accoppiata vincente tra Marx e Schmitt.[42] Anche Jünger era diventato piuttosto popolare nell’ambiente ex operaista ed era variamente citato e riproposto. Il men che si possa dire è che questa popolarità di autori dell’estrema destra presso gli ex operaisti dell’estrema sinistra lascia alquanto sconcertati. In proposito, ha affermato Preve in un suo studio sulla dissoluzione del paradigma operaista: «[…] in questi primi anni Ottanta, in Italia, si sta profilando ormai nettamente una nuova destra i cui connotati storici e teorici segnano una discontinuità con quella che era la tradizionale «vecchia destra» italiana; la dissoluzione della costellazione ideologica chiamata operaismo è ormai uno dei fattori principali (e comunque uno dei fattori più attivi) della costituzione del profilo della «nuova destra» in Italia».[43] E aggiunge poco oltre: «[…] i veicoli teorici del cinismo decisionistico e delle mitologie nicciane e schmittiane sono in gran parte ex-oracoli della cosiddetta cultura di «sinistra»».[44] Pur essendo doveroso precisare che non tutti gli ex operaisti hanno seguito questo percorso, va riconosciuto che questa, che siamo andati esaminando, è senz’altro la traiettoria più anomala, quella che richiede una qualche accurata spiegazione (al di là delle vicende personali dei singoli protagonisti).
La prima spiegazione, ancora poco esauriente, è che tra nazismo e comunismo sia sempre esistita una parentela di fondo (sempre rimossa, qui il termine s’impone davvero), pronta a emergere quando meno uno se lo aspetta. Del resto il nazismo si qualificò come nazional - socialismo e l’inventore del fascismo notoriamente proveniva dal Partito Socialista. È la vecchia tesi, a dire il vero un po’ grossolana, della coincidenza strutturale tra estrema destra e estrema sinistra. La seconda spiegazione, che è già un poco più precisa, attiene alle comuni origini hegeliane sia della cultura della destra, sia di quella della sinistra marxista. Non si tratterebbe dunque che di variazioni su temi comuni. Chi voglia convincersi dell’hegelismo di Heidegger, al di là degli aspetti pirotecnici del suo linguaggio, può utilmente consultare Philipse 1998. In particolare, il tratto filosofico che accomuna tutte queste correnti è senz’altro l’essenzialismo.[45]
La terza spiegazione, forse sociologicamente e culturalmente più convincente, quella che rende comprensibile anche l’adesione popolare a queste correnti pasticciate, è che, fondamentalmente, l’estrema destra e l’estrema sinistra abbiano, come profondo tratto comune, l’anti modernità. La polemica contro la tecnologia, la scienza, la logica, la razionalità, le istituzioni democratiche, l’Occidente, ma anche contro la merce e il denaro, contro la cosa, contro la reificazione, sono tutti tratti che estrema destra e estrema sinistra condividono profondamente. L’estrema destra ha imputato tutte queste caratteristiche all’eterno ebreo, l’estrema sinistra le ha imputate al capitalismo. Ma la sostanza è sempre la stessa poiché, in una certa, ahimè, fin troppo nota narrazione, l’ebreo e il capitalismo sarebbero del tutto intercambiabili. Per questo carattere anti moderno di fondo, questi mondi filosofici che si collocano all’opposto, ogni tanto guardandosi allo specchio, si riconoscono, si cercano e si trovano.
9.4. Il problema che stava dietro alle elucubrazioni di Cacciari e di Tronti alla metà degli anni Settanta era l’esigenza di dare una risposta al fallimento della stagione delle lotte operaie, all’incapacità di tradurre quelle lotte in risultati politici. Ebbene, c’erano due risposte principali: una era che ci fosse stato un difetto nella capacità di partecipazione, un difetto di democrazia, insomma; e ciò avrebbe comportato l’esigenza di inseguire, con qualche “tecnica” democratica, l’opinione, anzitutto e per lo più, di una qualche maggioranza, considerando a questo punto gli operai come cittadini ed elettori. Ciò avrebbe comportato una svolta socialdemocratica e riformista. L’altra era che al movimento operaio fosse mancata una soggettività collettiva capace di imporre la propria volontà alle grandi masse e di fare così, con successo, una rivoluzione epocale, dominando la Tecnica, democrazia compresa, anziché assoggettarvisi. Invece di propendere per una scelta socialdemocratica e riformista, Cacciari e Tronti si sono messi alla ricerca di una filosofia volontaristica della storia dove gli individui singoli sarebbero stati sublimati in un nebuloso soggetto collettivo, una specie di Principe nicciano, capace di agire in modo volontaristico e machiavellico. Si riteneva, insomma, che fosse mancato un soggetto e un momento machiavellico, capace di dominare la Tecnica.
 
10. Purtroppo, invece del soggetto collettivo capace di imporre la propria volontà alla Tecnica, quel che ci siamo ritrovati, quel che si può osservare anche oggi ovunque nel nostro Paese, è una sorta di via italiana al momento machiavellico, cioè quella squallida metamorfosi che ha visto la sinistra (e il movimento operaio) popolarsi di tanti piccoli ego - soggetti dotati soltanto di obiettivi personali da raggiungere, in lotta frenetica contro tutti gli altri, dove ogni narrazione è diventata soltanto retorica e strumento di persuasione. Da costoro sono nati lo strumentalismo, l’opportunismo, la personalizzazione della politica, la corruzione, il disprezzo per i valori, l’anti istituzionalismo e l’uso spregiudicato delle istituzioni. Solo in questo modo volgare, decisamente stravolto, i temi più popolari dell’operaismo sono stati finalmente riprodotti su scala allargata e hanno “penetrato le masse”. Così siamo diventati tutti alternativi, tutti soggetti autonomi, tutti corpi desideranti, possiamo farci i fatti nostri ma possiamo anche continuare felicemente a essere critici e creativi, volontaristi, cinici, tragici e machiavellici, anti istituzionali e antidemocratici, antitecnologici e antiscientifici, relativisti, fieri avversari della ragione e profeti della fine della verità, oppositori del capitalismo finanziario, della globalizzazione, della merce, della cosa e dell’alienazione; e - perché no? – nemici dell’Europa e dell’Occidente. Marx e Heidegger avranno sempre una buona parola per tutti.
 
 
10/07/2015
Giuseppe Rinaldi
 
 
 
 
OPERE CITATE
 
1961 Axelos, Kostas
Marx penseur de la tecnique, Les Éditions de Minuit, Paris. Tr. it.: Marx pensatore della tecnica, Sugar Editore, Milano, 1963.
 
1966 Axelos, Kostas
Einfuhrung in ein kunftiges Denken: Uber Marx und Heidegger. Tr. it.: Marx e Heidegger, Guida, Napoli, 1966.
 
1977 Cacciari, Massimo
Pensiero negativo e razionalizzazione, Marsilio, Venezia.
 
2014 Di Cesare, Donatella
Heidegger e gli ebrei. I “Quaderni neri”, Bollati Boringhieri, Torino.
 
2005 Faye, Emmanuel
Heidegger, l’introduction du nazisme dans la philosophie. Autour des séminaires inédits de 1933-1935, Albin Michel, Paris. Tr. it.: Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, L’Asino d’oro edizioni, Roma, 2012.
 
1973 Goldmann, Lucien
Lukács e Heidegger, Éditions Denöel, Paris. Tr. it.: Lukács e Heidegger. Frammenti postumi a cura di Youssef Ishaghpour, Bertani Editore, Verona, 1976.
 
1976 Heidegger, Martin
Wegmarken, Vittorio Klostermann GmbH, Frankfurt am Main. Tr. it.: Segnavia, Adelphi, Milano, 1987.
 
1922 Lukács, György
Geschichte und Klassenbewusstsein, Der Malik Verlag, Berlin. Tr. it.: Storia e coscienza di classe (a cura di Giovanni Piana), Sugar Editore, Milano, 1967.
 
1954 Lukács, György
Die Zerstörung der Vernunft, Aufbau-Verlag, Berlin. Tr. it.: La distruzione della ragione (2 voll.), Mimesis Edizioni, Milano, 2011.
 
1998 Philipse, Herman
Heidegger’s Philosophy of Being. A Critical Interpretation, Princeton University Press, Princeton N.J. .
 
1984 Preve, Costanzo
La teoria in pezzi. La dissoluzione del paradigma teorico operaista in Italia (1976-1983), Dedalo, Bari.
 
1977 Tronti, Mario
Sull’autonomia del politico, Feltrinelli, Milano.
 
1998 Tronti, Mario
La politica al tramonto, Einaudi, Torino.
 
2005 Wolin, Richard & Abromeit, John (a cura di)
Heideggerian Marxism. Herbert Marcuse, University of Nebraska Press, Lincoln and London.
 
 
NOTE
 
[1] Cfr. Cacciari 1977.
[2] Cfr. Tronti 1977.
[3] Cfr. Wolin & Abromeit 2005.
[4] Cfr. Goldmann 1973. Il volume è stato pubblicato in italiano nel 1976.
[5] Cfr. Axelos 1961 e Axelos 1966.
[6] Cfr. Lukács 1954. La prima edizione italiana, presso Einaudi, è del 1959.
[7] Cfr. Lukács 1954: 843.
[8] Cfr. Lukács 1954: 844.
[9] Si veda Faye 2005. Per i più recenti sviluppi si veda Di Cesare 2014.
[10] Cfr. Confronto con Heidegger in Cacciari 1977.
[11] Cfr. Heidegger 1976: 292.
[12] Cfr. Heidegger 1976: 293.
[13] Questa, tra l’altro è l’interpretazione di Axelos. Cfr. Axelos 1961 e Axelos 1966.
[14] Secondo lo schema marxiano, non può mai darsi che la borghesia trionfi in campo economico e che, invece, si ritrovi in crisi dal punto di vista culturale. Si tratterebbe di un’anomalia capace di distruggere le fondamenta stesse del marxismo. La possibilità di una crisi culturale nel fulcro del mondo capitalistico sviluppato implicava un ribaltamento completo nella filosofia della storia, per cui l’elemento economico sarebbe solo una conseguenza dell’elemento culturale. Occorreva dunque andare in cerca di una “crisi della cultura” che fosse compatibile con la presenza di un ricco sviluppo economico. Questa teoria della storia non poteva che essere quella nicciano-heideggeriana, la quale contemplava che il massimo dello sviluppo tecnico comportasse il massimo della regressione culturale (o spirituale). L’adesione alla teoria implicava l’equiparazione tra tecnica ed economia, cosa che Marx non avrebbe mai fatto. O, meglio, implicava la riconduzione dell’economia a mera tecnica. Questo al più era quanto si poteva dire avesse fatto Weber con la sua teoria del capitalismo come razionalizzazione. Per Marx, dietro all’economia ci stanno i rapporti sociali; per la filosofia nicciano heideggeriana dietro all’economia ci sta solo l’oggettivazione, la reificazione.
[15] Cfr. Cacciari 1977: 71-72.
[16] Cfr. Cacciari 1977: 72.
[17] Cfr. Cacciari 1977: 72.
[18] Cfr. Cacciari 1977: 72-73.
[19] Costoro pensano che un’epoca non possa stare senza fondamenti perché ritengono che le epoche siano delle forme individuali, che hanno delle caratteristiche uniche (appunto il fondamento). Non ce la fanno a pensare che in una stessa epoca ci siano tanti singoli, ognuno dei quali si costruisce liberamente i fondamenti che vuole, rispettando un patto di convivenza con tutti gli altri, patto che assicura la libera ricerca di ciascuno della propria personale felicità. La concezione dell’epoca come forma è tipica di tutti gli organicismi, di tutti i nazionalismi, di tutti i razzismi. Hegel, Marx, Dilthey, Lukács (e ovviamente Heidegger) sono i profeti di questo essenzialismo che evidentemente Cacciari condivide.
[20] Cfr. Cacciari 1977: 73.
[21] Cfr. Cacciari 1977: 74.
[22] Su questo punto, si veda Faye 2005.
[23] Cfr. Cacciari 1977: 73.
[24] Cfr. Cacciari 1977: 74.
[25] Posizioni assai simili erano già contenute ne La crisi delle scienze europee di Husserl.
[26] Cfr. Cacciari 1977: 74-75.
[27] È fin troppo chiaro che, in questa prospettiva, la storia non è più concepita come successione di classi in lotta tra loro, ma come successione di civiltà che nascono e poi spariscono dopo avere esaurito il loro “destino” (o, il che è lo stesso, dopo avere sviluppato in pieno la loro “forma”).
[28] Cfr. Cacciari 1977: 75.
[29] Cfr. Cacciari 1977: 76.
[30] Cfr. Cacciari 1977: 76-77.
[31] Cfr. Cacciari 1977: 77.
[32] Le teorie della scuola hegeliana e post hegeliana sono piene di cose che spariscono dopo essersi realizzate (più o meno come le forme aristoteliche). Anche Marx non era da meno.
[33] Cfr. Cacciari 1977: 78.
[34] La polemica di Heidegger contro la cosa era di stampo tipicamente antisemita. A sua volta, la polemica di Marx contro il capitalismo, se non era coscientemente antisemita, comunque era erede della favola diffusa degli ebrei scarsamente spirituali e abili manipolatori di ricchezza. Si legga la Questione ebraica di Marx per avere un quadro sorprendente dell’antisemitismo marxiano. Tutte le filosofie della decadenza contrappongono lo Spirito (magari identificato con quello greco - germanico) alla materia, al calcolo, alla tecnica dei vili meccanici. Non è davvero ben chiaro cosa avrebbe avuto da imparare il movimento operaio dalla spiritualizzazione proposta da Cacciari. Magari sarebbero diventati tutti come l’operaio di Jünger.
[35] Cfr. Lukács 1922.
[36] Non si capisce perché: se abbiamo realizzato il nostro destino,… dovremmo solo essere contenti. Cacciari evita di introdurre l’elemento della nostalgia dell’Essere.
[37] Cfr. Cacciari 1977: 79.
[38] Cfr. Cacciari 1977: 81.
[39] Infatti Cacciari su guarda bene dal riportare il dibattito precedente sulla questione.
[40] Cfr. Cacciari 1977: 81-82.
[41] Cfr. Cacciari 1977: 82.
[42] Cfr. Tronti 1998.
[43] Cfr. Preve 1984: 6-7.
[44] Cfr. Preve 1984: 9.
[45] Su questo punto non posso che rinviare al mio articolo Contraddizioni del terzo tipo sul sito Finestrerotte.