domenica 5 luglio 2015

Le transustanziazioni dell’operaio massa

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1. Le vicende del marxismo italiano nel secondo Novecento sono ormai finite nel dimenticatoio. Lì potrebbero anche restare, se non fosse che alcune particolarità della storia filosofica e, più in generale, della storia culturale del nostro Paese, si possono comprendere solo a partire da quel periodo. La storia delle idee non procede mai in modo lineare, si svolge piuttosto per un intreccio di falde sotterranee che solo talvolta vengono alla luce, magari senza poi recare traccia esplicita della loro provenienza. Talvolta è necessario fare un po’ di archeologia, non tanto per amore del passato, quanto per comprendere meglio il presente.
Chi voglia comprendere le ragioni del panorama squallido della filosofia italiana degli ultimi quarant’anni, panorama che qualcuno ha definito come una serie di «immagini del nulla», è costretto inevitabilmente a tirare in ballo quella che oggettivamente era stata la maggior novità culturale del secondo dopoguerra e cioè la reintroduzione in Italia del marxismo. Questa gran novità ha caratterizzato tre decenni della storia culturale del nostro paese, ameno fino a tutti gli anni Settanta, e però ha lasciato segni tanto profondi e devastazioni così generalizzate da non essere oggi neppur riconoscibili.
Ciò ovviamente non equivale a identificare un rapporto diretto di causa ed effetto.  La storia della cultura rifugge dalle connessioni causali troppo strette. Diciamo che tra il primo e il secondo periodo si possono rilevare alcune preoccupanti permanenze e che viene in evidenza la traccia costante di un profondo radicamento di talune tematiche antimoderne che hanno senz’altro  contribuito a mantenere il Paese in una grave condizione di arretratezza culturale. I marxisti, coloro che ritenevano presuntuosamente di essere all’avanguardia, hanno costituito, in realtà, la zavorra più pesante per la cultura del Paese.
 
2. Nei primi tre decenni, a partire dal secondo dopoguerra, nel nostro Paese si sono avvicendate, in termini grossolani, almeno due versioni del marxismo, la versione dominante, quella gramsciano – togliattiana e la versione minoritaria, quella neomarxista, che tuttavia ha poi finito per diventare egemone in campo culturale e alla quale senz’altro possono essere imputati i maggiori disastri culturali. Mentre il marxismo gramsciano togliattiano è stato il frutto di un’operazione politica condotta a tavolino dal nuovo PCI, il neomarxismo italiano ha preso forma, se vogliamo fissare una data simbolica, a ridosso del 1956, quando il mito dell’Unione Sovietica ha ricevuto le prime palesi smentite e quando numerosi intellettuali marxisti hanno cominciato a sentire sempre più strette le case del PSI e del PCI.[1] Una storia complessiva del neomarxismo degli anni Sessanta e Settanta non è ancora stata scritta,[2] anche se oggi cominciamo a disporre di molti studi parziali e cominciamo a godere di una prospettiva storica sicuramente più distaccata.
 
3. Uno dei più importanti punti di coagulo del neomarxismo italiano fu sicuramente quel complesso di elementi teorici e organizzativi che fu definito come operaismo. Intorno all’operaismo degli anni Sessanta si formò il nucleo principale dei neomarxisti che poi presero ben presto diverse strade, tanto da giungere poi a occupare una parte consistente del panorama filosofico e culturale. Possiamo citare, per la cronaca, personaggi come Mario Tronti, Antonio Negri, Alberto Asor Rosa, Massimo Cacciari. Si possono citare riviste come i Quaderni rossi, Classe operaia, oppure Contropiano.
Per cercare conferme (o smentite) alla nostra ipotesi interpretativa, circa il peso negativo del neomarxismo sugli sviluppi della filosofia italiana, esamineremo anzitutto alcune teorie di Raniero Panzieri, che è stato senz’altro il nume tutelare dell’operaismo. In particolare, alla luce del nostro filone di indagine, condurremo una lettura critica analitica degli articoli teorici pubblicati da Panzieri sui Quaderni rossi.
 
4. Raniero Panzieri era stato allievo di Galvano della Volpe e aveva insegnato Filosofia del diritto a Messina, dopo il 1949. Era diventato nel frattempo anche dirigente del PSI siciliano. A partire dal 1955, sarà responsabile del settore culturale del partito. Era di orientamento morandiano e aveva condotto autonomamente, insieme alla moglie che era una germanista, una serie approfondita di studi su Marx, tra i quali la traduzione del secondo libro del Capitale. Anche per Panzieri il 1956 aveva costituito un’occasione per procedere a un ripensamento delle questioni riguardanti il futuro del socialismo. Secondo Mancini, autore di una bella introduzione agli ultimi scritti di Panzieri,[3] egli generale: «Riprende […] da Morandi sia l’idea della via consiliare in alternativa al riformismo e al massimalismo sia il tema della politica unitaria, intesa non come la semplice alleanza tra PSI e PCI, bensì come la rifondazione della politica socialista attraverso lo sviluppo del movimento autonomo della classe operaia e la costruzione dal basso della democrazia diretta. Inoltre la ripresa dei temi della democrazia diretta serve a Panzieri per conferire un nuovo spessore alla richiesta di democrazia nel movimento operaio e per criticare la concezione leninista stalinista della subordinazione del proletariato al partito, cui egli contrappone la concezione morandiana del «partito - funzione», cioè del partito come strumento della classe operaia».[4]
 Con Lucio Libertini, Panzieri era stato tra i promotori delle Tesi sul controllo operaio,[5] pubblicate nel 1958 sulla rivista socialista Mondo Operaio, che avevano suscitato un ampio dibattito.[6] Dopo il 1958 la posizione di Panzieri si era ulteriormente radicalizzata, fino a entrare in rotta di collisione con il suo stesso partito. Panzieri abbandonò così il suo ruolo di dirigente del PSI e andò a Torino a lavorare per la Einaudi. Proprio a Torino sarà l’animatore dell’esperienza dei Quaderni rossi, fino alla sua morte improvvisa e prematura nel 1964.
La strategia del controllo operaio, propugnata da Panzieri, era decisamente alternativa alla “via democratica al socialismo” del PCI togliattiano. In particolare Panzieri ne rifiutava la visione positiva del progresso tecnico e dello sviluppo economico. Sul piano della cultura non condivideva la subordinazione degli intellettuali alla linea del partito. Spiega Mancini che: «[…] col rifiuto della cultura partitica, Panzieri vuole esaltare la politicità della funzione intellettuale e ricercarne una nuova dimensione, nella prospettiva della tendenziale unificazione della milizia politica e dell’impegno teorico. Pertanto la dialettica politica - cultura va posta come rapporto diretto tra intellettuali e classe, al di fuori della mediazione burocratica dei partiti. Interpretando in tal modo la funzione politica della teoria, egli giunge a identificare lo sviluppo della classe operaia e della sua lotta anticapitalistica con lo sviluppo della teoria marxista e della scienza stessa».[7]
Queste posizioni portarono Panzieri a ipotizzare la possibilità di un rapporto diretto tra gli intellettuali e la classe operaia, al di là delle organizzazioni sindacali e politiche ufficiali. Proprio in questo spirito, Panzieri fu l’animatore dell’esperienza dei Quaderni rossi.
 
5. Scorrendo l’indice del primo numero dei Quaderni rossi, fa abbastanza impressione il contrasto tra il tono della maggior parte degli articoli, che sono resoconti di lotte e di esperienze sindacali specifiche, e l’articolo di Panzieri Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo.[8] Si trattava di un articolo di taglio profondamente teorico  - filosofico che tentava di interpretare le esperienze delle lotte sindacali, che erano copiosamente riportate nella rivista, alla luce della teoria marxiana del Capitale, presa piuttosto alla lettera, seppure con qualche tentativo di aggiornamento alla situazione del “neocapitalismo”. In sostanza i concetti teorici del Capitale marxiano venivano usati per interpretare la situazione corrente dello scontro di classe e per definire i compiti politici che stavano di fronte al movimento operaio e alla sinistra del tempo.
All’epoca non faceva stupore che, per comprendere i più recenti sviluppi economici e tecnologici di quello che veniva chiamato “neocapitalismo”, si ricorresse alle teorie di un filosofo che aveva operato più o meno esattamente un secolo prima, cercando per di più di restituirlo alla sua autentica interpretazione contro tutte le successive distorsioni. Se un filosofo dell’Ottocento poteva apparire a molti come il miglior sociologo ed economista dell’industria disponibile, questo comunque la dice lunga sull’arretratezza culturale dell’Italia del tempo e sul fatto che lo sviluppo capitalistico era avvenuto in maniera del tutto selvaggia, spontaneistica e non pianificata, senza alcuna decente prospettiva culturale. Se Panzieri era costretto a ricorrere a un filosofo di un secolo prima, la borghesia industriale aveva  a disposizione solo frettolose ricette pratiche importate dall’estero e senz’altro male assimilate.[9]
 
6. L’articolo di Panzieri metteva a punto una griglia di concetti estremamente astratti che miravano a incasellare gli eventi all’interno di una prospettiva teorica ben definita, che diventerà un motivo conduttore tipico dei movimenti degli anni Sessanta e Settanta. Sicuramente fu uno dei testi più letti e discussi nell’ambito dell’operaismo degli anni Sessanta. L’articolo è piuttosto faticoso da leggere poiché è puntellato di citazioni letterali virgolettate di Marx, usate addirittura come incisi o parti integranti, strategia linguistica volta evidentemente a conferire autorità alle analisi proposte. Talvolta si ha l’impressione di essere di fronte a un Marx - Panzieri. Anche noi citeremo abbondantemente Panzieri, tralasciando però per brevità le infinite note con tutti i rimandi ai testi marxiani, che il lettore potrà agevolmente reperire utilizzando il testo dell’articolo, che è stato più volte ripubblicato.[10]
7. Fin dalle prime righe Panzieri, sulla scorta di Marx, spiega che l’operaio ha una ambigua natura, poiché è contemporaneamente lavoratore e capitale: «[…] l’operaio, in quanto proprietario e venditore della sua forza-lavoro, entra in rapporto con il capitale soltanto come singolo. La cooperazione, il rapporto reciproco degli operai «comincia soltanto nel processo lavorativo, ma nel processo lavorativo hanno già cessato d’appartenere a se stessi. Entrandovi, sono incorporati nel capitale. Come cooperanti, come membri di un organismo operante, sono essi stessi soltanto un modo particolare di esistenza del capitale».[11]
Emerge qui subito, con estrema chiarezza per chi lo vuol vedere, una delle conseguenze dell’applicazione rigida del metodo marxiano del Capitale e cioè del ricorso alla pratica, di origine hegeliana, di giocare continuamente con le essenze.[12] Panzieri spiega così, o meglio rivela al lettore, che l’operaio, appena entra nel processo produttivo o di valorizzazione, cambia la propria intima essenza, non è più l’operaio, ma è diventato in realtà capitale. Insomma con un colpo di bacchetta magica è modificata la costituzione ontologica dell’operaio. Una specie di vera e propria transustanziazione dell’operaio. Lo stesso varrà per tutti gli altri elementi ripresi nell’articolo, le macchine, la tecnologia, la scienza, l’organizzazione del lavoro, la distribuzione, il salario, il mercato, il tempo libero, il consumo, insomma, la società intera. La sociologia marxiana di Panzieri è una girandola di rivelazioni, una più strabiliante dell’altra.
 
8. Panzieri ha in mente un uso sociologico di Marx, per cui cerca di spiegare dettagliatamente come avvenga in concreto quella che abbiamo definito come la “transustanziazione” dell’operaio. Essa in generale sarebbe dovuta alla scissione dell’essenza umana dell’operaio, causata dalla proprietà privata degli strumenti di produzione e dal conseguente potere di comando del capitale sul lavoro. Il fatto assolutamente banale che l’operaio riceva ordini dal padrone, viene filosoficamente raccontato come un processo di scissione del soggetto, per cui la potenza intellettuale del padrone si sostituisce a quella dell’operaio e finisce per dominarlo.[13] Così l’operaio, diventando tale perde la propria umanità. Si tratta di temi classici che si ritrovano già nel giovane Marx.
Quando però il processo capitalistico, giunge a compiuta maturazione, manifestando così finalmente la sua vera essenza, la scissione dell’operaio comandato viene riprodotta, in termini generalizzati, in tutto il campo della produzione. La fabbrica, cioè l’ambiente fisico del lavoro, e la scienza e la tecnologia ivi impiegate, sono considerate come la materializzazione della potenza intellettuale, cioè del comando del padrone / capitale, sulla intera classe operaia. Ecco come Panzieri riassume la storia di questa scissione: «Il processo produttivo capitalistico si sviluppa nei suoi vari stadi storici come processo di sviluppo della divisione del lavoro, e il luogo fondamentale di questo processo è la fabbrica: la «contrapposizione delle potenze intellettuali del processo materiale di produzione agli operai, come proprietà non loro e come potere che li domina, è un prodotto della divisione del lavoro di tipo manifatturiero. Questo processo di scissione comincia nella cooperazione semplice, dove il capitalista rappresenta l’unità e la volontà del corpo lavorativo sociale; si completa nella grande industria che separa la scienza, facendone una potenza produttiva indipendente dal lavoro, e la costringe a entrare al servizio del capitale».[14]
La scienza e la tecnologia dunque sono ambiti completamente asserviti al capitale. Questo perché scienza e tecnologia sono in realtà capitale. Per capirlo, basta individuare quale sia la loro vera essenza.
 
9. Val la pena di notare che Panzieri (seguendo del resto Marx) non pone alcuna sensibile differenza tra la scienza e la tecnologia, e tra la tecnologia e i suoi prodotti, tra cose come la tavola periodica degli elementi e un sacco di concime. Eppure la differenza tra le teorie scientifiche e le loro applicazioni pratiche avrebbe dovuto almeno presentarsi alla mente. L’assoluta somiglianza tra scienza e tecnologia è assicurata per Panzieri dal fatto che tutt’e due sono in realtà capitale, che entrambe sono legate alla divisione del lavoro e che entrambe sono governate dalla razionalità strumentale, la quale impedisce di comprendere, appunto, la vera essenza delle cose.
 Così, quando parla in generale della scienza, Marx - Panzieri si riferisce anche e soprattutto alla tecnologia, alle macchine e all’organizzazione del lavoro: «Lo sviluppo della tecnologia avviene interamente all’interno di questo processo capitalistico. […] L’introduzione delle macchine su vasta scala segna il passaggio dalla manifattura alla grande industria. […] La tecnologia incorporata nel sistema capitalistico insieme distrugge «il vecchio sistema della divisione del lavoro» e lo consolida «sistematicamente quale mezzo di sfruttamento della forza-lavoro in una forma ancor più schifosa. Dalla specialità di tutta una vita, consistente nel maneggiare uno strumento parziale, si genera la specialità di tutta una vita, consistente nel servire una macchina parziale. Cosi, non solo si diminuiscono notevolmente le spese necessarie alla riproduzione dell’operaio, ma allo stesso tempo si completa la sua assoluta dipendenza dall’insieme della fabbrica, quindi dal capitalista». L0 stesso progresso tecnologico si presenta quindi come modo di esistenza del capitale, come suo sviluppo. «La stessa facilità del lavoro diventa un mezzo di tortura, giacché la macchina non libera dal lavoro l’operaio, ma toglie il contenuto al suo lavoro. È fenomeno comune a tutta la produzione capitalistica in quanto non è soltanto processo lavorativo ma anche processo di valorizzazione del capitale, che non è l’operaio ad adoperare la condizione del lavoro ma, viceversa, la condizione del lavoro ad adoperare l’operaio; ma questo capovolgimento viene ad avere soltanto con le macchine una realtà tecnicamente evidente».[15] Ciò che nelle prime fasi del capitalismo era solo astratto (in senso hegeliano) diventa ora materiale e dunque visibile nelle macchine: una vera e propria parusia.
 
10. Abbiamo trascurato, perché fin troppo scolastici, i passi in cui Panzieri riporta la distinzione classica tra il lavoro morto e il lavoro vivo, che è contenuta nel Capitale. Questa teoria assicura la connessione tra la teoria del valore marxiana – in cui Panzieri credeva fermamente[16] – e le macchine. La teoria dice che tutti credono che una macchina sia una macchina, mentre è in realtà capitale, più precisamente lavoro morto, cioè lavoro vivo incorporato. Non possiamo qui entrare nel dettaglio di questa teoria. Basti dire che, secondo Marx, il lavoro morto delle macchine si contrappone al lavoro vivo dell’operaio, e ciò ha importanti conseguenze a livello della valorizzazione del capitale.  La favolosa dialettica marxiana permette comunque sempre che una cosa sia almeno due cose. Nulla è come appare. Abbiamo un disvelamento ontologico dopo l’altro. Una serie continua di metamorfosi. Il progresso tecnologico è in realtà esistenza e sviluppo del capitale. Il processo lavorativo è in realtà valorizzazione del capitale. Una macchina è in realtà lavoro morto che succhia il lavoro vivo. E così via. Di disvelamento in disvelamento, i cultori delle filosofie del sospetto erano serviti e contenti. Le scoperte si succedevano in continuazione.
 
11. Lo sviluppo tecnologico non serviva a produrre le merci, perché erano ritenute utili a far qualcosa, come tutti credono comunemente, ma serviva all’accrescimento del capitale. Ne consegue che l’uso capitalistico delle macchine determinava lo sviluppo tecnologico: «[…] di fronte all’operaio individuale «svuotato», lo sviluppo tecnologico si manifesta come sviluppo del capitalismo: «come capitale e in quanto tale la macchina automatica ha consapevolezza e volontà nel capitalista». Nel «cervello [del padrone] il macchinario e il suo monopolio del medesimo sono inseparabilmente uniti»».[17] Già Aristotele diceva che una scarpa doveva servire per camminare. Se si producevano scarpe per arricchire e non per camminare si aveva una corruzione dell’essenza della scarpa. La storia della tecnologia è un sottoprodotto della storia del capitalismo.
 
12. Il processo di valorizzazione e l’intrinseco processo di sviluppo tecnologico, oltre che essere finalizzati al profitto, si traducono necessariamente in una struttura di potere. Insomma, la scienza e la tecnologia, separati dall’operaio, sono in realtà potere del capitale. Il comando del capitale sul lavoro diventa quindi, per Marx – Panzieri il piano del capitale. Si tratta questa di una nozione chiave per capire l’operismo italiano degli anni Sessanta. Dice Panzieri che «Il processo d’industrializzazione, via via che s’impadronisce di stadi sempre più avanzati di progresso tecnologico, coincide con l’incessante aumento dell’autorità del capitalista. Col crescere del volume dei mezzi di produzione, contrapposti all’operaio, cresce la necessità di un controllo assoluto da parte del capitalista. Il piano del capitalista è la figura ideale con cui agli operai salariati si contrappone «la connessione tra i loro lavori» praticamente, il piano è l’autorità del capitalista, potenza d’una volontà estranea». Dunque strettamente connesso allo sviluppo dell’uso capitalistico delle macchine è lo sviluppo della programmazione capitalistica. Allo sviluppo della cooperazione, del processo lavorativo sociale, corrisponde, nella direzione capitalistica, lo sviluppo del piano come dispotismo».[18]
L’introduzione delle macchine e della tecnologia in generale aumentano così a dismisura il comando nei confronti del lavoro e lo generalizzano. Come si vede, il piano coincide con la razionalità strumentale utilizzata dall’imprenditore per organizzare la produzione, la quale si estende a tutta la società. È chiaro che per il sociologo Marx - Panzieri le differenze tra comando, autorità e dispotismo sono del tutto trascurabili. Era l’epoca dell’anti autoritarismo.
 
13. Dopo aver enunciato le basi teoriche della questione, seguendo da vicino Marx, Panzieri provvedeva a confutare la visione riformista del progresso tecnico, allo scopo di troncare il dibattito, allora assai sentito, sulle conseguenze sociali dell’automazione.
Afferma Panzieri che «L’analisi di Marx sulla divisione del lavoro nel sistema della grande industria a direzione capitalistica si presenta come una valida metodologia per confutare le varie ideologie «oggettivistiche» rifiorenti sul terreno del progresso tecnologico (specialmente in rapporto alla fase dell’automazione). Lo sviluppo capitalistico della tecnologia comporta, attraverso le diverse fasi della razionalizzazione, di forme sempre più raffinate di integrazione ecc., un aumento crescente del controllo capitalistico. Il fattore fondamentale di questo processo è il crescente aumento del capitale costante rispetto al capitale variabile. Nel capitalismo contemporaneo, come è noto, la pianificazione capitalistica si amplia smisuratamente con il passaggio a forme monopolistiche e oligopolistiche, che implicano il progressivo estendersi della pianificazione dalla fabbrica al mercato, all’area sociale esterna».[19]
La razionalità strumentale e il dispotismo del padrone tendeva così a debordare dalla fabbrica e a investire il mercato e l’intera società. Il piano del capitale dunque coinvolgeva l’intera società, cosicché anche l’intera società è in realtà capitale.
 
14. Il modello teorico marxiano veniva dunque usato per togliere ogni fondamento alla razionalità tecnologica con cui la cultura industriale dell’epoca cercava di affrontare i problemi organizzativi: «È ovvio che la convalida piena dei processi di razionalizzazione (considerati come insieme delle tecniche produttive elaborate nell’ambito del capitalismo) dimentica che è precisamente il «dispotismo» capitalistico che assume la forma della razionalità tecnologica. Nell’uso capitalistico, non solo le macchine, ma anche i «metod, le tecniche organizzative, ecc. sono incorporati nel capitale, si contrappongono agli operai come capitale: come «razionalità» estranea. La «pianificazione» capitalistica presuppone la pianificazione del lavoro vivo, e quanto più essa si sforza di presentarsi come un sistema chiuso, perfettamente razionale di regole, tanto più essa è astratta e parziale, pronta per essere utilizzata in una organizzazione soltanto di tipo gerarchico. Non la «razionalità», ma il controllo, non la programmazione tecnica ma il progetto di potere dei produttori associati possono assicurare un rapporto adeguato con i processi tecno-economici globali. In effetti, nell’ambito di una considerazione «tecnica», pseudoscientifica dei nuovi problemi e delle nuove contraddizioni che insorgono nell’azienda capitalistica odierna, è possibile trovare soluzioni via via più «avanzate» dei nuovi squilibri senza toccare la sostanza dell’alienazione, garantendo anzi il mantenimento dell’equilibrio del sistema. In effetti, le ideologie sociologiche e organizzative del capitalismo contemporaneo presentano varie fasi, dal taylorismo al fordismo fino allo sviluppo delle tecniche integrative, human engineering, relazioni umane, regolazione delle comunicazioni, ecc. , appunto nel tentativo, sempre più complesso e raffinato, di adeguare la pianificazione del lavoro vivo agli stadi via via raggiunti, attraverso il continuo accrescimento del capitale costante, dalle esigenze di programmazione produttiva».[20]
È chiaro che se tutto è in realtà capitale e se il capitale produce la scissione dell’operaio, qualunque tentativo di razionalizzazione non può che essere considerato come pseudoscienza,[21] atta a “mantenere la sostanza dell’alienazione”. Solo l’eliminazione dell’estrazione di plusvalore, cioè l’eliminazione del capitalismo potrà sanare la situazione.  Vengono ribadite dunque le posizioni già espresse nelle famose Tesi sul controllo operaio.
 
15. Di fronte al macchinismo totalizzante, qualsiasi progetto riformistico non faceva che produrre una sempre maggiore integrazione degli operai: «Occorre dunque sottolineare che la «consapevolezza produttiva» non opera il rovesciamento del sistema, che la partecipazione dei lavoratori al «piano funzionale» del capitalismo, di per sé, è fattore di integrazione, di alienazione, per cosi dire, ai limiti estremi del sistema. È bensì vero che si ha qui, con lo sviluppo dei «fattori di stabilizzazione» nel neocapitalismo, una premessa di natura tale, per l’azione operaia, da rendere immediatamente necessario il rovesciamento totale dell’ordine capitalistico. La lotta operaia si presenta perciò come necessità di contrapposizione globale al piano capitalistico, dove fattore fondamentale è la consapevolezza, diciamo pure dialettica, dell’unità dei due momenti «tecnico» e «dispotico» nell’attuale organizzazione produttiva. Rispetto alla «razionalità» tecnologica, il rapporto ad essa dell’azione rivoluzionaria è di «comprenderla», ma non per riconoscerla ed esaltarla, bensì per sottometterla a un nuovo uso: all’uso socialista delle macchine».[22]
In sostanza, poiché il capitalismo ha invaso tutto, l’unico modo per cambiare la società è la rivoluzione totale, il “rovesciamento totale dell’ordine capitalistico”. Panzieri pensa ancora comunque che il punto di partenza per operare il rovesciamento sia la fabbrica. Dopo pochi anni alcuni dei suoi colleghi e collaboratori penseranno di individuare altri punti di partenza.
 Poiché il sistema sarebbe diventato sempre più interconnesso, sempre più governato dalla logica del capitale, allora secondo Panzieri: «[…] la lotta operaia, ogni lotta operaia tende a proporre la rottura politica del sistema. E agente di questa rottura non è il confronto tra esigenze «razionali» implicite nelle nuove tecniche e loro utilizzazione capitalistica, ma la contrapposizione di una collettività operaia che reclama la subordinazione dei processi produttivi alle forze sociali. Non c’è continuità da affermare, attraverso il salto rivoluzionario, nell’ordine dello sviluppo tecno-economico: l’azione operaia mette in discussione i fondamenti del sistema e tutte le sue ripercussioni e aspetti, a ogni livello».[23]
E’ preoccupante la vaga indicazione delle forze sociali che dovrebbero sostituire il comando del capitale. Non è chiaro se Panzieri avesse in mente i soviet o una versione rielaborata e corretta dei soviet. Le tesi sul controllo operaio sono state piuttosto vaghe su questo punto.
 
16. La prospettiva di Panzieri, tra le altre cose, metteva in crisi la tradizionale politica rivendicativa del sindacato che era incentrata intorno al salario. In questo quadro la politica degli aumenti salariali è soltanto funzionale alla perpetuazione del sistema: «La rottura, il superamento del meccanismo salario-produttività non può quindi porsi come rivendicazione «generale» di aumento del livello dei salari. È evidente che l’azione tendente a superare le sperequazioni salariali costituisce un aspetto del superamento di quel rapporto. Di per sé, non garantisce in nessun modo la rottura del sistema, ma soltanto «catene più dorate» per tutta la classe operaia. Solamente investendo le radici dei processi di alienazione, individuando la crescente «dipendenza politica» dal capitale, è possibile configurare un’azione di classe veramente generale».[24]
Una politica di alti salari avrebbe permesso lo sviluppo dei consumi (e quindi una crescita della domanda). Ma le politiche di tipo keynesiano vengono radicalmente condannate: «Mentre i processi intrinseci all’accumulazione capitalistica divengono sempre più determinati globalmente, all’ «interno» e all’«esterno», a livello aziendale e a livello sociale generale, le varie posizioni rifiorenti anche all’interno del movimento operaio dalla matrice keynesiana, si presentano come vere e proprie ideologie, riflesso degli sviluppi neocapitalistici».[25]   
 
17. Non andava bene neanche l’aumento del tempo libero (che era allora considerata e discussa una conseguenza possibile dell’automazione) e neanche l’aumento dei consumi. In proposito, con una lezioncina marxiana così si esprimeva Panzieri: «In effetti, per Marx, il tempo libero «per la libera attività mentale e sociale degli individui» non coincide affatto semplicemente con la riduzione della «giornata lavorativa». Presuppone la trasformazione radicale delle condizioni del lavoro umano, l’abolizione del lavoro salariato, la «regolazione sociale del processo lavorativo». Presuppone, cioè, l’integrale rovesciamento del rapporto capitalistico tra dispotismo e razionalità, per la formazione di una società amministrata da liberi produttori, nella quale - con l’abolizione della produzione per la produzione - la programmazione, il piano, la razionalità, la tecnologia siano sottoposti al permanente controllo delle forze sociali, e il lavoro possa così (e soltanto per questa via) diventare il «primo bisogno» dell’uomo. Il superamento della divisione del lavoro, in quanto meta del processo sociale, della lotta di classe, non significa un salto nel «regno del tempo libero», ma la conquista del dominio delle forze sociali sulla sfera della produzione. Lo «sviluppo completo» dell’uomo, delle sue capacità fisiche e intellettuali (che tanti critici «umanisti» della «società industriale» amano richiamare) compare come una mistificazione se si rappresenta come «godimento di tempo libero», come astratta «versatilità», ecc. indipendentemente dal rapporto dell’uomo col processo produttivo, dalla riappropriazione del prodotto e del contenuto del lavoro da parte del lavoratore, in una società di liberi produttori associati».[26]
È chiaro qui che l’obiettivo minimo e l’obiettivo massimo nella storia del movimento operaio tornavano a coincidere. L’obiettivo minimo non poteva che essere l’obiettivo massimo. «Vogliamo tutto!» si scriverà di lì a poco sui cartelli.
 
18. Anche in campo politico dunque, niente è come appare. Il riformismo non è quel che tutti credono, è in realtà un’altra cosa. Rappresenta l’integrazione definitiva e la rinuncia al superamento dell’alienazione dell’operaio, che, non va dimenticato, è in realtà capitale. Poco tempo dopo, alcuni operaisti andranno addirittura oltre e sosterranno che anche le lotte operaie sono in realtà un’altra cosa, rientravano cioè anch’esse nel piano del capitale, nel senso che il neocapitalismo avrebbe imparato a usare le lotte operaie per ristrutturarsi. Anche la lotta operaia non è dunque quel che  tutti credono, è in realtà il motore segreto dello sviluppo capitalistico.[27] Qualsiasi respiro si faccia si porta acqua al capitalismo. L’hegelismo panzieriano costruisce così, poco a poco, un sistema mostruoso che ingoia progressivamente tutta la realtà. Nel linguaggio del Sessantotto si parlerà di «stare dentro al sistema» o di «stare fuori dal sistema». Ma stare fuori dal sistema era sempre più difficile, perché il sistema si estendeva dappertutto.[28]
 
19. Dopo l’articolo sulle macchine, Panzieri pubblicherà ancora un secondo, e ultimo, articolo dal titolo Plusvalore e pianificazione. Appunti di lettura del Capitale. Esso fu pubblicato nel n. 4 dei Quaderni rossi, quando ormai era già avvenuta la separazione del gruppo di Classe operaia. Nello stesso numero veniva riportato il cosiddetto Frammento sulle macchine di Marx, a ulteriore testimonianza della centralità che veniva data alla questione della tecnica dai “sociologi” dei Quaderni rossi.
L’andamento dell’articolo è alquanto contorto, pieno di esitazioni e di citazioni, e si nota una certa fatica. Lo sforzo intellettuale è quello di andare oltre i classici (Lenin e, soprattutto, Marx) nell’individuazione delle nuove tendenze pianificatrici del capitalismo. Tutta la tradizione marxista era, infatti, disposta ad ammettere che potesse sussistere un piano del capitale all’interno della fabbrica, cioè nel momento della produzione. Nella società più ampia, invece, la concorrenza capitalistica avrebbe dovuto produrre effetti di anarchia e, in ultima analisi, le crisi economiche, proprio quelle crisi che avrebbero determinato la fine del capitalismo stesso e il passaggio al comunismo. L’ostacolo maggiore nei confronti dell’ipotesi dell’estensione del piano capitalistico alla società intera era costituito proprio dalla teoria del valore di Marx, che implicava la concorrenza e le crisi e che Panzieri però seguiva pedissequamente.[29]
Il problema del capitalismo pianificatore era inoltre assai delicato, sul piano politico, poiché i paesi del socialismo reale avevano adottato la pianificazione economica e poiché il riformismo italiano aveva aperto alla pianificazione economica, che allora era chiamata “programmazione”. La tesi di Panzieri (un effettivo punto di originalità) è invece che, nel neocapitalismo, la stessa logica del piano che il capitale usava nella produzione venisse progressivamente estesa a tutta la società. I pianificatori o programmatori avrebbero dovuto essere considerati dunque nient’altro che pedine del capitale e il socialismo reale avrebbe errato completamente nella sua opzione per la pianificazione.
 
20. Le conclusioni cui proviene Panzieri è che il capitalismo avrebbe sostantivamente cambiato forma, rispetto ai tempi di Marx e di Lenin. Racconta in sintesi Mancini che, secondo Panzieri: «Il capitalismo collettivo non si determina più come cieca volontà, mera combinazione dei capitali individuali, bensì diventa un soggetto consapevole che pianifica il suo sviluppo e che è anche capace di autolimitarsi per impedire che gli squilibri interni si trasformino in contraddizioni antagonistiche: il fine ultimo del neocapitalismo è la riproduzione delle condizioni della propria sopravvivenza e non la massimizzazione del profitto. Il capitale pianificato è dunque in grado di superare le contraddizioni della fase precedente dello sviluppo; il limite del capitale non è il capitale stesso - come sosteneva Marx - ma l’insubordinazione operaia al piano del capitale».[30] Chi fosse e come si esprimesse questo soggetto consapevole pianificatore all’epoca fu oggetto di numerosi e complessi dibattiti.
 
21. Nella nuova prospettiva, diventava allora fondamentale chiarire quale fosse la vera natura dello Stato. Spiega sempre Mancini, sintetizzando le posizioni di Panzieri: «Nel neocapitalismo lo stato subisce un’importante trasformazione, in quanto abbandona la funzione di mediatore dei contrasti di classe all’esterno della sfera economica e diventa il principale agente della programmazione dello sviluppo. Pertanto la sfera dello stato non è neutrale, né si può potenzialmente gestire contro i monopoli, ma anzi è uno strumento per rafforzare e razionalizzare l’autorità del capitale. Perché la programmazione sia efficiente, non basta però che sia coordinata da un unico vertice; occorre che si presenti in veste democratica per ottenere il consenso dei lavoratori attraverso le loro espressioni politiche. Per questo motivo il piano del capitale non si oppone drasticamente alla lotta operaia, anzi cerca di mantenerla all’interno del quadro costituzionale, evitando che la conflittualità si trasformi in antagonismo. Da parte sua il movimento operaio accetta la logica della programmazione; infatti, rimanendo legato alla visione di un capitalismo incapace di superare il carattere anarchico dello sviluppo, pone la pianificazione della società fuori dall’orizzonte capitalistico, le conferisce un valore rivoluzionario e giunge fino a identificare il socialismo con la pianificazione».[31]
Questa nuova dottrina dello Stato creava seri problemi per la teoria marxista della dittatura del proletariato. Se la pianificazione dello Stato è solo la fase più avanzata dello sviluppo del capitale, allora qualsiasi programma di conquista dello Stato e di costruzione di una società socialista attraverso la pianificazione è destituita di ogni fondamento. Di conseguenza la rivoluzione dovrà avvenire a livello del rifiuto dell’ordine, rifiuto del piano del capitale, sia dentro il processo produttivo che al di fuori, nella società. Il marxismo di Panzieri diventava così anti istituzionale. Questo rifiuto non può che materializzarsi nella soggettività collettiva della classe operaia. Solo il rifiuto dell’ordine capitalistico e del piano del capitale, a tutti i livelli, è immediatamente politico. Sarà Toni Negri a trarre poi le estreme conseguenze di questa impostazione.
 
22. Se la pianificazione estesa alla società intera era solo l’ultimo stadio di sviluppo del capitalismo, allora doveva essere modificata in modo radicale la valutazione da dare delle economie pianificate del socialismo reale. Spiega Mancini che, secondo Panzieri: «L’identificazione di pianificazione e socialismo è stata gravida di conseguenze per il processo rivoluzionario. Nel socialismo realizzato ha impedito la presa di coscienza della permanenza dei rapporti capitalistici anche nella pianificazione socialista; nel capitalismo, invece, ha indotto il movimento operaio a giudicare come un progresso verso il socialismo i processi di pianificazione e di razionalizzazione, legittimandoli ideologicamente. In contrasto con la strategia del movimento operaio, il nuovo ciclo di lotte dimostra che il proletariato rifiuta la razionalità del piano capitalistico e l’ideologia collaborazionista della programmazione democratica, esprimendo una richiesta di potere sulla produzione e sulla società che necessita una pianificazione alternativa, fondata sui bisogni antagonistici della collettività vivente dei lavoratori».[32] In tal modo, lo sviluppo del Pensiero di Panzieri può essere messo in relazione con la “rivelazione” che aveva cominciato a imporsi, a partire dal 1956, della natura non socialista dei Paesi del socialismo reale.
 
23. Da quanto si è visto e messo in evidenza, il pensiero di Panzieri si fondava su una serie di prospettive filosofiche ben precise. Se per molti aspetti specifici si fa riferimento al Marx del Capitale, per molti altri aspetti esso sembra far piuttosto riferimento a una specie di interpretazione hegeliana di Marx, quale si ritrova, ad esempio, in Storia e coscienza di classe di Lukács. Esaminiamo ora i principali aspetti che ci interessano, rispetto al nostro progetto iniziale di lettura.
23.1. La teoria di Panzieri ha dei risvolti tipicamente hegeliani. Essa fa implicitamente uso della categoria della totalità (come si trova negli scritti del giovane Lukács). Il capitale è un sistema totale che comprende corpi umani, menti, macchine, infrastrutture, tecnologia, scienza, ma anche tutta la società, compreso lo Stato. Dentro al sistema totale, contro il sistema totale, nasce e si sviluppa l’antitesi. Accanto alla nozione di totalità, la teoria di Panzieri fa grande uso della nozione di reificazione. Tutto quel che sta dentro al sistema totale è capitale, dunque è merce, è cosa. L’operaio – merce cosificato deve liberarsi della cosa. 
23.2. Forse proprio per questa ispirazione hegeliana, la teoria di Panzieri è radicale e dicotomica. Se il sistema è totale, l’antitesi deve essere categorica. Non sono possibili mediazioni. I soggetti individuali e collettivi che si oppongono, se l’opposizione è autentica, devono opporsi al sistema nel suo complesso. Altrimenti l’opposizione è finta e funzionale al capitale. Nessuna alleanza è possibile con l’opposizione finta. Qualunque trasformazione di una parte soltanto è illusoria, perché il capitale la renderebbe funzionale al proprio sviluppo.
23.3. La teoria di Panzieri è antiscientifica e antitecnologica. Non si fa alcuna distinzione tra scienza e tecnologia. Esse si occupano di oggetti, ma gli oggetti nella loro specificità sono solo feticci. Entrambe non hanno alcuna autonomia, sono soltanto strumenti al servizio del capitale. Gli oggetti sono intrisi della logica del capitale (la razionalità strumentale) e non possono essere usati in modo alternativo. Oltretutto sono strumenti di oppressione per cui vanno combattuti. Gli atti di sabotaggio, di danneggiamento della produzione (come il famoso “salto della scocca”), erano interpretati entro questo quadro di rifiuto.  Le macchine vanno fermate, sabotate, distrutte. Un eventuale uso socialista della scienza e della tecnologia viene rimandato a dopo l’abbattimento del sistema.
23.4. La teoria di Panzieri è inoltre antiscientifica nel senso che non riconosce alcuna autonomia alle scienze sociali e alla conoscenza sociale. Poiché il sistema è spaccato, non può esserci una verità indipendente rispetto ai contendenti. La verità sociale non è nient’altro che una costruzione sociale. La verità appartiene a chi ha il potere. Non c’è mai un conflitto tra diverse verità, c’è solo e sempre un conflitto tra poteri.   
23.5. La teoria di Panzieri è anti razionalistica poiché svaluta completamente la razionalità strumentale. La razionalità strumentale non è in grado di comprendere l’oggetto (la società capitalistica, il sistema). Si applica solo ad aspetti parziali e così facendo costituisce una mistificazione del sistema complessivo. La razionalità dunque è strumento ideologico del piano del capitale. Il processo progressivo di espansione del piano del capitale veniva chiamato processo di razionalizzazione. Contro la ragione strumentale viene fatto valere il metodo dialettico, sul modello dell’uso che ne aveva fatto  Marx nel Capitale (Quando scrive Il Capitale, Marx “riscopre” la dialettica, come dice egli stesso).
23.6. La teoria di Panzieri è una forma di attivismo soggettivistico. Siccome l’operaio è in realtà capitale allora, l’operaio avrebbe dovuto rifiutare se stesso. Occorreva rifiutare il lavoro stesso. Tronti giungerà poi a dire che l’operaio avrebbe dovuto odiare sé stesso in quanto capitale. Non ci sono leggi che preannunciano la caduta del capitalismo, anzi il capitalismo stava diventando totale, inglobando la società e lo Stato. L’unica scintilla di resistenza, l’unica leva per il cambiamento, è la soggettività operaia che, trovandosi in una situazione di reificazione totale non può che rispondere con la rottura del piano, con l’insubordinazione, con la violenza. Panzieri riteneva che il piano del capitale fosse diventato onni pervasivo, ma anche più fragile, per cui l’insubordinazione operaia sarebbe stata sufficiente a romperlo. Non sono neppure necessarie avanguardie organizzate. È sufficiente che la lotta mostri a tutti esplicitamente cosa è in realtà la fabbrica, la tecnica, ecc… L’opposizione autentica nasce solo quando il soggetto «scisso» prende coscienza (magari leggendo Panzieri sui Quaderni rossi!) che lui stesso e tutto quel che lo circonda è in realtà capitale. Questo è, in fin dei conti, esattamente lo stesso processo  con il quale, secondo Feuerbach, ci si poteva liberare dell’alienazione religiosa. In effetti Feuerbach prendeva una per una tutte le credenze religiose e mostrava quel che erano in realtà, determinando una presa di coscienza e il superamento dell’alienazione. Così Panzieri mostrava quel che sono in realtà le macchine, la tecnologia, la fabbrica, la società, lo Stato, determinando così la mobilitazione e il cambiamento.
23.7. Dal punto di vista dell’etica, siamo nel campo dell’eteronomia morale e non dell’autonomia morale. Per chi conosca appena un po’ la filosofia di Kant, la conclusione è immediata.
23.8. La teoria di Panzieri, anche se l’autore non si esprime esplicitamente, è decisamente anti istituzionale e anti democratica. Può darsi che Panzieri si riferisse a una democrazia più avanzata, come si diceva allora, una specie di via consiliare. Tuttavia su questo punto non dice nulla di preciso, come non dice nulla di preciso sugli organismi di democrazia sindacale dentro le fabbriche e neppure su eventuali organismi democratici per la conduzione delle lotte. Gli operai avrebbero anche potuto votare per gli accomodamenti riformisti, ma questo voto sarebbe stato effetto della natura di cosa dell’operaio. Se l’operaio non è un individuo autonomo, ma è in realtà almeno due cose, se è un soggetto scisso, allora i suoi comportamenti elettorali in fabbrica (e altrove) sono condizionati, sono scissi, sono anch’essi piano del capitale. Dunque non c’è motivo per osservare la regola della maggioranza.[33] Lo stesso vale per i sindacati. Comunque, lo Stato e le sue istituzioni sono espressione del piano del capitale. Qualunque tipo di programmazione economica o di riforma non sarebbe in grado di contrastare il piano del capitale e sarebbe immediatamente riassorbita. Le istituzioni democratiche sono evidentemente solo uno strumento ideologico di legittimazione del capitalismo. La lotta per l’abbattimento del sistema non può che essere illegale. La legalità è solo uno strumento del potere.
 
24. Tutti questi elementi caratteristici, tolti i concetti più specificatamente marxiani, sono in effetti rimasti un tratto comune delle correnti filosofiche che hanno avuto successo e hanno imperversato in Italia, dalla metà degli anni Settanta fino ad oggi. Evidentemente, a fronte di una rottura superficiale determinata dalla sparizione del marxismo, c’è stata una connessione sotterranea che ha continuato a permanere e che continuerà a permanere finché non se ne prenderà debita coscienza. Facendo lo stesso gioco delle sostanze di Panzieri, possiamo asserire con tutta tranquillità che gli ermeneneuti, heideggeriani, postmoderni, debolisti, pensatori negativi, ecc…. sono in realtà dei tardi hegelo - marxisti che hanno cambiato il pelo ma non il vizio. Q.E.D.
 
2/07/2014
                                                                     Giuseppe Rinaldi
 
 
 
OPERE CITATE
 
2012   Gentili, Dario
Italian Theory. Dall’operaismo alla biopolitica, Il Mulino, Bologna.
 
1977   Lanzardo, Dario   (a cura di)
Raniero Panzieri. La ripresa del marxismo leninismo in Italia, Nuove Edizioni Operaie, Roma.
 
1969   Libertini, Lucio   (a cura di)
La sinistra e il controllo operaio, Feltrinelli, Milano.
 
1973   Panzieri, Raniero
Scritti 1956 - 1960, Lampugnani Nigri Editore, Milano.
 
1976   Panzieri, Raniero
Lotte operaie nello sviluppo capitalistico (a cura di Sandro Mancini), Einaudi, Torino.
 
  
NOTE
[1] Un primo segno di disagio degli intellettuali italiani nei confronti del PCI e un primo scontro tra il marxismo togliattiano e gli intellettuali filo marxisti era avvenuto all’epoca del dibattito intorno al Politecnico di Vittorini.
[2] In questo senso, vedi Gentili 2012.
[3] Cfr. l’introduzione di Mancini in Panzieri 1976.
[4] Cfr. Introduzione di Mancini in Morandi 1976: x.
[5] Cfr. Libertini 1969. Afferma Mancini in Panzieri 1976: xii-xiii: «Panzieri e Libertini intendono il controllo operaio come lo sviluppo graduale del contropotere dei lavoratori nelle strutture produttive e la costruzione dal basso degli istituti della democrazia diretta nella produzione. La tematica del controllo operaio affronta la progressiva separazione dei partiti dalla classe operaia e la scissione tra tattica e strategia, affermando la centralità della lotta di fabbrica e ponendo l’esigenza di costruire strutture di potere alternative».
[6] Il dibattito sul Controllo operaio è riportato in Libertini 1969.
[7] Cfr. l’introduzione di Mancini in Panzieri 1976: xi.
[8] L’articolo è stato poi ripubblicato in Libertini 1969 e in Panzieri 1976.
[9] Ne risultò un dibattito davvero astratto, tra una vecchia teoria ottocentesca e una superficiale ideologia tecnocratica mai veramente applicata.
[10] Cfr. Panzieri 1976, Libertini 1969.
[11] Cfr. Panzieri 1976: 3-4.
[12] Sull’essenzialismo di Marx mi permetto di rimandare al mio saggio Contraddizioni del terzo tipo, reperibile su questo blog.
[13] Insomma, per evitare “scissioni”, non bisognerebbe mai lavorare per qualcun altro.
[14] Cfr. Panzieri 1976: 3-4. La citazione contenuta tra virgolette è di Marx.
[15] Cfr. Panzieri 1976: 4-5. Le parti virgolettate sono incisi di Marx. Abbiamo soppresso le note di riferimento al testo marxiano per non appesantire.
[16] Dopo i dibattiti storici sulla teoria del valore marxiana, che già ne avevano indicato l’infondatezza, la teoria del valore di Marx viene ripresa di sana pianta senza alcun problema. Per lo meno sarebbe stata necessaria una giustificazione. Bastava considerare come economia borghese tutto quel che si era dibattuto in campo economico dopo Marx.
[17] Cfr. Panzieri 1976: 6.
[18] Cfr. Panzieri 1976: 6.
[19] Cfr. Panzieri 1976: 7.
[20] Cfr. Panzieri 1976: 12.
[21] È degno di nota l’uso del termine pseudoscienza che nella tradizione filosofica era tipicamente crociano.
[22] Cfr. Panzieri 1976: 14.
[23] Cfr. Panzieri 1976: 15.
[24] Cfr. Panzieri 1976: 17.
[25] Cfr. Panzieri 1976: 19.
[26] Cfr. Panzieri 1976: 21.
[27] Come è noto, Toni Negri produrrà il concetto della autonomia operaia proprio per superare questo scoglio teorico.
[28] È interessante considerare come il sistema fosse interamente costruito sulla base della teoria del valore lavoro marxiano e sulla “transustanziazione”. Poiché tutto si trasforma in capitale, allora tutto è un gigantesco sistema del capitale. Basta riconoscere che il capitale sta ovunque.
[29] Sarà poi Toni Negri a rinunciare alla teoria del valore (o a superarla, per quelli che amano i superamenti) per poter mantenere la visione dello stato – piano.
[30] Cfr. Mancini in Panzieri 1976: xxiv.
[31] Cfr. Mancini in Panzieri 1976: xxv.
[32] Cfr. Mancini in Panzieri 1976: xxv.
[33] Ritengo che qualsiasi teoria dell’alienazione o reificazione sia per definizione incompatibile con la democrazia, poiché afferma che il soggetto che delibera non è in realtà un soggetto, autonomo, maturo, che sa quel che vuole, ecc. Il soggetto alienato è sempre limitato e dunque ha sempre bisogno di qualcuno che pensi e agisca per lui.