1. Ci sono[1] dei fenomeni che sono sotto gli occhi di tutti,
ma che non vengono mai esplicitamente portati all’attenzione e fatti oggetto di
analisi. Perciò restano conoscenza implicita, senza alcuna riflessione.[2]
Questi fenomeni corrispondono un po’ a ciò che Raffaele Simone ha chiamato fenomeni vaghi.[3] Solo in particolari
occasioni, in seguito a qualche evento critico, pubblico o privato, ci si rende
conto – “si prende coscienza”, si diceva una volta – dell’esistenza di qualcosa
di nuovo, anche se magari di assai vecchio nella sostanza. Solo a questo punto,
il fenomeno vago può essere circoscritto, diventa familiare, può avere una sua denominazione,
può essere analizzato, magari anche compreso nella sua portata.
2. Un caso tipico è quello dell’attuale deriva culturale della sinistra italiana.[4] Intendo qui la
sinistra come categoria sociologica,
la gente della sinistra o il popolo della sinistra. Si tratta di un
fenomeno da tempo collocato sotto gli occhi di tutti, pur non avendo mai avuto alcuna
ufficializzazione. Fenomeno vago,
appunto. Deriva culturale non vuol
dire semplicemente che si perdono le elezioni, come peraltro avviene da un
pezzo. Non sto parlando neanche di un eventuale tradimento dei principi e
valori della sinistra da parte dei suoi dirigenti, oppure di un abbandono da
parte dei partiti della sinistra del proprio popolo. Questi sono fatti che, in
qualche misura, sono stati ampiamente rilevati e commentati, come ha fatto, ad
esempio, Luca Ricolfi.[5] Io stesso, nel mio piccolo, ho scritto noiosi
articoli e saggi in merito, anche se a un certo punto mi sono stancato, visti
gli scarsi riscontri. Deriva culturale qui fa piuttosto riferimento alla evaporazione inesorabile della cultura
politica della sinistra, come era diffusa e radicata in gran parte del
Paese. Sto parlando proprio di un degrado
della materia prima, cioè di un degrado intrinseco allo stesso popolo della
sinistra. In breve: non siamo più quello che eravamo una volta.
3. Vorrei trattare qui, insomma, della condizione materiale e morale
del popolo della sinistra. È una questione intorno alla quale ho sempre
creduto, magari a torto, di saperne abbastanza. Sono infatti cresciuto in un
ambiente di sinistra, in mezzo a tanti altri come me, in mezzo ai cosiddetti compagni. La qualifica di “compagni” in
realtà non ha mai significato un granché, poiché, anche tra i compagni, quelle
che emergevano erano sempre le differenze:
teorie, ideologie, punti di vista, “sensibilità”, programmi politici e così
via. Anche differenze di atteggiamento. Differenze che spesso portavano a
rotture, frammentazioni, troncatura di amicizie di rapporti. C’erano anche le
invidie e le antipatie personali. C’erano poi anche i furbetti che riuscivano
sempre a farsi trovare nel posto giusto,
nonostante i tempi cangianti e le incertezze del momento. Tuttavia, al di là
della sempre difficile navigazione, al di là dei diversi schieramenti e
contrasti, restava sempre la vaga
percezione che tutte quelle persone avessero un quid comune, magari davvero assai tenue, capace tuttavia di accomunare, di distinguere dal resto. Di
fare la differenza. Si trattava dell’individuazione
di un noi collettivo. Un lievissimo comune sentire che si poteva appena
avvertire e nel quale si poteva tuttavia confidare. Che magari sarebbe senz’altro
emerso, nell’analisi di un fatto politico, nazionale o internazionale, oppure
in un momento critico dello scontro politico, in una campagna elettorale
importante. Ma sarebbe emerso anche discutendo di libri, oppure discutendo di
cinema. Oppure in occasione di una raccolta di firme per qualche iniziativa.
Anche la scelta circa la modalità di passare il fine settimana, o di fare le
vacanze estive, poteva avere un implicito sottofondo comune. Anche certi hobby avevano un che di distintivo.
4. Su questi vaghi elementi, invero assai indefiniti,
superficiali, occasionali ed evanescenti, si basava un senso del noi, un sentimento
identitario che derivava da una
scelta compiuta, implicita ma anche consapevole, di far parte e di voler continuare a far parte di un certo Mondo.[6]
Un Mondo sentito, più intuito che
ragionato, ma che per questo non era meno
reale.[7] Anche perché gli altri “mondi” erano considerati negativi fuori
ogni discussione, erano considerati come dei perfetti disvalori. E, bene o male, questo senso del noi era davvero
diffuso. Percepito e condiviso da un numero davvero ampio di persone. Quando c’era
qualche iniziativa comune, quelle
iniziative davvero basilari, qualificanti, quelle cui non si poteva mancare, ci
guardavamo intorno soddisfatti: eravamo comunque in tanti. Magari anche
intimamente diversi, ma tanti. Naturalmente qui si sta parlando soprattutto
dei tempi andati, del fantastico Mondo dei Boomer[8]
e della loro cultura politica. Costoro
hanno una descrizione sociologica abbastanza precisa. Sono i nati tra il 1946 e
il 1964 e sono stati così chiamati in riferimento al boom demografico (baby boom)
indotto dalla fine della guerra.[9] Si tratta oggi della generazione più
anziana ancora vivente, che si è
particolarmente distinta per una sua specifica cultura politica e per uno straordinario coinvolgimento attivo nelle
vicende politiche nazionali e internazionali. Le culture politiche precedenti
sono ormai in gran parte trapassate, ahimè, con i loro stessi portatori fisici,
e quelle successive, come dirò, costituiscono, proprio sul piano della cultura
politica, un notevole punto interrogativo.
5. Premetto qui due righe di teoria sulle questioni
generazionali. La nozione sociologica di generazione
è incentrata intorno all’esperienza
collettiva di un gruppo di età.[10]
In questo senso, gli appartenenti a una generazione, accanto al possesso di
analoghe caratteristiche di tipo anagrafico, economico e sociale, si ritiene
debbano soprattutto aver condiviso una qualche comune esperienza e, dunque, siano rimasti caratterizzati da quella esperienza stessa. Si fa dunque
riferimento a qualche tipo di esperienza capace di modificare in modo relativamente profondo chi l’ha compiuta.
Esperienze che abbiano avuto un profondo carattere formativo ed educativo. Si
suppone che queste modifiche rimangano in qualche misura come permanenti, sia
pure in forma compatibile con lo svolgersi della vita ulteriore. Anzi, queste
modifiche dovrebbero costituire un background
capace di determinare un comune modo di reagire
di quella generazione alle più diverse occorrenze della vita pubblica e privata.
6. Le generazioni sociologiche di solito, proprio perché hanno
condiviso una qualche comune esperienza,
hanno anche avuto modo di sviluppare una loro auto rappresentazione (una narrazione intorno alle loro stesse
caratteristiche comuni, una loro propria memoria
collettiva). Esse, inoltre, proprio in quanto entità bene individuabili,
grazie alle caratteristiche che hanno maturato, sono anche fatte oggetto di rappresentazione esterna, da parte delle
narrazioni di altri soggetti (altre generazioni, i media, la letteratura o
talune ideologie). Le generazioni dunque sono dei costrutti sociali, ma sono ben lungi dall’essere arbitrarie, poiché
sono un prodotto preciso della storia, dell’azione collettiva e della memoria collettiva.
Se è vera la nostra
ipotesi, che sia cioè in corso, o sia addirittura in fase avanzata, una progressiva
deriva culturale del popolo della
sinistra, allora questa deriva culturale dovrebbe, come minimo, essere
fatta risalire indietro nel tempo, a cominciare proprio dai Boomer e dovrebbe coinvolgere
progressivamente anche le generazioni successive. Naturalmente si tratta, in
questa ricognizione, di prendere in considerazione anche le eventuali
continuità o discontinuità nella trasmissione culturale tra le generazioni.
7. Un dato di fatto, per intanto, che il senso del noi dei Boomer
aveva ancora un carattere trans
generazionale. C’erano gli anziani (tecnicamente ora definiti come Silents[11]) da cui si poteva sempre
imparare qualcosa. C’era una tensione spasmodica nel tentativo di trovare tra
loro delle figure guida, dei
riferimenti di valore. Dei Maestri.[12] C’erano poi i più giovani di noi, ai
quali ci sembrava di avere qualcosa di importante da trasmettere. C’era poi chi
aveva all’attivo esperienze significative e magari esemplari da proporre. Quelli
della Resistenza, quelli della nuova
sinistra dei primi anni Sessanta, come ad esempio quelli dei Quaderni Rossi. C’era il mondo degli
intellettuali, ampio, variegato e diffuso anche a livello locale, ma c’erano anche
quelli del sindacato e c’era il vasto mondo del lavoro. E poi c’eravamo noi,
gli studenti, che eravamo affacciati su questo Mondo. C’erano quelli del
volontariato. C’erano poi gli iscritti e i militanti di numerose organizzazioni
single issue. Oppure anche soltanto
quelli che non sono mai riusciti a prendere una tessera, nemmeno una volta.
Quelli, cioè, impietosamente definiti come cani
sciolti. Erano sciolti ma avevano
un tasso elevato di coinvolgimento e di partecipazione politica.
8. La sinistra, dunque, aveva allora un profilo nettamente pluri generazionale. La cultura
politica, le conoscenze, i principi e i valori, le esperienze si cumulavano e si trasmettevano. E la
sinistra pareva comunque in crescita. A un certo punto però è subentrata quella
che può essere definita come una rottura
generazionale. Non mi riferisco tanto alla Generazione X, ancora legata ai postumi del Sessantotto e alle complesse
problematiche del riflusso, e peraltro
ancora estranea alle nuove tecnologie,
bensì soprattutto alla Generazione Y,
quelli che sono detti anche Millenial.
È quella la generazione che ha, di fatto, accantonato il patrimonio delle
generazioni precedenti. Sono coloro che hanno cercato, attivamente e
consapevolmente, di costruire una cultura politica completamente diversa, che
doveva essere nuova e alternativa. Una politica che fosse antipolitica, di movimento,
caratterizzata da un attivismo pragmatico
e anti ideologico. Il che finiva per concretizzarsi in cose strane, come il non
partito, il non statuto, il mandato imperativo e, soprattutto, il rifiuto della distinzione tra destra e
sinistra. La politica, per intenderci, del Vaffa, che poi ha avuto la sua più rilevante espressione nel
movimento di Grillo. Il Vaffa non si riferiva soltanto ai santuari del potere,
ma anche all’intera cultura della
sinistra precedente. Non a caso, come manifestazione estrema del nuovo che
avanzava, c’era l’infrastruttura della rete
e la famosa piattaforma di
Casaleggio, che ebbe poi degli sviluppi tragicomici.[13] Sono loro i veri e definitivi
sciolti dal giuramento. Direi,
sciolti da ogni giuramento. Con loro
la deriva stava cominciando a divenire
tangibile. Tutto questo mentre il PD cercava di raccattare confusamente le
frattaglie della vecchia destra (la DC) e della vecchia sinistra (il PCI), in
una nuova cultura politica detta “democratica” che, in realtà, non è mai nata.
9. Abbiamo allora cominciato
a capire che i più giovani, tra quelli delle generazioni successive, non
avevano più quell’impercettibile senso del noi di cui s’è detto. Se ne
infischiavano del senso del noi, del magico quid
che a lungo aveva unito le nostre generazioni e le altre precedenti. Non consideravano
la cultura cumulativa delle
generazioni, guardavano principalmente al presente.
Il passato e il futuro cominciavano a cadere fuori dal campo di attenzione. Era
anche quello un fenomeno vago che
avrebbe dovuto allarmare, ma che è stato digerito senza troppo scompiglio. Ma
non è di questi esiti che intendo occuparmi. M’interessa inseguire che fine ha
fatto quel senso del noi che era così
diffuso tra i Boomer, che ci ha
segnato abbastanza profondamente e che, bene o male, ha caratterizzato una
intera stagione politica del nostro Paese. L’ultima stagione che ha visto di fatto, nel bene o nel male, una forte politicizzazione della sinistra.
10. Dicevo che non siamo più quelli di una volta. C’è oggi,
sotto il naso di tutti, un fenomeno
emergente, proprio tra i vecchi “compagni”, quelli per lo meno che,
compatibilmente con l’età, sono ancora attivi, che ancora leggono, scrivono,
discutono, partecipano, ciascuno a suo modo. E forse anche tra coloro della Generazione X – i cosiddetti quarantenni
– che stanno faticosamente prendendo in mano quel che resta della politica.
Questo fenomeno è il senso di estraneità
(cioè l’esatto opposto del senso del noi)
che emerge subito, ogni qualvolta si cominci appena ad accennare a qualche tipo
di questione che abbia, anche solo vagamente, a che fare con la politica e la
cultura, vuoi locale, nazionale o internazionale. In altri termini, non ci si capisce proprio più. Il magico
quid è evaporato. È andato a ramengo.
Quello che una volta era stato per noi Boomer
il “Mondo della sinistra” è diventato un mondo
di estranei. Determinando così, appunto, la prospettiva demartiniana della fine di un Mondo. Tralascio qui, per
motivi di spazio, le implicazioni psicopatologiche che De Martino attribuiva
alla sua “fine del mondo”. Sarebbe interessante, in proposito, trattare
ampiamente della nozione di de-storicizzazione.
Chi fosse interessato, può ricorrere al mio saggio già citato nella nota n. 6.
11. La cultura politica delle fasce più anziane, come i Boomer, è oggi decisamente cambiata. Lo
scambio politico tipico, quando c’è, è configurato come una serie di
chiacchiere superficiali[14] unite a una mitragliata di slogan sempre più brevi, emozionalmente
carichi e dal carattere intransigente.
L’impressione è che i pochi Boomer
che sono rimasti attivi sulla scena della cultura politica della sinistra
credano per lo più di esser giunti a
conclusioni definitive. Solo che queste conclusione sono tutte diverse, non
coincidono proprio. E queste conclusioni le buttano fuori, le eruttano così come viene, senza alcuna
voglia di esaminare e discutere le conclusioni altrui. Certezze ormai
consolidate, ma anche fossilizzate e incancrenite. Al posto di qualsiasi
attitudine alla riflessione e alla discussione, sembra essersi sostituito l’impulso
a produrre una espressione qualsiasi,
urgente e necessaria. Alla stregua della classica parresia.[15] È come se le complesse articolazioni della vecchia
cultura politica avessero lasciato il posto a poche enunciazioni schematiche.
Le antiche disparità di opinione sono ricondotte a poche stanche formule
dogmatiche, del tutto rituali. Ciò rende gli attuali consessi dei Boomer ormai sempre più carichi di posizioni schematiche, di noiose ripetizioni e di quel senso di
estraneità reciproca di cui si diceva.
12. Questa deriva incombente verso la fossilizzazione non
facilita il rapporto con le altre generazioni, anzi lo rende quasi impossibile.
La cultura politica dei Boomer
sopravvissuti appare oggi, agli occhi delle generazioni successive, del tutto fuori luogo. Notoriamente, la qualifica
di Boomer è sempre più usata in forma
spregiativa. Essa è salita alla ribalta, e ha fatto il giro del mondo, in una
data precisa. Si tratta del novembre 2019, quando il famoso motto “OK Boomer!”
è stato usato, nel Parlamento neozelandese, come qualificazione negativa, da
una deputata venticinquenne contro un altro deputato, peraltro della Generazione X. Il gergo dispregiativo
anti Boomer, dicono le cronache, era
tuttavia già in circolazione sui media da almeno una decina di anni.
Così, dopo esser stati a
lungo ignorati, i Boomer da almeno un
decennio stanno cominciando a divenire – come generazione – oggetto di attenzione da parte delle
altre nuove generazioni, che tendono sempre più a considerarli come un blocco residuale dotato di alcuni tratti comuni eminentemente negativi e
inopportuni. In altri termini, i Boomer,
da soggetti di una complessa e articolata cultura politica quali erano,
diventano ora principalmente oggetti di
contumelie e invettive. Qui non si tratta solo più di una rottura generazionale, un mancato
passaggio della cultura politica cumulata, bensì di un conflitto generazionale che si sta facendo sempre più palese e
aperto. I Millenials e la Generazione Z sembrano sempre più
infastiditi anche solo dalla presenza dei Boomer.[16]
Il conflitto è ovunque sempre più evidente. Non c’è, a sinistra, una sola
formazione politico culturale che sia in grado di costituire uno spazio comune
di discorso tra i Boomer e le
successive generazioni.
13. Nell’ambito della sinistra, ci troviamo dunque di fronte a
un fenomeno di estraneità generalizzata,
oppure, se vogliamo, a una doppia
estraneità. Anzitutto quella ormai ricorrente entro la generazione dei Boomer
ancora in attività e poi, secondariamente, anche e soprattutto, quella tra i Boomer e le generazioni successive.
Quest’ultima sta prendendo l’aspetto non solo di una rottura ma anche di un vero e proprio conflitto. La prospettiva di un conflitto delle generazioni più
giovani contro i Boomer emerge in maniera abbastanza chiara e preoccupante nel
lucido e corrosivo OK Millenials! di
Brice Couturier.[17] Emerge anche, in forma assai preoccupante, in termini
sociali ed economici, dall’analisi di Luca Ricolfi contenuta ne La società signorile di massa.[18]
14. Il mio intento tuttavia è quello di caratterizzare
soprattutto la deriva dal lato dei Boomer.
Facciamo un esempio. Non amo parlare in pubblico delle mie esperienze
personali, poiché credo che, in fin dei conti, siano del tutto irrilevanti. Ma
questa volta, farò una piccola eccezione. Ho avuto modo di provare il senso di estraneità intra generazionale di
cui sto parlando, qualche tempo fa, nel corso di una conversazione con una
persona della mia stessa generazione, appartenente in qualche modo a quel Mondo comune, politico e culturale, di
cui sto descrivendo e lamentando il progressivo e forse definitivo
deterioramento. Stavamo discutendo dei fatti di Gaza, di Netanyahu e quant’altro.
In quel contesto, essendomi pronunciato su alcune questioni, peraltro di dettaglio,
mi sono sentito rivolgere l’epiteto di antisemita.
La cosa mi ha dato un qualche fastidio, anche perché, alla mia età e con la mia
storia alle spalle, quella era davvero la
mia prima volta nei panni dell’antisemita.
15. Mi sono reso conto in quel frangente, in termini esistenziali più che intellettuali,
della perfetta inutilità della
discussione che stavo facendo. È proprio così, più o meno con una specie di intuizione,
che i fenomeni vaghi diventano fatti reali. Il comune percorso
generazionale e il senso del noi, il
magico quid, non erano più
sufficienti a trovare uno straccio di terreno di discorso comune, peraltro su
una questione a proposito della quale ormai c’è una storiografia consolidata e
una bibliografia enorme, oltre a innumerevoli prese di posizione di studiosi,
intellettuali e opinion leader. Una
questione oltretutto che, per quelli della mia generazione, esiste da sempre, fin da quando eravamo bambini.
Insomma, mi trovavo esattamente come se il mio interlocutore, boomer anch’esso, fosse un estraneo qualsiasi incontrato per
caso, in treno o al bar. Esattamente
come se il famoso quid non fosse mai
esistito.
16. Ho citato questo fatterello perché mi pare emblematico e
perfettamente generalizzabile. Nel campo di discorso della sinistra,
soprattutto dal lato dei Boomer – ma
la cosa vale certamente a maggior ragione anche per le generazioni successive –
ormai, al posto di una esperienza formativa
e costitutiva comune, al posto di una
cultura politica cumulativa, ci sono
solo più innumerevoli questioni divisive,
che vengono “risolte” apostrofando l’altro come un nemico, rovesciandogli
addosso le più improbabili accuse, utilizzando l’insulto e lo screditamento
morale. Siamo diventati tanti piccoli fondamentalisti che, invece di studiare le questioni e di argomentare, si beano di aggiungere delle reazioni, come se fossimo
costantemente su Facebook. O in un talk
show permanente. Il termine reazione
è perfetto, per qualificare questa modalità deteriorata e residuale di
rapporto.
17. Si dice, in sede di psicologia sociale, che i social media
avrebbero avuto l’effetto di produrre, nei loro utenti, un pensiero schematico
e semplificato, oltre ad averli abituati ad avere reazioni emotive amplificate e di pancia. Ma i Boomer dovrebbero essere oggi quelli meno contagiati di tutti. Sono ormai gli unici, tra i rimasti ancor
vivi, ad avere passato ben più di mezza vita senza computer, senza smartphone e senza social media. In più, il Movimento del Sessantotto aveva avuto,
come sua caratteristica, l’impiego massiccio della parola scritta, dalle scritte sui muri fino all’interminabile serie
degli opuscoli politici e degli articoli e saggi pubblicati nelle riviste. Passando
attraverso una miriade di ciclostilati e fotocopie. Fino ai malloppi dei vari Maestri della teoria che circolavano
come non mai. Ho esaminato in dettaglio questo aspetto della cultura dei Boomer nel mio saggio: Un Sessantotto gutemberghiano.[19] Tutto
questo curricolo formativo è
silenziosamente caduto nel dimenticatoio. Come non fosse mai esistito.
18. Era ovviamente da un bel po’ che questo senso di estraneità aveva pieno effetto,
che era ormai onnipresente e si infilava più o meno in tutte le questioni. Più
o meno in tutti i rapporti interpersonali. Ma sembravano sempre estraneità di
volta in volta particolari, specifiche e occasionali. Estraneità di cui si
prendeva magari atto, ma magari come “contraddizioni in seno al popolo”, per
usare un frasario un po’ datato. Ora sembra proprio il caso di prender atto che
sta sopravvenendo una estraneità
generalizzata.
Bisogna riconoscere che,
ben oltre alla questione palestinese, in effetti, veniamo da stagioni divisive davvero straordinarie.
Vediamone alcune, a mo’ di esempio. La sarabanda delle scissioni avvenute
intorno al PD e all’ineffabile Renzi. Il conflitto contro tutti del movimento del Vaffa,
nato proprio entro la Generazione Y. Il
senso di estraneità reciproca con i No-Vax, nato intorno alle discussioni sulla
questione delle vaccinazioni. E più
in generale intorno alla valutazione della scienza e della tecnologia. Oppure
sulla questione dell’invio di armi all’Ucraina. Uno degli argomenti più
divisivi è ancora oggi costituito dalle cause della guerra tra Russia e
Ucraina. La NATO poi è in assoluto uno degli argomenti più divisivi. La
definizione di cosa sia il regime di Putin è un’altra questione altamente
divisiva. Più o meno come era stata divisiva la questione intorno alla vera natura della Unione Sovietica,
negli anni Venti e Trenta. Per non parlare delle questioni relative alla pace e
alla guerra, con tutti gli annessi e connessi, tra cui la questione delle spese
militari. Tutte le volte che parlo della democrazia, quella sostanziale, non
quella formale, vedo intorno a me sguardi di pena e commiserazione. Per la
maggior parte dei Boomer la
democrazia era sempre stata “borghese” e sempre lo sarà! Meglio poi non parlare
di magistratura, di legge elettorale, di regolamentazione dei partiti e dei
sindacati. Mi dicono che anche nel movimento femminista ci sono oggi delle
profonde spaccature.
19. Non parliamo poi ancora di Jobs Act e di questioni legate al mondo del lavoro e al ruolo del
sindacato. Il recente Referendum del giugno 2025 ha visto profonde divisioni
interne alla sinistra, come una valanga che nessuno più riesce a fermare.[20]
Sulle questioni ambientali ci sono poi innumerevoli dissidi, come sulla
cosiddetta democrazia diretta e sui beni comuni. Non parliamo poi dei diritti
civili e del politically correct.
Anche sulla immigrazione siamo riusciti a creare nemici e fronti contrapposti.
Possiamo aggiungere anche le ricorrenze del calendario civile, con punte
estreme il 25 aprile. Non parliamo poi dell’Europa. Non parliamo poi ancora
dell’America e dell’Occidente, sempre colpevoli, secondo alcuni, di qualsiasi
nefandezza. Si riesce anche a litigare, in campo filosofico, in maniera
piuttosto irriducibile, sui principali filosofi degli ultimi tre o quattro
secoli.
Insomma, ci ritroviamo divisi su tutto. Ripeto, su tutte queste
questioni è del tutto legittimo esistano punti di vista diversi. Meno
comprensibile è che non ci siano più chiavi interpretative minimamente
condivise e che ormai nessuno abbia più voglia di dibattere, di studiare, e che
le opposte fazioni si affrontino a colpi di insulti, condanne moralistiche e
interdizioni perpetue. Ovviamente tutte queste questioni divisive rendono
impossibile la formulazione di un qualsiasi programma
elettorale progressista di sinistra. Tutto ciò, ovviamente, si è tradotto e
si tradurrà in pessimi risultati
elettorali. Il 2027 non è poi così lontano. Ma questo sembra non importare a
nessuno. Gli effetti concreti della deriva
culturale si sono visti nel 2022, quando la sinistra disunita ha fatto vincere la destra.
20. E qui vengo alla questione dell’Occidente senza pensiero, nella sua versione più
idiosincrasica. Nel particulare cioè delle
nostre vite e dei nostri rapporti quotidiani. Se appena si cerca di
approfondire qualcuna delle questioni in gioco, ci si troverà di fronte sempre
e soltanto a pezzi di ragionamenti,
talvolta di senso comune, talvolta
provenienti da epoche passate,
talvolta raccattati sui social o
presso qualche sito di riferimento di nicchia. Tutte le posizioni, anche le più
strampalate, hanno oggi il loro sito di
riferimento che coordina i loro adepti. Le analisi (che riguardano magari questioni
di grande complessità) sono spesso ridotte all’osso. Spesso si tratta di semplificazioni difficilmente
accettabili e del tutto inutili. Al posto dell’approfondimento, abbiamo le ripetizioni martellanti. Le poche e vecchie
cause motrici della storia e della
società, ossificate, vengono invocate per spiegare le conseguenze più varie,
per proporre politiche del tutto improbabili. Scattano sempre gli stessi
modelli esplicativi. Colpa dei padroni, degli americani, delle banche, della
UE, della finanza internazionale, dei rigurgiti neofascisti, del neoliberismo,
del patriarcato, dell’antisemitismo,[21] degli immigrati[22] e di quant’altro.
21. Come abbiamo fatto a cadere così in basso? Io mi do la
seguente spiegazione. Finché c’erano le ideologie,[23] nel Mondo di cui ci
stiamo occupando, c’erano anche le agenzie
di produzione ideologica, c’erano gli intellettuali
di riferimento, c’erano innumerevoli corpi
intermedi che si occupavano intensamente della produzione delle idee. E le idee che circolavano avevano un
carattere decisamente professionale.
E di idee in circolazione ce ne erano assai. Alcune erano sicuramente pessime,
ma alcune decisamente illuminanti, capaci di dar senso alla nostra vita e alla
nostra storia. C’era di che scegliere. Tra gli intellettuali c’erano – come
dice Aldo Schiavone nel suo saggio – i Maestri,
coloro che erano in grado di analizzare le grandi questioni e di operare le
grandi sintesi prospettiche che davano senso alle nostre vite e al nostro
impegno nella storia. Nonostante le differenze di analisi e di opinione, si
aveva l’impressione di una qualche omogeneità, per lo meno nei presupposti di metodo, che consentivano
un qualche dibattito civile. Le nuove
interpretazioni, quando c’erano, venivano soppesate, i dibattiti procedevano
con un certo ordine. Tutti avevano l’impressione di occuparsi all’incirca delle
stesse questioni, quelle all’ordine del giorno, che erano perciò considerate da
tutti come le più importanti. Magari ci si divideva, ma c’era la consapevolezza
che le questioni erano quelle. In genere, ci si divideva per delle ragioni. Se non si era d’accordo con
qualcuno o qualcosa, si sapeva sempre
spiegare perché. Questo anche perché investivamo
tempo e denaro per informarci, per studiare.
22. Bastava leggere qualche rivista o qualche libro ben scelto,
per tenersi aggiornati sugli sviluppi dei dibattiti nazionali e internazionali.
Magari c’erano dei benemeriti che ogni tanto si peritavano di fare delle sintesi
ad usum delphini. Magari anche ricche
di copiosi riferimenti storici e con repertori bibliografici che avrebbero
ammazzato chiunque. Oppure bastava frequentare le numerose e diffuse conferenze
in cui si faceva il punto delle principali questioni. Si poteva dibattere con i
relatori, fare delle domande. Ma poi, come ho già accennato,[24] c’era un sacco di gente che scriveva. Lettere,
articoli di giornale, saggi di vario genere, inchieste, denunce, relazioni a
convegni, documenti politici. Habermas avrebbe detto che c’era qualcosa che
somigliava al suo modello della opinione
pubblica democratica. Al modello
del Diskurs. Oggi, a sinistra, non ci
sono più dibattiti, non c’è più opinione pubblica, ci sono solo risse da stadio.
23. Con la fine delle
ideologie, questo universo culturale comune, questo universo pubblico di discorso, è progressivamente venuto meno. Non
sto qui a esaminare in dettaglio perché e come questo sia avvenuto. Sarebbe
troppo lungo. Di fatto gli intellettuali
pubblici sono diventati dei chiacchieroni
televisivi, le riviste hanno chiuso, le case editrici hanno cominciato a sfornare
paccottiglia per le nuove generazioni dalla bocca troppo buona. Perfino i corsi
scolastici e gli esami sono stati drasticamente semplificati. Oggi si può
pigliare una laurea triennale con una tesina di 25 pagine. Così, è accaduto che
ciascuno dei Boomer, neanche più
tanto giovani, si è trovato a dover ricominciare a camminare con le proprie
gambe. Gestire in proprio (cioè da soli) la ricerca delle informazioni e la
loro interpretazione. Gestire in proprio la costruzione e il mantenimento di
uno straccio di visione del mondo.
Tanto per sapere cosa si vive a fare.
24. Di fronte al venir meno di un comune universo di discorso,
i più “deboli” (mi sia permesso questo aggettivo, che nell’intenzione vuol
essere di grande simpatia) si sono subito persi per strada. Magari anche
sommersi dalle accidentalità e dalle incombenze, sempre più difficili, della
vita quotidiana. Un riflusso lento e
progressivo che in generale ha significato comunque un impoverimento della
partecipazione. I più tenaci, sempre più pochi, hanno invece cercato di
concentrarsi sulle questioni più commestibili, quelle più alla loro portata,
lasciando da parte gli aspetti più ostici, quelli che avrebbero richiesto
competenze e linguaggi specializzati. Direi che – contro Lyotard[25] e la
schiera dei post-marxisti postmoderni – sia sopravvenuta un’incapacità generalizzata
di produrre grandi narrazioni che
fossero appena decenti,[26] la qual
cosa ha assicurato il proliferare delle
piccole narrazioni, particolaristiche e identitarie, come quelle della
cultura woke. O quelle dei tanti
cespugli della sinistra minoritaria nostrana.
25. Avvenne così che, da quella che era sempre stata una
galassia, si è dato luogo alla formazione di tanti piccoli micro sistemi – “giochi
linguistici” di tipo pragmatico, direbbe il solito Lyotard – sempre più isolati
e incomunicabili, sempre più concentrati a cuocere nel proprio brodo. Le
idiosincrasie individuali e il progredire delle età anagrafiche hanno fatto il
resto. Gruppi di irriducibili, sempre meno numerosi, entro cui ormai si
perpetuavano pochi spezzoni di cultura politica, sempre più ripetitivi, sempre
meno efficaci a cogliere nel segno i processi e i cambiamenti sociali, e le
grandi vicende internazionali. Sempre meno efficaci a indicare prospettive
credibili per affrontare la grande trasformazione tecnologica ed economica di
fronte alla quale ci troviamo. Ciò ha prodotto anche l’allontanamento dal
pensiero scientifico, dalle scienze economico sociali in particolare. Dalle
scienze umane. E l’allontanamento dalla filosofia e dai valori dell’umanesimo. Umanesimo,
oltre a democrazia, è un’altra parola che suscita ilarità e compassione nel mio
circondario, tutte le volte che la pronuncio. Con l’aggravante del fatto che il
pensiero politico ha comunque fondamentali
risvolti filosofici. La filosofia è nata con la polis, ma la polis non
sta in piedi senza una qualche passabile filosofia politica condivisa.
26. Coltivare in proprio anche solo qualche spezzone di
discorso approfondito diventava sempre più oneroso, sempre meno remunerativo. E
così è venuto il momento in cui ci siamo arresi. Siamo diventati tutti ritualisti nel senso di R. K. Merton.
Coloro cioè che, essendo ormai del tutto impossibilitati nei mezzi, continuano
inutilmente a vagheggiare i vecchi fini. Si pensi, ad esempio, al degrado
subito dal dibattito nel campo delle scienze
dell’educazione. Che pure è un campo che coinvolge innumerevoli
professionisti, dotati di un certo livello di istruzione, nelle scuole di ogni
livello. La qualità scadente della
istruzione che trasmettiamo alle giovani generazioni è allarmante, ma
nessuno si preoccupa. Neanche le giovani generazioni stesse. Tutti contenti.
27. All’appartenenza viva a un Mondo – la cultura politica
della sinistra funzionava proprio come un Mondo demartiniano – con tutte le sue
variegate sfaccettature, è così succeduta la coltivazione di costellazioni di identità rituali, rigide, impermeabili a
ogni cambiamento. Lasch parlerebbe di Io
minimo.[27] Che queste identità siano confinate in piccoli gruppi di irriducibili (destinati a sciogliersi solo con la
sopravvenuta inabilità dei singoli appartenenti) oppure confinate entro la
soggettività di singoli cani sciolti.
Finché c’era un Mondo, era facile partecipare, discutere, scegliere tra le
diverse alternative, magari anche cambiare posizione, ingenuamente anche
infinite volte. Venuto meno il Mondo, l’economia del cambiamento non poteva più
funzionare. Cambiare prospettiva da soli[28]
era diventato sempre più oneroso, sempre più difficile. Non restava che rinchiudersi
in una sorta di Fortezza dei Tartari. Ormai si costruiscono solo più cinte
difensive, fortificazioni per difendere quelle quattro idee in croce che qualcuno
ancora conserva gelosamente. Cimeli
di un passato che una volta era stato vivo ma che ora è poco più che ridotto a
un fossile museale. In generale, possiamo dire che alle elaborazioni complesse
delle analisi e dei punti di vista che erano propri di un Mondo, è subentrato
il fai da te individualizzato e,
soprattutto, disperato. È subentrata la presunzione
autoreferenziale di albergare e mantenere un residuo di cultura politica
senza un autentico confronto, senza elaborazione, senza pubblico discorso, ma
semplicemente sventolando una bandierina.
28. Se qualcuno poi cerca faticosamente di mantenere qualche
standard culturale appena un po’ più elevato, magari affine a quei Maestri cui pure si era ispirato in
passato, oppure se cerca di armeggiare con qualche forma di pensiero meno
semplicistico, un po’ più articolato, oppure se cerca di tenersi aggiornato al
panorama culturale internazionale, ebbene costui sollecita e suscita, nel
circondario, l’incredulità e poi le immediate diffidenze. E talvolta aperte
ostilità. Financo aggressività. L’Io
minimo, oggi così diffuso, non può che produrre il rancore contro i diversi. Perché l’appiattimento cui siamo soggetti è una cosa che si deve consumare
tutti insieme. Chi non si appiattisce come tutti, è decisamente un provocatore.
Mal comune, mezzo gaudio. Sono reazioni in fin dei conti comprensibili, sebbene
non giustificabili. Non si hanno ormai più gli strumenti per capire ciò che
appena si distanzia dal senso comune. Costui sta dalla mia parte oppure è contro
di me? Devo dargli ragione o devo dargli torto? Nel dubbio, è sempre meglio
tenersi alla larga, meglio bannare
senza esitazione. L’Io minimo è implacabile.
29. Quando vengono progressivamente meno i criteri di valutazione in termini di cultura politica, cioè criteri
legati a un comune universo di discorso,
a un universo di principi e valori, a un’enciclopedia di concetti condivisi, a
un Mondo, come si diceva poc’anzi, allora si fa strada con prepotenza la logica
realistica dell’amico/ nemico. Quella che è piaciuta tanto a certi nostri marxisti post-marxisti.
Che hanno mollato Karl per avere in cambio l’altro Carl. Non contano più le
idee, bensì i rapporti tra le persone. Si passa, ahimè, come dice Lyotard, dalla
semantica alla pragmatica. La tendenza allora è quella a costituire piccole
consorterie di sodali, che discutono di
niente al proprio interno, ma che sono convinti di avere alcune comuni idee – bandiera, alcuni vessilli simbolici da sventolare,
qualche vecchia canzone da ascoltare, qualche rito periodico da compiere.
Qualche causa assurda da sostenere. Appunto, cose come i “giochi linguistici” e
le “piccole narrazioni” di Lyotard. Da brandire contro tutto il resto del
mondo. Soprattutto da brandire contro i concorrenti
interni alla sinistra stessa. Il che avviene oggi ancora esattamente come
nella vecchia Unione sovietica. Il capitalismo poteva anche aspettare, ma
quello che dovevi combattere, e far fuori
subito, era il tuo immediato concorrente
interno. Al di sotto degli striminziti e spesso assurdi vessilli simbolici,
se si va a ben guardare, spesso ci sono soltanto piccoli interessi di bottega. Occupare qualche posto nella pletora
di piccole organizzazioni che non contano più nulla, piazzare gente della tua lobby negli incarichi e organismi
dirigenti, far venire qualcuno dei tuoi a tenere una conferenza da fuori, o a
presentare un libro, mandare qualche post
su Facebook per intrattenere la tua cerchia, rilasciare qualche intervista a
nome della tua organizzazione, fare delle cene per raccogliere fondi, farsi
invitare a tenere qualche pubblico dibattito. In tutto questo attivismo da
amico/ nemico, accade così inevitabilmente che il famoso merito, tanto blaterato in teoria quanto sempre ignorato in
pratica, vada a farsi benedire e si generi quella caratteristica selezione degli incapaci, così tipica
ormai ad ogni livello delle organizzazioni superstiti del popolo della sinistra.
Deriva culturale e selezione degli incapaci sono un
miscuglio tossico che caratterizza sempre più il panorama tardo della fine di questo Mondo.
30. Spero di avere adeguatamente motivato che un Occidente senza pensiero,[29] l’argomento
del mio precedente saggio, non è solo un vezzo intellettualistico. O un
argomento salottiero di moda. È piuttosto qualcosa che ha riguardato da vicino
le nostre vite, quel che eravamo e quel che siamo purtroppo diventati. E che
determina oggi la chiusura delle nostre prospettive e delle nostre speranze
rispetto al futuro. Per noi e per quelli che verranno (anche se a costoro la
cosa sembra davvero poco importare!). Si tratta di una deiezione nella quale siamo scivolati, senza neppure accorgercene.
Senza neppure gridare. Senza neppure invocare aiuto. Semplicemente perché
stavamo precipitando tutti nella stessa direzione, e ci sembrava allora una
cosa del tutto normale.
In questo saggio mi sono occupato soprattutto del Mondo che ho conosciuto meglio, quello dei Boomer di ieri e di oggi. Se questo è però il quadro della deriva della cultura politica nell’ambito dei Boomer – cioè, quella generazione ancor vivente che nel contesto della propria formazione ha avuto le maggiori iniezioni di cultura politica – ci si può seriamente domandare allora quale sia la situazione presso le generazioni successive. Su questo argomento ho avuto qui solo il modo di fornire qualche flash estemporaneo. Magari tornerò sull’argomento. Qualche tempo fa mi sono ampiamente occupato della questione[30] e posso dire che, in merito, è ormai disponibile una vasta letteratura e che questa non è delle più confortanti. Peraltro, basta guardarsi intorno.
Giuseppe Rinaldi (29/08/2025)
OPERE CITATE
1983 Anderson, Benedict, Imagined Communities. Reflections on the Origin and Spread of Nationalism, Verso, London. Tr. it.: Comunità immaginate. Origini e diffusione dei nazionalismi, Manifestolibri, Roma, 1996.
2021 Couturier, Brice, OK Millenials! Puritanisme, victimization, identitarism, censure. L’enquête d’un baby-boomer sur les mytes de la génération “woke”, Éditions de l’Observatoire, Paris.
1984 Lasch, Christopher, The Minimal Self. Psychic Survival in Troubled Times, Norton, New York. Tr. it.: L’io minimo. La mentalità della sopravvivenza in un’epoca di turbamenti, Feltrinelli, Milano, 1985.
1979 Lyotard, Jean-François, La condition postmoderne, Les Éditions de Minuit, Paris. Tr. it.: La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano, 1981.
1952 Mannheim, Karl, The Sociological Problem of Generations, in Mannheim, Karl (a cura di), Essays on Sociology of Knowledge, Routledge and Kegan Paul, London. [1923]
2000 Putnam, Robert D., Bowling Alone. The Collapse and Revival of American Community, Simon & Schuster, New York. Tr. it.: Capitale sociale e individualismo, Il Mulino, Bologna, 2004.
2017 Ricolfi, Luca, Sinistra e popolo. Il conflitto politico nell’era dei populismi, Longanesi, Milano.
2019 Ricolfi, Luca, La società signorile di massa, La nave di Teseo, Milano.
2022 Ricolfi, Luca, La mutazione. Come le idee di sinistra sono migrate a destra, Rizzoli, Milano.
1969 Riesman, David & Glazer, Nathan & Denney, Reuel, The Lonely Crowd, Yale University Press, New Haven and London. Tr. it.: La folla solitaria, Il Mulino, Bologna, 1999. [1950]
2012 Rinaldi, Giuseppe, “La fine del mondo. Crisi e storicità in Ernesto De Martino”, in Anima e Terra, n. 2, ottobre, pp. 133-157.
2025 Schiavone, Aldo, Occidente senza pensiero, Il Mulino, Bologna.
NOTE
[1] Recentemente ho scritto un saggio di analisi
intitolato Occidente senza pensiero.
Cfr. Finestre
rotte: Occidente senza pensiero . In quel saggio, in dialogo ideale con
Aldo Schiavone (Cfr. Schiavone 2025), mi occupavo di una questione un poco
astrusa, cioè del destino culturale
dell’Occidente, nella attuale tormentata fase storica. Devo dire che il mio
saggio, tranne lodevoli eccezioni e qualche latrato fuori luogo, non ha
suscitato grandi reazioni, né positive né negative. Il saggio che qui presento,
tratta esattamente e pervicacemente gli stessi argomenti dell’altro, non più
però dal punto di vista generale, bensì dal punto di vista idiografico, cioè particolare. Diciamo che qui mi occupo del lato particolare del vuoto di pensiero
dell’Occidente, quello che ci riguarda da vicino e ci tocca direttamente
come individualità storiche. Mi
aspetto pertanto almeno qualche reazione negativa, ma staremo a vedere.
Preciso, dati i tempi, che nella stesura di questo testo non ho fatto uso
alcuno di strumenti di intelligenza artificiale.
[2] Senza
concetto, avrebbe detto Hegel.
[3] Ho provveduto a spiegare dettagliatamente la
nozione di fenomeno vago nel mio
saggio Finestre
rotte: Il fenomeno vago della postverità.
[4] Userò il termine “sinistra” in senso ampio,
senza alcuna distinzione interna, riferendomi soprattutto agli elementi
basilari della cultura politica sinistrese. Circoscrivo per semplicità il
discorso alla sinistra italiana. Quanto al termine deriva, così recita il Passerini Tosi: «Andare alla deriva = Detto di nave che non si può più governare ed
è trascinata dalle correnti. […] In senso figurato […] Lasciarsi trascinare
senza reagire. Esser come in completa balia degli eventi».
[5] Cfr. Ricolfi 2017 e Ricolfi 2022.
[6] Uso qui il concetto di Mondo, che ha avuto
una rispettabile tradizione filosofica, a cominciare da Kant e Schopenhauer per
continuare con Dilthey e Husserl, e che, specificatamente nel campo storico
sociale, culmina con uno dei miei Maestri virtuali, Ernesto de Martino. Sulla
nozione di “mondo” in Ernesto De Martino si può vedere il mio saggio Rinaldi
2012. Il saggio è stato da poco rivisto e ripubblicato sul mio blog: Finestre
rotte: La fine del mondo. Crisi e storicità in Ernesto De Martino (2012).
[7] Su questo punto, il riferimento ovvio è Comunità immaginate di Benedict
Anderson. Cfr. Anderson 1983.
[8] Uso questo termine, anziché termini
similari, solo perché è più preciso e permette così il raffronto con le altre
generazioni. Sociologicamente, i Boomer
sono coloro che sono nati tra il 1946 e il 1964. Sono coloro che, nel 2025,
hanno tra 61 e 79 anni. La generazione successiva è la cosiddetta Generazione X, che comprende i nati tra
il 1965 e il 1979. Sono coloro che, nel 2025, hanno tra 46 e 60 anni. Sono
costoro a rappresentare il contingente più ampio dell’attuale personale
politico. La generazione successiva è quella dei Millenial (detti anche Generazione
Y) che comprende coloro che sono nati tra il 1980 e il 1994 e che, nel
1925, hanno una età compresa tra 31 e 45 anni. Costoro – vista la gerontocrazia
tipica del nostro Paese – si apprestano a costituire la schiera new entry nell’ambito del personale
politico. La generazione successiva è la Generazione
Z, nata tra il 1995 e il 2012. Oggi nel 2025 hanno un’età compresa tra 13 e
30 anni. Data la loro età, sono ancora in gran parte coinvolti nei processi di
formazione. Sono coloro cui dovrebbero essere rivolte formidabili e obbligatorie
iniziative di formazione alla cultura civica e alla vita politica. Sarebbe
questo il solo investimento che potrebbe provare a invertire la deriva di cui
stiamo parlando. Ma nessuna forza politica nostrana ha all’ordine del giorno
qualcosa di simile.
[9] Il boom
demografico vale soprattutto per gli Stati uniti. Un po’ meno per l’Italia.
[10] Questa definizione è stata prodotta da Karl
Mannheim, in un articolo del 1923. Cfr. Mannheim 1952.
[11] Sociologicamente così è stata denominata la
generazione dei nati prima del 1946, tra il 1928 e il 1945.
[12] Sembra strano oggi, ma queste figure guida c’erano, erano numerose e
distribuite anche a livello locale. Le si poteva incontrare, si poteva
discutere con loro, si potevano ascoltare le loro conferenze o leggere i loro
articoli sulle riviste. Oggi, a destra e a sinistra, tutti credono di saperne
abbastanza e di non aver alcun bisogno di figure guida. Chi si presentasse come
figura guida sarebbe perfettamente ignorato. Ovviamente, fanno eccezione i leader populisti.
[13] Tutto ciò è ormai caduto nel dimenticatoio.
Il danno arrecato è stato grave, ma costoro uno straccio di analisi e di
autocritica non la faranno mai. Scurdammoce
o’ passato!
[14] Non posso non evocare qui il mondo della chiacchiera come descritto
da alcuni filosofi esistenzialisti.
[15] La parresia
è l’impulso irrefrenabile a dire pubblicamente quella che si ritiene essere la
verità, a qualsiasi costo.
[16] La mia impressione è che le radici ultime
di questa conflittualità siano assai profonde. Non ho spazio qui per entrare in
argomento. Altrove ho parlato di mutazione
antropologica. Cronologicamente, i primi a rilevare qualcosa di simile a
questa mutazione sono stati David Riesman (1909-2002) e Marshall McLuhan
(1911-1980). A seguire poi molti altri studiosi, come ad esempio Cristopher
Lasch (1932-1994). Si tratta di una diversa strutturazione dell’Io dovuta a
processi sociali e soprattutto culturali. Riesman, nel suo The Lonely Crowd, contrappone il tipo psicologico degli inner-directed a quello degli other-directed. Ho trattato diffusamente
di questa problematica nel mio saggio David
Riesman e l’individuo ben socializzato, peraltro mai pubblicato su Città Futura. Cfr. Finestre
rotte: David Riesman e l’individuo ben socializzato. Si veda eventualmente
Riesman 1969 [1950].
[17] Cfr. Cuturier 2021.
[18] Cfr. Ricolfi 2019.
[19] Si veda il mio saggio Un Sessantotto gutemberghiano. Cfr. Finestre
rotte: Un Sessantotto gutemberghiano .
[20] Si veda eventualmente la mia analisi dei
risultati referendari nel mio recente saggio: Finestre
rotte: Referendum 2025 .
[21] Oggi anche l’ONU è da taluni considerato
come antisemita. Mi sento dunque in buona compagnia.
[22] In occasione del Referendum 2025, è
accaduto spesso di sentire rudi militanti della “rivolta” landiniana sostenere
che la presenza, nel pacchetto dei Referendum, della questione della
cittadinanza agli immigrati avrebbe alimentato l’assenteismo elettorale e fatto
perdere voti ai referendum sul lavoro. Un chiaro invito a non ripetere più
l’errore di simili connubi contro natura.
[23] Assumo qui – seguendo l’opinione corrente –
che ci sia stata effettivamente una fine
delle ideologie, anche se la questione è davvero assai discutibile e
controversa. È senz’altro riscontrabile che siano finite giustamente alcune
ideologie decisamente dannose e financo perverse. Insieme a loro sono state
buttate ideologie invece del tutto indispensabili, come l’umanesimo, la
democrazia, l’eguaglianza oppure il cosmopolitismo. Non ho spazio qui per
trattare questa problematica.
[24] Vedi nota 17.
[25] Cfr. Lyotard 1979. Lyotard è un filosofo
post-strutturalista e postmodernista.
[26] Il problema non è se le narrazioni siano
piccole o grandi, bensì se siano giuste
o sbagliate. Siccome Lyotard è un relativista, guarda soltanto alla
dimensione delle narrazioni (grandi o piccole) e non al loro contenuto.
[27] Cfr. Lasch 1985.
[28] Mi riferisco qui allo studio di Robert
Putnam Bowling Alone. Cfr Putnam
2000.
[29] Vedi la nota n. 1.
[30] Ho, da tempo, un saggio in sospeso su questo argomento. Non ho grandi incentivi a completarlo.
.