sabato 9 agosto 2025

La fine del mondo. Crisi e storicità in Ernesto De Martino (2012)












1. Sembra proprio[1] che la fine del mondo sia all’ordine del giorno. Le predizioni del calendario maya che ce l’annunciano sono soltanto la punta dell’iceberg di un fenomeno assai più ampio e pervasivo. Il catastrofismo sta, infatti, diventando un motivo sempre più diffuso nell’odierna cultura di massa, dal cinema, alla letteratura, alle altre arti. Anche presso i leader d’opinione si respira un clima di crisi che produce continuamente dati preoccupanti e previsioni pessimistiche. Negli ultimi decenni, correnti culturali autorevoli hanno annunciato con serietà eventi catastrofici di tutti i tipi. In un elenco sommario, si possono annoverare cose come: la crisi delle scienze europee, la fine delle avanguardie, la fine della metafisica, l’eclissi della ragione, la fine della filosofia, la fine della modernità, la fine della storia, la fine dei valori, la fine dell’arte, la fine della religione, la fine della politica, il dileguamento dell’essere, la fine dell’utopia, la fine della democrazia, la fine del soggetto, la fine dello Stato, la fine della verità, la liquefazione della società, la fine dello sviluppo, la fine del pianeta. E chi più ne ha, più ne metta. Tutti questi epiloghi epocali sono stati presentati come dati di fatto evidenti, oppure come il “compimento” di un destino ineluttabile. Il catastrofismo è ormai talmente diffuso che non fa quasi più notizia, anche se è probabile che, alla fin fine, questo modo di vedere le cose non sia del tutto privo di conseguenze. Vale allora davvero la pena di cercare, al di là del senso comune, una qualche spiegazione del fenomeno, tentando di capire se esso abbia qualche solido fondamento e, soprattutto, quali ne siano le cause.

2. Questi interrogativi hanno un senso, tanto più che, se si considerano le cifre sulle tendenze globali che riguardano parametri come lo sviluppo economico, la speranza di vita, la diffusione dei conflitti, la frequenza dei crimini, il livello d’istruzione, eccetera, e se si fanno le opportune comparazioni con altre epoche, si potrebbe essere indotti a concludere che, in generale, l’umanità non sia mai stata così bene come negli ultimi tempi. Proprio di questo parere, al termine dell’esame di una gran mole di dati, è il sociologo Pino Arlacchi.[2] Del resto, anche gli storici hanno individuato, nella seconda metà del Novecento addirittura un’epoca d’oro.[3] A questi dati di fatto, che dovrebbero orientare all’ottimismo, si obietta che non sono tanto le condizioni oggettive che contano, quanto gli aspetti morali, e che, proprio su questo piano, si ha l’impressione di una crisi generale, di una netta decadenza.[4] Arlacchi ha ammesso anch’egli che, accanto a una situazione globale che va, di fatto, verso un netto miglioramento, sembra persistere un’esagerata diffusione di paura, una percezione del rischio del futuro che forse non è mai stata così acuta. Secondo Benasayag e Schmit, staremmo addirittura andando incontro a un cambiamento radicale della nostra concezione del futuro, da un futuro concepito come promessa, a un futuro concepito come minaccia.[5]

3. A dispetto della crescente diffusione del fenomeno, sono davvero pochi gli studiosi che si sono occupati del catastrofismo in maniera approfondita. Una ragguardevole eccezione è costituita da Ernesto De Martino, uno dei più raffinati intellettuali italiani del secolo scorso. Alla sua morte prematura, nel 1965, ha lasciato una gran quantità di materiali di ricerca che avrebbero dovuto costituire un’opera intitolata, appunto, La fine del mondo.[6] Etnologo e antropologo di mestiere, De Martino aveva una profonda formazione filosofica e, nel corso della sua opera, ha sempre cercato di tenere unito, per quanto possibile, l’aspetto dell’indagine sul campo con la riflessione teorica fondamentale. Il suo programma di ricerca intorno alla fine del mondo resta uno dei più articolati e argomentati, anche se inserito in una ben precisa prospettiva di filosofia della storia, una prospettiva che oggi il lettore comune fa qualche fatica a identificare. In quel che segue, cercherò di presentare i concetti fondamentali utili a intendere la filosofia della storia di De Martino e, di conseguenza, la sua concezione della fine del mondo. Svilupperò poi alcune osservazioni circa il catastrofismo attuale e il suo ruolo nella cultura contemporanea.

4. La nozione di mondo usata da De Martino va intesa in modo assai specifico. Essa fu introdotta nel Mondo magico, la sua prima opera di ricerca, seppure non ancora sul campo, pubblicata nel 1948.[7] L’espressione “mondo magico” è di origine filosofica ed è stata concepita in opposizione al “mondo della natura” e al “mondo dello Spirito”. Per cogliere adeguatamente la genesi di questo concetto, occorre tener presente quale fosse il programma di riforma dell’etnologia che De Martino aveva in mente: si trattava di prendere le distanze dal cosiddetto naturalismo, la corrente all’epoca più diffusa e nettamente prevalente a livello internazionale,[8] per fondare ex novo un’etnologia di tipo storicistico, secondo i canoni della filosofia crociana. Era un progetto alquanto temerario, se si considera che fenomeni tipicamente etnologici, come il mito, la magia e la religione, avevano trovato scarsissima considerazione nell’ambito della stessa filosofia crociana.[9] De Martino si trovò così di fronte al difficile compito di collocare il campo della nuova disciplina etnologica non più nella natura, ma non ancora compiutamente nella storia. Fu indotto allora a individuare, in un primo momento, proprio il mondo magico come un mondo borderline, un vero e proprio momento di passaggio tra la natura e la cultura. Il mondo magico non era più natura, ma non era ancora compiutamente cultura, poiché in esso non si era ancora affermata la storicità, qui intesa, secondo Croce, come dialettica all’interno dei distinti.

5. Nel mondo magico de martiniano, la categoria specifica capace di strutturare l’azione degli individui e delle collettività era la presenza, e la sua dialettica interna era prodotta dalla contrapposizione tra la presenza e il rischio costante della sua perdita. Si trattava di un mondo aurorale, dove lo Spirito, in tutte le sue articolazioni, correva costantemente il rischio di essere sopraffatto e di ritornare nell’indistinto. Il problema fondamentale che costituiva il mondo magico non era ancora tanto legato all’Utile, al Bello, al Buono e al Vero, cioè al problema di cosa fare nella storia, quanto al problema di stare dentro a una storia, cioè il problema preliminare dell’esserci come soggetto storico. Con l’introduzione della categoria della presenza e del correlativo negativo del rischio della presenza, il mondo magico veniva così a trovare una sua fondazione ontologica e diventava disponibile per le operazioni cognitive della nuova etnologia storicistica. Questa operazione poteva essere concepita come una estensione delle quattro tradizionali categorie crociane.

6. Il concetto de martiniano della presenza non ha tuttavia un’origine filosofica, bensì psichiatrica. L’avvento dello Spirito nella storia poteva infatti avere qualche analogia con il problema della nascita e del mantenimento della coscienza nel soggetto individuale. De Martino era stato così indotto ad approfondire lo studio della letteratura psicopatologica e a far propria la teoria che potesse esserci qualche analogia tra gli stati di coscienza dei primitivi e quelli dei malati di mente. La teoria non era assolutamente nuova.[10] Come i malati di mente apparivano sempre sul punto di perdere la coscienza di sé e il senso della realtà, così i primitivi potevano sembrare sempre sul punto di perdere l’aggancio con il loro mondo, per ritrovarsi precipitati nella pura naturalità. De Martino approfondì con attenzione i meccanismi di strutturazione della coscienza e di perdita della coscienza, così com’erano stati descritti dalla scuola psichiatrica francese; si avvalse, in particolare, degli studi di Janet sulla dissociazione dell’io, sulla perdita di contatto con la realtà, sul misticismo.[11] Il problema dell’unità della coscienza, i disturbi della coscienza, la derealizzazione, divennero così altrettanti elementi descrittivi che potevano aiutare nell’interpretazione delle caratteristiche fondamentali del vissuto del mondo magico.

7. Basandosi sulla psicopatologia e su numerose fonti etnologiche, De Martino aveva così potuto concentrare la sua attenzione su una singolare, a suo dire, condizione psichica in cui: «[…] l’indigeno perde per periodi più o meno lunghi, e in grado variabile, l’unità della propria persona e l’autonomia dell’io, e quindi il controllo dei suoi atti. In questa condizione, che subentra in occasione di una emozione, o anche soltanto di qualcosa che sorprende, il soggetto è esposto a tutte le suggestioni possibili».[12]

 E così proseguiva: «Tutto accade come se una presenza fragile, non garantita, labile, non resistesse allo choc determinato da un particolare contenuto emozionante, non trovasse l’energia sufficiente per mantenersi presente adesso, ricomprendendolo, riconoscendolo o padroneggiandolo in una serie di rapporti definiti. In tal guisa il contenuto è perduto come contenuto di una coscienza presente. La presenza tende a restare polarizzata in un certo contenuto, non riesce ad andare oltre di esso e perciò scompare e abdica come presenza. Crolla la distinzione fra presenza e mondo che si fa presente: il soggetto, in luogo di udire o di vedere lo stormir delle foglie, diventa un albero le cui foglie sono agitate dal vento».[13]

8. Il rischio della perdita della presenza provocava, a livello individuale, una situazione di disagio psichico, che era definita e descritta come angoscia:  «Un’angoscia caratteristica lo travaglia: e quest’angoscia esprime la volontà di esserci come presenza davanti al rischio di non esserci. La labilità diventa così un problema e sollecita la difesa e il riscatto: la persona cerca di reintegrare la propria presenza insidiata».[14] La nozione di angoscia, che pure era stata elaborata in campo psichiatrico, aveva un suo importante corrispettivo nelle filosofie dell’esistenza e in quella che poi diventerà la psichiatria fenomenologica.

La presenza veniva dunque ad assumere una posizione centrale nella visione di De Martino; si trattava di una categoria ad ampio spettro, capace sul piano filosofico di costituire una condizione preliminare all’ingresso nel mondo della storia, di rendere possibile la stessa storicità e, sul piano empirico, di spiegare i vissuti individuali e le credenze che si ritrovavano nel mondo magico: «Il fatto negativo della fragilità della presenza, del suo smarrirsi e abdicare, è incompatibile per definizione, con qualsiasi creazione culturale, che implica sempre un modo positivo di contrapporsi della presenza al mondo, e quindi una esperienza, un dramma, un problema, uno svolgimento, un risultato».[15] Nel mondo magico, dunque, il dramma fondamentale era costituito dallo sforzo di mantenere la presenza, di mantenersi cioè al livello dell’operabilità storica.

9. Nelle società primitive, il rischio della perdita della presenza – ed è questo il tema centrale del Mondo magico – veniva affrontato e scongiurato grazie a una serie di risorse culturali che dovevano essere pertanto caratteristiche specifiche del mondo magico stesso e che avrebbero cessato di avere senso qualora il mondo magico fosse stato superato. Si trattava cioè di una serie di tecniche e di istituzioni volte precisamente a dominare le situazioni di crisi e a ottenere il riscatto della presenza. Avviene così che il grande protagonista del dramma del mondo magico sia lo sciamano. Esso è depositario di una tecnica culturalmente elaborata (dunque pertinente al dominio dell’Utile) che è in grado di produrre, nell’ambito della comunità, attraverso appositi rituali, la reintegrazione della presenza minacciata, sia sul piano individuale – lo sciamano è una specie di terapeuta – che su quello collettivo – lo sciamano costituisce e ricostituisce il vissuto del mondo comunitario. Le pratiche magiche che sono operate in riferimento a quel mondo dunque funzionano effettivamente e hanno il senso di contribuire costantemente alla costituzione del soggetto del mondo storico e a impedire lo sprofondamento nella natura.

10. Spiegava De Martino nella conclusione della parte metodologica del suo saggio: «Qui noi siamo in presenza del primo abbozzo di quel dramma che creò il mondo della magia, nella varietà dei suoi temi culturali. Infatti il semplice crollo della presenza, la indiscriminata coinonìa, lo scatenarsi di impulsi incontrollati, rappresentano solo uno dei due poli del dramma magico: l’altro polo è costituito dal momento del riscatto della presenza che vuole esserci nel mondo. Per questa resistenza della presenza che vuole esserci, il crollo della presenza diventa un rischio appreso in un’angoscia caratteristica: e per il configurarsi di questo rischio la presenza si apre al compito del suo riscatto attraverso la creazione di forme culturali definite. Per una presenza che crolla senza compenso il mondo magico non è ancora apparso; per una presenza riscattata e consolidata, che non avverte più il problema della sua labilità, il mondo magico è già scomparso. Nel concreto rapporto tra i due momenti, nella opposizione e nel conflitto che ne deriva, esso si manifesta come movimento e come sviluppo, si dispiega nella varietà delle sue forme culturali, vede il suo giorno nella storia umana».[16]

11. Sarebbe tuttavia fuorviante pensare che questa prima nozione del mondo magico sia stata ricavata esclusivamente in base alle esigenze teoriche dello storicismo crociano e della psicopatologia. Nel primo Novecento, nell'ambito della filosofia continentale, si erano andate delineando molte nozioni consimili che avevano tentato di cogliere, in modo globale, aspetti dell’esperienza umana che il positivismo aveva trascurato. Basti pensare e all’Erlebnis (il vissuto) diltheyano, al Lebenswelt (mondo della vita) husserliano, oppure al Dasein (esser-ci) heideggeriano. Si tratta di concetti che erano nati sul terreno delle forme trascendentali e che tuttavia avevano preso ben presto una torsione fenomenologico – esistenziale. Nonostante svariati accenni critici nei confronti di Husserl e di Heidegger, queste nozioni ebbero comunque una progressiva e rilevante influenza su De Martino e vennero da lui rielaborate nel quadro di un esistenzialismo positivo, vicino a quello di Abbagnano.[17]

Questo è il motivo per cui, già nel Mondo magico, la categoria della presenza (che, a rigore, avrebbe dovuto restare rigorosamente formale) aveva acquistato sempre più il carattere di un esistenziale, di un vissuto, cioè di un tratto caratteristico dell’esistenza. Poiché questo concetto era destinato a un’applicazione di tipo etnologico, si è profilata fin da subito anche la possibilità che vi fosse una pluralità di vissuti, che potessero dunque coesistere diversi mondi, diversi modi di esserci, gli uni accanto agli altri, ciascuno dotato di proprie caratteristiche, tanto da rendere difficile l’adozione di un’unica epistemologia, di un’unica teoria della verità. Una conseguenza tipica di questo pluralismo relativistico è costituita dal dibattito riguardante la cosiddetta “efficacia” dei poteri magici, su cui non possiamo però qui dilungarci.[18]

12. La sovrapposizione tra categorie formali e concetti fenomenologico – esistenziali e, soprattutto, l’ipotesi di un mondo aurorale, culturalmente costituito, in cui lo Spirito non fosse ancora del tutto apparso nelle sue eterne articolazioni, infastidirono alquanto il Croce e l’ambiente crociano e ciò portò a un’annosa polemica tra Croce e De Martino.[19] De Martino, nei suoi lavori successivi, formalmente si piegò all’autorità di Croce, facendo una sorta di autocritica su alcuni punti ma, di fatto, continuò a sviluppare le due basilari nozioni di mondo e di presenza sempre più in direzione fenomenologico – esistenziale. Furono proprio queste nozioni che gli permisero di elaborare una sua più matura e compiuta visione dei fenomeni storici e culturali, compreso il suo interesse per le apocalissi culturali.

13. Una decina di anni dopo, in Morte e pianto rituale,[20] l’autocritica viene esplicitata. De Martino ammetteva ora con chiarezza che il mondo magico era già a pieno titolo un mondo storico e non un mondo a parte, ancora impegnato a risolvere il problema dell’unità della coscienza. La presenza si manifestava secondo le determinate potenze del fare, operava già cioè culturalmente, come lo Spirito storico. Il problema del salto dalla natura alla storia viene così messo da parte poiché, procedendo retrospettivamente, c’è sempre storia, anche se nelle civiltà più primitive la vita culturale è tendenzialmente ricondotta alla soluzione dei problemi più elementari. Proprio per questo però è costantemente presente il rischio dell’annientamento della storicità, cioè la perdita della progettualità in rapporto ai valori dello scegliere e dell’operare. Non c’è più un ipotetico rischio di disgregazione del soggetto, c’è ora una situazione di fallimento della storicità di fonte a problemi specifici che di volta in volta vengono posti.[21] Il riscatto della presenza ha ora il significato di una reintegrazione della storicità che può essere conseguita attraverso opportune tecniche, elaborate e messe a disposizione nella cultura. Nel mondo magico si ricorreva agli uffici dello sciamano, ora, nel caso del lutto, si ricorrerà agli uffici del rituale o, più in generale, della religione.[22]

14. Tuttavia, la differenza tra il mondo magico e il mondo storico non sparisce del tutto, essa viene incamerata e riprodotta nel mondo storico stesso: si dà ora per scontata la coesistenza di una pluralità di mondi storici, non del tutto omogenei tra loro. All’interno di ciascun mondo storico, in relazione agli specifici problemi che si pongono, si determina una specifica costituzione dell’identità individuale, una specifica concezione della realtà, si determinano specifiche tecniche di costituzione e mantenimento della storicità, modi particolari di intendere lo spazio e soprattutto il tempo. La perdita della presenza, intesa come la perdita della capacità di far fronte ai problemi storici che si pongono in ciascun mondo, diventerà così la fine di quel mondo.

 15. La perdita di presenza è ora interpretata, nell’ambito di una teoria dell’azione, come un problema di tipo morale, come un indebolimento della capacità o volontà di stare dentro alla storia, un problema che De Martino comincia a concettualizzare come un deficit di éthos. Poiché questo concetto riveste un ruolo rilevante nell’ultimo De Martino, è utile chiarirne la genesi, seppure a grandi linee. Nello storicismo crociano, l’éthos altro non era se non la categoria trascendentale dell’etica - una delle quattro articolazioni dello Spirito - la quale rendeva possibili le autonome manifestazioni storiche della sfera etica. Tuttavia Croce, in una celebre pagina[23] de La storia come pensiero e come azione, sorvolando sulla rigorosa separazione dei distinti, aveva avallato la possibilità di intendere l’éthos come una sorta di forma comune, condivisa da tutte le altre categorie spirituali. Su questo passaggio si basò De Martino per sostenere l’identificazione della presenza con l’éthos crociano. Tuttavia l’éthos non venne inteso da De Martino come pura forma generale della storicità, ma venne, ancora una volta, inteso in senso fenomenologico – esistenziale come energia, potenza e simili, echeggiando addirittura accenti bergsoniani.

16. Afferma infatti De Martino: «Ora questo éthos coincide con la presenza come volontà di esserci in una storia umana, come potenza di trascendimento e di oggettivazione […]. La mera vitalità che sta “cruda e verde” nell’animale e nella pianta deve nell’uomo esser trascesa nell’opera, e questa energia di trascendimento che oggettiva il vitale secondo forme di coerenza culturale è appunto la presenza. Esserci nella storia significa dare orizzonte formale al patire, oggettivarlo in una forma particolare di coerenza culturale, sceglierlo in una potenza distinta dell’operare, trascenderlo in un valore particolare: ciò definisce insieme la presenza come éthos fondamentale dell’uomo e la perdita della presenza come rischio radicale a cui l’uomo – e soltanto l’uomo – è esposto».[24] Negli scritti successivi, questo stesso concetto di éthos venne sempre più frequentemente riportato come “éthos del trascendimento”, e usato indifferentemente con lo stesso senso della presenza. Tuttavia, sulla scia dell’esistenzialismo positivo, il trascendimento venne sempre più interpretato come un doverci essere, una sorta di slancio, d’impegno a realizzarsi nella storia, ponendo e perseguendo il valore nelle varie sfere spirituali. La perdita della presenza è ora, esplicitamente, la perdita dell’éthos, cioè la perdita della capacità di trascendimento, la perdita della storicità che, in riferimento a ciascun mondo, significa la perdita del proprio specifico nucleo di valori fondanti, capace di indirizzare l’azione individuale e collettiva. Poiché il nucleo dei valori fondanti rappresenta l’impalcatura stessa di quel mondo, in caso di perdita dell’éthos del trascendimento, il singolo individuo non potrà che sperimentare il vissuto della fine del mondo (Weltuntergangserlebnis). Questa esperienza di perdita dunque non è più solo appannaggio del mondo magico, ma è divenuta possibile entro qualsiasi mondo che si sia storicamente costituito e che non riesca più a strutturare un suo corso d’azione e sia divenuto perciò obsoleto.

17. Ciascun mondo ove si organizzi un progetto storico è dunque sempre sotto l’incombenza del fallimento, della dissoluzione. È dunque normale che, all’interno di ciascun mondo, si sviluppino e si rendano disponibili delle tecniche per preservare la storicità stessa, per governare gli eventuali vissuti della fine del mondo. Abbiamo già visto che nel mondo magico le tecniche rituali avevano la funzione di preservare la storicità. Nelle altre situazioni storiche si avranno altre modalità specifiche per affrontare i vissuti della fine e per favorire il mantenimento della storicità. L’indagine sulla fine del mondo, cui De Martino si accingeva, aveva dunque lo scopo principale di esaminare come i vari mondi provvedano a mantenere la loro stessa storicità, a curare il rischio e a controllare eventualmente i momenti di passaggio da un mondo divenuto ormai obsoleto a un mondo nuovo. Insomma, la nuova etnologia di De Martino si costituiva ora come una sorta di teoria generale dell’azione storica, della sua crisi e delle tecniche per il suo mantenimento. Una teoria dunque che si può presentare anche come terapia delle défaillances della storicità, sia a livello individuale, sia a livello collettivo. Con De Martino dunque, rispetto a Croce, la storicità diventa essa stessa un affare storico.

18. Le successive indagini sul campo condotte da De Martino sono ormai guidate proprio dagli assunti generali che abbiamo descritto. Ciò vale per il lamento rituale lucano, per le pratiche magiche del Sud e, in particolare, per il rito della tarantola.[25] L’indagine sul rito della tarantola aveva, tra l’altro, aumentato la familiarità di De Martino con la psicopatologia e, in un certo senso, gli aveva fornito un’ulteriore inclinazione a scorgere analogie tra le patologie esistenziali individuali e le patologie culturali. Il rischio di perdere se stessi era del tutto analogo al rischio di perdere il proprio mondo, si trattava dei due rovesci della stessa medaglia. All’interno di questa prospettiva aveva dunque un senso ricercare e studiare, a livello individuale e collettivo, le più svariate tracce di rappresentazione culturale del dramma della perdita del proprio mondo e della sua reintegrazione, del dramma cioè mediante il quale ciascuna società produce e mantiene la propria prospettiva storica.

19. Gli ambiti cui rivolgersi erano molteplici. Nell’ambito della psicopatologia, non era sfuggita a De Martino, accanto alla descrizione della disgregazione del soggetto, la presenza di alcune patologie di tipo psicotico in cui venivano in primo piano, in forma più o meno allucinatoria e delirante, proprio svariate narrazioni della fine del mondo. In questo quadro il delirio della fine del mondo era interpretato come un processo di presa di coscienza di una situazione critica e, in prospettiva, di produzione della guarigione. Ma l’ambito più caratteristico delle narrazioni della fine del mondo era quello costituito dalla storia delle religioni, a partire dal messianismo ebraico, fino al cristianesimo.

Fu proprio il cristianesimo a rendere celebre l’apocalisse, intesa come rivelazione degli eventi che avrebbero visto la fine di questo mondo e l’inaugurazione di un nuovo mondo. Narrazioni di fine del mondo avevano costituito il nucleo di riferimento anche di movimenti ereticali e di movimenti politico religiosi a sfondo millenaristico. Data la sua propensione comparatista, sia nello spazio sia nel tempo, non era poi sfuggita a De Martino la presenza di analoghe narrazioni della fine del mondo presso molte società che avevano subito la colonizzazione e avevano patito varie forme di destrutturazione culturale. Anche le ideologie e i movimenti rivoluzionari del XX secolo, agli occhi di De Martino, mostravano di essere narrazioni della fine di un mondo e della rinascita di un mondo nuovo. Caratteri apocalittici potevano poi essere anche attribuiti a diversi movimenti culturali del Novecento, a sfondo letterario, filosofico o artistico. Così, poco a poco, la categoria dell’apocalisse culturale, intesa qui indifferentemente come vissuto della fine o come narrazione della fine del mondo, diventa via via centrale negli interessi di De Martino, fino a costituire un vero e proprio progetto di ricerca.

20. Non è questa la sede per esaminare in dettaglio i materiali di ricerca dedicati da De Martino alla Fine del mondo. Ci limiteremo ad alcune rapide incursioni, volte a evidenziare l’approccio de martiniano alle varie apocalissi culturali. Un caso esemplare è costituito dai materiali dedicati al messianismo religioso. Secondo De Martino, la nascita e lo sviluppo del cristianesimo sarebbero avvenuti all’interno del messianismo ebraico, cioè nel quadro di una visione apocalittica del rinnovamento e dell’avvento prossimo del Regno dei Cieli. Gesù, attraverso la profezia, riuscì a mobilitare i suoi seguaci intorno all’aspettativa della fine del vecchio mondo e dell’avvento di un nuovo mondo. La morte imprevista di Gesù rappresentò un fatto traumatico, un elemento di crisi, con cui quel mondo, appena costituitosi, dovette confrontarsi. Nacque così l’adattamento narrativo della resurrezione e del prossimo ritorno di Gesù, che aveva la funzione di ricostruire l’operabilità intramondana, cioè una prospettiva d’azione storica, tra i discepoli costernati. Ma anche l’attesa del prossimo ritorno, pure creduta e professata per un certo periodo, col passare del tempo era andata affievolendosi. Per risolvere questa ulteriore fonte di crisi e di angoscia, il ritorno di Cristo venne posticipato a una data imprecisata nel futuro. Ciò ha dato, tra l’altro, luogo alla produzione della stessa Apocalisse di Giovanni, cioè la rivelazione profetica delle cose che accadranno alla fine dei tempi. In tal modo, il mondo cristiano ha potuto costituire una storicità di durata indeterminata, all’interno della quale hanno potuto nascere costumi, istituzioni, organizzazioni comunitarie, insomma il complesso delle elaborazioni culturali della stessa civiltà cristiana. La procrastinazione del ritorno del messia ha contribuito a definire anche – cosa non secondaria – una nuova rappresentazione del tempo, un segmento lineare con un punto alla fine che può essere abbracciato in un’unica prospettiva, che è stata poi ereditata dall’intero Occidente.

21. Ciascun mondo non va dunque inteso come qualcosa di dato una volta per tutte, ma come un costrutto suscettibile di cambiamenti che si confronta continuamente con i fatti contingenti, con i rischi, e che, in un certo senso, cerca di elaborare degli adeguamenti funzionali. Lo scopo di questo adeguarsi è sempre l’allargamento e il consolidamento dell’operabilità intramondana, cioè l’allargamento della capacità stessa di quel mondo di stare dentro a una storia, di rappresentare e produrre una propria storia. Gli incidenti e i rischi di percorso che sopravvengono all’interno di ciascun mondo si rispecchiano nella coscienza dei partecipanti come turbamento, come angoscia, come paura e rappresentazione della fine, come domanda di consolidamento e di riscatto. È come se i parametri costitutivi di ciascun mondo venissero costantemente aggiustati, non in base a un disegno preordinato ma in base a una sorta di bricolage, a una continua correzione ad hoc, volta comunque a tenere in piedi quel mondo, a mantenerlo nella sua funzione primaria generatrice di storicità.

Alla base delle svolte e dei cambiamenti è posto il criterio di assicurare l’operabilità intramondana. Si sarebbe tentati di dire che ciascun mondo elabora i propri parametri di fondo, sviluppa i propri adattamenti, i propri orientamenti di valore, purché funzionino. Sotto questo profilo ci troveremmo prossimi a Nietzsche, quando sostiene che la storia è mossa dalle illusioni. Evidentemente però, per De Martino, c’è qualcosa che resiste alle illusioni poiché ciascun mondo si scontra regolarmente con le limitazioni dei dati di fatto. A partire dalla pressione inemendabile dei fatti, lo stesso fatto può tuttavia ancora essere interpretato in mille modi diversi, e le interpretazioni possono essere messe al riparo da tutte le constatazioni irrevocabili, da tutte le confutazioni. È come se De Martino sostenesse che le culture hanno sì dei limiti nella bruta fattualità, ma all’interno di questi limiti possono attualizzare liberamente le loro illusioni prospettiche, che vanno a costituire il nucleo dei loro valori fondamentali, pur di mantenersi in tiro con la storia.  Solo lo sviluppo spirituale interno a ciascun mondo può determinare le ulteriori articolazioni dei valori fondamentali e dunque la perpetuazione dell’illusione stessa.[26]

Il carattere non logico, drammatico, imprevedibile, di questo sviluppo è messo bene in rilievo dal fatto che si possono determinare esiti paradossali. Ad esempio, afferma De Martino:  «La storia del Cristianesimo è la storia della tematica del regno nella sua paradossia di una storia che ne  è la smentita, di una storia che rischia di distruggersi nella sua attesa e nella sua fruizione attuale, e di un modellamento delle sue immagini e della sua esperienza in guisa da promuovere il continuarsi della storia. La Chiesa è la grande guaritrice dei rischi del Regno: appunto per questo la storia del Regno è storia della Chiesa».[27]

22. Un mondo che sappia tenere alta la propria storicità può cambiare anche radicalmente, tanto da diventare col tempo irriconoscibile. De Martino, ad esempio, ha prospettato la possibilità di sviluppo di un mondo ulteriore, capace di superare il mondo cristiano in via di esaurimento, in cui il simbolismo cristiano venga meno, recuperando una organizzazione simbolica del tempo e una cultura civica laica, senza per ciò dissolvere la storicità: «Occorre ricomporre il nostro simbolismo su un piano esclusivamente civile, partecipando ad un orizzonte epocale determinato, con un inizio e una meta non assoluti, ma relativi a questa epoca, e non affidati a numi ma interamente a uomini e ai loro istituti. Un evento iniziale e fondatore impiantato nel cuore della storia, interamente operato da uomini e destinato ad uomini, un nuovo corso in svolgimento, una meta in prospettiva; questo non può essere che una rivoluzione, i dieci giorni che sconvolsero il mondo».[28]

La riflessione sull’apocalisse cristiana si apprestava così a diventare una riflessione antropologica sulla temporalità e la storia. Solo questo aspetto avrebbe potuto costituire un poderoso programma di ricerca.

23. Un altro terreno ove poteva trovare applicazione la prospettiva delle apocalissi culturali era costituito dalle trasformazioni indotte, nel Terzo mondo, prima dalla colonizzazione e poi dalla decolonizzazione. L’argomento comportava, per De Martino, la possibilità di riprendere le analisi condotte nel Mondo magico. Si sarebbero potute vedere all’opera la crisi della presenza, l’opera di reintegrazione dei riti e della magia, i tentativi di governare culturalmente i traumi individuali e collettivi, il confronto tra diversi mondi temporali dei colonizzati e dei colonizzatori.

24. De Martino era convinto che le società primitive andassero anch'esse soggette a cambiamenti, ma che questi cambiamenti non avessero un posto nel loro schema temporale prevalente, che era rimasto fondamentalmente ciclico. Queste società si trovavano in una situazione in cui: «[…] la storicità del divenire, la iniziativa individuale, il mutamento, la innovazione debbono essere  occultati alla coscienza, e ridischiusi attraverso tale occultamento. Si “può” stare nella storia come se non ci si stesse, cioè i comportamenti sono appresi nella coscienza culturale egemonica come ripetizione cerimoniale di un ordine paradigmatico fondato una volta per sempre illo tempore. Lo stesso futuro è riassorbito, attraverso la divinazione, in modelli mitici dell'accadere. La fine del mondo appare, in questa prospettiva, unicamente come crollo di tale regime protetto (colpe rituali, infrazioni di tabù, impossibilità di riattualizzare sempre di nuovo nelle cerimonie i simboli mitici di origine e di fondazione)».[29]

Si tratterebbe dunque di mondi piuttosto avvezzi alla ripetizione, dotati di minori capacità di governare i cambiamenti, assai più soggetti al crollo rispetto ai mondi più complessi.

25. La colonizzazione aveva prodotto, tra le altre cose, un brutale impatto da parte delle società primitive con il mondo della storia lineare, e la distruzione o la decadenza del tradizionale comportamento mitico rituale, ma anche il processo di decolonizzazione si è trovato a dover fare i conti con le persistenze degli schemi temporali arcaici. Così De Martino spiegava la nascita di svariate manifestazioni nativiste che miravano a connettere i due schemi temporali, in maniera simile a quanto è accaduto con il messianismo. Si tratta dei movimenti profetici chiliastici (millenaristi). Questi sviluppi di mondi sincretici, a metà strada tra il vecchio e il nuovo, miravano a ricostruire uno spazio possibile di operabilità, dunque un primo abbozzo di storicità. Nei movimenti di questo tipo avevano particolare spazio la profezia e il potere carismatico. Negli appunti di De Martino appaiono lunghi elenchi di questi movimenti e un loro tentativo di classificazione.[30] Compare anche un esplicito interesse per le manifestazioni psicopatologiche riscontrabili presso gli appartenenti ai movimenti nativistici. Insomma, egli era alla ricerca di una connessione tra la destrutturazione della presenza a livello individuale e la destrutturazione culturale. In una annotazione egli afferma che  «[…] si tratta […] di considerare il nesso organico che le apocalittiche culturali manifestano tra il rischio psicopatologico e reintegrazione operativa secondo valorizzazioni comunitarie della vita umana».[31]

26. Comunque l’ipotesi de martiniana tende costantemente a negare la possibilità che queste manifestazioni abbiano un carattere regressivo e tende a insistere – come già nel Mondo magico - sul carattere di tecniche ricostruttive della presenza di queste manifestazioni: «La istituzionalizzazione è un tratto fondamentale della apocalisse culturale, nel senso che i comportamenti sintomatici della crisi della presenza sono nella apocalisse culturale tendenzialmente sottratti dalla anarchia individuale del loro prodursi e incanalati in esperienze e riti comunitari di “sette” e “chiese”. La varia agitazione psicomotoria e il vario emergere sintomatico di impulsi inconsci sono, mediante tale istituzionalizzazione rituale, unificati secondo modelli socializzati di comportamento, ricevendo una calendarizzazione che li disciplina rispetto al “quando” e alla “durata” dell’esecuzione […] come anche rispetto al come e al perché dell’esecuzione stessa (il “come” subisce una certa moderazione in rapporto all’anarchia della crisi individuale e il “perché” è determinato dal significato escatologico complessivo del movimento e dai miti che ne formano l’orizzonte)».[32]

27. L’approccio interpretativo dell’apocalisse culturale è stato applicato anche alla contemporaneità occidentale, una situazione in cui mito e religione hanno lasciato il posto a visioni del mondo di tipo secolare. De Martino aveva così approfondito lo studio delle apocalittiche rivoluzionarie e delle apocalittiche letterarie contemporanee. La differenza di fondo è costituita dal fatto che le ultime sono, secondo la sua definizione, apocalissi senza escaton, non contemplano cioè alcun cambiamento, alcuna salvezza. Si tratterebbe cioè di apocalittiche puramente negative. La distinzione tra questi due tipi di apocalissi è assai rilevante nell’ultimo De Martino e si fonda comunque sempre sulla sua nozione di perdita della presenza o di perdita dell’ethos del trascendimento. La fine di un mondo può infatti – come si è visto - essere culturalmente pilotata e aprire alla costituzione di un nuovo mondo; ma può anche accadere che, al vissuto della fine, non si ponga rimedio alcuno e quindi si entri in una destrutturazione dove prevale l’assoluto negativo: «[…] proprio questo éthos che attraversa il mondo degli uomini generando la varietà delle civiltà e degli istituti, degli ingegni e dei geni, e sollevando ben in alto l’umano sull’immediatamente vitale -  proprio questo éthos può esser raggiunto dalla catastrofe e patire un morire incommensurabilmente più grave di quel morire naturale che condividiamo con gli animali e con le piante: qui si configura un’insidia radicale, che solo  l’uomo minaccia e che solo l’uomo sa misurare. Non si tratta di quel negativo relativo e di quel relativo vuoto che nascono quando chi è impegnato nell’esercizio di una forma “fa un’altra cosa” […]. Questo negativo appartiene al rapporto delle forme tra loro, all’urto dei positivi: ma vi è il rischio di un assoluto negativo che si riferisce al rapporto fra la vitalità che è sempre materia, e la presenza come volontà di forma».[33]

28. Secondo De Martino le ideologie rivoluzionarie moderne, e l’ideologia marxista in particolare, svolgono di fatto la stessa funzione di reintegrazione della storicità che era stata svolta dalla tradizione mitico religiosa. De Martino seguiva dunque un’interpretazione, oggi abbastanza diffusa, che considera le ideologie del cambiamento sociale e politico come una sorta di versione moderna del messianismo, dove la salvezza è posta non nell’al di là, bensì nella realizzazione della società degli eletti, del paradiso in terra. Nei suoi lavori compaiono gli appunti di lettura dell’opera di Norman Cohn,[34] studioso del millenarismo, che è stato uno degli iniziatori di questa tematica. Osserva in proposito De Martino: «Nel messianismo rivoluzionario affiorano i temi di una salvezza terrestre e collettiva, dell’avvento di una città celeste sulla terra, del popolo eletto che bandisce e affretta questo avvento, dell’Anticristo e della battaglia finale, cataclismatica e decisiva, dopo la quale il mondo sarebbe emerso totalmente trasformato e redento, senza più il negativo, i conflitti, le tensioni che caratterizzano il mondo attuale. Ma i due grandi movimenti totalitari del nostro tempo, comunismo e nazismo hanno mantenuto questi temi fondamentali, sia pure in altra forma […]. Vero è che quei messianismi tradizionali sono religiosi, mentre il nuovo escatologismo sociale si dichiarò “scientifico” e sostituì alla “volontà di Dio” i “fini della storia”.

Ma pur attraverso tale secolarizzazione restò la tematica apocalittica in quanto prospettiva di un mondo da purificare dagli agenti corruttori, dalle tensioni e dai conflitti. La identificazione sociale di tali agenti (i grandi, gli ebrei, il clero, la borghesia) può variare, ma l’orientamento fondamentale resta. E altresì resta il quadro finale di una società resa unanime nelle sue credenze ed esente da conflitti».[35]

29. Dagli appunti di De Martino si evince anche uno studio approfondito dell’antropologia marxiana, soprattutto per quel che concerne il giovane Marx. Secondo De Martino, il marxismo avrebbe tuttavia trascurato il problema della presenza, cioè il problema della storicità, e si sarebbe accontentato di mantenere il proprio discorso soprattutto al livello dell’economico:  «Vi è un’attività umana in senso trascendentale, cioè come principio che rende intelligibile qualsiasi attività mondana e concreta, sia essa rivolta alla utilizzazione della natura sia orientata verso altre valorizzazioni: ma quest’attività in senso trascendentale, come principio di intelligibilità, è l’éthos del trascendimento valorizzante. Che poi la realizzazione di questo principio cominci necessariamente con un progetto comunitario dell’utilizzabile, che questo progetto stia alla base degli ulteriori trascendimenti, e che esso costituisca un documento indispensabile per misurare in tutti i campi dalla vita culturale la distanza  fra ciò che gli uomini credono di fare e ciò che essi fanno realmente, tutto ciò non significa che le “soprastrutture” siano da ridursi alle “strutture”, e che tutti i valori culturali siano “maschere” dell’economico».[36]

La religione e la magia dunque, per quanto collocabili sempre, secondo De Martino, sul piano della strumentalità, si sarebbero mostrate maggiormente in grado di affrontare il problema del mantenimento della presenza, secondo l’éthos del trascendimento. Questa critica al marxismo era già comparsa anche in Furore, Simbolo, Valore, in un articolo occasionale in cui si dava conto di un dibattito, occorso in Unione Sovietica, circa l’opportunità di istituire simboli e cerimonie socialiste. Il successo economico non poteva sostituire la mancanza di senso.

30. Accanto alle apocalittiche rivoluzionarie, De Martino aveva individuato la presenza di un’altra apocalittica, assai poco avvertita ma molto diffusa, che egli tuttavia considerava come la visione della fine più caratteristica dell’Occidente contemporaneo. Si trattava della cosiddetta cultura della crisi che, da tempo, aveva elaborato una prospettiva catastrofista senza però essere in grado di costituire in positivo alcun orizzonte operativo. Era una cultura caratterizzata da un progressivo disimpegno nei confronti del doverci essere, da un appiattimento sul presente, da una disgregazione dell’impegno collettivo, dal progressivo affievolirsi dell’ethos del trascendimento, cioè della storicità.[37]

Nell’intento esplicito di studiare la cultura della crisi del suo tempo De Martino aveva individuato un nuovo terreno di ricerca etnologica, che consisteva nell’esame dei contenuti dei prodotti letterari e artistici. Egli era convinto che la diffusione di certe tematiche di carattere pessimistico, nichilistico o catastrofico potesse essere considerata come un indice della difficoltà dell’Occidente stesso di porsi in un atteggiamento di storicità, un indice della diffusione di una vera e propria patologia culturale. In contrasto con le visioni di speranza, manifestate sia dai movimenti di riscatto del Terzo mondo che dalla cultura marxista, la contemporanea cultura della crisi esprimeva invece un disagio esistenziale generalizzato nei confronti delle componenti fondamentali di un qualsiasi mondo di vita, come il rapporto con il proprio corpo, il rapporto con gli oggetti e con gli altri. Essa peraltro riproduceva con evidenza le caratteristiche tipiche delle psicopatologie e sembrava avere perso la capacità di dare vita a un qualsivoglia mondo dotato di senso compiuto e di organizzare l’impegno storico della società. Insomma, la cultura della crisi descriveva il disagio, faceva parte del disagio, ma non lo sapeva oltrepassare.

31. De Martino non intendeva certo riproporre qualche teoria della morte dell’arte e la sua ipotesi di ricerca non riguardava l’arte nel suo complesso, cioè il valore estetico delle opere, quanto la presenza ricorrente, in esse, di determinate tematiche negative: «Non si tratterà tanto di decidere se e in che senso queste opere sono riuscite quanto piuttosto di mettere a nudo il momento in cui si manifestano come opere contraddittorie, come scacchi della prassi, come conati che ricadono su se stessi, come energie morali abdicanti».[38]

A differenza del mondo magico o del mondo religioso: «L’attuale congiuntura culturale dell’Occidente conosce invece il tema della fine al di fuori di ogni orizzonte religioso di salvezza, e cioè come nuda e disperata presa di coscienza del mondano “finire”. In particolare questa disposizione risalta in alcuni documenti letterari nei quali si esprime il vario immergersi nella attuale catastrofe del mondano, del domestico, dell’appaesato, del significante e dell’operabile, onde risultano minute descrizioni dell’assurdo, veri e propri inventari di macerie e meticolosi regressi distruttivi».[39]

L’arte, di per sé avrebbe una funzione culturale positiva, ma l’arte contemporanea della borghesia occidentale sarebbe intrinsecamente malata: «La “crisi” nelle arti figurative, nella musica, nella narrativa, nella poesia, nel teatro, nella filosofia e nella vita etico-politica dell’occidente è crisi nella misura in cui la rottura con un piano teologico della storia e con il senso che ne derivava (piano della provvidenza, piano dell’evoluzione, piano dialettico dell’idea) diventa non già stimolo per un nuovo sforzo di discesa nel caos e di anabasi verso l’ordine, ma caduta negli inferi, senza ritorno, e idoleggiamento del contingente, del privo di senso, del mero possibile, del relativo, dell’irrelato, dell’irriflesso, dell’immediatamente vissuto, dell’incomunicabile, del solipsistico, ecc.».[40]

32. Il simbolo emblematico di questa situazione involutiva, più volte evocato negli scritti di De Martino, è quello della catastrofe nucleare: «Nella sua forma più vistosa, più esteriore e più tragicamente paradossale questa disposizione annientatrice trova il suo infausto coronamento nel terrore atomico della fine, cioè nella prospettata possibilità che l’umanità si autodistrugga mediante l’impiego antiumano della sua sapienza tecnica: tuttavia il semplice fatto che la catastrofe atomica abbia potuto assumere rilievo concreto e alimentare il correlativo terrore significa che il rischio della fine era cominciato molto prima, e affondava le sue radici in una catastrofe molto più segreta, profonda e invisibile».[41]

33. A questa situazione di crisi dell’éthos del trascendimento faceva da riscontro una crisi profonda dell’azione collettiva. Un esempio significativo di questo fenomeno è costituito dal furore, cioè dallo scatenamento distruttivo fine a se stesso. In un articolo occasionale, scritto per commentare un grave episodio di violenza collettiva dei giovani teen-ager svedesi, De Martino osservava: «Si tratta di pure e semplici esplosioni di aggressività senza premeditazione e senza organizzazione, senza capo e senza scopo. Gli episodi di violenza non insorgono per qualche cosa e contro qualcuno: inesplicabilmente, come per un richiamo misterioso, gruppi di adolescenti e di giovani, dai quindici ai vent’anni, senza conoscersi tra loro e nulla avendo in comune tranne l’età, formano banda temporanea ed entrano in furore distruttivo. […] Questi ribelli senza causa non si propongono rapina o vendetta nel senso comune di queste parole: sono mossi da un impulso di annientamento delle persone e delle cose, vogliono ridurre in cenere il mondo, far sfoggio della loro potenza di eversione. Nessun legame interpersonale nasce da tali tempestosi assembramenti, da queste orge di furore: le bande temporanee si sciolgono così come si sono formate, senza lasciare traccia di rapporti oltre la scarica distruttiva».[42]

De Martino insomma, avvertiva, nel venir meno della storicità, il rischio del nichilismo: «È da tempo che una cupa invidia del nulla, una sinistra tentazione da crepuscolo degli dèi dilaga nel mondo moderno come una forza che non trova adeguati modelli di risoluzione culturale, e che non si disciplina in un alveo di deflusso e di arginamento socialmente accettabile e moralmente conciliabile con la coscienza dei valori umani faticosamente conquistata nel corso della millenaria storia di Occidente».[43]

De Martino, data la sua originaria formazione idealistica, ha evidentemente avvertito più di altri il profondo danno che può derivare da un’involuzione culturale, poiché dal suo punto di vista non c’era altro se non la cultura a organizzare e guidare la prospettiva storica di una società.

34. È probabile che De Martino non abbia avuto modo di conoscere l’opera di T. Kuhn, lo storico e filosofo della scienza che, nel 1962, aveva pubblicato La struttura delle rivoluzioni scientifiche.[44] Tra le teorie di questi due studiosi ci sono tuttavia somiglianze per alcuni aspetti sorprendenti, dovute probabilmente al fatto che entrambi si sono occupati del cambiamento culturale. Vale davvero la pena di rilevare alcune delle analogie.

Kuhn ha proposto un modello storico capace di render conto dei cambiamenti delle teorie che avvengono periodicamente nell'ambito della comunità scientifica. Egli ha individuato anzitutto una situazione di scienza normale, nella quale la comunità scientifica condivide un paradigma consolidato, con cui procede speditamente ed efficacemente nell'esplorazione della natura. Tuttavia ogni paradigma non è mai in grado di rispondere adeguatamente a tutti problemi, per cui nella visione della natura generata da ciascun paradigma tendono inevitabilmente ad accumularsi delle anomalie inspiegabili. Di fronte alle anomalie, in un primo tempo vengono proposte delle soluzioni tampone, le cosiddette ipotesi ad hoc, che tendono a circoscrivere le anomalie stesse e a preservare il paradigma vigente. L'accumulo delle anomalie produce però, a lungo andare, una situazione di crisi del paradigma, descritta come una situazione drammatica in cui la comunità scientifica si divide, in cui non si riesce più a dare un senso ai dati sperimentali, in cui sembra siano venuti meno tutti i fondamenti. Ma la crisi del paradigma non rappresenta una crisi della scienza nel suo complesso; vengono infatti proposti diversi nuovi paradigmi che possono anche trovarsi in concorrenza tra di loro. Questa situazione di incertezza può perdurare a lungo, fino a quando un nuovo paradigma non riesce a imporsi su tutti gli altri dimostrando di essere capace di ricomprendere il paradigma precedente e di rendere ragione delle anomalie. Il cambiamento così realizzato costituisce una rivoluzione scientifica che permette di inaugurare un nuovo periodo di scienza normale, il quale comunque sarà nuovamente perturbato da anomalie, che daranno luogo nuovamente a una crisi e a una nuova rivoluzione scientifica. Insomma, i cambiamenti nella scienza si succedono mediante un andamento alternato di crisi dei vecchi paradigmi e di formazione di paradigmi nuovi. I paradigmi di Kuhn sono stati interpretati come delle vere e proprie visioni del mondo, coerenti al loro interno, che vengono sostituite da altre visioni del mondo, secondo uno schema che potremmo definire gestaltico.

35. Non sarà sfuggita al lettore la stretta analogia tra i paradigmi di Kuhn e i mondi di De Martino, tra la situazione di crisi del paradigma e la situazione delle apocalissi culturali. Come il paradigma definisce il quadro di normalità entro cui gli scienziati possono agire per conseguire il successo conoscitivo, così, secondo De Martino, ciascun mondo culturale definisce un contesto normale di storicità (che per De Martino era il mondo del familiare, del domestico e dell’appaesato) che permette agli individui di agire comunemente, in base a una specifica struttura valoriale di fondo, condivisa e data per scontata. Ciò vale per quei mondi arcaici dove il tempo è vissuto come dotato di una struttura ciclica, sia per quelli il cui vissuto è dotato di una struttura lineare; vale per i mondi della magia, della religione o per i mondi laici.

Come i paradigmi di Kuhn, i mondi di De Martino assicurano l’operabilità, godono così di un’ampia libertà di autostrutturazione, fino a suscitare – come  dicevamo – il  sospetto che si tratti di visioni arbitrarie, o addirittura di illusioni. Tuttavia, le resistenze inemendabili della realtà pongono dei problemi imprevisti, evidenziano continuamente delle anomalie che rischiano di mandare in crisi la presa di quel mondo sulla realtà. Come le teorie scientifiche, i mondi costituiti non ignorano la possibilità della crisi, sospettano che ci sia dell’altro, sentono la loro limitatezza e sono in grado di prospettare delle ipotesi di cambiamento. Nell'ambito di ciascun mondo sono infatti previsti degli strumenti culturali che permettono di rappresentare la crisi, di affrontarla, di prospettare i cambiamenti necessari per ricostituire un nuovo mondo che sappia mantenersi nella storicità. Le apocalissi culturali rappresentano dunque la presa di coscienza dell’ineluttabilità del logoramento del vecchio mondo e l’annuncio di un mondo nuovo: insomma, l’ammissione che nessun mondo è in sé eterno, che il cambiamento è inevitabile, che sussiste tuttavia una via di uscita, per quanto il cambiamento prospettato possa essere radicale.

36. Tra le due teorie c’è tuttavia una significativa differenza. Mentre per Kuhn lo sviluppo della storia della scienza è cumulativo e le nuove teorie devono inglobare le vecchie in un allargamento progressivo della presa sulla natura, per De Martino invece la storicità è sempre esposta al rischio della perdita definitiva. Se falliscono le tecniche di reintegrazione e di trasformazione, quando l’inadeguatezza di un mondo diventa a ogni piè sospinto palese e la sua crisi è sempre più marcata, allora si ha la netta percezione e rappresentazione di una fine del mondo imminente, di un crollo complessivo di tutti i fondamenti, senza alcuna alternativa, fino a degenerare in termini patologici nella totale de-strutturazione, cioè nell’assoluto negativo.

37. Dai materiali di De Martino sulla Fine del mondo emerge, in definitiva, l’ipotesi che l’attuale atmosfera di crisi culturale, l’attuale catastrofismo, cui abbiamo fatto cenno all’inizio, possano essere interpretati in termini di crisi di storicità. È innegabile che individui, collettività e culture definiscano le coordinate del loro agire non soltanto riguardo allo spazio, ma anche a proposito del tempo. Le modalità con cui ci si colloca nel tempo sono fondamentali per la determinazione del significato e dell’impegno di qualsiasi progetto, individuale o collettivo, di breve o lungo termine. Che queste modalità siano fortemente dipendenti dalla cultura e vadano soggette a variazioni degne di rilievo e che possano anche collassare fino a smarrire il senso del proprio agire, fino a perdere di vista i valori fondamentali normalmente dati per scontati, tutto ciò è più che presumibile. In De Martino troviamo dunque le basi per quella che potremmo definire un’interpretazione della crisi, ma anche per qualcosa come una terapia della crisi, o addirittura una sorta di terapia della storicità.

38. L’assunto, che De Martino ha dato per scontato fin dall’inizio, è che sia gli individui, sia le collettività non possano evitare di stare nella storia, che il doverci essere nella storia, l’éthos del trascendimento, sia l’unico criterio distintivo dell’umano, che la perdita di storicità costituisca ipso facto la perdita dell’umanità stessa. Le apocalittiche culturali rappresentano dunque un’arma a doppio taglio. Il venir meno di un mondo storico, la crisi carica di angoscia, di incertezze, può preludere al passaggio verso un nuovo mondo storico, in un tentativo senza fine di superare ostacoli, di porre valori, di risolvere problemi. Come si è visto tuttavia il mondo storico non è un dato trascendentale, bensì un preciso prodotto culturale che risponde all’imperativo del doverci essere nella storia, che può però sempre essere messo in discussione,  può sempre venir meno, può sempre essere ingoiato dalla ingens sylva della natura. È dunque del tutto ammissibile la possibilità della catastrofe senza salvazione, il precipitare nel puro negativo, l’annientamento stesso della prospettiva storica, assai diversa dalla fine della storia immaginata da certi filosofi.[45]

39. Se questo è vero, siamo allora in grado di comprendere meglio cosa abbia comportato la parola d’ordine postmoderna della “fine delle grandi narrazioni”.[46] È abbastanza comprensibile che alla fine del Novecento, uno dei secoli più tragici, si sia sentito il bisogno di mettere sotto accusa quei megaprogetti che hanno preso forma negli stati nazionali, nei nazionalismi, nei totalitarismi e negli imperialismi. Questi progetti, che hanno determinato la storia del novecento, sono stati giustamente criticati ed è stato senz’altro doveroso prendere le distanze nei loro confronti. La mossa di rinunciare alle grandi narrazioni per colpa di una serie di narrazioni sbagliate non sembra tuttavia sia stata del tutto appropriata. Rinunciare di per sé alla presenza nella storia significa lasciare spazio alle accidentalità, significa rinunciare a qualsiasi nucleo di valore significativo, perdere la dimensione della temporalità, rinunciare a costruire un mondo, perdere in definitiva la propria identità.

Adattare la dimensione temporale ai ritmi del quotidiano, alla ripetizione o alla frammentazione dell’esperienza, ci riporta indietro alle società arcaiche. Soprattutto, ci rende incapaci di affrontare gli imprevisti, di affrontare i problemi che lo zoccolo duro della realtà comunque ci presenta. L’illusione postmoderna della sospensione della storia (bene espressa nelle varie “filosofie della fine” che abbiamo citato in apertura), del ritorno alla ripetizione rassicurante, oppure dell’accettazione della frantumazione, del ripiego sui piccoli mondi, mondi protetti che sussistono per proprio conto e che solo per caso s’intersecano, ignorandosi a vicenda, o tutt’al più “riconoscendosi”, ci rende, come dice De Martino, più spaesati, più vulnerabili, più incapaci di reagire, più disgregati, più alla mercé degli avventurieri di ogni sorta, in una parola, meno padroni di noi stessi. L’annuncio postmoderno della fine della storia non sembra dunque costituire la soluzione del problema, sembra piuttosto essere parte del problema stesso. Non è rinunciando alla storia che possiamo metterci al sicuro dai rischi, ma facendo la storia con più consapevolezza e, soprattutto, con più responsabilità.

Giuseppe Rinaldi (ottobre, 2012)

(Rev. 2.0 - 09/08/2025)

 

NOTE

[1] Questo saggio è stato pubblicato su Anima e Terra n. 2, ottobre 2012. La presente versione (2.0) consta sostanzialmente di una riformattazione e di alcune minori correzioni.

[2] Cfr. P. ARLACCHI, L’inganno e la paura. Il mito del caos globale, Il Saggiatore, Milano, 2009.

[3] Così in E. J. HOBSBAWM, Il secolo breve. 1914-1991: l'era dei grandi cataclismi (1994), Rizzoli, Milano, 1995.

[4] Spesso la tragedia dello sterminio degli ebrei è stata evocata come caso esemplare per sintetizzare l’emergere del male radicale all’interno di un secolo in cui si è conseguita la massima prosperità.

[5] Cfr. M. BENASAYAG, & G. SCHMIT, L’epoca delle passioni tristi (2003), Feltrinelli, Milano, 2004.

[6] Questi materiali sono stati ordinati e pubblicati, postumi, in E. DE MARTINO, La fine del mondo. Contributo all'analisi delle apocalissi culturali (a cura di C. Gallini e M. Massenzio), Einaudi, Torino, 1977.

[7] Cfr. E. DE MARTINO, Il mondo magico (1948), Boringhieri, Torino, 1973.

[8] L’ambizioso programma fu enunciato in E. DE MARTINO, Naturalismo e storicismo nell’etnologia, Laterza, Bari, 1941. Si tratta di una raccolta di saggi di carattere principalmente metodologico. Il programma anti naturalistico di De Martino si contrapponeva a studiosi del calibro di Lévi-Bruhl, Marcel Mauss ed Émile Durkheim.

[9] Questi, infatti, non rientravano agevolmente nel quadro delle quattro forme dello Spirito (Bello, Vero, Utile e Buono) e dunque venivano collocati a margine della cultura e della storia.

[10] Freud aveva sostenuto qualcosa di simile in Totem e tabù. Lévy-Bruhl aveva discettato a lungo delle funzioni mentali delle popolazioni primitive.

[11] Sul rapporto tra De Martino e Janet cfr. P. ANGELINI, Ernesto De Martino, Carocci, 2008, pp. 37-41. Le opere di Janet sono ampiamente utilizzate in E. DE MARTINO, Il mondo magico, cit. e in E. DE MARTINO, Morte e pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento pagano al pianto di Maria, Einaudi, Torino, 1958. Cfr. anche P. JANET, L’automatisme psychologique (1889), Librairie Félix Alcan, Paris, 1973 e P. JANET, De l’angoisse a l’extase. Étude sul les croyances et le sentiments (1926), Tome I - II, Librairie Félix Alcan, Paris, 1975.

[12] E. DE MARTINO, Il mondo magico, cit., p. 92.

[13] Ivi, p. 93.

[14] Ivi, p. 95.

[15] Ivi, p. 94.

[16] Ivi, p. 95.

[17] Si veda ad esempio il seguente passo in E. DE MARTINO, La fine del mondo, cit., pp. 699: «La presenza, nelle espressioni “perdita della presenza”, “presenza che si riscatta”, “crisi della presenza”, “presenza che si dilegua” (e recede verso l’assenza), “presenza inautentica”, “presenza malata”, ecc. va intesa nel senso di Dasein, e precisamente come “presentificazione emergente”, “ethos del trascendimento”, “energia oltrepassante la situazione”, “intenzionalità in atto”, “esserci-nel-mondo”, operatività secondo forme di coerenza culturale, apertura all’intersoggettivo e al relazionale, movimento per entro un orizzonte di origine e di destino, partecipazione  progettante alla società in sviluppo e alla storia in cammino di un’epoca».

[18] Vedi E. DE MARTINO, Il mondo magico, cit., cap. 1.

[19] I documenti fondamentali della polemica sono tuttora riportati nell’edizione del Mondo magico, curata da Cesare Cases. Cfr. E. DE MARTINO, Il mondo magico, cit.. Una ricostruzione dettagliata e rigorosa della polemica si trova in S. F. BERARDINI, De Martino, Croce e il problema delle categorie, in Pozzoni, Ivan (a cura di), Benedetto Croce. Teoria e orizzonti, Limina Mentis, Milano, 2010.

[20] Cfr. E. DE MARTINO, Morte e pianto rituale nel mondo antico cit..

[21] Non a caso, in Morte e pianto rituale De Martino si apprestava a studiare il trauma del lutto.

[22] Rituale e religione, secondo De Martino, sono comportamenti destorificati e, come tali, sono in grado di costruire un ambiente protetto nei confronti dei rischi di perdita che le accidentalità della storia possono imporre.

[23] Cfr. B. CROCE, La storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari, 1938, pp. 44 e segg..

[24] E. DE MARTINO, Morte e pianto rituale nel mondo antico, cit., p. 14.

[25] Cfr. E. DE MARTINO, Morte e pianto rituale nel mondo antico, cit., E. DE MARTINO, Sud e magia, Feltrinelli, Milano, 1959 e E. DE MARTINO, La terra del rimorso, Il Saggiatore, Milano, 1961.

[26] L’uso del termine illusione qui ha il senso di una rappresentazione utile e necessaria. La nozione di illusio elaborata dal sociologo francese Pierre Bourdieu ha molti punti in comune con questa concezione de martiniana.

[27] E. DE MARTINO, La fine del mondo, cit., pp. 286-287.

[28] Ivi, p. 296.

[29] Ivi, p. 365.

[30] Lo studio di questi movimenti è stato particolarmente approfondito da Vittorio Lanternari (si veda ad es. V. LANTERNARI, Movimenti religiosi di libertà e salvezza (1960), Editori Riuniti, 2003).

[31] E. DE MARTINO, La fine del mondo, cit., p. 382.

[32] Ivi, p. 382.

[33] E. DE MARTINO, Morte e pianto rituale nel mondo antico, cit., p. 17.

[34] Cfr. N. COHN, I fanatici dell'Apocalisse (1957), Comunità, Milano, 1965. In riferimento ai tempi più recenti, questa concezione è stata sviluppata da Voegelin, da Talmon e, in Italia, da Pellicani.

[35] E. DE MARTINO, La fine del mondo, cit., pp. 417-418.

[36] Ivi, p. 431.

[37] Per De Martino, oramai vicino al socialismo, questa cultura coincideva con la allora cosiddetta “cultura borghese”.

[38] Ivi, p. 466.

[39] Ivi, p. 467.

[40] Ivi, p. 471.

[41] Ivi, p. 468.

[42] L’articolo è stato inserito nella raccolta di saggi E. DE MARTINO, Furore, simbolo, valore, Feltrinelli, Milano, 1962, pp. 225-226.

[43] Cfr. E. DE MARTINO, Furore, simbolo, valore, cit., p. 231.

[44] Cfr. T. S. KUHN, La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962), Einaudi, Torino, 1969.

[45] Com’è noto, la fine della storia è una tematica che è stata sviluppata soprattutto nell’hegelismo e nel nichilismo. Recentemente una teoria della fine della storia è stata riproposta dal filosofo statunitense Francis Fukuyama (Cfr. F. FUKUYAMA, La fine della storia e l'ultimo uomo (1992), Rizzoli, Milano, 1996). Senza voler entrare nel merito, sicuramente Fukuyama ha colto, nella fine della contrapposizione dei blocchi e nella generalizzazione del sistema della concorrenza e del liberalismo politico, una specie di fine del progetto, di fine della mission di un certo Occidente. Ciò tuttavia non significa, per Fukuyama, il trionfo del negativo.

[46] Cfr., ad esempio, J.F. LYOTARD, La condizione postmoderna (1979), Feltrinelli, Milano, 1981.