mercoledì 5 novembre 2014

La cattiva strada di Parmenide

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Nell’ambito della cosiddetta «filosofia continentale» e soprattutto nel nostro Paese, l’interpretazione di Parmenide, più che una questione scientifica,[1] è sempre stata una questione ideologica, una specie di campo di battaglia,  su cui si gioca ormai quasi interamente la legittimità della molto popolare filosofia della storia nicciano-heideggeriana. In quest’ambito, un’interpretazione del tutto arbitraria di Parmenide, senza alcun serio supporto filologico e storico, ha finito per diventare la vulgata di riferimento, sia a livello popolare che a livello manualistico, ma anche e soprattutto tra gli studiosi.  Spiace vedere schiere di commentatori, sedicenti storici della filosofia, che altro non fanno che accodarsi all’interpretazione dominante. Ognuno ripete le proprie dotte convinzioni senza prendersi la briga di andare a verificare se i testi e il contesto possono avvalorarle o meno, in un clima di servilismo verso le opinioni correnti che è davvero sconcertante. Se queste sono le capacità critiche che dovrebbero essere indotte dalla cultura classica e dalla cultura umanistica, c’è veramente da restare stupiti e meravigliati.
Per fortuna, nel mondo anglosassone c’è meno ideologia e meno conformismo, ci sono meno ossequi ai pregiudizi e c’è una grande capacità di confrontarsi con i testi. Così è avvenuto che una schiera di studiosi, di orientamento anche assai diverso, anche in strenua contesa tra di loro, abbia elaborato una serie di nuove ipotesi interpretative su Parmenide che si sono progressivamente succedute e raffinate. Le vecchie ipotesi ideologiche sono state definitivamente scartate, mentre altre sono in fase di aggiustamento e di verifica. Chi legga il capitolo riguardante Parmenide sui principali e più accreditati dei nostri manuali di storia della filosofia e poi vada a leggere, ad esempio, il corrispondente articolo sull’Enciclopedia filosofica di Stanford,[2] non può che strabuzzare gli occhi e domandarsi se si tratti dello stesso argomento. Dove siamo stati nel frattempo?
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Per molto tempo l’interpretazione prevalente di Parmenide, è stata quella che potremmo definire come monismo stretto. Secondo questa interpretazione, Parmenide, in contrasto con i fisici precedenti, avrebbe concepito l’esistenza di una sola entità – denominata «essere»[3] - che sarebbe immutabile e inalterabile, avrebbe cioè tutte le caratteristiche definite nel celebre fr. 8 del Poema sulla natura. Non essendo dunque possibile per definizione la pluralità e il cambiamento, il mondo della nostra ordinaria esperienza sarebbe del tutto inesistente, pura illusione, puro errore. I sostenitori di questa interpretazione si sono trovati al più a disputare se l’entità unica fosse di ordine materiale e spaziale (talvolta assimilata a una sfera) oppure fosse da considerarsi come un’entità metafisica (identificata appunto con un improbabile e imprendibile «essere»). In questa prospettiva Parmenide è stato così rappresentato come un ostinato filosofo che all’evidenza ingannevole dei sensi avrebbe preferito una verità di tipo puramente logico razionale, fino a negare la realtà del mondo sensibile. I sostenitori di questa interpretazione, di cui peraltro hanno elaborato molteplici varianti, non hanno mai manifestato alcun imbarazzo ad accettare come plausibile che un filosofo presocratico abbia potuto sostenere con convinzione il paradosso della totale inesistenza della nostra esperienza sensibile. Così Parmenide, soprattutto nell’ambito della cosiddetta filosofia continentale, è diventato il cavallo di battaglia dei metafisici, degli idealisti, dei filosofi della storia.
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Un’interpretazione di carattere completamente diverso ha cominciato a svilupparsi soprattutto nel mondo anglosassone, sull’onda della filosofia analitica, a partire dall’influenza di Bertrand Russell.[4] Essa ha inteso l’ente di Parmenide nei termini del significato logico. Il presupposto era che tutto quel che può essere pensato (tutto ciò intorno a cui possiamo intraprendere una qualche ricerca) deve avere una sua qualche esistenza, per lo meno di tipo logico. Una conseguenza non secondaria di questa linea interpretativa è che si è cominciato ad ammettere che il monismo di Parmenide potesse riguardare ciascun singolo significato, piuttosto che la pretesa dell’esistenza di una sola realtà. In conseguenza, da questo punto di vista, si è affacciata l’idea che Parmenide avrebbe potuto essere anche non strettamente monista.
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Una terza interpretazione è quella nota come teoria del meta-principio, secondo cui l’ente parmenideo sarebbe in realtà qualcosa di molto simile a quella che, negli sviluppi filosofici successivi, sarebbe poi diventata la nozione di essenza. Parmenide avrebbe usato la nozione di ente per indicare il “che cos’è” (what-is) delle cose (la vera realtà, la vera costituzione, la natura intrinseca, il predicato fondamentale). Oppure, addirittura, il “cosa è necessario che sia”. Quindi Parmenide, nella prima parte del suo Poema, sarebbe stato impegnato non tanto nel descrivere quel che c’è (un davvero improbabile ente unico), quanto nel definire le caratteristiche minime indispensabili che dovrebbero avere le entità fondamentali di qualsiasi ontologia. Ne consegue che, secondo questa interpretazione, Parmenide non sarebbe stato dunque affatto un monista stretto, bensì un monista largo (generous monist). Questa tesi non è nuovissima e risale a Mourelatos che la avanzò nell’ormai lontano 1970.[5] Essa ha ora avuto un ulteriore sviluppo nel monismo predicativo elaborato da Patricia Curd. Secondo la Curd, Parmenide avrebbe sostenuto che ciascuna cosa possiede un unico predicato che la definisce in tutto e per tutto.
Insomma, al di là delle sottigliezze interpretative, Parmenide, nella prima parte del Poema, sarebbe stato impegnato nella specificazione di quali condizioni siano necessarie per qualificare la natura di una cosa qualsiasi. Nella seconda parte avrebbe poi elaborato una sua fisica innovativa, del tutto coerente con i principi stabiliti nella prima parte. Questa teoria tuttavia, ha osservato Palmer, se è in grado di demolire la paradossale visione del monismo stretto, sembra non rendere adeguatamente conto della cosmologia di Parmenide, la quale non viene presentata esattamente come una conseguenza della prima parte del poema, bensì, in un certo senso, come una narrazione ingannevole.
Questa svolta teorica ha comportato comunque un enorme cambiamento di prospettiva non solo a proposito di Parmenide ma anche nell’interpretazione complessiva della storia della filosofia presocratica.[6] La ricerca di Parmenide, anziché costituire una reazione contro i fisici precedenti e in particolare contro Eraclito – come si è spesso sostenuto - dovrebbe essere considerata in stretta continuità con loro, seppure in presenza di alcune decisive innovazioni. D’altro canto, i filosofi pluralisti successivi a Parmenide, ben lungi dal reagire contro l’inesistente monismo parmenideo, dovrebbero essere considerati semplicemente come i continuatori di Parmenide, i continuatori cioè della sua elaborazione innovativa in campo ontologico e in campo fisico.
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Grazie all’approfondimento di alcune questioni lasciate aperte dai sostenitori dell’ente parmenideo inteso come meta-principio, si è dunque dato spazio, proprio a opera di Palmer, a una quarta interpretazione, che è anche la più recente in ordine di tempo, e cioè l’interpretazione modale. Essa concorda per molti aspetti con la precedente, ma cerca di aderire maggiormente al testo del Poema, concentrandosi soprattutto sulla ridefinizione del significato della seconda parte, la via della doxa. Secondo questa interpretazione[7] Parmenide avrebbe introdotto per primo la distinzione modale tra l’ente necessario e l’ente contingente. Nella prima parte del poema si sarebbe occupato nella definizione delle caratteristiche dell’ente necessario, cioè degli elementi costituenti ultimi della realtà fisica mentre, nella seconda, avrebbe elaborato una sua propria cosmologia contingente sulla base dei principi dell’ente necessario. La cosmologia di Parmenide sarebbe dunque da considerarsi come una rappresentazione fenomenica (basata su quanto appare effettivamente all’uomo e quindi, in un certo senso - secondo le stesse parole della Dea - illusoria).
L’ente necessario non va assolutamente inteso nel senso del monismo stretto e può ben essere costituito da più elementi (nel senso della fisica) che abbiano tuttavia le caratteristiche di inalterabilità individuate nel frammento n. 8 del Poema. La grande novità è che questi elementi inalterabili non generano alcunché e neppure si trasformano, come accadeva invece presso i fisici precedenti. Essi possono così essere combinati tra loro dando così origine alle apparenze delle cose (cioè ai fenomeni). In questo modo il movimento, il nascere e il morire, sarebbero accadimenti fenomenici dovuti alla combinazione degli elementi fondamentali, i quali rimangono tuttavia inalterabili. La cosmologia prospettata da Parmenide nella seconda parte del suo Poema è esattamente una cosmologia di questo tipo e si basa sui due elementi Luce e Notte, altrimenti interpretati come fuoco e terra nella tradizione dossografica.
La distinzione modale parmenidea tra ente necessario ed ente contingente si presenta dunque come una profonda innovazione, collocata tuttavia nell’ambito del programma della filosofia ionica (in questo senso può essere considerata come uno sviluppo rispetto a Eraclito – il quale pensava a uno o più elementi capaci di trasmutarsi nei loro contrari). Questa innovazione avrà tanto successo da costituire la base sia degli sviluppi del platonismo (che sarà continuamente attraversato dal problema del rapporto tra il necessario e il contingente), sia degli sviluppi del pluralismo dei fisici post parmenidei.
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Il principale problema interpretativo di fronte a cui si sono sempre arenati gli studiosi è quello della apparente disomogeneità tra le due parti del poema. Le soluzioni prospettate in generale hanno propeso a valorizzare la prima parte a discapito della seconda. In realtà la prima e la seconda parte non sono affatto sconnesse tra loro, si trovano piuttosto nella stessa relazione in cui si trova l’ontologia rispetto alla scienza naturale. L’ontologia prospetta quali siano i componenti ultimi della realtà, mentre la scienza naturale procede a studiare empiricamente i fenomeni che ne derivano.
Questa nuova prospettiva è stata bene sintetizzata da Kahn, uno dei massimi esperti di questo ambito di ricerche: «Il rapporto tra Parmenide e la nuova filosofia naturale è […] complesso. Da una parte, egli introduce una concezione dell’ente che si colloca al di fuori della tradizione cosmologica; ma nella seconda parte del poema egli presenta una cosmologia dettagliata di tipo milesio. La cosmologia di Parmenide non è strettamente ionica; essa possiede certe modalità distintive (come la trasmigrazione) che la contrassegna come appartenente alla corrente della tradizione occidentale o pitagorica. Ma l’innovazione metafisica di Parmenide è costruita per minare sia la versione cosmologica occidentale sia quella ionica: l’intera impresa è stata ora retrocessa al rango di inaffidabili “opinioni dei mortali”. È la spiegazione dell’ente, nella prima parte del poema, che serve come punto di partenza per le metafisiche di Platone e Aristotele. Ma inizialmente, nel quinto secolo, è la teoria fisica di Parmenide, la dottrina degli elementi delineata nella seconda parte del poema, che fornisce il modello per Anassagora, Empedocle e per gli atomisti. È Parmenide che introduce un nuovo concetto di elemento, come base per spiegare il mondo del cambiamento attraverso la commistione e la separazione di costituenti fondamentali, i quali tuttavia sono immuni dal cambiamento. L’argomento contro la generazione (coming-to-be) e la corruzione (perishing) nella prima parte ha come contropartita lo sviluppo di una teoria degli elementi nella seconda parte. La metafisica di Parmenide così stabilisce le basi per la sua fisica».[8]
 Mentre nella storiografia filosofica il filone di continuità tra Parmenide e la metafisica successiva è stato ampiamente esaltato oltre ogni misura – fino ad attribuire a Parmenide posizioni metafisiche che egli non poteva sicuramente sostenere – il filone di continuità con il pluralismo e l’atomismo è stato completamente misconosciuto. Si tratta come ognun vede di una gigantesca operazione ideologica volta a legittimare l’idealismo contro il materialismo e a screditare la scienza della natura.
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Secondo una stima di Palmer, la parte del poema dedicato alla cosmologia, anche se non è stata quasi del tutto conservata, rappresentava approssimativamente l’80% di tutto l’originale (di cui quel che ci è rimasto è approssimativamente il 10%).[9] Ricaviamo dai frammenti che nella cosmologia il filosofo si occupava dei due elementi di base, Luce e Notte, della natura del cosmo e degli oggetti celesti come le stelle, il sole, la luna, la via lattea e la terra. Parmenide si è occupato anche dei viventi, della fisiologia della riproduzione e della natura del pensiero dell’uomo. Aggiunge Palmer in termini di giudizio complessivo: «Generalmente, le testimonianze tendono a confermare che Parmenide ha cercato di spiegare una gamma incredibilmente ampia di fenomeni naturali, inclusi specialmente le origini e i comportamenti specifici sia dei corpi celesti che della popolazione terrestre».[10]
A sostegno dell’importanza centrale della doxa nella filosofia parmenidea è che il suo poema è il primo testo greco che riporti due importantissime scoperte scientifiche.[11] Una è quella che identifica la Stella del Mattino con la Stella della Sera, riconoscendo cioè il pianeta Venere. Questa identità era nota a Babilonia, ma era sconosciuta a Esiodo e non era mai stata menzionata nei testi greci prima di Parmenide. L’altra innovazione scientifica è ancor più rivoluzionaria: Parmenide ha compreso che la luce della luna è dipendente dalla luce del sole. Ciò implicava anche il riconoscimento del fatto che l’eclisse lunare è dovuta all’ombra della terra (dall’osservazione della quale si poteva ulteriormente ricavare la sfericità della terra). Non possiamo sapere se Parmenide abbia praticato egli stesso le osservazioni: «Semplicemente non lo sappiamo. Ma possiamo ragionevolmente concludere che se Parmenide non ha prodotto egli stesso ricerche originali di astronomia egli comunque fosse a conoscenza con le migliori conoscenze del suo tempo».[12]
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Un ostacolo effettivamente degno di rilievo per l’interpretazione modale è il fatto che la Dea che dialoga con Parmenide nel Poema considera la cosmologia esposta come ingannevole.  Il problema tuttavia – osserva Palmer - nasce soltanto se si considera quanto esposto nella prima parte come esaustivo di tutto ciò che è. Se la Dea avesse esaurito la descrizione di ciò che è nella prima parte, non si capisce però perché avrebbe dovuto aggiungere, nella sua istruzione, un 80% di narrazioni considerate come illusorie e false. Del resto, l’ipotesi che questa parte contenga teorie di altri filosofi criticate da Parmenide è stata confutata dagli studiosi. La Dea dichiara esplicitamente di voler insegnare a Parmenide, nella seconda parte del suo discorso, l’ordine effettivo delle cose in modo che nessun altro possa sorpassarlo. La Dea considera quindi la cosmologia esposta come superiore a tutte le altre elaborate dagli uomini. Dice Palmer: «Così è ora generalmente e giustamente riconosciuto che la cosmologia deve essere considerata come il prodotto della riflessione dello stesso Parmenide sull’origine e sul funzionamento del mondo».[13] E aggiunge: «La Via della Convinzione non è una spiegazione di tutto quello che c’è, che esiste, o che accade. È invece una spiegazione di quali caratteristiche deve avere l’ente necessario. […] È importante sia chiaro che, inoltre, l’esistenza di qualcosa che deve essere non pregiudica in nessun modo il fatto che ci siano altre entità che sono ma che non è necessario che siano. La cosmologia di Parmenide è il suo ampio resoconto della genesi e del comportamento delle più notevoli e importanti di queste altre entità».[14] Insomma, Parmenide, nella prima parte si occupa delle caratteristiche dell’ente necessario. Nella seconda parte si occupa di fornire una descrizione dell’ente contingente.[15]
Si comprende così la convinzione che la sua cosmologia sia la spiegazione più comprensiva e sistematica che egli è stato in grado di sviluppare e che quindi possa essere superiore alle altre spiegazioni concorrenti. Tuttavia il valore di questa conoscenza empirica andrebbe considerato come inferiore se comparato al valore della conoscenza dell’ente necessario, cioè l’ente che non è soggetto a cambiamento. La conoscenza degli oggetti che variano è soggetta anch’essa a variazioni e dunque per questo sarebbe, dal punto di vista della Dea, ingannevole. Si badi bene che la via della doxa non è la via del non essere, bensì la via che sostiene che è e non è contemporaneamente, cioè tutto quanto riguarda il movimento e il cambiamento.
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La fisica e la metafisica occidentali dunque non nascono sul terreno di un improbabile «essere» bensì sul terreno della riflessione intorno all’ente e su questo terreno continueranno a mantenersi per lungo tempo. I primi fisici hanno cercato di spiegare la natura sulla base di un ente unico capace di generare il tutto. Questo progetto ha avuto il suo culmine, e la sua crisi, in Eraclito, nel quale, al posto di un unico elemento generatore si poneva la trasformazione continua di ciascun elemento negli altri elementi.[16] Parmenide ha capito che la spiegazione degli enti poteva essere realizzata solo ricorrendo a un meccanismo del tutto analogo a quello della tecnologia della scrittura: ci sono entità invarianti, cioè enti necessari, che non possono non essere, che si combinano tra loro dando luogo a una varietà di fenomeni. Le entità invarianti si colgono con il ragionamento, mentre i fenomeni si colgono con i sensi.[17]
Parmenide dice chiaramente, anche se è sempre stato poco notato dai commentatori, che i due elementi della sua cosmologia (Luce e Notte - assimilate nella tradizione dossografica a fuoco e terra) sono sempre uguali a se stessi e si combinano tra loro. In un simile modello, la forza combinatrice deve essere esterna agli elementi combinati e, nel testo parmenideo, è assicurata dalla divinità che sta al centro del cosmo (il che è evidentemente un tratto pitagorico). Questa chiaramente è l’anticipazione di tutte le altre cosmologie incentrate intorno alla combinazione degli elementi, come quelle di Empedocle, di Anassagora, degli atomisti. Anche Empedocle e Anassagora hanno fatto ricorso a forze esterne (Amore e Odio, la Mente, ecc…) mentre gli atomisti hanno fatto ricorso – innovazione tremenda – al caso.[18]
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Ancora, secondo Kahn: «… l’inclusione nel poema di un simile esercizio su vasta scala di peri physeôs historia stabilisce un’innegabile continuità di Parmenide con la tradizione ionica. La sua visione radicalmente nuova è configurata non per rimpiazzare ma per rivalutare l’impresa naturalistica subordinandola alla sua più profonda visione della Verità e della Realtà [...]. Nello stesso tempo, fornendo alla fisica una fondazione esplicativa in base a elementi permanenti, Parmenide trasforma l’indagine ionica sulla natura in qualcosa che si avvicina alla forma di una teoria scientifica moderna, il modello per successive teorie riduzioniste come l’atomismo. Quindi di nuovo, il contributo di Parmenide alla fisica è un diretto risultato della sua metafisica».[19]
Parmenide, avendo identificato per primo esplicitamente la differenza tra l’ente necessario e l’ente contingente, dovrebbe dunque essere correttamente interpretato come il vero responsabile della separazione tra fisica e metafisica, il vero iniziatore del dualismo e che per secoli contraddistinguerà la filosofia occidentale. Del resto Platone, proprio nel Parmenide, ci fornisce una rappresentazione di Parmenide come di un raffinato disquisitore di questioni metafisiche.
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A posteriori, si può sostenere che la soluzione che sta emergendo nella ricerca anglosassone era proprio lì, sotto il naso. Bastava vederla. Perché, allora, a partire da Diels e Kranz[20] in poi, Parmenide è stato sistematicamente stravolto, fino ad accogliere e ufficializzare l’improbabile e incredibile teoria del monismo stretto? Il fatto è che nella storia della filosofia i presocratici e Parmenide sono stati anzitutto a lungo ignorati. Essi sono stati poi, di fatto, riscoperti da Hegel e sono stati tradotti e studiati nel clima romantico e, soprattutto, nel clima della «tirannia della Grecia sulla Germania», quell’incredibile perversione culturale per cui, per più di due secoli, gli occidentali, guidati in prima fila dai tedeschi, non hanno fatto altro che costruire una visione idealizzata e fasulla dei greci, nei quali potersi poi rispecchiare, come loro discendenti. Per accostarsi seriamente alla filosofia presocratica occorre allora preliminarmente fare piazza pulita dei travisamenti ideologici che sono stati prodotti dal modello di storiografia filosofica imperante nell’Ottocento e poi nel Novecento. I travisamenti sono evidentemente stati molto più sottili e profondi di quanto non si creda comunemente.
Questo gioco incredibile ha permesso ai filosofi tedeschi dell’Ottocento e del Novecento di costruire un’immagine del tutto idealizzata del mondo greco, una specie di paradiso in terra primigenio, fatto di organicità, equilibrio e bellezza, un paradiso ineguagliato e ineguagliabile, tanto che quel che è avvenuto successivamente nella storia della civiltà non poteva essere interpretato altro che nel senso della decadenza. Ha avuto così origine la ricerca affannosa delle origini della decadenza, delle origini dei mali della società e della cultura europee. La tentazione, com’è noto, è stata quella di spostare sempre più all’indietro quel paradiso primigenio e la sua caduta. Qualcuno ha anche sognato – e sogna tuttora – il ritorno all’unità originaria. Secondo Nietzsche la decadenza sarebbe avvenuta con Socrate e poi con il cristianesimo. Secondo l’ultimo Heidegger, ugualmente, solo Anassimandro, Eraclito e Parmenide sarebbero stati degli autentici pensatori (avrebbero proprio pensato l’essere per l’ultima volta, prima del cosiddetto nascondimento dell’essere). Tutto ciò richiedeva intanto un colossale autoinganno, ma richiedeva anche un uso ad hoc del tutto arbitrario della filologia e della storia. Richiedeva di piegare sistematicamente i testi all’ideologia culturale dominante. Richiedeva di svalutare comunque e sempre, preventivamente, la conoscenza empirica e le scienze della natura, insomma, continuare a isolare e confinare la cattiva strada indicata dal Poema di Parmenide.
 
5/11/2014
Giuseppe Rinaldi
 
 
 
OPERE CITATE
 
1999   Cerri, Giovanni   (a cura di)
Parmenide di Elea. Poema sulla natura, Rizzoli, Milano.
 
2006   Graham, Daniel W.
Explaining the Cosmos. The Ionian Tradition of Scientific Philosophy, Princeton University Press, Princeton N.J..
 
2009   Kahn, Charles H.
Essays on Being, Oxford University Press, Inc., New York.
 
2008   Mourelatos, Alexander P. D.
The Route of Parmenides. Revised and Expanded Edition, Parmenides Publishing, Las Vegas. [1970]
 
2009   Palmer, John
Parmenides and Presocratic Philosophy, Oxford University Press, Inc., New York.
 
1998   Popper, Karl R.
The World of Parmenides. Essay on the Presocratic Enlightement, Routledge, Londra.  Tr. it.: Il mondo di Parmenide. Alla scoperta della filosofia presocratica, Piemme, Casale Monferrato, 1998.
 
1945   Russell, Bertrand
History of Western Philosophy and its Connection With Political and Social Circumstances from the Earliest Times to the Present Day, Allen & Unwin, London.  Tr. it.: Storia della filosofia occidentale, TEA, Milano, 1983.
 
1992   Reale, Giovanni  &  Ruggiu, Luigi   (a cura di)
Poema sulla natura. I frammenti e le testimonianze indirette, Rusconi Libri, Milano.
 
 
 
NOTE
 
[1] Purtroppo ancora molti negano che la storia della filosofia sia un ramo della storiografia, sottoposto a rigorosi criteri filologici e scientifici, e ritengono che sia piuttosto un ramo della filosofia, attraverso il quale il pensiero si guarda allo specchio e ricostruisce filosoficamente la propria storia. Se qualcuno pensasse che solo un artista possa fare della storia dell’arte, questa sarebbe per lo meno considerata una teoria bizzarra; invece pare sia ancora considerata del tutto normale l’idea per cui solo i filosofi possano fare la storia della filosofia.
[2] L’articolo in questione è stato redatto da John Palmer, uno dei massimi esperti della materia.
[3] Che in realtà dovrebbe essere tradotto più esattamente come ente.
[4] Cfr. Russell 1945, pp. 66-70. Il breve articolo su Parmenide contenuto nella Storia della filosofia occidentale di Russell è all’origine di questo filone interpretativo, che è stato poi sviluppato da specialisti del settore.
[5] Cfr. Mourelatos 2008. La prima edizione è del 1970.
[6] Si veda in proposito lo straordinario Graham 2006.
[7] Cfr. Palmer 2009.
[8] Cfr. Kahn 2009: 207-208.  Ns. traduzione.
[9] Cfr. Palmer 2009: 160.
[10] Cfr. Palmer 2009: 161.
[11] Uno dei primi filosofi a riconoscere l’importanza degli aspetti scientifici dell’attività di Parmenide è stato Karl Popper. I suoi scritti su Parmenide sono raccolti in Popper 1998.
[12] Cfr. Kahn 2009: 209. Ns. traduzione.
[13] Cfr. Palmer 2009: 162.
[14] Cfr. Palmer 2009: 163.
[15] Questa interpretazione di Palmer è nota come interpretazione modale dell’ente parmenideo.
[16] Questa trasformazione tra elementi è stata interpretata dagli storici della filosofia d’impianto idealistico come una negazione del principio di non contraddizione da parte di Eraclito e come una sua adesione a una logica dialettica.  Si tratta di una vera e propria idiozia che continua a essere stampata sui nostri manuali scolastici e divulgata nelle aule.
[17] Questo brevissimo excursus riprende alcune delle tesi contenute nel lavoro di Graham (Graham 2006).
[18] Il percorso di Platone, del resto anch’esso di origine pitagorica, è più noto: gli elementi di base sono le forme le quali tuttavia sono entità elementari qualitative che vengono comunque collocate in uno spazio iperuranico. La rinuncia alla prospettiva combinatoria creerà in seguito gravi problemi concettuali.
[19] Cfr. Kahn 2009: 209-2010.
[20] Sono i curatori della classica opera contenenti i frammenti dei filosofi presocratici. La prima edizione curata da Diels risale al 1903.