sabato 25 ottobre 2014

La discesa di Giacomo all’Inferno

vulcano
Il giovane favoloso di Mario Martone è un film destinato a ripresentare, forse per l’ennesima volta, la vexata quaestio del rapporto tra cinema e storia. Il film, in effetti, propone un’ampia biografia di Giacomo Leopardi, uno dei personaggi più rappresentativi della nostra tradizione culturale. In casi come questo, la prima domanda che viene spontanea, riguarda l’aderenza di quanto rappresentato sullo schermo alla verità storica, com’è stata accertata dagli storici e dagli storici della letteratura in particolare. Ebbene, pare che il verdetto degli storici sia abbastanza unanime: chi ben conosce la biografia e la bibliografia leopardiana tende a condannare il film di Martone,[1] additandone svariate carenze, come la trattazione superficiale di certi aspetti, dimenticanze inspiegabili, stravolgimenti, cadute verso la spettacolarizzazione e la semplificazione, il tutto fino a fare di Leopardi un personaggio pop, magari simpatico al grande pubblico ma lontano dal vero. Notiamo, en passant, che forse è proprio per alcuni di questi supposti difetti che il film sta avendo un certo successo e sta per lo meno suscitando qualche discussione, contribuendo così a riesumare un personaggio che è noto a tutti ma che quasi nessuno può asserire di conoscere davvero.
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Una volta definito che il Leopardi di Martone non è (e forse non poteva proprio essere) compiutamente il Leopardi degli storici, anziché avanzare una pregiudiziale stroncatura, si tratta di rammentare che il cinema in generale non ha e non deve avere alcuna ambizione di sostituire la storiografia. Non deve cioè porsi l’obiettivo di risparmiare, a un pubblico pigro e velleitario, l’onere di leggere direttamente le opere, di conoscere la saggistica e le principali interpretazioni avanzate dagli studiosi, compresi i punti più oscuri e controversi. Il cinema è essenzialmente fiction e in questo ambito va valutato, anche quando l’opera si ispira a fatti storici. Chi poi conosceva appena un po’ il cinema di Mario Martone non poteva certo aspettarsi un’operazione filologica, magari mossa da interessi di ricostruzione storica, una specie di mega documentario d’autore, o un film d’inchiesta che avrebbe dovuto rivelarci finalmente «tutto quello che avreste sempre voluto sapere ma non avete mai osato chiedere». Insomma, non ci si poteva attendere alcuna nuova rivelazione o restituzione intorno al «vero» Leopardi. Coloro che sono andati a vedere il film con queste intenzioni non potevano che rimanere delusi, come pure rimarranno delusi tutti quegli studenti (con professori annessi) che andranno a vedere questo film convinti che esso possa rappresentare una giocosa scorciatoia allo studio letterario.
A torto o a ragione, Martone si considera un «autore» nel senso proprio della parola e i suoi film portano continuamente le tracce di questa convinzione, per cui il minimo che si può fare, di fronte a un film come questo, è di cercare di capire quale sia stato il taglio interpretativo, quale sia, sempre che ci sia, il messaggio dell’autore. Non intendo certo che debba trattarsi di un messaggio esplicito, poiché non è necessario che i film siano dei comizi o delle opere ideologiche; si tratta di cercare tuttavia di intendere nel miglior modo quale sia il messaggio veicolato dal testo. È bene oltretutto non dimenticare che Martone viene dal teatro (si pensi all’interessantissimo Teatro di guerra), per cui il suo film andrebbe dunque considerato come una lettura teatrale della biografia leopardiana, con tutti i rischi, i pregi e i difetti che un’operazione del genere può comportare.
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All’operazione di Martone si può comunque attribuire a priori un merito. Questo consiste proprio nel fatto di avere sottratto il Leopardi all’ambito specialistico del linguaggio storico letterario (e a quella caricatura che spesso ne è fatta nei manuali scolastici) e nell’averlo proiettato in una dimensione linguistica certamente insolita come quella della scena. L’effetto è di creare una specie di corto circuito tra l’immaginazione dello spettatore e l’immagine filmica, tra il Leopardi che ciascuno di noi ha costruito in proprio, attraverso la propria personale frequentazione e l’immagine elaborata dal regista. Si tratta insomma dell’esperimento temerario dell’incarnazione di un’idea che di suo vive nel mondo delle elaborazioni intellettuali e che, nel film, è precipitata nel mondo sensibile. Si tratta di un esperimento che può avere esiti straordinari, ma certamente anche esiti discutibili e controversi. Ad esempio, per citare un risultato a nostro parere positivo, la straordinaria immagine fisica che il bravo Elio Germano ha prestato a Leopardi, non solo negli sguardi e negli atteggiamenti, ma anche nelle terribili contorsioni del fisico sempre più malato, è senz’altro qualcosa che è destinato a rimanere nel nostro immaginario collettivo e, sicuramente, a interagire con quel che sapevamo di Leopardi stesso e magari a completarlo.
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Sul piano della scansione temporale, il film ha un andamento cronologico tipicamente biografico. Martone tuttavia ha fatto la scelta di concentrarsi su tre momenti principali della vita di Leopardi, quasi come se fossero tre atti scenici: la vita a Recanati, il soggiorno a Firenze e il soggiorno napoletano, qualcosa come il mattino, il pomeriggio e la sera. I tre quadri sono, infatti, vividamente caratterizzati dal tono della luce. È calda e splendente quella di Recanati, dove il giovane di belle speranze ha modo di immergersi nella natura circostante e di produrre la sua formazione culturale nella biblioteca paterna. Assai più contrastato di luci e di ombre è il panorama fiorentino, dove i libri e il paesaggio lasciano il posto agli studi e ai salotti, alle strade e all’ambiente cittadino, i luoghi dove si intrecciano le relazioni umane, quanto mai problematiche, del giovane ormai in fuga. È invece fredda e livida la luce di Napoli, città che è dipinta come un mondo straniero, affascinante ma minaccioso, una specie di prigione del corpo e dello spirito, resa angosciante dal colera e da una tetra eruzione vesuviana. Una biografia dunque che, anche nella disposizione della materia, si prospetta come una sorta di progressiva discesa nelle tenebre, parallela al progredire dell’isolamento, della miseria materiale e del degrado fisico del poeta.
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Il quadro riguardante il soggiorno a Recanati può essere concepito come una sorta di romanzo di formazione nel quale l’eroe costruisce la propria sensibilità interiore grazie all’immersione nella natura e al suo isolamento e costruisce una sua solidissima e multiforme preparazione, grazie allo straordinario capitale culturale della casa paterna. Il giovane è rappresentato come il precipitato migliore di tutta la cultura classica e di tutta l’eredità storica della cultura italica. Memorabile l’episodio in cui il precettore gesuita legge Omero in greco e il giovane Giacomo traduce mettendo in versi all’istante. Certo, l’ambiente familiare è conservatore, ha l’aspetto scostante dell’istituto gesuitico, la libertà personale è ridotta al minimo, ma il regista, grazie anche al fascino dei luoghi perfettamente conservati, non può che indugiare sulla ricchissima offerta formativa di casa Leopardi, che ha potuto così forgiare l’intelletto del giovane favoloso. Non può che insistere sui suoi pezzi di bravura.
Giacomo si fa così ben presto conoscere nel mondo letterario e ha modo di stringere relazioni epistolari e di persona con i migliori intelletti del tempo. Nel film è dato ampio spazio alla relazione appassionata e tormentata intercorsa con Pietro Giordani. Nella luce di Recanati si costruisce il rapporto con la natura, affascinante e misteriosa ma si sviluppa anche la presa di coscienza dei limiti fisici del corpo. Giacomo è anche un attento osservatore della vita sociale intorno a lui, della vita quotidiana dei contadini, del duro destino loro imposto dalla sventura, come nel caso della morte della giovane figlia del carrettiere. Giacomo matura però progressivamente la sensazione che la sua gabbia dorata sia in realtà una prigione e così la formazione dell’eroe culmina con il progetto di fuga, con la volontà di aprirsi al resto del mondo, cioè all’Italia del suo tempo. La sua sembra, più che altro, una domanda di verifica di quel che egli stesso è intanto diventato. Come in Platone, il prigioniero si appresta a uscire dalla caverna.
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Il soggiorno a Firenze (e Pisa) e il soggiorno napoletano sono invece rappresentati come altrettanti momenti di una sorta di via crucis, in cui il giovane favoloso prende via via coscienza dei propri limiti fisici, ma anche della sua estraneità nei confronti della società del tempo, dell’ottusità dell’ambiente circostante, dell’impossibilità di intrecciare un rapporto autentico, con le donne in primo luogo, ma anche con la società letteraria del suo tempo, fatta di personalismi, rancori, pettegolezzi. Giacomo cerca di integrarsi con tutte le sue forze, ma è respinto, anche a causa dei suoi problemi fisici, delle spigolosità del suo carattere e delle sue difficoltà a intrattenere relazioni interpersonali. Il fatto di essersi formato in un luogo fuori dal mondo come la biblioteca di Recanati fa evidentemente di Giacomo un essere proveniente da un altro mondo, un disadattato, un estraneo. Il film mostra l’Accademia della Crusca che boccia le Operette Morali e mostra le vicende della passione per Fanny che si conclude con una amara frustrazione. Ciononostante Giacomo persevera nella sua scelta di restare lontano da Recanati e di condurre una sorta di vita bohémienne, circondato da un gruppo sempre più ristretto di amici, tra cui gli esponenti di una compagnia teatrale che si sposta continuamente per i suoi spettacoli, un sodalizio che alla fine si ridurrà al solo Antonio Ranieri.
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Leopardi e Ranieri si spostano infine a Napoli, con la motivazione della ricerca di un clima salubre. Nonostante in una drammatica conversazione con alcuni intellettuali napoletani Giacomo li inviti aspramente a considerare il suo lavoro per quel che è, e non in relazione ai suoi problemi fisici e psicologici, il film sembra ora avvitarsi proprio in questa dimensione. Mentre nella prima parte sono frequenti le letture poetiche e le citazioni, viene cioè mostrato l’intelletto di Giacomo all’opera, nella ultima parte tutto ciò passa in secondo piano e si mostra soprattutto il progredire del suo isolamento e della sua miseria umana. Il film si concentra progressivamente sugli aspetti esteriori del Giacomo bohémien e perde alquanto di vista la sua vita intellettuale, forse perché ora, immerso nella parte più arretrata dell’Italia, è diventata sempre più inattuale, inutile e financo impossibile. La vita napoletana di Giacomo sembra aver messo da parte i grandi progetti letterari ed è piuttosto immersa in una serie di beghe miserande, come quella relativa all’alloggio, e si svolge in mezzo al popolo o tra le osterie di Napoli, alla ricerca di qualche distrazione o di qualche consolazione, come i dolci e i gelati. È ancora circondato dall’affetto di un piccolo gruppo di persone, che tuttavia poco o nulla hanno a che fare con l’intelletto del poeta. La stessa relazione, ambigua e paradossale, con il Ranieri non è chiaro quali fondamenti avesse, e il film non fornisce alcuna ipotesi o chiarimento. I due non si vedono mai discutere di cultura, di letteratura o di alcunché.
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La discesa verso Napoli di un Giacomo sempre più indisposto e sempre meno in grado di scrivere, è rappresentata da Martone – regista napoletano per eccellenza - come un passaggio dalla luce alle tenebre, in una condizione di povertà materiale, circondato da uno stuolo di popolani e lazzaroni. La scena della discesa nel bordello, dai toni quasi felliniani, l’eruzione del Vesuvio, la minaccia dilagante del colera, l’assenza di medici dotati di qualche competenza, le processioni religiose intrise di superstizione, le ottusità amministrative borboniche non fanno altro che evidenziare la presenza di una sorta di oscura Italia, un’Italia dell’altro mondo, completamente contrapposta alla luce di Recanati, all’equilibrio del mondo classico. Gli spiriti dei Lumi, estrema difesa dell’intelletto contro una natura ostile e maligna, contro la stupidità e la volgarità, sono ormai decisamente lontani. La ginestra, travolta dalle lave del vulcano, che è evocata nella chiusura del film, non ha il senso della lucida e disincantata affermazione della ragione nei confronti della natura e della storia, ma quello della sconfitta della fuga personale di Giacomo verso il mondo.
 
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Giacomo è presentato da Martone come un rivoluzionario romantico sconfitto, che paga fino in fondo il prezzo della propria rivolta personale, né più né meno com’erano stati presentati i personaggi messi in scena in Noi credevamo, il film precedente di Martone, ambientato anch’esso nell’Italia ottocentesca. Anche in quel caso si trattava di personaggi appassionati, non di rado uomini colti, presi dall’ansia di cambiare il mondo, protesi a compiere imprese straordinarie, fino al punto da mettere in gioco sprezzantemente la propria vita. Anche in quel caso tuttavia emergevano prima o poi le debolezze, le infedeltà, i tradimenti, l’ingenuità e la stupidità, una mistura devastante che invece di permettere ai protagonisti di fare la storia produceva la loro rovina. Se Noi credevamo era, passo a passo, la storia sofferta del fallimento di una rivoluzione politica, ora Il giovane favoloso ci appare immediatamente come la storia, altrettanto sofferta e drammatica, del fallimento di una rivoluzione personale. Si tratta pur sempre in entrambi i casi di un fallimento che avviene sullo sfondo di un’Italia in subbuglio che non ha tuttavia alcun progetto, che non ha alcuna consapevolezza collettiva, che vive di sogni generosi, velleitari e illusori, spaccata tra il vecchio e il nuovo, divisa dalle vecchie e nuove barriere di classe, che non riesce a distinguere il bene dal male, che divora i suoi figli migliori.
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Avevamo bisogno di un ennesimo film sulla sconfitta di una rivoluzione? Forse sì, a patto che se ne colgano le implicazioni politiche. Ci è capitato di sostenere che questo film abbia una qualche valenza politica, non volendo con ciò ovviamente sostenere che il Leopardi s’interessasse di politica. Si tratta, in effetti, di una valenza politica alquanto affine a quella di Noi credevamo.
Si ricorderà che quel film era uscito nel contesto delle celebrazioni per il Centocinquantenario dell’Unificazione. In quell’occasione storici, politici ed opinionisti si erano domandati molto seriamente se gli innumerevoli e gravissimi problemi dell’Italia odierna non avessero qualche radice proprio nei limiti di quel processo di unificazione. Il film di Martone era stato un momento interessante di quel dibattito e aveva avuto il grande merito di produrre un’analisi disincantata e spietata dei limiti delle motivazioni personali che avevano spinto i patrioti all’azione. Veniva contrapposto lo slancio generoso, in vero più passionale che razionale, al sopravvenire delle piccinerie personali, della stupidità e degli opportunismi.
Ne Il giovane favoloso viene compiuta una analisi analoga, riguardante, questa volta, non il mondo della politica in senso stretto ma il mondo della cultura del nostro paese. Nel contrasto, assolutamente evidente nel film, tra la biblioteca di Recanati e il bordello di Napoli, si può leggere la deriva di un Paese in cui la cultura sembra non essere in grado di produrre alcun progresso, alcuna trasformazione sociale. Se nel nostro passato abbiamo avuto dei giovani favolosi sconfitti come Giacomo e se ancor oggi ci ritroviamo circondati e sommersi da gente impresentabile, vorrà ben dire qualcosa. Il giovane favoloso non è stato riconosciuto da alcuno[2] e forse è ancora in attesa di un Paese che sia degno di lui. Forse c’è qualcosa che non ha funzionato. Forse ha davvero qualche senso tornare indietro, per scavare nella nostra storia politica e culturale, per cercare di capire dove, quando e perché, a un certo punto, siamo usciti di strada.
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Il film tuttavia si limita a suscitare tutte queste domande. Le risposte restano in sospeso (ed è bene che sia così). Sta allo spettatore produrre le sue elaborazioni dopo aver visto il film. La vicenda umana di Leopardi è, in effetti, piuttosto paradossale e non è facile collocarla nella storia d’Italia di allora e di oggi. La biblioteca di Monaldo, in una provincia periferica dello Stato più reazionario dell’epoca, può essere considerata come la massima espressione dei Lumi, come la miracolosa sopravvivenza di un capitale culturale vecchio di secoli, come un patrimonio straordinario capace di essere una solida premessa per qualsiasi ulteriore sviluppo, umano, culturale o sociale.[3] Oppure, assai più probabilmente, può essere considerata come il frutto di una colossale illusione, il frutto di una velleità tutta provinciale di voler imitare a tutti i costi ciò che non si riuscirà mai a diventare. La velleità di scimmiottare le grandi metropoli. Dunque si trattava di sostanza o illusione?
Il giovane favoloso non poteva sospettare che la biblioteca paterna, in un’Italia come quella, potesse essere di fatto un’illusione colossale, un corpo estraneo. Forse è stato davvero l’unico a prenderla alla lettera e così, nella sua formazione, ha costruito se stesso a immagine e somiglianza di qualcosa che era profondamente inattuale. La biblioteca ha funzionato tuttavia effettivamente e ha dato luogo alla produzione di un magnifico intelletto. Quando però Giacomo cerca di vivere, di mettere in pratica, di esistere in conseguenza di tutto quel che aveva imparato, egli scopre il doloroso inganno, ma non può più tornare indietro. Giacomo è ormai condannato a essere Leopardi. Di qui il suo successivo girovagare per un’Italia arretrata e immatura alla ricerca di una patria che non troverà mai, che non poteva trovare, perché non c’era. Allora Giacomo diventa uno sradicato, un bohémien, prefigurazione d’innumerevoli altri intellettuali sradicati che lo seguiranno nella storia di un Paese come il nostro, alcuni dei quali distruggeranno se stessi in rivoluzioni politiche fallimentari. Non è stata soltanto la natura impersonata dallo «sterminator Vesevo» a stroncare il Leopardi, essa ha avuto senz’altro un valido aiuto da parte dell’arretratezza di un Paese intero.
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Dimenticavamo. Cinematograficamente, il film è senz’altro pregevole. Intanto per la bravura degli attori, per la cura delle immagini, per la felice sovrapposizione delle immagini e della recitazione dei versi del poeta, per la scelta della ricostruzione del linguaggio parlato all’epoca, oltre che per il rigore nella ricostruzione dei costumi. Il film segue ovviamente un filone principale di realismo narrativo, ma non troppo seriamente, poiché qua e là compaiono varie intrusioni simboliche (di tipo onirico ma non solo, si veda la statua di sabbia che compare a un certo punto) e sorprendenti effetti di straniamento, come la canzonetta moderna in inglese che, a un certo punto, fa irruzione nel contesto ottocentesco della vicenda. Più o meno come i piloni di cemento armato che, a un certo punto, comparivano in Noi credevamo. Sarebbe come dire al pubblico odierno: de te fabula narratur.
 
24/10/2014
 
Giuseppe Rinaldi
 
 
 
 
 
NOTE
[1] Da una comunicazione di Elio Gioanola al Circolo del Cinema “Adelio Ferrero” di Alessandria, in data 16-10-2014.
[2] Non si è trattato solo di un mancato riconoscimento in senso morale. Com’è noto, dopo la morte del Leopardi a Napoli le sue spoglie hanno rischiato seriamente di finire nella fossa comune.
[3] Le storie dicono che la biblioteca fosse stata messa insieme da Monaldo senza un progetto preciso, comprando libri d’occasione presso rigattieri. Insomma, una biblioteca fatta con libri usati. Lo stesso Monaldo pare fosse un mediocre intellettuale. L’unico a prender sul serio la Biblioteca pare sia stato proprio il giovane Giacomo.