lunedì 17 novembre 2014

Il viaggio di Parmenide alla Dimora della Notte (parte 1/2)

Selene
Il poema Sulla natura di Parmenide inizia con un proemio ove il filosofo immagina di compiere un viaggio su un carro, trainato da cavalle e scortato dalle Eliadi, le figlie di Helios, fino alla dimora di una divinità non ben precisata. Nel proemio è descritto il viaggio e l’incontro con la divinità, la quale poi comincia a istruire Parmenide. Il seguito dell’opera è costituito dagli insegnamenti della divinità stessa la quale affronta una serie di complesse questioni filosofiche. Il poema è stato scritto secondo le regole formali dell’epica e ciò probabilmente aveva la funzione di facilitarne la memorizzazione e la recitazione.[1] Il primo frammento rimasto dell’opera è costituito appunto dal proemio. Si tratta senz’altro di uno dei testi più controversi della storia della filosofia. In esso compaiono infatti eventi, luoghi e personaggi di non immediata comprensione e che hanno suscitato interpretazioni molto diverse.
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I problemi di traduzione costituiscono senz’altro una remora per l’intelligibilità del proemio e dell’opera di Parmenide nel suo complesso. Alcune traduzioni hanno tentato di riprodurre il verso epico, utilizzando peraltro spesso termini desueti e di scarsa pregnanza filosofica. Altre hanno tentato talvolta di aderire alla lettera alla terminologia originaria, perdendo comunque sempre in intelligibilità complessiva. Altre si sono fatte guidare da discutibili interpretazioni globali della filosofia di Parmenide, da una sua presunta collocazione entro il disegno dello sviluppo della filosofia occidentale, con il risultato di non far altro che confermare i pregiudizi più diffusi nell’ambito accademico. A tutto ciò va aggiunto che ci sono anche diverse varianti di lettura degli originali, nei punti in cui risultano corrotti o controversi.
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Tornando al proemio, occorre tenere conto del fatto che gli ascoltatori di Parmenide (opere del genere venivano lette ad alta voce in pubblico) non dovevano avere probabilmente alcuna difficoltà a identificare i luoghi e personaggi citati; probabilmente si trattava di riferimenti legati alla cultura comune diffusa. Si tratta tuttavia di riferimenti che oggi sono andati perduti e che, al più, si può cercare di ricostruire faticosamente. Un ulteriore problema è costituito dal fatto che, nel corso della storia della filosofia, è stato più volte suggerito che il proemio dovesse avere una interpretazione allegorica e sono stati compiuti molti sforzi, spesso assai ingegnosi e fantasiosi, in questa direzione. Oggi però generalmente gli studiosi ritengono che l’interpretazione allegorica non abbia granché fondamento.[2] Nonostante la situazione di grande incertezza, secondo Palmer, uno dei più accreditati studiosi odierni di Parmenide, sembra tuttavia si sia ormai raggiunto un certo grado di accordo circa l’identificazione dei tempi, dei luoghi e dei personaggi del proemio.
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Nel proemio si dice esplicitamente che le vergini figlie del Sole, che accompagnano Parmenide nel suo viaggio, abbiano appena lasciato un luogo ben preciso e cioè la dimora della Notte. Secondo Palmer, si tratta della dimora della Dea della Notte (Núx) di cui si parla nella Teogonia di Esiodo. Questa dimora è descritta come un luogo terribile che si trova nell’abisso del Tartaro, cioè nel mondo sotterraneo. Essa è abitata, alternativamente, dalle due divinità della Notte e del Giorno (Núx e Hēmérē) che si alternano secondo il ciclo giornaliero. Verosimilmente, le figlie del Sole che indicano la strada al filosofo viaggiatore stanno dunque compiendo il percorso ciclico che va dal mattino verso la sera, per tornare nuovamente alla dimora della Notte. Spiega Palmer: «Come si apre il proemio, […] esse sono rappresentate mentre stanno conducendo Parmenide indietro verso la dimora della Notte. Così la traiettoria descritta va dalla luce verso il regno dell’oscurità, la traiettoria di una katabasis o di una discesa nell’oltretomba».[3] Ogni greco educato con Esiodo avrebbe ben saputo riconoscere gli elementi della descrizione del viaggio di Parmenide. Il trionfo di Zeus sui Titani nella Teogonia si conclude con il loro imprigionamento nel Tartaro, il mondo sotterraneo, che è descritto come circondato da un recinto con porte di bronzo costruite da Poseidone, assai simili alle porte descritte nel proemio di Parmenide. Proprio nel Tartaro sono collocati diversi luoghi e diverse divinità che sono citati nel proemio. Va ricordato anche che nel Tartaro confluivano le anime dei morti per comparire di fronte alla Giustizia.
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Le guide accompagnatrici di Parmenide sono le Eliadi (Hēliádes koûrai), vergini figlie di Helios, di stirpe divina e quindi immortali. In Omero, esse pascolano le mandrie, di pecore e di bestiame, anch’esse immortali, di proprietà del loro padre. Sono le sorelle di Fetonte, celebre per avere tentato di guidare il carro del padre, per avere così causato un disastro cosmico e per essere così stato fulminato da Zeus. Le Eliadi, piangenti sul corpo del fratello, secondo il mito, sarebbero state trasformate in pioppi.
Tutti questi riferimenti implicano che le cavalle e il carro che trasportano Parmenide appartengano in qualche modo a Helios o siano comunque a lui connesse. È dunque importante sottolineare il carattere cosmico e astronomico di tutti questi luoghi e personaggi. Aggiunge Palmer: «Helios stesso deve essere la “divinità” di cui si parla al fr. 1.3 e la “strada vociferata” così descritta deve essere il corso che Helios percorre ogni giorno nel cielo».[4] La dea che manovra il chiavistello della porta non può essere che Díkē, la Dea della giustizia che è garante dell’ordine cosmico e della successione regolare del giorno e della notte.
Nell’interpretazione dei contenuti del Proemio, occorre anche tenere presente che il mondo sotterraneo era considerato come il mondo dei morti. Quando la Dea si rivolge a Parmenide per la prima volta, lo invita a rallegrarsi e gli fa presente che il suo viaggio fin lì non è stato determinato da una brutta sorte, cioè dalla morte, come accade, appunto, agli uomini comuni. Insomma, Parmenide si trova a percorrere la strada dei morti pur non essendo ancora morto, e ciò per volere della legge (Thémis) e della giustizia (Díkē).
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Chi è davvero, allora, la divinità che intrattiene Parmenide? Sono state ovviamente avanzate innumerevoli interpretazioni. Seguendo un’ipotesi già prospettata da Walter Burkert, secondo Palmer: «…l’interpretazione più plausibile e facilmente confermabile è che la dea sia la stessa Núx o Notte. La prima ragione per sostenere questa identificazione è semplice e immediata e si può trovare nello stesso testo del proemio. Le figlie di Helios, seguendo il ciclo cosmico, portano Parmenide esattamente alla dimora della Notte (dōmata Nuktòs) dalla quale provengono, e la Dea che lo saluta al suo arrivo gli dà il benvenuto nella “sua casa”».[5] Secondariamente, nella cosmologia di Parmenide, nella seconda parte del Poema, compaiono come principi fondamentali proprio Luce e Notte (interpretati dalla tradizione come fuoco e terra). Naturalmente sono state proposte molte altre interpretazioni, più o meno fondate.[6] La forza nell’interpretazione di Palmer sta nel fatto che gli indizi si trovano nel testo stesso di Parmenide.
L’identificazione dei luoghi e delle figure del proemio corrisponde comunque a un materiale mitologico che era molto diffuso in un’area amplissima e che aveva come centro la spiegazione dei cicli cosmici e del contrasto tra il mondo supero e il mondo sotterraneo. È assai probabile che siano presenti anche elementi legati alla cultura pitagorica. Sono stati anche rilevati elementi legati alla cultura religiosa locale di Elea.[7]
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Gli ultimi versi (28-32) del frammento sono i più rilevanti dal punto di vista strettamente filosofico poiché contengono una sorta di anticipazione programmatica dell’intero contenuto della rivelazione della dea, il quale costituisce poi la filosofia dello stesso Parmenide. Essi introducono, tra l’altro la coppia, concettuale dóxa e alētheía, la cui specifica interpretazione è assai legata all’interpretazione più generale della filosofia di Parmenide. La vulgata tradizionale, secondo la quale egli sarebbe stato sostenitore di un monismo stretto, non poteva che caricare esclusivamente la alētheía di tutti i valori ontologici ed epistemologici, e, come conseguenza, doveva svalutare completamente la dóxa, doveva cioè assimilarla a pura illusione. Il sopravvenire di nuove e diverse interpretazioni, in termini di monismo debole (generous monism, come dice Palmer), ha indubbiamente riacceso la questione dei rapporti tra le due parti del Poema e ha finito per conferire maggiore importanza alla dóxa, la quale viene ora considerata come riferentesi al mondo fenomenico, in perfetta continuità con la tradizione della scienza ionica.
Il problema teorico più consistente sta nella definizione della traduzione più opportuna per il termine alētheía. Sono qui in gioco due accentuazioni di significato. In senso principalmente gnoseologico, sarebbe la verità, mentre in termini ontologici sarebbe la realtà. Posto che il filosofo non avesse ancora distinto adeguatamente i due punti di vista, si potrebbe pensare a qualcosa come la «realtà autentica». Parmenide sarebbe stato il primo filosofo a rendersi conto dell’esigenza di distinguere tra una realtà autentica, accessibile con l’argomentazione razionale (come mostra di saper fare la Dea), e una realtà fenomenica che è quella che emerge nelle percezioni e nelle rappresentazioni degli uomini.
Ciò che non è ancora del tutto chiaro è in quale rapporto venissero a trovarsi queste due forme di realtà e di conoscenza che comunque – pare ormai di capire – erano da Parmenide considerate come entrambe esistenti e valide, seppure l’una gerarchicamente subordinata all’altra. Palmer parla di una co-presenza, nella visione parmenidea, tra l’ente com’è conosciuto discorsivamente in termini di realtà autentica e l’ente fenomenico, come è conosciuto attraverso i sensi.[8] Se questo è vero, Parmenide non potrebbe proprio essere considerato come l’ultimo profeta di un essere[9] unitario, prima della decadenza del pensiero occidentale, ma sarebbe proprio colui che ha riconosciuto per primo che «l’essere si dice in molti modi»[10] determinando così la possibilità di una ontologia di tipo pluralistico. Il pluralismo ontologico, che è stato ingenerosamente imputato a Socrate, a Platone e a tutti i loro successori, da filosofi come Nietzsche ed Heidegger e da tutti i loro imitatori, dovrebbe essere, in primo luogo, imputato a Parmenide.
 
17/11/2014
            Giuseppe Rinaldi
 
 
 
OPERE CITATE
 
1986   Capizzi, Antonio
Introduzione a Parmenide, Laterza, Bari.
 
1999   Cerri, Giovanni   (a cura di)
Parmenide di Elea. Poema sulla natura, Rizzoli, Milano.
 
2009   Coxon, A. H.
The Fragments of Parmenides. A Critical Text with Introduction and Translation, the Ancient Testimonia and a Commentary, Parmenides Publishing, Las Vegas. [1986]
 
2006   Graham, Daniel W.
Explaining the Cosmos. The Ionian Tradition of Scientific Philosophy, Princeton University Press, Princeton N.J..
 
2009   Kahn, Charles H.
Essays on Being, Oxford University Press, Inc., New York.
 
1999   Kingsley, Peter
In the Dark Places of Wisdom, The Golden Sufi Center.  Tr. it.: Nei luoghi oscuri della saggezza, Marco Tropea Editore, Milano, 2001.
 
2008   Mourelatos, Alexander P. D.
The Route of Parmenides. Revised and Expanded Edition, Parmenides Publishing, Las Vegas. [1970]
 
2009   Palmer, John
Parmenides and Presocratic Philosophy, Oxford University Press, Inc., New York.
 
1998   Popper, Karl R.
The World of Parmenides. Essay on the Presocratic Enlightement, Routledge, Londra.  Tr. it.: Il mondo di Parmenide. Alla scoperta della filosofia presocratica, Piemme, Casale Monferrato, 1998.
 
1945   Russell, Bertrand
History of Western Philosophy and its Connection With Political and Social Circumstances from the Earliest Times to the Present Day, Allen & Unwin, London.  Tr. it.: Storia della filosofia occidentale, TEA, Milano, 1983.
 
1991   Reale, Giovanni  &  Ruggiu, Luigi   (a cura di)
Poema sulla natura. I frammenti e le testimonianze indirette, Rusconi Libri, Milano.
 
1965   Tarán, Leonardo
Parmenides. A Text with Translation, Commentary and Critical Essays, Princeton University Press, Princeton.
 
 


NOTE


 
[1] La dea, tra le altre cose, ingiunge a Parmenide di ricordare e riferire quanto rivelato.
[2] Cfr. su questo punto Palmer 2009: 52-53.
[3] Cfr. Palmer 2009: 53. La discesa nell’oltretomba è un motivo conduttore assai diffuso e ha indubbiamente legami particolari con la cultura pitagorica che pare non fosse estranea a Parmenide e alla città di Elea.
[4] Cfr. Palmer 2009: 56.
[5] Cfr. Palmer 2009: 58.
[6] Secondo Cerri, si tratterebbe di Persefone. Anche Kingsley – uno studioso non accademico le cui teorie sono considerate piuttosto discutibili dalla comunità scientifica – ha sviluppato una complessa teoria che è incentrata intorno a Persefone.
[7] Capizzi 1986 ha tentato una reinterpretazione del contenuto del Poema a partire dalla situazione politico sociale di Elea e dalla topografia dei luoghi. Pur avendo messo in luce aspetti assai interessanti, la sua interpretazione in certi punti risulta piuttosto artificiosa e poco fondata. Si tratta di una interpretazione che ha avuto una accoglienza piuttosto fredda da parte degli studiosi. Un’altra interpretazione analoga, incentrata soprattutto sugli aspetti magico religiosi e pitagorici, è quella di Kingsley 1999, anch’essa non bene accolta dalla comunità degli studiosi.
[8] Cfr. Palmer 2009: 180 e segg..
[9] Parmenide, oltretutto, non parla quasi mai di «essere», bensì di «ente». Si tratta di una differenza non piccola che è stata sistematicamente ignorata dagli acrobatici traduttori nostrani, ansiosi di far collimare il loro filosofo con le metafisiche ottocentesche di cui erano assidui fautori. Anche i traduttori francesi hanno cominciato a rendersi conto che Parmenide non si è mai occupato dell’être, bensì dell’ente, per cui hanno cominciato a introdurre, nelle traduzioni, il loro desueto participio presente che suona come étant. Gli inglesi non hanno mai avuto problemi, perché being è esattamente un participio presente che funziona a perfezione (e che noi traduciamo sistematicamente in modo errato, come «essere» anziché come «essente» o «ente»).
[10] Questa espressione è tipicamente aristotelica.