domenica 29 giugno 2014

Uomini di troppo

 
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Nella sua seconda conferenza giapponese del 1966[1] Sartre ha affrontato la questione della funzione degli intellettuali. Anche in questo caso, il termine di paragone è lo specialista del sapere pratico. «Abbiamo definito l’intellettuale nella sua esistenza. Ora bisogna parlare della sua funzione. Ma ne ha una? È chiaro, in effetti, che nessuno gli ha dato l’incarico di esercitarla. […] Diciamo che egli si caratterizza come colui che non è stato incaricato da nessuno, il cui statuto non gli è stato conferito da alcuna autorità. È, in quanto tale, non il prodotto di qualche decisione – come sono i medici, i professori, ecc., in quanto agenti del potere - ma il mostruoso prodotto di società mostruose».[2] L’intellettuale non è dunque uno specialista del sapere pratico che abbia una qualche funzione definita nell’ambito della società ma è il risultato di una scelta, una sorta di impegno personale che costituisce una auto investitura.
Anche l’utilità sociale dell’intellettuale è completamente diversa da quella dello specialista del sapere pratico. «Nessuno lo reclama, nessuno lo riconosce […]; si può essere sensibili a quel che dice ma non alla sua esistenza: di una prescrizione dietetica e della sua spiegazione, si dirà con una sorta di fatuità: «È il mio medico che me lo ha detto», mentre se un’argomentazione dell’intellettuale ha fatto centro e se la gente la riprende, sarà presentata in sé senza rapporto con la prima persona che l’ha formulata. Sarà un ragionamento anonimo, presentato fin dall’inizio come ragionamento di tutti. L’intellettuale è soppresso dal modo stesso con cui si fa uso dei suoi prodotti».[3] Le argomentazioni degli intellettuali non sono dunque equiparabili a prestazioni professionali. Assomigliano piuttosto a idee che si diffondono presso l’opinione pubblica, al di fuori di ogni regola di mercato o di ogni criterio di utilità.
In sintesi, l’intellettuale è una figura irregolare, accidentale, che emerge dalle contraddizioni della società: «Così nessuno gli riconosce il minimo diritto né il minimo statuto. E, di fatto, la sua esistenza non è ammissibile poiché non ammette se stessa, dato che consiste semplicemente nella impossibilità di vivere come puro tecnico del sapere pratico nelle nostre società. Questa definizione fa dell’intellettuale il più sprovveduto degli uomini: non può certo far parte di un élite perché non dispone, in partenza, di alcun sapere e, di conseguenza, di alcun potere.»[4] In quanto intellettuale dunque non fa parte, a rigore di logica, della classe dominante, anche se è stato acculturato per conto della classe dominante ed è quindi, comunque, un portatore della ideologia dominante.
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Entrando maggiormente nel dettaglio, dunque, l’intellettuale dal punto di vista sociologico non può che essere uno sradicato. «La classe dominante lo ignora: non vuole conoscere in lui che il tecnico del sapere e il piccolo funzionario della sovrastruttura. Le classi svantaggiate non possono generarlo poiché egli non può nascere che dallo specialista della verità pratica, e tale specialista nasce dalle opzioni della classe dominante, cioè dalla parte del plusvalore che questa eroga per produrlo. Quanto alle classi medie - alle quali appartiene - benché alle origini soffrano delle stesse lacerazioni realizzando al loro interno la discordia tra la borghesia proletariato, le loro contraddizioni non sono vissute al livello del mito e del sapere, del particolarismo e dell’universalità: egli non può dunque aver ricevuto un mandato per esprimerle».[5] Il concetto spesso usato da Sartre di funzionario subalterno delle sovrastrutture è di origine gramsciana. Nei Quaderni del Carcere Gramsci scriveva: «Il rapporto tra gli intellettuali e il mondo della produzione non è immediato, come avviene per i gruppi sociali fondamentali, ma è «mediato», in diverso grado, da tutto il tessuto sociale, dal complesso delle superstrutture, di cui appunto gli intellettuali sono i «funzionari». […] Gli intellettuali sono i «commessi» del gruppo dominante per l’esercizio delle funzioni subalterne dell’egemonia sociale e del governo politico […]».[6] A differenza di Gramsci, Sartre non ritiene tuttavia possibile che l’intellettuale possa essere organico alle classi svantaggiate, le quali non sarebbero in grado di generarlo. È anche chiaro che Sartre non ritiene che il partito politico possa svolgere una qualsiasi funzione di «intellettuale collettivo».
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L’auto investitura dell’intellettuale non nasce dal fatto oggettivo di essere uno specialista del sapere pratico bensì dalla problematizzazione della sua posizione. È la sua posizione sospesa che lo rende un indagatore. Nella sua indagine ha il vantaggio di usare la metodologia tipica del suo campo di specializzazione (e questo è il motivo per cui l’intellettuale non può che nascere sul terreno degli specialisti del sapere pratico). «Egli indaga dapprima su se stesso per trasformare in totalità armoniosa l’essere contradditorio che gli è stato attribuito. Ma non può essere questo il suo solo oggetto, poiché costui non pensa di trovare il suo segreto o di risolvere la contraddizione organica se non applicando alla società di cui è il prodotto, alla ideologia di quella società, alle strutture, alle opzioni, alla praxis, i metodi rigorosi che gli servono nella sua specialità di tecnico del sapere pratico: libertà di ricerca (e contestazione), rigore dell’indagine e delle prove, ricerca della verità […], universalità dei risultati acquisiti».[7] L’intellettuale dunque è depositario di un metodo che è stato appreso dalla cultura dominante e che, evidentemente, può essere trafugato e impiegato in modo alternativo.
Il tentativo dell’intellettuale di costruirsi come soggetto non contradditorio non può che implicare il coinvolgimento dell’intera situazione sociale in cui esso è coinvolto. La problematizzazione che l’intellettuale fa della propria posizione sociale implica il riconoscimento di un’interdipendenza tra l’intellettuale stesso e la sua società: «…bisogna che egli afferri se stesso nella società, in quanto suo prodotto e ciò può avvenire solo se egli studia la società nella sua globalità in quanto essa produce, a un certo momento, gli intellettuali. Da ciò un perpetuo rovesciamento: rinvio di se stesso al mondo e rinvio del mondo a sé […]. Egli non può, di fatto, considerare l’insieme sociale oggettivamente, poiché egli lo trova in se stesso come sua contraddizione fondamentale: ma non può attenersi a una semplice messa in discussione soggettiva di se stesso, poiché egli è di fatto inserito in una società definita che lo ha prodotto».[8] La rivendicazione del carattere sociale di ogni progetto di costruzione del soggetto è tipica dell’esistenzialismo sartriano.
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La problematizzazione che l’intellettuale fa di se stesso e del suo ruolo in rapporto alla sua società implica alcune conseguenze. Anzitutto nella ricerca personale compiuta dall’intellettuale, si impone il riconoscimento della situazione di interdipendenza tra il singolo e la situazione sociale in cui è inserito, motivo per cui all’intellettuale si impone l’adozione di un metodo dialettico. In secondo luogo occorre che egli si allontani dall’universalità astratta, cioè occorre che egli abbandoni l’atteggiamento intellettualistico e che si metta in gioco in prima persona, nella particolarità della situazione. «La vera ricerca intellettuale, se vuole liberare la verità dai miti che la offuscano, implica che l’indagine passi attraverso la singolarità dell’indagatore. Costui ha bisogno di situare se stesso nell’universo sociale per afferrare e distruggere, in sé e fuori di sé, i limiti che l’ideologia prescrive al sapere. È al livello della situazione che la dialettica dell’interiorizzazione e dell’esteriorizzazione può agire; il pensiero dell’intellettuale deve incessantemente ripiegarsi su di sé per affermare se stesso sempre come universalità singolare, cioè singolarizzato segretamente dai pregiudizi di classe inculcati fin dall’infanzia mentre crede di essersene sbarazzato e di aver raggiunto l’universale».[9]
La teoria dell’universale singolare è un tipico motivo conduttore dell’ontologia di Sartre e ha a che fare con la dottrina fondamentale del suo esistenzialismo per cui l’esistenza precede l’essenza. Solo a partire dalle singole situazioni dei singoli soggetti si può innestare un processo di universalizzazione. L’universalità già data è solo meramente illusoria e ideologica: l’universalità è sempre da fare, da costruire. «A questo punto l’intellettuale, senza cessare in virtù dei suoi prodotti di tecnico del sapere, del suo salario e del suo tenore di vita, di designarsi come piccolo - borghese selezionato, deve combattere la classe cui appartiene e che sotto l’influenza della classe dominante riproduce in lui, necessariamente, una ideologia borghese, pensieri e sentimenti piccolo - borghesi. L’intellettuale è quindi un tecnico dell’universale il quale si accorge che, nel suo campo, non esiste l’universalità bella e fatta, ma che essa è continuamente da fare».[10]
L’intellettuale quindi deve partire dalla sua situazione di soggetto ridotto a mezzo e privato del fine per riappropriarsi di una prassi autentica di costruzione di sé e di rideterminazione del suo rapporto con la società. In ciò deve rinunciare all’astrazione, vizio di cui peraltro spesso viene accusato. «…egli conduce la sua indagine a tutti i livelli e tenta di modificare se stesso nella sua sensibilità così come nei suoi pensieri. Ciò significa che vuol produrre, nella misura del possibile, in sé e negli altri, l’unità vera della persona, la riappropriazione da parte di ciascuno dei fini che sono imposti alla sua attività (e che, a quel punto, diventerebbero altri), la soppressione di tutte le alienazioni, la libertà reale del pensiero, per soppressione all’esterno degli interdetti sociali nati dalle strutture di classe, all’interno delle inibizioni e delle autocensure».[11]
L’impegno dell’intellettuale non può procedere in astratto anche e soprattutto perché l’ideologia che egli combatte (dentro di sé e fuori di sé) è in ogni istante attualizzata, concretizzata nell’evento. «Chiamo evento [événement] un fatto portatore di un’idea, cioè un universale singolare in quanto limita l’idea in esso contenuta, nella sua universalità, per mezzo della sua singolarità di fatto datato e localizzato, che ha luogo a un certo momento della storia nazionale, e che la riassume e totalizza in quanto ne è esso stesso il prodotto totalizzato. Ciò significa, in verità, che l’intellettuale viene a trovarsi costantemente sfidato dal concreto, e non può dare che una risposta concreta».[12] L’intellettuale deve dunque costantemente situare la propria opera non al livello delle astrazioni ma a quello degli eventi. È lì che si esercita la sua critica ed è lì che si gioca la sua capacità di una ricostruzione.
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Il nemico più diretto dell’intellettuale è il falso intellettuale, che Sartre assimila al «cane da guardia» di Nizan. I falsi intellettuali sono anch’essi specialisti del sapere pratico i quali «Assumono l’atteggiamento dell’intellettuale e cominciano come lui col contestare l’ideologia della classe dominante; ma è una contestazione truccata e costituita in tale maniera che si esaurisce da sola, dimostrando che l’ideologia dominante resiste a ogni contestazione; in altri termini, il falso intellettuale non dice no, come il vero; coltiva il «no ma…» oppure il «lo so bene, ma…»».[13] Gli intellettuali non possono che rispondere ai falsi intellettuali radicalizzando le loro posizioni. «Di fatto il radicalismo e l’impresa intellettuale non sono che una cosa sola».[14] Il falso intellettuale invece di procedere alla costruzione dell’universale stando correttamente dentro all’evento non fa altro che catapultare dentro all’evento un universale prefabbricato che così svolge soltanto una funzione ideologica. Per smontare questa mistificazione, l’unica arma è il radicalismo. «Il radicalismo intellettuale è dunque sempre spinto in avanti dalle argomentazioni e dagli atteggiamenti dei falsi intellettuali: nel dialogo dei falsi e veri intellettuali le argomentazioni riformiste e i loro risultati reali (lo statu quo) inducono necessariamente questi ultimi a diventare rivoluzionari; essi comprendono infatti che il riformismo è solo un discorso che ha il duplice vantaggio di servire la classe dominante permettendo ai tecnici del sapere pratico di prendere apparentemente una certa distanza dai loro datori di lavoro, cioè da quella stessa classe. Tutti coloro che sin da oggi assumono un punto di vista universalista sono rassicuranti: l’universale è fatto di falsi intellettuali. L’intellettuale vero – cioè colui che vede se stesso, nel malessere, come un mostro – preoccupa: l’universale umano è da fare».[15]
Mentre il falso intellettuale abbraccia il falso universalismo, per il vero intellettuale l’universale è sempre un progetto da realizzare. Per questo egli: «Opera affinché una universalità sociale sia possibile un giorno, quando tutti gli uomini saranno veramente liberi, uguali, fratelli, sicuro che quel giorno, ma non certo prima, l’intellettuale scomparirà e che gli uomini potranno conquistare il sapere pratico nella libertà che esige e senza contraddizione alcuna. Per ora indaga e si sbaglia continuamente, non possedendo altro filo conduttore che il suo rigore dialettico e il suo radicalismo».[16] Dunque l’intellettuale è inteso come un radicale che parte dalla sua situazione specifica per costruire una prassi di auto costruzione che è anche una prassi di liberazione di sé e degli altri.
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A questo punto si pone il problema di chi possano essere i compagni di strada dell’intellettuale. Da un lato «L’intellettuale è solo, perché nessuno gli ha conferito alcun mandato».[17] Ciò costituisce tuttavia per l’intellettuale una contraddizione poiché la sua stessa condizione gli imporrebbe un legame stretto con chiunque altro sia impegnato in un progetto di liberazione: «Ora […] egli non può liberarsi senza che gli altri si liberino contemporaneamente. […] Così l’intellettuale, cogliendo la sua propria contraddizione come l’espressione singolare delle contraddizioni oggettive, è solidale con ogni uomo che lotti per se stesso e per gli altri contro tali contraddizioni».[18]
L’instaurazione di un rapporto con gli altri è tuttavia assai complicato e denso di ostacoli. L’intellettuale è così immerso all’interno dell’ideologia dominante da cui è stato generato che ha bisogno di prendere le distanze in qualche modo. La sua cultura non può servirgli poiché falsifica costantemente il mondo. Allora l’unica soluzione è adottare il punto di vista della situazione degli svantaggiati. «Non si può concepire […] che l’intellettuale svolga il suo lavoro servendosi del semplice studio dell’ideologia che gli è stata inculcata […]. Di fatto è la sua ideologia. Essa si manifesta contemporaneamente come il suo modo di vita […] e come la sua Weltanschaaung, cioè come un paio di lenti filtranti che si è messo sul naso e attraverso cui guarda il mondo. La contraddizione di cui soffre è vissuta dapprima solo come sofferenza. Per guardarla bisognerebbe che egli potesse prendere le distanze da essa: ma non può fare tutto ciò senza aiuto. […] Egli non ha dunque che un mezzo per comprendere la società in cui vive: adottare nei suoi riguardi il punto di vista dei più svantaggiati».[19]
Chi sono costoro? Gli svantaggiati non sono l’universalità, bensì costituiscono un progetto di costruzione di un’universalità autentica. «Costoro non rappresentano l’universalità, che non esiste in nessun posto, ma l’immensa maggioranza; sono particolarizzati dall’oppressione e dallo sfruttamento, prodotti dei loro stessi prodotti, privati dei propri fini […] e ridotti a mezzi particolari della produzione, definiti dagli strumenti che essi producono ma dai quali si vedono assegnati i compiti. La lotta contro tale assurda particolarizzazione li conduce anche a mirare all’universalità […] ma a una universalità concreta di origine negativa: nata dalla liquidazione dei particolarismi e dall’avvento di una società senza classi».[20] Il punto di vista oggettivo degli svantaggiati, della loro situazione, è il solo punto di vista veramente radicale sulla società, quello che permette all’intellettuale stesso di cogliere la verità della propria posizione e di agire conseguentemente.
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Si tratta allora di capire come tutto ciò possa essere fatto concretamente. Non è possibile un semplice cambiamento della classe di riferimento. Non è possibile che l’intellettuale piccolo borghese diventi organico alla classe degli sfruttati. Anzitutto perché non esistono intellettuali organici alla classe degli sfruttati: «… le classi sfruttate non producono rappresentanti organici della loro intelligenza oggettiva. Un intellettuale organico del proletariato, è, finché non sarà fatta la rivoluzione, una contraddizione in adjecto; del resto, nascendo nelle classi che a causa della loro stessa situazione reclamano l’universale, non sarebbe, se egli potesse esistere, quel mostro che abbiamo descritto e che si definisce per mezzo della sua coscienza infelice».[21]
In secondo luogo non è possibile perché l’intellettuale verrebbe immediatamente percepito come un diverso, come un nemico: «... se riteniamo che l’intellettuale invece d’essere prodotto come tale, organicamente, dalle classi sfruttate, voglia comunque congiungersi a esse per assimilare la loro intelligenza oggettiva e per dare ai suoi metodi esatti dei principi formulati dal pensiero popolare, egli incontra subito a giusto titolo la diffidenza di coloro cui egli viene a proporre un’alleanza. Di fatto non può evitare che gli operai vedono in lui un membro delle classi medie, cioè delle classi che sono, per definizione, complici della borghesia. L’intellettuale è dunque separato, con una barriera, dagli uomini di cui egli vuole acquisire il punto di vista, che è quello della universalizzazione».[22]
Diventare organici è dunque un compito impossibile: «... per lottare contro il particolarismo dell’ideologia dominante, bisognerebbe assumere il punto di vista di coloro la cui esistenza condanna quell’ideologia. Ma per adottare quel punto di vista bisognerebbe non essere mai stati piccolo - borghesi poiché la nostra educazione ci ha infettati in partenza e fino al midollo. E siccome è la contraddizione dell’ideologia particolarizzante e del sapere universalizzante in un piccolo - borghese che produce l’intellettuale, bisognerebbe non essere intellettuale».[23]
A questo punto Sartre prende in esame la possibilità per l’intellettuale di farsi organico alla massa degli sfruttati entrando in un partito politico di massa. Ma anche questa soluzione non risolve il problema. «Entrare in un partito di massa - altra tentazione - non risolve il problema. La diffidenza resta; le discussioni sull’importanza degli intellettuali e dei teorici in seno al partito rinascono incessantemente. […] Dunque, se gli intellettuali piccolo - borghesi sono indotti dalle loro stesse contraddizioni a lavorare per le classi lavoratrici, essi le serviranno a loro rischio e pericolo, potranno esserne i teorici ma mai gli intellettuali organici e la loro contraddizione, sebbene chiarita e compresa, resterà tale sino alla fine: è quella la prova che essi non possono, come abbiamo visto, ricevere un mandato da nessuno».[24]
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Accertato dunque che l’intellettuale non può svolgere il ruolo di intellettuale organico, quale ruolo può giocare allora l’intellettuale senza mandato? La chiave della soluzione sta ancora nell’universale singolare, cioè nell’esigenza che sia l’intellettuale che le masse impostino la loro praxis a partire dalla loro situazione particolare.
«Le classi sfruttate, in effetti, non hanno bisogno di una ideologia ma di una verità pratica sulla società. In altre parole, non hanno alcun interesse alla rappresentazione mitica di se stesse; hanno bisogno di riconoscere il mondo per cambiarlo. Ciò significa al contempo che chiedono di essere situate […], di scoprire i propri fini organici e la praxis che permetterà loro di raggiungerli. In poche parole hanno bisogno del possesso della loro verità pratica; ciò significa che al contempo pretendono di cogliersi nella loro particolarità storica […] e nella loro lotta per la universalizzazione […]. Il rapporto dialettico fra l’una e l’altra esigenza è ciò che viene chiamato coscienza di classe. È dunque a questo livello che l’intellettuale può servire il popolo. Non ancora come tecnico del sapere universale, poiché egli è situato e poiché lo sono anche le classi «svantaggiate». Ma precisamente in quanto universale singolare, poiché la presa di coscienza, negli intellettuali, è il disvelamento del loro particolarismo di classe e del compito di universalità che lo contraddice: cioè del superamento della loro particolarità verso l’universalizzazione del particolare a partire da quel particolare. E siccome le classi lavoratrici vogliono cambiare il mondo a partire da ciò che sono e non ponendosi subito nell’universale, c’è parallelismo tra lo sforzo dell’intellettuale verso l’universalizzazione e il movimento delle classi lavoratrici».[25]
Dunque è soltanto da questo esile parallelismo che può svilupparsi il rapporto tra l’intellettuale e le masse dei diseredati, senza tuttavia che ci siano delle confusioni: l’intellettuale non potrà mai essere situato all’interno di tali classi. «[…] benché l’intellettuale non possa mai essere originariamente situato in tali classi, è bene che egli abbia preso coscienza del suo essere-situato, anche se a titolo di membro delle classi medie. E non si tratta, per lui, di rifiutare la sua situazione, ma di utilizzare l’esperienza che egli ne ha per situare le classi lavoratrici, proprio mentre le sue tecniche dell’universale gli permettono di chiarire, per quelle stesse classi, il loro sforzo verso l’universalizzazione».[26] Insomma, l’intellettuale, grazie ai suoi strumenti metodologici, dovrebbe riuscire a mettere in discussione la propria posizione particolare e ciò, in termini critici, potrebbe servire alle masse le quali sono intente nella medesima impresa ma dal loro punto di vista.
Il percorso parallelo è, tuttavia, sempre problematico e l’intellettuale deve stare in guardia e lottare continuamente contro l’ideologia risorgente. L’intellettuale deve esercitare un’autocritica ininterrotta, cioè «Egli deve costantemente conservare la consapevolezza di essere un piccolo-borghese in rotta con il suo ceto e di essere continuamente sollecitato a riprodurre le forme di pensiero della sua classe».[27] Inoltre deve praticare un’associazione concreta e senza riserve con l’azione delle classi sfruttate. L’intellettuale non deve tuttavia porsi alla testa dell’azione delle masse. «Non si tratta dunque, per l’intellettuale, di giudicare l’azione prima che sia cominciata, di spingere a intraprenderla o di regolarne i tempi. Ma al contrario, si tratta di prenderla in corsa, al suo livello di forza elementare […], di integrarsi, di parteciparvi fisicamente, di lasciarsi penetrare e di lasciarsi portare da essa, e soltanto allora […], di decifrare la sua natura e di chiarire il suo senso e la sua possibilità».[28] L’intellettuale sradicato può dunque essere, per le masse, solo un compagno di strada che fornisce un contributo critico a partire dalla sua stessa situazione: «È in quanto persona mai assimilata, persino esclusa durante l’azione violenta, è in quanto coscienza lacerata, impossibile da ricucire, che lo specialista dell’universale sarà al servizio del movimento dell’universalizzazione popolare: non sarà mai del tutto dentro […] né del tutto fuori […]. Bandito dalle classi privilegiate, sospetto alle classi sfruttate (a causa della cultura stessa che egli mette a loro disposizione), può iniziare il suo lavoro».[29]
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In concreto, il lavoro dell’intellettuale viene sintetizzato da Sartre in sei punti che si possono così riassumere: 1) lottare con le armi della critica contro la tendenza alla diffusione dell’ideologia nelle stesse classi popolari; 2) usare il proprio capitale di sapere fornito dalla classe dominante per far crescere la cultura popolare; 3) cercare di formare presso le classi sfruttate degli specialisti del sapere pratico che tendano – per quanto impossibile - a essere organici; 4) cercare di realizzare la finalità umanistica universalistica del proprio sapere per tutti nella lotta; 5) radicalizzare l’azione delle masse popolari, mostrando gli obiettivi lontani; 6) perseguire i fini storici delle masse contro ogni potere, compreso il potere politico che si esprime attraverso i partiti di massa e l’apparato della classe operaia.
L’intellettuale in particolare non può stare nel movimento senza mantenere il proprio ruolo critico, e ciò non può essere che fonte di problemi e contraddizioni. «… mettendosi al servizio del movimento popolare, bisogna che l’intellettuale osservi la disciplina, nel timore di indebolire l’organizzazione delle masse; ma poiché egli deve chiarire il rapporto pratico tra i mezzi e il fine, non deve mai cessare di esercitare la sua critica per conservare al fine il proprio significato fondamentale. […] Tutto quello che noi possiamo dire a tal riguardo è che è necessario che ci siano, nei partiti o nelle associazioni popolari, degli intellettuali associati al potere politico, la qual cosa rappresenta il massimo di disciplina e il minimo di critiche possibili; è necessario altresì che ci siano degli intellettuali al di fuori dei partiti, individualmente uniti ai movimenti, ma dal di fuori, cosa questa che rappresenta il minimo di disciplina e il massimo di critiche possibili».[30] In mezzo ci stanno tutte le sfumature, che possono determinare discussioni e conflitti tra gli stessi intellettuali tra i quali dovrà stabilirsi una «unità antagonistica», cioè dialettica.
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Il percorso parallelo tra gli intellettuali e i diseredati che Sartre ha delineato non è quindi risolutivo. L’intellettuale rischia costantemente di essere considerato come qualcosa di superfluo, un «uomo di troppo». «Resta il fatto che, anche così definito, egli non è incaricato da nessuno: sospetto agli occhi delle classi lavoratrici, traditore per le classi dominanti, rifiutando la sua classe senza mai potersene liberare del tutto, egli ritrova, modificate approfondite, le sue contraddizioni e fin nei partiti popolari; in questi partiti, se vi entra, si sente solidale ed escluso al tempo stesso poiché vi rimane in latente conflitto con il potere politico; ovunque inassimilabile. La sua stessa classe non ne vuole sapere di lui più di quanto lui non ne voglia sapere di essa, ma nessun’altra classe si apre per raccoglierlo. Come parlare, allora di una funzione dell’intellettuale: non è piuttosto un uomo di troppo, un prodotto mal riuscito delle classi medie, costretto dalle sue imperfezioni a vivere ai margini delle classi sfruttate senza mai congiungervisi? […] In un certo senso ciò è vero. E l’intellettuale lo sa molto bene. Non può domandare a nessuno di fondare di diritto la sua «funzione» […]. Ma a pensarci bene le sue contraddizioni sono quelle di ciascuno e della società tutta. I fini sono rubati a tutti, tutti sono mezzi di fini che sfuggono loro e sono fondamentalmente inumani, tutti sono combattuti e divisi tra il pensiero oggettivo e l’ideologia».[31] Si tratta di un uomo di troppo che tuttavia, in quanto universale singolare, è in grado di rispecchiare nella sua particolarità, il processo contradditorio verso la liberazione e l’universalizzazione: «L’intellettuale, per la sua stessa contraddizione – che diventa la sua funzione – è spinto per se stesso e di conseguenza per tutti, a prendere coscienza. In tal senso è sospetto a tutti poiché è in partenza contestatore, e dunque traditore in potenza ma, in un altro senso, egli arriva per tutti a questa consapevolezza».[32]
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Sartre ha ben presente che l’intellettuale, nella sua partecipazione al processo storico, si trova ad avere a che fare con il potere senza avere alcun potere. E ciò accade a maggior ragione se è inquadrato all’interno di un partito popolare. A differenza del professionista del sapere pratico «... l’intellettuale […] resta invece senza potere, anche se è legato alla direzione del partito. Questo legame, infatti, gli restituisce, a un altro livello, il suo carattere di funzionario subalterno delle sovrastrutture e, pur accettandolo per disciplina, deve contestarlo continuamente e mai smettere di disvelare il rapporto tra i mezzi scelti e i fini organici. In quanto tale, la sua funzione va dalla testimonianza al martirio: il potere, qualunque esso sia, vuole utilizzare gli intellettuali per la sua propaganda ma ne diffida ed è da loro che comincia sempre con le sue purghe. Non importa: finché l’intellettuale può scrivere e parlare, resta il difensore delle classi popolari contro l’egemonia della classe dominante e contro l’opportunismo dell’apparato popolare».[33] Il ruolo critico deve dunque avere sempre la preminenza e l’intellettuale deve evitare di farsi coinvolgere negli apparati di potere, sia della classe dominante sia dei partiti popolari, che spegnerebbero inevitabilmente ogni critica.  Come si vede, la gamma delle possibilità aperte include la testimonianza ma anche il martirio e il fantasma delle «purghe» aleggia sinistro.
L’intellettuale può anche cadere in disgrazia rispetto a quelle stesse masse che ha eletto a riferimento della propria azione: «… può darsi che le classi lavoratrici (sia perché il livello di vita è in rialzo, sia perché l’ideologia dominante resta potente, sia perché esse lo rendono responsabile dei loro insuccessi, sia perché hanno bisogno di una pausa) condannino la passata azione dell’intellettuale e lo lascino in preda alla sua solitudine. Ma tale solitudine è ciò che gli tocca in sorte, poiché nasce dalla sua contraddizione ed egli non se ne può liberare quando vive in simbiosi con le classi sfruttate, di cui non può essere l’intellettuale organico, e neanche può al momento dell’insuccesso abbandonare tale solitudine con una ritrattazione menzognera e vana, a meno che non passi dalla condizione di intellettuale a quella di falso intellettuale».[34]
Comunque vadano le cose, dunque, all’intellettuale non è mai concesso di deporre la sua coscienza infelice: «Di fatto, quando lavora con le classi sfruttate, tale apparente comunione non significa ch’egli abbia ragione e, nei momenti di riflusso, la sua solitudine quasi totale non significa che egli abbia avuto torto. In altri termini, il numero non ha nulla a che vedere con la questione. Il compito dell’intellettuale è di vivere la sua contraddizione per tutti e di superarla per tutti mediante il radicalismo […]».[35]
 
29/06/2014
 
                                                                                        Giuseppe Rinaldi
 
 
 
 
OPERE CITATE
 
 
1985 Cohen-Solal, Annie
Sartre, Pantheon Books, New York. Tr. it.: Sartre, Il Saggiatore, Milano, 1986.
 
1975   Gramsci, Antonio
Quaderni del Carcere (a cura di Valentino Gerratana) 4 voll., Einaudi, Torino.
 
1972 Sartre, Jean-Paul
Plaidoyer pour les intellectuels, Éditions Gallimard, Paris. Tr. it.: Difesa dell’intellettuale, Theoria, Roma - Napoli, 1992. [1966]
 
1980 Sartre, Jean-Paul
L’universale singolare. Saggi filosofici e politici dopo la “Critique” (A cura di Franco Fergnani e Pier Aldo Rovatti), Il Saggiatore, Milano.
 
 
NOTE
 
[1] Secondo la biografia di Cohen-Solal, il viaggio di Sartre in Giappone avvenne a partire dal 18 settembre 1966. Ciò contrasta con la datazione del 1965 fornita in Sartre 1972 e Sartre 1980. Cfr. Cohen-Solal 1985: 476-477. Le tre conferenze sono state pubblicate per la prima volta in Francia nel 1972. In Italia sono state pubblicate in Sartre 1980.
[2] Cfr. Sartre 1972: 68-69.
[3] Cfr. Sartre 1972: 69.
[4] Cfr. Sartre 1972: 69.
[5] Cfr. Sartre 1972: 68.
[6] Cfr. Gramsci 1975: 1518-1519.
[7] Cfr. Sartre 1972: 69-70.
[8] Cfr. Sartre 1972: 70.
[9] Cfr. Sartre 1972: 71-72.
[10] Cfr. Sartre 1972: 72.
[11] Cfr. Sartre 1972: 74.
[12] Cfr. Sartre 1972: 75-76.
[13] Cfr. Sartre 1972: 76.
[14] Cfr. Sartre 1972: 77.
[15] Cfr. Sartre 1972: 78.
[16] Cfr. Sartre 1972: 80.
[17] Cfr. Sartre 1972: 80.
[18] Cfr. Sartre 1972: 80.
[19] Cfr. Sartre 1972: 80-81.
[20] Cfr. Sartre 1972: 82.
[21] Cfr. Sartre 1972: 84.
[22] Cfr. Sartre 1972: 84.
[23] Cfr. Sartre 1972: 85.
[24] Cfr. Sartre 1972: 86.
[25] Cfr. Sartre 1972: 86-87.
[26] Cfr. Sartre 1972: 87-88.
[27] Cfr. Sartre 1972: 89.
[28] Cfr. Sartre 1972: 90.
[29] Cfr. Sartre 1972: 90-91.
[30] Cfr. Sartre 1972: 92.
[31] Cfr. Sartre 1972: 94.
[32] Cfr. Sartre 1972: 95.
[33] Cfr. Sartre 1972: 96.
[34] Cfr. Sartre 1972: 97.
[35] Cfr. Sartre 1972: 97.