giovedì 26 giugno 2014

Intellettuali fuori posto

 
 
SimoneSartre
 
In Giappone, nel 1966, Sartre (1905-1980) ha pronunciato tre conferenze riguardanti il ruolo degli intellettuali. Esse sono state poi raccolte e pubblicate nel 1972 in un volume dal titolo Plaidoyer pour les intellectuels.[1] In queste tre conferenze Sartre ha ripreso e sviluppato le tematiche già trattate in Che cos’è la letteratura, che risale invece al 1948. Le tre conferenze sono alquanto interessanti poiché espongono in maniera compiuta le convinzioni che indurranno Sartre, appena qualche anno dopo, a coinvolgersi nei movimenti del Sessantotto.
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  La prima conferenza si intitola Che cos’è un intellettuale? Essa aveva principalmente il compito di «definire l’intellettuale nella sua esistenza». In apertura Sartre fa una rassegna dei rimproveri che vengono solitamente rivolti agli intellettuali e, dopo una nutrita serie di esempi, giunge alla costatazione che quei rimproveri sono «ovunque gli stessi». Il denominatore comune a tutte le critiche sta nel fatto che l’intellettuale – secondo una formulazione divenuta famosa - è uno che si occupa di cose che non lo riguardano. Questa è la formulazione originaria: «È possibile, malgrado le contraddizioni, trovare un denominatore comune a tutte queste critiche? Sì: diciamo che a tutto è sotteso un rimprovero fondamentale: l’intellettuale è qualcuno che si immischia in ciò che non lo riguarda e che ha la pretesa di contestare l’insieme delle verità ricevute e dei comportamenti che a queste si ispirano in nome di una concezione globale dell’uomo e della società - concezione oggi impossibile, dunque astratta e falsa - poiché le società in crescita si definiscono per via di una fortissima diversificazione delle forme di vita, delle funzioni sociali, dei problemi concreti».[2]
Sartre dunque, nella sua ricerca, adotta immediatamente una connotazione negativa dell’intellettuale, atta a evidenziare la sua posizione marginale o comunque non convenzionale. L’intellettuale è uno che con la sua stessa esistenza rompe le regole stabilite. Sartre fornisce anche un’analisi articolata circa le origini di questo tipo di considerazione, risalente secondo lui fin dai tempi dell’Affaire Dreyfus: «Ora, è pur vero che l’intellettuale è qualcuno che si immischia in ciò che non lo riguarda. È così vero tutto ciò che, da noi, il termine «intellettuale» applicato alle persone è diventato popolare, con valenza negativa, al tempo dell’affaire Dreyfus. Per gli antidreyfusisti, l’assoluzione o la condanna del capitano riguardava i tribunali militari e, in definitiva, lo Stato Maggiore; i dreyfusisti, sostenendo l’innocenza dell’accusato, si ponevano al di fuori della loro competenza. Originariamente, dunque, l’insieme degli intellettuali appare come una varietà di uomini i quali hanno acquisito una qualche notorietà tramite lavori che rientrano nel campo delle opere dell’intelletto (scienze esatte, scienze applicate, medicina, letteratura, eccetera) e che abusano di questa notorietà per uscire dal loro campo e per criticare la società dei poteri costituiti in nome di una concezione globale dogmatica […] dell’uomo».[3]
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Se l’intellettuale è uno che esce indebitamente dal suo campo, si tratta allora di individuare come si siano instaurate le regole che definiscono il campo stesso delle competenze. Ciò ha evidentemente a che fare con la natura stessa dell’intellettuale. Il fatto che a livello di senso comune siano posti dei limiti alla competenza degli specialisti del sapere permette a Sartre di precisare con cura la differenza tra il professionista, l’esperto o il tecnico che dir si voglia, e l’intellettuale. Afferma Sartre, con estrema chiarezza, che «Se si vuole un esempio di questa concezione comune dell’intellettuale, dirò che non si potranno chiamare «intellettuali» quegli scienziati che lavorano alla fissione dell’atomo per perfezionare gli ordigni della guerra atomica: sono scienziati, ecco tutto. Ma se questi stessi scienziati, spaventati dalla potenza distruttrice dei congegni di cui proprio loro permettono la fabbricazione, si riuniscono e firmano un manifesto per mettere in guardia l’opinione pubblica circa l’uso della bomba atomica, allora diventano degli intellettuali. In effetti: 1) escono dalla loro competenza: una cosa è fabbricare una bomba, un’altra giudicarne l’impiego; 2) abusano della celebrità o della competenza che si riconosce loro per far violenza all’opinione pubblica, mascherando così l’abisso invalicabile che separa le loro conoscenze scientifiche dalla valutazione politica che costoro dànno, a partire da altri principi, sull’ordigno che creano e che regolano; 3) non condannano, in effetti, l’uso della bomba per aver constatato dei difetti tecnici, ma in nome di un contestabilissimo sistema di valori che prende come norma suprema la vita umana».[4] Fare l’intellettuale non è dunque per Sartre una categoria sociologica in senso stretto. Ha piuttosto a che fare con un certo tipo di pratica che, in un certo contesto, è considerata come una pratica del tutto anomala. Per capire gli intellettuali occorre capire come si siano affermate storicamente e socialmente queste pratiche anomale.
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Si tratta anzitutto di capire in cosa consista l’ambito di competenza che viene solitamente attribuito all’intellettuale e dal quale l’intellettuale stesso si appresterebbe colpevolmente ad uscire. L’idea di fondo di Sartre è che esista un dominio circoscritto di sapere pratico che ha lo scopo esplicito di modificare il mondo e che ha una legittimazione esclusivamente rispetto all’efficacia. Nelle società moderne la praxis viene realizzata attraverso la divisione del lavoro, proprio grazie alla quale viene generato il dominio dello specialista. In tal modo i fini restano patrimonio della classe dominante, mentre la scelta dei mezzi viene appaltata agli specialisti. «Questi tecnici del sapere pratico nel loro insieme non sono ancora degli intellettuali, ma è tra loro – e non altrove – che questi vengono reclutati».[5] 
Sartre si addentra in una ricostruzione storica della formazione degli ambiti di competenza degli specialisti e della possibilità della loro violazione. In termini storici, il chierico medievale – spiega Sartre – era un ideologo. Lo specialista del sapere pratico appare soltanto con lo sviluppo della borghesia mercantile come, ad esempio, nel caso di scienziati, ingegneri o contabili. Costoro nascono dalla e nella borghesia e sono perfettamente integrati con la loro classe. La loro funzione, in un primo momento, è tecnica e non ideologica. Solo alla fine del Seicento la borghesia si afferma come classe dominante e ha bisogno di elaborare una sua visione globale del mondo. Tale visione vien costruita non dai vecchi chierici ma proprio dagli specialisti del sapere pratico che diventano così ideologi, cioè philosophes: «I «philosophes», dunque non fanno altro che ciò che si rimprovera oggi agli intellettuali: utilizzano i loro metodi per uno scopo diverso da quello che i metodi stessi dovevano raggiungere, per costituire cioè un’ideologia borghese, fondata sullo scientismo meccanicistico e analitico. […] Di fatto gli aristocratici, all’epoca, rimproverano loro di immischiarsi in ciò che non li riguarda e anche i prelati. Ma non la borghesia. Il punto è che la loro ideologia non è tratta dal nulla: la classe borghese la produceva allo stato grezzo e diffuso nella e dalla sua stessa pratica mercantile; essa si rendeva conto di averne bisogno per prendere coscienza di se stessa attraverso segni e simboli; per dissolvere e spezzare le ideologie delle altre classi sociali. I «philosophes» appaiono dunque come degli intellettuali organici nel senso gramsciano del termine: nati dalla classe borghese, costoro vogliono esprimere lo spirito oggettivo di tale classe».[6] L’accordo organico deriva dal fatto che costoro sono intrinsecamente borghesi, coinvolti in prima persona nel movimento stesso di ascesa della borghesia. In questo caso, dunque, l’umanismo che si afferma è l’umanismo stesso della borghesia.
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Solo alla fine dell’Ottocento tuttavia i pronipoti dei philosophes sono diventati gli intellettuali. È cambiato il fatto che i nuovi specialisti del sapere pratico non sono più intrinsecamente borghesi, ma sono sempre più reclutati presso altre classi sociali, in qualità di  impiegati. Il loro numero e il loro reddito viene programmato sulla base dei bisogni della classe borghese dominante. La loro formazione tecnica e ideologica viene definita attraverso meccanismi di selezione: «Essa insegna loro a priori due ruoli: li rende contemporaneamente specialisti della ricerca e servitori dell’egemonia, cioè custodi della tradizione. Il secondo ruolo li trasforma – per impiegare un’espressione di Gramsci – in «funzionari delle sovrastrutture»; in quanto tali essi ricevono un certo potere, quello «di esercitare le funzioni subalterne dell’egemonia sociale e del governo politico» […] Sono implicitamente incaricati di trasmettere i valori […] e di combattere, all’occasione, le argomentazioni e i valori di tutte le altre classi avvalendosi delle proprie conoscenze tecniche. Da questo punto di vista essi sono ora agenti di un particolarismo ideologico […] È da notare, a tale livello, che essi sono incaricati di occuparsi di ciò che non li riguarda. Tuttavia nessuno si sognerà di chiamarli intellettuali: questo perché costoro fanno passare abusivamente come leggi scientifiche ciò che di fatto è l’ideologia dominante».[7] Il particolarismo ideologico è ora dovuto al fatto che ora la borghesia non è più la classe universale, ma è diventata parte contro le altre parti insorgenti.
 
A ricoprire questi ruoli di impiegati che fungono da specialisti del sapere pratico vanno soprattutto i piccoli – borghesi. L’intellettuale nasce ora dal fatto che costui, che la classe dominante ha formato e definito come specialista del sapere pratico, soffre di un conflitto con la propria origine sociale, soffre – come dice Sartre – di una contraddizione intrinseca. La contraddizione deriva dal fatto che egli è educato come un umanista borghese, ma la sua stessa condizione di selezionato privilegiato racconta che l’umanesimo è una finzione ideologica. Inoltre la visione del mondo universalista di cui costui è portatore non può che scontrarsi con il particolarismo della classe borghese e con lo stesso particolarismo del suo ruolo. Scrive infatti Sartre: «Oggi, l’ideologia borghese – che ha impregnato, in partenza, i tecnici del sapere pratico per mezzo dell’educazione e dell’insegnamento umanistico – è in contraddizione con quest’altra parte costitutiva di loro stessi, la loro funzione di ricercatori, cioè il loro sapere, i loro metodi: ed è per questo che sono universalisti, poiché cercano conoscenze e pratiche universali. Ma se applicano i loro metodi nell’esame della classe dominante e della sua ideologia – che è anche la loro – non possono nascondersi che l’una e l’altra sono subdolamente particolaristiche. E, da allora, nelle loro stesse ricerche, scoprono l’alienazione, poiché essi sono i mezzi di quei fini che restano estranei e che è vietato mettere in discussione. Questa contraddizione non viene da costoro ma dalla stessa classe dominante».[8]
Insomma, i figli della piccola borghesia vengono educati a un umanesimo universalistico, ma questi, proprio applicando i principi che hanno appreso, non possono che riconoscere di vivere una condizione di alienazione, di disumanità, trovandosi a svolgere il ruolo di mezzi in una situazione in cui non è permesso loro di padroneggiare i fini. Secondariamente, l’operatività dello specialista ha in vista l’utile, ma in un quadro umanistico l’utile è generico sarebbe rivolto a tutti. Invece: «In molti casi, con la complicità del tecnico del sapere pratico gli strati sociali privilegiati rubano l’utilità sociale delle loro scoperte e la trasformano in utilità per la minoranza a spese della maggioranza».[9] Secondo Sartre questi meccanismi non sono poi così nascosti e invisibili: «Il potere non ignora che la realtà del tecnico è la contestazione permanente e reciproca dell’universale e del particolare, e che egli rappresenta, almeno in potenza, ciò che Hegel ha chiamato la «coscienza infelice». Quindi, il potere lo ritiene fortemente sospetto […] Così il ricercatore è al contempo indispensabile e sospetto agli occhi della classe dominante. Egli non può fare a meno di sentire e di interiorizzare quel sospetto e di trovarsi in partenza sospetto ai suoi stessi occhi».[10]
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A partire da questa situazione, che è insieme di ambiguità e di alienazione, lo specialista del sapere pratico ha due possibilità.  1) Può accettare di mettere l’universale al servizio del particolare, può dunque adeguarsi, può accettare il proprio ruolo e autocensurarsi. Sono quei casi in cui egli sarà spinto a dire «io faccio il mio mestiere», oppure «io non sono un intellettuale». 2) Oppure, così spiega Sartre: «Se egli constata il particolarismo della propria ideologia e non può esserne soddisfatto; se riconosce che ha interiorizzato il principio d’autorità come autocensura; se, per rifiutare il suo disagio e la sua mutilazione, è obbligato a mettere in discussione l’ideologia che lo ha formato; se rifiuta d’essere agente subalterno dell’egemonia e il mezzo di fini che ignora o che gli è proibito contestare, allora l’agente del sapere pratico diviene un mostro, cioè un intellettuale che si occupa di ciò che lo riguarda (prima facie, dei principi che guidano la sua vita ma, in ultima istanza, del suo posto all’interno della società) e  di cui gli altri dicono che si occupa di ciò che non lo riguarda».[11]
Ecco che la condizione oggettiva dello specialista del sapere pratico lo pone di fronte a una scelta che è esistenziale e soggettiva: «Insomma, ogni tecnico del sapere è intellettuale in potenza poiché è definito da una contraddizione che non è niente altro che la lotta permanente in lui della tecnica universalistica e dell’ideologia dominante. Ma non è per semplice decisione che un tecnico diventa intellettuale di fatto: ciò dipende dalla sua storia personale che ha potuto scatenare in lui la tensione che lo caratterizza; in ultima analisi l’insieme dei fattori che portano a termine la trasformazione è di ordine sociale». Così conclude Sartre la sua prima conferenza giapponese: «Prodotto di società lacerate, l’intellettuale è un loro testimone, poiché ne ha interiorizzato la lacerazione. È dunque un prodotto storico. In tal senso nessuna società può lamentarsi dei propri intellettuali senza autoaccusarsi, poiché non ha se non quelli che essa stessa produce».[12]
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È decisamente interessante l’uso che fa Sartre della nozione gramsciana di intellettuale organico. L’organicità sussiste soltanto quando l’intellettuale «si occupa di ciò che lo riguarda», cioè quando l’intellettuale proviene dalla stessa classe di cui elabora fini e mezzi. Quindi gli unici intellettuali organici che si ritrovano nella narrazione di Sartre sono i borghesi che fungono da intellettuali, nel momento in cui la loro stessa classe è in ascesa. In questa fase la borghesia è la classe universale e quindi l’universale di cui gli intellettuali borghesi sono portatori è perfettamente coerente. I philosophes dunque non sono alienati e non si trovano di fronte a drammatiche scelte esistenziali.
Con il trionfo della borghesia, la borghesia stessa perde la sua caratteristica di universalità e diventa classe dominante, diventa cioè classe parziale. I suoi interessi diventano interessi particolari, poiché di fronte alla borghesia si ergono ora altre classi che pretendono a loro volta di essere portatrici di un interesse universale. Le classi dominate che combattono contro il dominio borghese tuttavia non sono in grado di costruire un loro ceto di intellettuali. L’unica forma di intellettualità possibile che si realizza nella società contemporanea è quella alienata: le classi dominate forniscono il materiale umano e la borghesia fornisce l’ideologia universalistica, quella ideologia che la stessa borghesia ha tradito e che funge ormai solo da paravento al suo dominio. Così si creano le basi del dilemma e si creano i presupposti per la scelta impossibile dell’intellettuale. L’analisi sartriana è dunque sociologica ma anche e soprattutto di tipo esistenziale.
Quello che per Marx era il tradimento, ossia il passaggio dell’intellettuale borghese nelle fila del proletariato diventa in Sartre un dramma esistenziale non risolvibile.[13] Il nuovo Principe, l’intellettuale collettivo è considerato come impossibile. Per Gramsci era possibile contendere l’egemonia della borghesia sul terreno dell’universalismo. L’universalizzazione poteva appunto avvenire attraverso il nuovo Principe. Per Sartre l’unica universalizzazione possibile è quella che è stata prodotta all’interno della cultura borghese e che poi la borghesia stessa ha abbandonato. Insomma, la borghesia ha prodotto l’illuminismo e poi l’ha abbandonato, l’ha tradito. Paradossalmente gli intellettuali sono gli eredi intellettuali dell’universalismo borghese, ma che ora si trova in un corpo incoerente, nel corpo sociale del piccolo borghese subordinato. L’intellettuale piccolo borghese che fa la scelta di occuparsi di ciò che non lo riguarda è il figlio illegittimo della cultura borghese, ma l’unico figlio ripudiato che sia rimasto alla borghesia e che pertanto, come tale, non potrà mescolarsi impunemente con il proletariato. L’intellettuale dunque, dopo che ha preso coscienza, dopo che ha rifiutato la soluzione conformista, non potrà che essere fuori posto. La sua prassi effettiva non potrà che essere condizionata da questa sua collocazione.
 
25/06/2014
 
                                                                             Giuseppe Rinaldi
 
 
 
 
OPERE CITATE
 
1972   Sartre, Jean-Paul
Plaidoyer pour les intellectuels, Éditions Gallimard, Paris.  Tr. it.: Difesa dell’intellettuale, Theoria, Roma - Napoli, 1992. [1966]
 
 
 
NOTE
 
[1] Cfr. Sartre 1972. Nella traduzione italiana viene riportata erroneamente come 1965. In realtà il viaggio in Giappone di Sartre è avvenuto nel 1966.
[2] Cfr. Sartre 1972: 45.
[3] Cfr. Sartre 1972: 45-46.
[4] Cfr. Sartre 1972: 46.
[5] Cfr. Sartre 1972: 49.
[6] Cfr. Sartre 1972: 54.
[7] Cfr. Sartre 1972: 56-57.
[8] Cfr. Sartre 1972: 59-60.
[9] Cfr. Sartre 1972: 62.
[10] Cfr. Sartre 1972: 63-64.
[11] Cfr. Sartre 1972: 64-65.
[12] Cfr. Sartre 1972: 67.
[13] Questo punto sarà trattato prossimamente, esaminando la seconda conferenza dedicata da Sartre alla funzione degli intellettuali.