venerdì 20 giugno 2014

Comunità immaginate

 
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Se si scorrono i principali dizionari di sociologia, si potrà costatare come al concetto di «nazione» sia sempre dedicato uno spazio assai limitato o, spesso, addirittura nullo. Eppure nazioni e Stati nazionali sono oggetti ben presenti nella nostra vita quotidiana e sono protagonisti della storia del mondo da un bel pezzo. È davvero difficile sostenere che simili oggetti non siano di natura sociale e non abbiano dunque a che fare con la sociologia. Il mancato riconoscimento è senz’altro dovuto al fatto che la «nazione» è un oggetto la cui natura è piuttosto strana, potendo essere considerato da un lato come un’idea astratta e dall’altro come un insieme concreto di individui. Non è poi ben chiaro, secondo le tradizionali suddivisioni disciplinari, se debba appartenere alla storiografia, alla storia delle idee, alla sociologia o alla politologia.
Oggetti del genere non sono insoliti nelle scienze sociali. Casi assai simili riguardano, ad esempio, i concetti di «classe», «giovani», «razza» o «genere». Per gli scopi della ricerca empirica le questioni teoriche di questo tipo, questioni, in effetti, assai difficili da risolvere, vengono di solito aggirate attraverso le  cosiddette definizioni operative, le quali, certo, sono utili poiché mettono in grado di ottenere dei risultati, di raccogliere per lo meno dei dati, ma non mettono certo in grado di chiarire la natura dell’oggetto con cui si ha a che fare. Da qualche tempo i sociologi hanno addirittura rinunciato a porsi delle domande circa la natura degli oggetti di cui si occupano, considerando questa pratica come una tipica debolezza dell’infanzia della loro disciplina, oppure come una pratica insopportabilmente troppo carica di teoria, in un’epoca in cui le «grandi narrazioni» sono, almeno nei riti e nelle mode accademiche, cadute in discredito.
Quelli cui abbiamo accennato sono problemi di ontologia sociale, cioè  problemi di definizione della natura degli oggetti che solitamente consideriamo come oggetti sociali. Non si tratta dunque di problemi gnoseologici, di conoscenza (per questo scopo può andar bene anche una definizione operativa), ma di problemi ontologici, cioè problemi di esistenza. Si tratta cioè di rispondere nello specifico alla domanda provocatoria di Quine «Che cosa c’è?». Ci si può sbarazzare della questione dichiarando che la sociologia non si occupa di ontologia ed è bene che non lo faccia, poiché i confini disciplinari non possono essere violati impunemente. È tuttavia interessante il fatto che, dal canto loro, i filosofi, dopo un lungo periodo di osservanza dei confini disciplinari, abbiano preso a interessarsi delle stesse questioni, abbiano cioè preso a riflettere con interessantissimi risultati intorno alla natura degli oggetti sociali. Ad esempio, il filosofo John Searle ha scritto un libro che si intitola «La costruzione della realtà sociale», seguito da un altro il cui titolo suona «Creare il mondo sociale». Maurizio Ferraris ha elaborato una teoria della documentalità che è di grandissimo interesse dal punto di vista di un’ontologia del mondo sociale.[1] È probabile che, nel prossimo futuro, i confini disciplinari tra filosofia e sociologia verranno attraversati più volte, in una direzione e nell’altra, permettendo di conseguire dei risultati che potrebbero indurre dei profondi cambiamenti da entrambe le parti.
 
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Allo scopo di saggiare le potenzialità degli sconfinamenti tra sociologia e ontologia, proveremo a entrare nel merito delle problematiche relative proprio a una ontologia della nazione. Gli studiosi che si sono occupati della nazione e che hanno cercato di indagare a fondo circa il suo significato hanno visto con disappunto il loro oggetto scivolar via dalle loro mani. Quando non hanno ripiegato su definizioni operative di comodo, sono stati spinti a conclusioni sconfortanti. Ad esempio, così si è espresso Seton – Watson: «Tutto quello che posso dire è che una nazione esiste quando un numero significativo di persone all’interno di una comunità si considera come costituente una nazione, o agisce come se ne costituisse una».[2] Altrettanto vaga e sconcertante per il suo minimalismo è la nota definizione/ boutade di Renan, secondo cui la nazione sarebbe «Il plebiscito di tutti i giorni».
Queste definizioni minimali registrano il sospetto che la nazione sia comunque un qualcosa che c’è solo in quanto viene creduto come tale da un certo numero di persone. Si tratta tuttavia di un qualcosa che, proprio in quanto viene creduto, è in grado di operare nella storia quasi come se fosse un attore, di produrre degli effetti impressionanti, di condizionare le vite di milioni di persone, quasi come se fosse un fenomeno fisico, un terremoto o un uragano. Come si fa dunque a concepire un oggetto che esista nelle menti delle persone ma che nello stesso tempo presenti una sua oggettività prepotente e vincolante? Queste definizioni inoltre alimentano il sospetto che la nazione sia qualcosa di artificialmente costruito, cosa che peraltro è stata più volte ribadita dagli studiosi. Ad esempio Gellner ha affermato radicalmente che: «Il nazionalismo non è il risveglio delle nazioni all’autoconsapevolezza: piuttosto inventa le nazioni dove esse non esistono».[3] Anche Hobsbawm nel suo lavoro su L’invenzione della tradizione ha sostenuto posizioni assai simili, corredandole con una ampia e documentata casistica empirica. È come se gli individui costruissero qualcosa che poi si trovano di fronte come una potenza estranea, secondo il celebre modello della alienazione feuerbachiana.
 
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Lo studioso che ha manifestato la maggior consapevolezza intorno a questa problematica e che, in un certo senso, è stato abbastanza conseguente da trarre le inevitabili conclusioni, è stato Benedict Anderson, non un sociologo, si badi bene, ma un antropologo. Da questo punto di vista il suo volume Comunità immaginate costituisce un riferimento fondamentale.[4] La definizione di nazione proposta da Anderson è la seguente: «Si tratta di una comunità politica immaginata, e immaginata come intrinsecamente insieme limitata e sovrana. È immaginata in quanto gli abitanti della più piccola nazione non conosceranno mai la maggior parte dei loro compatrioti, né lì incontreranno, né ne sentiranno mai parlare, eppure nella mente di ognuno vive l’immagine del loro essere comunità».[5] Si noti che Anderson non aveva intenzione di produrre alcuna approfondita riflessione di ontologia sociale. Intendeva soltanto, nel capitolo iniziale del suo libro, offrire qualche ragionevole sostanza teorica ad alcune dettagliate indagini storiche ed empiriche circa i processi di formazione della nazione e circa il funzionamento dei nazionalismi.
Ciò che può farci capire la natura dell’oggetto in questione è che la nazione è una comunità che tuttavia non si basa su interazioni quotidiane faccia a faccia, come può capitare in un qualsiasi piccolo gruppo dotato di qualche stabilità. Non si basa proprio su alcun tipo di interazione, poiché i membri di una nazione sono per lo più tra loro dei perfetti sconosciuti. Gli appartenenti a una nazione per la maggior parte non si incontreranno mai di persona.[6] Il vincolo che li lega tra loro, che talvolta li costringe sensibilmente, è costituito da un’immagine che risiede nella mente di ciascuno. Solo in virtù di quell’immagine milioni di individui possono agire nella storia come fossero una nazione. In termine immagine è quanto mai generico, anche se è chiaro che Anderson intende «immagine mentale» e non certo immagine visiva. Una immagine mentale è però concepibile come una «idea», oppure come un «criterio». Si potrebbe anche intenderla come «simbolo», anche se lo stesso termine simbolo dovrebbe essere accuratamente definito. Si potrebbe ulteriormente aggiungere che questo tipo di entità (immagine, idea, criterio o simbolo) è comunemente caratterizzato da forti marcature di tipo emotivo.
 
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 La nazione dunque è un costrutto artificiale che è nello stesso tempo sociale e simbolico, ma che si presenta come qualcosa di eminentemente concreto. Che la nazione sia “inventata” – osserva Anderson - non equivale a dire che sia falsa o che costituisca un auto inganno, quanto piuttosto significa affermare che essa è un prodotto artificiale dell’immaginazione, della creatività degli individui. Ogni comunità appena più grande di un villaggio primordiale, dove tutti si conoscono, deve necessariamente essere costruita attraverso l’immaginazione. Si tratta dunque di un manufatto culturale dalla natura assai particolare, capace tuttavia di determinare le vite di milioni di persone. Ha osservato in proposito Anderson che: «…le grandi guerre di questo secolo sono straordinarie non tanto perché hanno permesso all’uomo di uccidere su una scala senza precedenti, quanto per il colossale numero di individui pronti a sacrificare le proprie vite».[7] Le nazioni dunque, secondo queste definizioni, nascono si sviluppano e agiscono grazie a una fabbrica dell’immaginazione.
Fuor di metafora, ci possiamo domandare come sia possibile produrre immagini, delle idee, dei criteri o simboli, di tipo omogeneo, in modo che questi possano essere, in un certo senso, distribuiti e ficcati nella mente, con relative marche emotive, di milioni di persone. La costruzione e la diffusione di simili manufatti non parte mai da zero. Sarebbe sbagliato pensare all’idea della nazione che esce dalla testa di una qualche Minerva. Occorre dunque fare riferimento a un apparato produttivo, il quale, nel caso della nazione, può essere diligentemente ricostruito ex post dallo storico antropologo. Anche qui, non c’è nulla di nuovo, sennonché occorre guardare cose vecchie, magari già risapute, con occhi decisamente nuovi.
 
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I produttori dei manufatti culturali che rendono possibile la nazione non possono che essere degli specialisti, quelli che siamo soliti chiamare «intellettuali». Ma ciò non basta, poiché occorre che ci siano delle condizioni di diffusione dei materiali immaginativi e simbolici. Queste condizioni si sono effettivamente realizzate in Occidente, grazie alla diffusione della stampa e alla (conseguente) diffusione dell’istruzione di massa. Non a caso, gli storici hanno individuato un fenomeno che hanno chiamato «nazionalizzazione delle masse» che è il processo attraverso il quale le masse sono state acculturate per quel che basta, in modo che potessero stare dentro a uno stato nazionale.[8]
La connessione tra la nascita della nazione e la stampa, è stata notata più volte dagli studiosi, anche se non è mai stata presa molto sul serio. Essa era già stata oggetto di una serie di studi da parte della scuola di Toronto. La Galassia Gutemberg di McLuhan ha spiegato abbondantemente, con dovizia di esempi, le varie interdipendenze tra la stampa e l’affermazione degli Stati nazionali.
Per quel che riguarda tutte queste connessioni, tra un nuovo ceto, gli intellettuali, alfieri della nazione, una nuova tecnologia (la stampa), la diffusione dell’istruzione e la formazione di un’opinione pubblica, non ha senso domandarsi se sia nato prima l’uovo o la gallina. Non possiamo che riconoscere un’interazione virtuosa tra tutti questi elementi. È stata questa interazione virtuosa a consentire la replicazione, in milioni di menti, delle stesse idee, degli stessi simboli, delle stesse immagini, affinché uno sconosciuto contadino, di un’imprecisata regione, abbia cominciato a dire «io sono francese» oppure «io sono tedesco», oppure ancora «io sono polacco». Naturalmente non è stata una replicazione passiva, poiché lo sconosciuto contadino è andato a scuola, ha imparato una lingua nazionale, ha imparato una serie di narrazioni nazionali, ha letto certi romanzi, in Chiesa gli hanno raccontato certe storie, ha cominciato a seguire un certo calendario, a obbedire a certe leggi, a leggere gli avvisi e le gazzette, a viaggiare in treno, a fare il servizio militare. Ecco che i simboli prodotti dagli intellettuali sono diventati vita materiale, vita quotidiana, relazioni interpersonali, istituzioni, norme. Tutto ciò ha permesso al contadino di crescere come essere umano, di diventare un individuo, di diventare un cittadino, di essere più libero nei confronti della necessità, ma tutto ciò ha anche accresciuto i suoi legami e i suoi obblighi nei confronti di quel manufatto simbolico culturale che è la nazione. La nazione gli ha chiesto di pagare le tasse, di fare il servizio militare, di andare a morire in trincea. E lui ha detto di sì.
Naturalmente tra gli intellettuali e la nazione si è instaurato un processo di interazione reciproca. Gli intellettuali hanno contribuito a creare la nazione, ma le nazioni, diventate istituzioni, diventate cioè stati-nazione hanno a loro volta contribuito a moltiplicare un certo tipo di intellettuali (ad esempio attraverso l’istruzione pubblica) che hanno continuato a loro volta a nazionalizzare i cittadini.
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Accanto agli intellettuali e alla stampa, un altro fattore che ha avuto una grande importanza è stato senz’altro la lingua nazionale. Gli intellettuali cui abbiamo fatto riferimento sono in effetti stati i creatori e supporter delle letterature nazionali. La lingua nazionale è un altro di quegli oggetti dalla natura incerta che vivono nelle menti dei singoli individui, ma che si presentano come qualcosa di terribilmente oggettivo (Bourdieu direbbe che le lingue sono incorporate).
Noi individualmente siamo i portatori della lingua nazionale, ma essa ci appare come un oggetto indipendente: ha delle regole assai restrittive, occorre molto tempo per apprenderla, è facile distinguere chi la parla da chi non la parla, si possono fare delle guerre, a partire dalle lingue. Il fatto è che le lingue non sono solo idee, sono delle vere e proprie tranche di vita. Come ha osservato Anderson: «Anche se ogni lingua è assimilabile, per padroneggiarla una persona deve investire una porzione di vita. Ogni nuova conquista si soppesa contro l’abbreviarsi dei giorni. A limitare l’accesso alle lingue, non è la loro impervietà, ma la nostra mortalità, ed è questa la causa di una certa privacy di ogni lingua».[9] La lingua nazionale, il costrutto simbolico che ci permette di immaginare la nazione cui apparteniamo, abbisogna di una lunga pratica, una lunga consuetudine. Abbisogna di un’incorporazione costante. È un processo faticoso che s’inscrive indelebilmente nelle nostre strutture cerebrali. La lingua madre diventa parte rilevante dell’identità personale di un individuo. Naturalmente poi una lingua nazionale si incorpora in una serie enorme di manufatti, come libri, biblioteche, archivi, giornali, fino alle insegne dei negozi, ai nomi delle città e dei paesi, ai nomi delle strade. Il prodotto simbolico diventa così oggettività sociale e oggettività materiale.
 
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Un altro elemento immaginativo/ simbolico che ha contribuito alla costruzione della nazione è costituito dalla sincronizzazione del tempo. Il passaggio da un tempo puramente soggettivo, ancorato alle esperienze locali,  a un tempo oggettivo valido per una ampia comunità di sconosciuti (Anderson lo ha chiamato tempo omogeneo) è un processo lento che è avvenuto attraverso i secoli, grazie a strumenti come i calendari e gli orologi. Anche in proposito, nulla di nuovo. Possiamo citare lo studio di Le Goff sul Tempo della Chiesa e tempo del mercante, oppure gli studi di Zerubavel sull’oggettivazione del tempo nella vita sociale.[10]
Affinché la comunità immaginata possa agire storicamente occorre una certa contemporaneità, una certa percezione di simultaneità e questa può essere realizzata solo attraverso le tecnologie comuni di sincronizzazione della vita sociale, in cui i sistemi di informazione e le comunicazioni hanno grande importanza. Il tempo omogeneo non può che essere immaginato, ma nello stesso tempo esso è tremendamente reale nelle sue conseguenze. Carlo Magno, per fare la guerra ai suoi vicini doveva aspettare il raduno di primavera, mentre i tempi della mobilitazione degli eserciti, nell’ordine di pochi giorni, hanno giocato un ruolo importante nello scatenamento della Grande guerra. Oggi, i tempi di reazione sono ancora più contenuti.
 
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 Gli studiosi della nazione spesso si sono concentrati sulla costruzione delle narrazioni fondative, anch’esse in gran parte opera degli intellettuali. Oppure, più recentemente, sulla costruzione di un parco di memorie comuni che vengono costantemente celebrate. Per brevità non ci addentreremo in questo tipo di argomenti, che comunque sono stati adeguatamente trattati da molti studiosi.[11] A sostegno di tutto ciò, Renan ha asserito che: «... l’essenza di una nazione è che tutti gli individui abbiano molte cose in comune, e anche che tutti abbiano dimenticato parecchie cose».[12] Non stiamo a riprendere poi il tema ampiamente trattato dagli studiosi  del ruolo svolto dalla costruzione della tradizione nell’ambito del nazionalismo.
 
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Anderson molto acutamente dopo aver definito le nazioni come comunità immaginate, andando alla ricerca della loro genesi, si è posto il problema – non nuovo – del rapporto tra le nazioni e le religioni. C’è una corrente di pensiero che ha interpretato le nazioni come delle religioni laiche. I nazionalismi non sarebbero altro se non la prosecuzione sul terreno laico dei fondamentalismi religiosi.
Le narrazioni religiose, al di là del loro contenuto specifico, che può essere anche molto vario, svolgono anch’esse la funzione di determinare la costituzione di comunità immaginate, ovvero di uno spazio sociale simbolico. Il Dio delle varie religioni è spesso un creatore, un progenitore, un ordinatore. Le religioni determinano immediatamente il gruppo dei fedeli in opposizione al resto del mondo. Le religioni si sono sempre riferite a gruppi particolari, mai a tutta l’umanità. Solo piuttosto tardi alcune religioni hanno preteso di riferirsi a tutta l’umanità. In Grecia ogni città aveva le sue divinità, anche se queste potevano essere trans-cittadine e riferirsi a un’area culturale più ampia di una città (più o meno come, nel cristianesimo, ogni città ha il suo santo protettore; ci possono essere tante diverse Madonne, legate a località diverse). Le guerre di conquista nel mondo antico comportavano la conquista delle divinità degli avversari. Gli ebrei facevano dei veri e propri contratti con la loro divinità. Ciascuno dei popoli nomadi viaggiava con le proprie divinità. Solo con lo stanziamento le divinità hanno cominciato ad abitare in certi luoghi ben definiti.
Ben prima della nazione, quindi, milioni d’individui si sono immaginati come appartenenti alla medesima comunità religiosa, grazie al lavoro di produzione simbolica di intellettuali di vario genere (sacerdoti, profeti, sciamani) con l’ausilio di lingue sacre e di particolari tecniche di memorizzazione e diffusione. Alcune religioni hanno svolto questa funzione di immaginazione della comunità religiosa attraverso l’uso della scrittura, attraverso la metafora del libro rivelato o ispirato, scritto - non dimentichiamolo - in una certa lingua, quella che diventerà la lingua comune del libro sacro, che è poi spesso l’antesignana della lingua nazionale.[13]
 
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Oggetti come la nazione sono dunque delle istituzioni artificiali che hanno una forma particolare di esistenza: esistono solo in quanto sono credute da un numero molto elevato di individui, ma proprio perché credute esse hanno la forza prepotente dell’oggettività: non è la stessa oggettività di un oggetto del mondo fisico, ma nella società umana si presenta con altrettanta cogenza. Questo tipo di oggetti è stato teorizzato esplicitamente nella filosofia di Searle.[14] Appartengono a questo tipo di oggetti cose estremamente diverse tra loro che hanno in comune il fatto di far dipendere il loro essere dalla intenzionalità di molti soggetti. Leggermente diversa è l’impostazione di Ferraris,[15] che fa dipendere la possibilità di costruire questi tipi di entità istituzionali dalla produzione di documentazioni di qualche tipo.
Rimandiamo a un altro intervento l’esame delle teorie di Searle e di Ferraris, concludendo con questa citazione di Searle in merito al rapporto tra ontologia e scienze sociali:  «… Che implicazioni ha questa descrizione, ammesso che ne abbia, nell’attuale ricerca delle scienze sociali? Penso che la risposta più breve sia che non ne ho davvero idea. […] quando ho tenuto una lezione su questi argomenti in memoria di Pierre Bourdieu a Parigi uno dei partecipanti, un sociologo americano specializzato nella sociologia dei sindacati, mi ha detto che il suo lavoro iniziava dove finiva il mio. Ho inteso che volesse dirmi che non gli è necessario conoscere i fondamenti ontologici dei sindacati. […] L’idea che penso avesse era che, come il geologo può studiare i movimenti delle placche tettoniche senza sapere dettagli della fisica atomica, così lui può studiare le dinamiche dei sindacati senza capire dettagli dell’ontologia sociale. In questo potrebbe aver ragione. Il mio istinto però mi dice che è sempre una buona idea capire le questioni di fondazione. Per me è molto più plausibile pensare che la comprensione dell’ontologia fondamentale di ogni disciplina approfondirà la comprensione degli argomenti all’interno di quella disciplina».[16]  Noi, se non si fosse ancor capito, siamo d’accordo con Searle.
 
                                                                                           Giuseppe Rinaldi
 
20/06/2014
 
 
 
OPERE CITATE
 
 
1983   Anderson, Benedict
Imagined Comunities, Verso, London.  Tr. it.: Comunità immaginate. Origini e diffusione dei nazionalismi, Manifestolibri, Roma, 1996.
 
2009   Ferraris, Maurizio
Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Laterza, Bari.
 
1983   Hobsbawm, Eric J.  &  Ranger, Terence   (a cura di)
The Invention of Tradition, Cambridge University Press, Cambridge.  Tr. it.: L’invenzione della tradizione, Einaudi, Torino, 1994.
 
2008   Rinaldi, Giuseppe
Storia e Memoria, in Ziruolo, Luciana   (a cura di), I Luoghi, la Storia, la Memoria, LeMani, Genova.
 
1995   Searle, John R.
The Construction of Social Reality, Free Press, Chicago.  Tr. it.: La costruzione della realtà sociale, Einaudi, Torino, 2006.
 
2010   Searle, John R.
Making the Social World: The Structure of Human Civilization, Oxford University Press, Inc., New York.  Tr. it.: Creare il mondo sociale. La struttura della civiltà umana, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2010.
 
1981   Zerubavel, Eviatar
Hidden Rhythms. Schedules and Calendars in Social Life, University of Chicago Press, Chicago, Illinois, USA.  Tr. it.: Ritmi nascosti. Orari e calendari nella vita sociale, Il Mulino, Bologna, 1985.
 
2003   Zerubavel, Eviatar
Time Maps. Collective Memory and the Social Shape of the Past, University of Chicago Press, Chicago, Illinois, USA.  Tr. it.: Mappe del tempo. Memoria collettiva e costruzione sociale del passato, Il Mulino, Bologna, 2005.
 
 
NOTE
 
[1] Cfr. Searle 1995 e Searle 2010. Cfr. anche Ferraris 2009.
[2] Citato in Anderson  1983: 25.
[3] Cfr. Anderson 1983: 25.
[4] Cfr. Anderson 1983.
[5] Cfr. Anderson 1983: 25.
[6] Gli insiemi matematici si possono definire per elencazione, elencandone tutti gli elementi uno ad uno, oppure per definizione, enunciando semplicemente una regola che permetta di stabilire l’appartenenza o meno all’insieme. Ebbene, mentre nelle relazioni amicali gli individui della nostra comunità sono conosciuti uno ad uno per elencazione, nel caso della nazione ciascuno di noi dispone al più di una serie di regole per definire se colui che incontra appartiene o non appartiene.
[7] Cfr. Anderson 1983: 147.
[8] Uso il concetto di nazionalizzazione delle masse in termini generali, e non in senso specifico, come fa qualcuno, riferendolo solo ai totalitarismi. Seguendo Mosse, la nazionalizzazione delle masse non è avvenuta solo nei regimi totalitari. 
[9] Cfr. Anderson 1983: 150.
[10] Cfr. Zerubavel 1981 e Zerubavel 2003.
[11] Sulla questione della memoria mi permetto di segnalare il mio saggio in Rinaldi 2008.
[12] Cfr. Anderson 1983: 25.
[13] Si pensi alla riesumazione dell’ebraico da parte di Israele, oppure al fatto che nella umma islamica, la lingua coranica, non effettivamente parlata da nessuna parte, costituisce il cemento culturale, al di là delle profonde diversità antropologiche dei vari popoli che aderiscono alla religione musulmana.
[14] Si vedano i già citati Searle 1995 e Searle 2010.
[15] Si veda il già citato Ferraris 2009.
[16] Cfr. Searle 2010: 267-268.