venerdì 13 giugno 2014

Alla ricerca del Principe

 
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Se c’è stato un orientamento filosofico che ha affrontato con grande attenzione la questione degli intellettuali, questo è senz’altro il marxismo. In effetti, il ruolo degli intellettuali ha sempre costituito, per il marxismo, una questione centrale, sebbene mai del tutto risolta e, forse, in quello stesso ambito irrisolvibile. Il problema fondamentale, da cui dipendono tutte le successive incertezze e inconcludenze, è costituito dal fatto che, nella teoria marxiana, l’intellettuale è considerato come una figura ambigua, teoricamente destinata alla soppressione ma, nello stesso tempo, considerata come necessaria e insostituibile per portare avanti il progetto di emancipazione della classe operaia. Secondo la teoria, espressa in modo relativamente chiaro nel Manifesto marxiano, gli intellettuali appartengono di norma alla classe dominante, sono i suoi agenti ideologici, gli addormentatori, i distributori di oppio. Per Marx tuttavia i comunisti, che sono un tipo particolare d’intellettuali, costituiscono anche l’avanguardia cosciente del proletariato e, come tali, essi producono la coscienza della nuova classe. Marx così non poteva che considerare gli intellettuali che si schieravano con il proletariato come dei casi anomali. Erano transfughi, traditori della propria classe. Ciò significava tra l’altro che la loro adesione al movimento comunista non rispondeva ad alcuna condizione oggettiva. Momentaneamente gli intellettuali/avanguardia erano necessari, tuttavia nella futura società comunista sarebbe stata abolita la divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale e ci sarebbe stata una ricomposizione di queste due forme divise di attività umana. L’intellettuale sarebbe allora diventato superfluo.
Quest’ambiguità teorica di fondo ha fatto sì che nel marxismo siano potuti pienamente coesistere atteggiamenti fortemente contrapposti, che vanno dalla esaltazione del ruolo degli intellettuali fino all’odio viscerale nei loro confronti, tanto da prospettare la loro stessa eliminazione. Rispetto alla teoria marxiana, il leninismo (recuperando certi elementi di giacobinismo) ha senz’altro dato un rilievo ancor più centrale agli intellettuali, insistendo sull’esigenza di una direzione da parte del partito. La classe operaia lasciata a se stessa al più avrebbe condotto una lotta di tipo economico, mentre la lotta politica doveva essere introdotta e guidata dalle avanguardie del partito. Nonostante ciò, nell’ambito del leninismo la conflittualità nei confronti degli intellettuali è aumentata piuttosto che diminuire e molti intellettuali sono stati oggetto di persecuzione. D’altro canto anche in esperienze relativamente recenti di socialismo o di comunismo reale si è proceduto alla persecuzione e addirittura alla soppressione fisica degli intellettuali in quanto tali. Da questo punto di vista, Pol Pot va considerato come uno dei marxisti più coerenti del XX secolo.
Gramsci, fra i teorici marxisti, è stato indubbiamente colui che ha affrontato con maggiore consapevolezza, continuità e coerenza la questione degli intellettuali. Oltretutto la sua teoria degli intellettuali ha avuto un notevole peso nella cultura italiana del secondo Novecento e la sua influenza si sente ancora oggi. Nonostante sia sempre meno studiato in Italia, Gramsci sta conoscendo un rilevante successo nella cultura anglo americana, soprattutto in concomitanza con la diffusione, nelle scuole e università anglo americane, dei cosiddetti controversi cultural studies. Cercheremo in questo saggio di riprendere il pensiero di Gramsci sugli intellettuali nelle sue linee essenziali e cercheremo di farlo interagire con alcune delle questioni che si pongono nei giorni nostri.
 
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La teoria gramsciana degli intellettuali non appartiene del tutto al filone dell’ortodossia marxista, segno che il carcere ha avuto se, non altro, la positiva influenza di tenere lontani dall’Autore gli occhiuti controllori filo moscoviti e di permettergli di esprimere il suo pensiero effettivo, nella misura a sua volta consentita dai censori locali. Le peculiarità del pensiero gramsciano sono senz’altro dovute all’influenza caratteristica dello storicismo crociano, sul cui merito qui non possiamo addentrarci, e al fatto che Gramsci scrive in un periodo in cui ci si poteva agevolmente render conto del fallimento di molte previsioni di Marx, per cui si trattava di battere nuove strade. In particolare era fallita la previsione secondo cui la rivoluzione si sarebbe realizzata in Occidente, nelle aree dove il capitalismo era maggiormente sviluppato. All’epoca in cui Gramsci scriveva, tutti i tentativi di rivoluzione nei paesi avanzati erano falliti e l’unico tentativo che aveva avuto successo si era realizzato in Russia, uno dei paesi più arretrati.  Questa complessa problematica aveva spinto diversi studiosi marxisti a riflettere sulla questione della pervicace e persistente egemonia culturale della borghesia [1] in Occidente e sull’esigenza che proletariato, attraverso il suo partito, perseguisse la costruzione di una propria cultura capace di diffondersi e sopravanzare la borghesia stessa. Questa è la motivazione profonda per cui Gramsci ha prestato una grande attenzione alla questione degli intellettuali e alla questione della cultura, fino a contestare apertamente il determinismo marxiano circa i rapporti tra struttura e sovrastruttura.
Il ripensamento di Gramsci circa il ruolo degli intellettuali avveniva del resto a poca distanza dalla revisione “orientale” operata da Lenin. In fondo, l’analisi leninista secondo cui il proletariato spontaneamente avrebbe al più potuto sviluppare una coscienza trade-unionista e secondo cui, quindi, occorreva che la coscienza fosse importata dall’esterno, da un manipolo di avanguardie coscienti, rappresenta senz’altro il punto di partenza della riflessione gramsciana. Lenin, date le condizioni in cui si trovava a operare, aveva finito per produrre un modello di partito strutturato fondamentalmente secondo la visione giacobina. Gramsci, data la base storicista della sua formazione e dato il contesto di uno stato liberale occidentale in cui si trovava a operare, è stato in grado di porre con maggior chiarezza il problema della cultura e dell’egemonia culturale nell’ambito del processo rivoluzionario. Gramsci è stato indotto a occuparsi di queste problematiche anche in seguito alla costatazione dell’ampio consenso popolare con cui il fascismo aveva preso il potere.
 
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Dal punto di vista metodologico, chi cerchi volonterosamente di affrontare lo studio dei Quaderni gramsciani dedicati agli intellettuali si imbatterà ben presto in una affermazione programmatica, la quale potrà essere del tutto trascurata - infatti Gramsci stesso la mette tra parentesi - oppure potrà diventare un’importante chiave di lettura della stessa posizione gramsciana sugli intellettuali: «(Questa ricerca sulla storia degli intellettuali non sarà di carattere «sociologico», ma darà luogo a una serie di saggi di «storia della cultura» (Kulturgeschichte) e di storia della scienza politica. Tuttavia sarà difficile evitare alcune forme schematiche e astratte che ricordano quelle della «sociologia»: occorrerà pertanto trovare la forma letteraria piú adatta perché l’esposizione sia «non-sociologica». La prima parte della ricerca potrebbe essere una critica metodica delle opere già esistenti sugli intellettuali, che quasi tutte sono di carattere sociologico. Raccogliere la bibliografia sull’argomento è pertanto indispensabile)».[2]
Gramsci dunque si vergogna, nella sua cella, al cospetto del suo lettore ideale, di fare della sociologia. Il che è in perfetta sintonia con Benedetto Croce, ma assai poco in sintonia con i principi fondamentali del marxismo e con lo stesso argomento che si accinge ad affrontare. È evidente che i «sociologi» che egli mette tra virgolette sono per lui intellettuali di poco conto. E sì che, nel momento in cui scrive, possiamo già considerare compiuta l’opera di personaggi come Weber o come Durkheim, ma anche come Pareto, Mosca e Michels, che non erano sconosciuti allo stesso Gramsci. Egli aveva comunque maturato il fermo proposito di non praticare l’arte meccanica della sociologia (in cui finora secondo lui si erano esercitati gli studiosi degli intellettuali) ma di affrontare il suo argomento con un taglio metodologico completamente diverso, non schematico, non astratto (i marxisti hanno sempre il terrore dell’astrazione). L’alternativa alla sociologia – invero piuttosto banale, date le premesse programmatiche – era quella di usare la storia. La riflessione gramsciana sugli intellettuali si presenta quindi soprattutto come una riflessione storica capace di ridefinire complessivamente le questioni tattiche e strategiche del movimento operaio in Occidente. Si tratta senz’altro di una scelta compatibile con le durissime condizioni in cui Gramsci scriveva – e in ciò egli ha tutta la nostra comprensione umana – ma senz’altro di una scelta un poco fuorviante, che l’ha condotto a produrre una serie di annotazioni, di schede diremmo oggi, che disperdono l’attenzione nel particulare, tipico della ricerca storiografica, e che impediscono una sintesi compiuta sulla problematica affrontata.
Non a caso, come per una sorta di Nemesi, le poche pagine che sono continuamente citate da tutti gli studiosi e i commentatori, sono proprio quelle dove, contrariamente alle proprie intenzioni programmatiche, egli si è comportato, ahimè, da «sociologo» e quindi dove ha prodotto una tipologia degli intellettuali che, per quanto discutibile, ha in effetti fatto molto discutere ed è stata anche densa di conseguenze.
 
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Secondo Gramsci, e in ciò non si riscontrano differenze rispetto alla tradizione marxiana, gli intellettuali non costituiscono una classe sociale autonoma. La loro presenza storica è sempre derivata dalla presenza di altre classi. Tuttavia trattamento gramsciano degli intellettuali è assai più analitico e per molti aspetti originale, e ciò va senz’altro considerato come un positivo effetto della sua prospettiva storicistica. Nei Quaderni del carcere egli ha sviluppato la sua famosa distinzione tra due tipi fondamentali di intellettuali: 1) gli intellettuali organici e 2) gli intellettuali tradizionali.
Gli intellettuali organici sono quelli tipici della tradizione marxista, che hanno il compito di produrre la coscienza del gruppo o della classe che li esprime. Scrive infatti lo studioso: «Ogni gruppo sociale, nascendo sul terreno originario di una funzione essenziale nel mondo della produzione economica, si crea insieme, organicamente, uno o più ceti di intellettuali che gli dànno omogeneità e consapevolezza della propria funzione non solo nel campo economico ma anche in quello sociale e politico».[3]  Gli intellettuali organici sarebbero, in altri termini, i produttori della sovrastruttura, anche se, come vedremo, in Gramsci la sovrastruttura non è separata ma è fortemente interconnessa con la società civile. Ciò bastava per riconoscere l’esistenza di intellettuali organici alla classe borghese, ma anche quella di intellettuali organici al proletariato. Va precisato che per Gramsci, sulla scorta delle sue osservazioni storiche, non tutti i gruppi sociali sono tuttavia in grado di dare vita ai propri intellettuali organici. Egli aveva notato l’eccezione dei contadini: «Cosí è da notare che la massa dei contadini, quantunque svolga una funzione essenziale nel mondo della produzione, non elabora propri intellettuali «organici» e non «assimila» nessun ceto di intellettuali «tradizionali», quantunque dalla massa dei contadini altri gruppi sociali tolgano molti dei loro intellettuali e gran parte degli intellettuali tradizionali siano di origine contadina».[4]
Più complessa e problematica è la definizione della categoria degli intellettuali tradizionali. Gramsci doveva essersi accorto, sempre a partire dalle sue indagini storiche, che l’avvicendamento delle classi (e dei relativi intellettuali organici aggiunti) non seguiva alla lettera lo schema di Marx. Alcuni gruppi di intellettuali continuavano a sussistere per lungo tempo anche quando era ormai venuta meno la loro ragione storica nei termini dello sviluppo delle forze produttive. Anche quando cioè la classe che li aveva portati in auge era declinata o addirittura sparita. Scrive lo studioso in proposito: «La piú tipica di queste categorie intellettuali è quella degli ecclesiastici, monopolizzatori per lungo tempo (per un’intera fase storica che anzi da questo monopolio è in parte caratterizzata) di alcuni servizi importanti: l’ideologia religiosa cioè la filosofia e la scienza dell’epoca, con la scuola, l’istruzione, la morale, la giustizia, la beneficenza, l’assistenza ecc. La categoria degli ecclesiastici può essere considerata la categoria intellettuale organicamente legata all’aristocrazia fondiaria: era equiparata giuridicamente all’aristocrazia, con cui divideva l’esercizio della proprietà feudale della terra e l’uso dei privilegi statali legati alla proprietà».[5] Tuttavia, pur con la decadenza dell’aristocrazia fondiaria, questi intellettuali avevano continuato a svolgere ruoli di primo piano e avevano finito per lasciarsi egemonizzare dalla nuova classe dominante borghese. Questi intellettuali dunque avrebbero, in un certo senso, la propensione a stare dalla parte dei vincitori, cercando in cambio di ottenere il riconoscimento di alcune loro prerogative.
La strana situazione storica di questi intellettuali produceva in loro una sorta di falsa coscienza: «Siccome queste varie categorie di intellettuali tradizionali sentono con «spirito di corpo» la loro ininterrotta continuità storica e la loro «qualifica», così essi pongono se stessi come autonomi e indipendenti dal gruppo sociale dominante; questa auto-posizione non è senza conseguenze nel campo ideologico e politico, conseguenze di vasta portata (tutta la filosofia idealista si può facilmente connettere con questa posizione assunta dal complesso sociale degli intellettuali e si può definire l’espressione di questa utopia sociale per cui gli intellettuali si credono «indipendenti», autonomi, rivestiti di caratteri loro propri, ecc.».[6] Insomma, gli intellettuali tradizionali finiscono per comprendere tutto quel che resta fuori oltre gli intellettuali organici, dagli ecclesiastici fino ai filosofi idealisti. Saremmo tentati di considerarla come una categoria residuale.
 
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Nei Quaderni del carcere compare tuttavia anche un altro tipo d’intellettuale, il cosiddetto intellettuale cosmopolita. Gramsci, riflettendo sulla storia d’Italia, si era, infatti, occupato ripetutamente del «cosmopolitismo» degli intellettuali italiani.   Contrariamente a quel che ci potremmo attendere in un dibattito sugli intellettuali, in Gramsci “cosmopolita” è un termine che ha spesso una connotazione fortemente negativa. L’accusa gramsciana più ricorrente nei confronti degli intellettuali italiani dei secoli precedenti è infatti quella di essere sempre stati separati dal popolo e di essersi limitati a intrattenere relazioni con altri intellettuali, magari di altri paesi o addirittura di tutto il mondo. Insomma, cosmopolitismo per Gramsci significa non avere un popolo di riferimento, significa élitarismo, separazione dal compito storico concreto di sviluppare una coscienza nazionale popolare. A differenza degli intellettuali italiani che si erano macchiati, appunto, di cosmopolitismo, egli apprezzava invece gli intellettuali francesi che avevano saputo gettare basi di una coscienza nazionale e avevano poi partecipato attivamente alla rivoluzione. È probabile che, dal punto di vista di una classificazione sociologica – cosa in cui Gramsci non si è cimentato - gli intellettuali cosmopoliti costituissero per lui soltanto una varietà contingente degli intellettuali tradizionali che si era distinta, nella storia italiana, per la propria evanescenza e inconcludenza.
Nei confronti degli intellettuali italiani cosmopoliti, Gramsci ha espresso dunque una esplicita condanna di tipo politico e di tipo morale. È chiaro che Gramsci, dati questi presupposti, non poteva essere in grado di apprezzare le rilevanti figure degli intellettuali cosmopoliti che avevano contribuito a costruire l’idea stessa della modernità. Coloro che avevano saputo rifiutare le piccole patrie, le chiusure e i particolarismi. Avevano saputo operare in tempi bui senza fare troppi compromessi e riuscendo a mantenere una certa loro autonomia. Il maestro di tutti costoro è stato senz’altro Erasmo.  Costoro oltre a tutto avevano dovuto resistere ai tentativi di arruolamento, ai tentativi di essere trasformati in intellettuali organici, avevano dovuto resistere ai tentativi di classificazione che erano stati appiccicati loro addosso (servi, nemici, traditori, disertori). Uno come Erasmo che aveva declinato l’invito di Lutero a diventare organico alla Riforma non poteva che essere un disertore, mentre Lutero, che aveva guidato una rivoluzione popolare nazionale non poteva che rappresentare un esempio tipico di intellettuale organico.[7]
Da ciò possiamo comprendere quanto fosse lontana da Gramsci la nozione di una autonomia culturale degli intellettuali. Un riconoscimento dell’autonomia degli intellettuali avrebbe intanto implicato il riconoscimento della sfera intellettuale come di una sfera separata sul modello della filosofia di Croce; secondariamente una situazione di autonomia, invece di essere considerata come un progresso storico, veniva considerata dunque da Gramsci come una ingannevole illusione prodotta dagli intellettuali stessi. Gli intellettuali che rivendicano la loro autonomia semplicemente credono di essere indipendenti. Per smascherarli è sufficiente considerare la loro base materiale, in soldoni, chi fornisce loro la ciotola quotidiana. Una simile analisi, invero piuttosto rozza, non era nuova, era anzi piuttosto utilizzata anche in ambienti diversi dal marxismo. Schopenhauer ad esempio sosteneva che Hegel non poteva essere un vero filosofo poiché riscuoteva lo stipendio dal governo prussiano. In sintesi, gli intellettuali tradizionali, pur credendosi liberi, sono in realtà 1) dipendenti dal punto di vista economico e 2) dipendenti culturalmente dalla classe originaria che li ha espressi, da cui non possono distaccarsi più di tanto. La teoria dell’auto inganno degli intellettuali (nonostante siano intellettuali, sono così stupidi da ingannarsi circa la loro vera condizione!) va naturalmente collocata nell’ampio solco delle filosofie del sospetto. Una delle tante rivelazioni di verità latenti di cui il marxismo si è sempre mostrato assai orgoglioso.
 
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Non è possibile trattare adeguatamente della concezione degli intellettuali di Gramsci senza puntualizzare quale fosse la sua concezione della cultura. Ciò soprattutto per evitare facili generalizzazioni con concetti similari che circolano ai giorni nostri. Anzitutto occorre comprendere come la definizione gramsciana della cultura non fosse assolutamente di tipo antropologico, bensì di tipo storico politico. Gramsci, abbiamo già osservato, pur essendo a tutti gli effetti un marxista, era contrario al determinismo tra la base materiale e la sovrastruttura. Questa sua posizione non rispecchiava soltanto una questione teorica, poiché il fallimento pratico della rivoluzione in Occidente e la capacità egemonica mostrata a tutti gli effetti dalla borghesia nel consolidare il proprio potere avevano mostrato ampiamente che la distinzione base/ sovrastruttura andava rivista. A questa esigenza di revisione Gramsci aveva risposto attraverso la concezione dello Stato integrale.[8]
Si tratta di un concetto piuttosto complesso, messo a punto per approssimazioni successive. Nella tradizione marxista, lo Stato era considerato come una sovrastruttura, dunque un elemento derivato a partire dalla formazione economico sociale capitalistico borghese. Lo Stato era considerato come il «gendarme» o il «comitato d’affari» della classe borghese. Esso, in condizioni tattiche favorevoli, poteva dunque essere conquistato attraverso quella che veniva chiamata metaforicamente da Gramsci la guerra di movimento. La conquista dello Stato sarebbe stata solo la prima fase di un lungo processo di trasformazione economico e sociale che avrebbe instaurato il comunismo.
In seguito all’insuccesso nella rivoluzione in Occidente,[9] Gramsci aveva compreso come la borghesia avesse nel frattempo dato vita a un’articolazione assai più complessa dello Stato tradizionale, appunto uno Stato integrale, che può essere concepita come una formazione socio-politica comprendente i tradizionali aspetti sovrastrutturali dello Stato, in quanto potere politico e ideologia, uniti insieme con quanto veniva allora definito come società civile. Insomma, tutte le articolazioni della società civile si sarebbero borghesizzate, sarebbero state integrate e funzionalizzate al potere statuale della borghesia. Lo Stato integrale era l’espressione delle capacità egemoniche della borghesia, della sua capacità di unire alla tradizionale coercizione del gendarme anche una spiccata capacità di leadership. Metaforicamente, in risposta a questa strategia, si trattava allora di passare alla guerra di posizione. Occorreva cioè costruire una capacità egemonica da parte del proletariato che avrebbe dovuto strappare alla borghesia, poco a poco, tutte le sue fortificazioni.
In questo progetto, i veri catalizzatori avrebbero dovuto essere gli intellettuali, i produttori di cultura, che avrebbero dovuto costruire una nuova cultura egemonica, organica alla posizione sociale della classe in ascesa. Gli intellettuali erano indispensabili perché le masse ormai inglobate nello «Stato integrale» non sarebbero state in grado di uscire dalla propria condizione di subordinazione, non sarebbero state in grado di contrastare l’egemonia matura della borghesia: «Sono gli intellettuali che trasformano i “sentimenti” incoerenti e frammentari di coloro che vivono in una particolare posizione di classe in un resoconto coerente e ragionato del mondo come esso appare da quella posizione».[10] Le classi subalterne hanno dunque bisogno di un ceto intellettuale che provveda all’organizzazione della loro cultura: «È l’incapacità delle classi subalterne nell’organizzare la loro esperienza che costituisce forse la loro debolezza principale, che impedisce loro di andare oltre la condizione di subordinazione. Per ogni gruppo la conquista del dominio e il fatto di rendere egemonica la propria concezione del mondo, e quindi di riprodurre quella stessa egemonia, richiede organizzazione. Il lavoro organizzativo è per Gramsci una parte integrale della produzione di un tipo di conoscenza che è in grado di agire nel mondo, dato che la conoscenza che non trasforma il mondo non è che sterile pedanteria».[11]
 
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Il problema ruotava dunque intorno alla questione dell’egemonia culturale. Posto che la classe borghese aveva saputo conquistare ed esercitare l’egemonia culturale, occorreva allora comprendere come questo era avvenuto e occorreva costruire un’egemonia culturale alternativa, dal punto di vista del proletariato. Per questo occorreva allora avere una certa chiarezza intorno al funzionamento dei meccanismi stessa dell’egemonia, occorreva mettere a punto una sorta di sociologia dell’egemonia culturale.
Uno dei più importanti studiosi del pensiero gramsciano ha sintetizzato in questo modo la nozione di egemonia: «Gramsci afferma che la supremazia di un gruppo sociale o di una classe si manifesta in due diversi modi: il “dominio” o coercizione e la “direzione intellettuale e morale”. Quest’ultimo tipo di supremazia costituisce l’egemonia. Il controllo sociale, in altre parole, assume due forme basilari: oltre a influenzare il comportamento e le scelte esternamente, attraverso compensi e punizioni, esso li condiziona dall’interno, plasmando le convinzioni personali secondo le norme vigenti. Questo “controllo interno” si basa sull’egemonia, che fa riferimento a un ordine entro il quale si parla un comune linguaggio sociale-morale, in cui domina un concetto di realtà che conferisce forma con il suo spirito a tutte le modalità di pensiero e di comportamento. Ne consegue che l’egemonia è il predominio ottenuto attraverso il consenso piuttosto che con la forza di una classe o gruppo sulle altre classi. Inoltre, mentre il “dominio” è realizzato, essenzialmente, attraverso la macchina coercitiva dello Stato, la “direzione intellettuale e morale è oggettivata nella, e principalmente esercitata attraverso la, “società civile”, l’insieme delle istituzioni educative, religiose e associative. L’egemonia è realizzata attraverso la miriade di modalità  attraverso cui le istituzioni della società civile operano per dar forma, direttamente o indirettamente, alle strutture cognitive e affettive attraverso cui gli uomini percepiscono e valutano la realtà sociale problematica. Per di più, questa superiorità ideologica deve avere solide radici economiche: “se l’egemonia è etico-politica, essa deve anche essere di tipo economico, deve anche avere il suo fondamento nella funzione decisiva che il gruppo dirigente esercita nel nucleo decisivo dell’attività economica”».[12]
L’egemonia dunque è come il canto delle Sirene: chi lo ascolta ne è preso completamente e quindi cade in una condizione di subordinazione volontaria (anche se si suppone contraria ai propri autentici interessi). È piuttosto facile criticare la dominazione, poiché essa è qualcosa di estrinseco, qualcosa di imposto con la forza, qualcosa che comunque finisce per non avere alcuna vera efficacia, poiché la dominazione non è persuasiva. L’egemonia è invece perfettamente persuasiva. Si potrebbe dire che l’egemonia è una dominazione dolce, una dominazione che proviene da dentro anziché da fuori. Si potrebbe arguire che si tratti della dominazione perfetta. Ebbene, Gramsci vuole che i suoi intellettuali organici, contro la dominazione perfetta della borghesia, siano capaci di praticare una dominazione contraria altrettanto perfetta.
 
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L’intellettuale organico gramsciano si caratterizza dunque non per la natura intrinseca delle attività intellettuali che svolge ma per la sua funzione. Infatti, Gramsci ha osservato esplicitamente che non tutti coloro che pensano svolgono la funzione di intellettuali. Ciò che definisce l’intellettuale non è il possesso dei lumi dell’intelletto ma il fatto che esso ha, nella società, la responsabilità di produrre la conoscenza e/o di trasmetterla. Gli intellettuali non sono meramente coloro che pensano, ma coloro i cui pensieri hanno un certo peso e una certa autorità nel contesto storico sociale. Sono coloro attraverso i quali le classi sociali fanno la storia. Come ha affermato Crehan: «Gramsci [...] sposta l’attenzione dall’intellettuale in quanto individuo verso l’insieme del sistema di relazioni all’interno di cui la conoscenza viene prodotta, e verso il modo in cui questa attività è collocata nel complesso generale delle relazioni sociali. In altri termini egli è interessato alle istituzioni e alle pratiche che producono conoscenza socialmente riconosciuta e in come gli individui sono collocati in queste, piuttosto che in un solitario pensatore individuale. Una conseguenza veramente importante di tutto ciò è che l’intellettuale in Gramsci può essere un gruppo piuttosto che un individuo singolo».[13]
Non bastano dunque gli intellettuali «cosmopoliti», isolati, individualisti, ma occorrono intellettuali organici al progetto egemonico del proletariato che sappiano comprendere come la loro attività culturale, per avere un qualche impatto, deve essere coordinata da un progetto politico, deve essere organizzata. Le battaglie intellettuali, se non sono esibizione di mera pedanteria, sono sempre battaglie politiche. Questo perché se non riesce ad affermarsi l’egemonia del proletariato si afferma inevitabilmente l’egemonia borghese attraverso la sua rivoluzione passiva. Per Gramsci le società non sono campi neutri in cui differenti e autonome culture possano coesistere felicemente. Esse sono campi di battaglia in cui coloro che sostengono concezioni del mondo radicalmente differenti si battono per la supremazia. La teoria gramsciana degli intellettuali sconfina dunque direttamente nella teoria del partito politico.  Per Gramsci, il partito politico non può che essere un partito di intellettuali, un collettivo di intellettuali: «Che tutti i membri di un partito politico debbano essere considerati come intellettuali, ecco un’affermazione che può prestarsi allo scherzo e alla caricatura; pure, se si riflette, niente di piú esatto. Sarà da fare distinzione di gradi, un partito potrà avere una maggiore o minore composizione del grado piú alto o di quello piú basso, non è ciò che importa: importa la funzione che è direttiva e organizzativa, cioè educativa, cioè intellettuale».[14]
Per Gramsci era estremamente importante l’integrazione che avrebbe dovuto realizzarsi nella vita del partito, impegnato nella lunga guerra di posizione: «Con l’estendersi dei partiti di massa e il loro aderire organicamente alla vita più intima (economico-produttiva) della massa stessa, il processo di standardizzazione dei sentimenti popolari da meccanico e casuale diventa consapevole e critico. La conoscenza e il giudizio di importanza di tali sentimenti non avviene più da parte dei capi per intuizione ... ma avviene da parte dell’organismo collettivo per “compartecipazione attiva e consapevole”, per “con-passionalità”, per esperienza dei particolari immediati ... Così si forma un legame stretto tra grande massa, partito, gruppo dirigente, e tutto il complesso, ben articolato, si può muovere come un “uomo collettivo”».[15]
Il partito di Gramsci è dunque un partito integrale che avrebbe dovuto essere in grado di fare da contraltare allo Stato integrale. Si tratta di un partito inteso come un collettivo di intellettuali organici capace di produrre una sintesi della volontà dei dirigenti con quella della massa. La compattezza organizzativa raggiunta e l’unità d’azione, resa necessaria dalla prassi quotidiana, avrebbero armonizzato le differenze interne, tanto che lo stesso partito avrebbe potuto essere considerato come un unico intellettuale collettivo. È chiaro che qui diventava massima la tensione tra il pluralismo di un collettivo di intellettuali e il monolitismo dell’intellettuale collettivo. Gramsci non ha spiegato come si potesse risolvere questa tensione implicita nella sua stessa nozione del nuovo Principe. Probabilmente avrebbe tirato in ballo la dialettica.
 
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Ci si può domandare se il modello di intellettuale organico, adombrato nei Quaderni sia mai stato preso sul serio e praticato da qualcuno e, in particolare, dal Partito Comunista Italiano. Non possiamo qui addentrarci in questa problematica, anche se il sospetto è che la strada effettiva seguita dal PCI, in quanto nuovo Principe, pare non abbia fatto altro che ricalcare proprio quei processi di integrazione progressiva dell’opposizione che Gramsci aveva già individuato come caratteristica della rivoluzione passiva e della fase egemonica della borghesia. Il modello gramsciano dell’intellettuale organico forse è diventato famoso più all’esterno che all’interno del PCI, più presso quegli intellettuali solitari ma engagé, in dissidio con la loro cultura d’origine, che avrebbero anche aspirato a farsi organici, ma che non hanno mai trovato un nuovo Principe disposto a prenderli in considerazione.
Dell’intellettuale organico tutto si può dire, ma non che non sia stato accuratamente delineato e descritto dallo stesso Gramsci in tutte le sue particolarità. Si tratta di un modello che aveva oltretutto il pregio di essere parte di una visione complessiva del mondo, capace quindi di fornire delle risposte solide per tutti coloro che si trovassero in una situazione di confusione, che fossero alla ricerca di una collocazione, di un ruolo, di valori in cui credere. Forse è proprio questo il motivo per cui esso ha fatto alquanto discutere e per cui se ne discute ancora. La sua attualità oggi non ha certo a che fare con una sua effettiva proponibilità, ha piuttosto a che fare con la possibilità che esso offre di scandagliare rigorosamente le principali problematiche relative alla funzione degli intellettuali. Il confronto con un modello chiaro e distinto come quello gramsciano può essere utile in un’epoca nella quale tutti i modelli sembrano definitivamente tramontati.
Intanto, emerge con estrema chiarezza, da parte di Gramsci, il rifiuto del cosmopolitismo intellettuale, di qualsiasi idea di autonomia degli intellettuali e/o di qualsiasi riconoscimento dell’autonomia di una sfera intellettuale distinta dalle altre sfere. I vari public intellectual dei giorni nostri sarebbero stati considerati da Gramsci alla stregua degli intellettuali tradizionali (anche se, paradossalmente, lo stesso pensiero gramsciano può avere influenzato molti di loro). Costoro sarebbero stati accusati di credersi detentori di un ruolo del tutto auto illusorio e sarebbero stati invitati a prendere coscienza della loro effettiva posizione nella lotta tra le classi. Dal punto di vista gramsciano non esiste una sfera separata della cultura e ciò accade tanto più quanto la società diventa complessa e sviluppata. Qualunque operazione culturale ha sempre un segno preciso: quel che accade in campo culturale ha risvolti immediatamente politici e va interpretato alla luce dello scontro epocale tra le classi.
Parallelo al rifiuto del cosmopolitismo degli intellettuali, in Gramsci c’è una rigetto di qualsiasi pluralismo culturale o, se si preferisce, di qualsiasi multiculturalismo o relativismo. Le culture sono certamente plurali ma restano sempre espressione degli interessi e della visione del mondo delle rispettive classi. Poiché le classi sono in competizione per l’egemonia, anche le culture si trovano in una situazione di conflitto permanente. In Occidente anzi è proprio sul piano delle culture che si gioca una parte consistente della guerra di posizione. In questa situazione, ogni forma di neutralità, ogni proposito di tenersi al di sopra della mischia, non possono che essere considerati come illusori o ideologici. Il multiculturalismo, così popolare oggi proprio tra i cultural studies, sarebbe stato considerato da Gramsci come un’espressione ennesima della rivoluzione passiva della borghesia.
In quest’ottica, i criteri di valutazione dei prodotti culturali non saranno mai intrinseci, bensì del tutto estrinseci. L’innovazione culturale, in questo quadro, è radicata non in un qualche tipo di irriducibile creatività individuale, bensì nel quadro dell’antagonismo, della lotta per l’egemonia. I criteri di successo dell’innovazione culturale non appartengono a una sfera separata (il bello, il vero,…) ma sono criteri di successo che hanno a che fare con la conquista dell’egemonia stessa.  Insomma, in campo culturale vige una sorta di razionalità del fatto compiuto per cui chi ha l’egemonia ha ragione, nel senso che ha vinto. Solo riuscendo a conquistare effettivamente l’egemonia si può mostrare di avere più ragione. Fino a quando la nuova egemonia non sarà saldamente conquistata, ogni innovazione culturale che cerchi di imporsi rimane una ipotesi che deve fare i conti con la storia. L’innovazione culturale dunque non può essere confinata alla sfera delle idee, è sempre strutturalmente un fatto politico che viene realizzato solo con gli strumenti della politica, all’interno dell’organizzazione politica. In questo senso Gramsci avrebbe probabilmente sottoscritto l’equazione foucaultiana tra sapere e potere. Solo il nuovo Principe, il partito integrale, è in grado di mettere in moto il cambiamento culturale inserendolo all’interno del proprio progetto politico. Non c’è innovazione culturale che non sia l’espressione di un progetto politico, dunque non c’è innovazione culturale che non sia politicamente marcata.  Il singolo intellettuale, dunque, è sempre un personaggio in cerca di autore, un cane in cerca del padrone, un cavaliere errante in cerca di una causa per cui combattere. Sono i centri di potere che organizzano i progetti di cambiamento culturale dotati di un respiro storico e che arruolano, per questo compito, i singoli intellettuali.
 
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Poiché il successo dell’operazione culturale, quale che essa sia, non è mai un successo dell’intellettuale individuale, la conferma o la confutazione dell’ipotesi gramsciana dunque riposava non tanto dal lato degli intellettuali, quanto dal lato del nuovo Principe. Dopo Gramsci, limitandoci a considerare la situazione italiana, il nuovo Principe, è stato variamente individuato. In primo luogo esso è stato individuato nel PCI e in secondo luogo, da parte di coloro che invece hanno considerato fallita l’esperienza del PCI, è stato individuato nei cosiddetti gruppi e  movimenti che sono fioriti negli anni Sessanta e Settanta.
Il PCI fin dalle origini ha sempre mostrato una notevole consapevolezza circa la problematica della cultura e degli intellettuali. Esso ha in effetti tentato, a livello organizzativo, di produrre un apparato culturale, costituito da case editrici, giornali, istituti di ricerca. Ha arruolato nelle sue file, seppure con qualche conflittualità, molti intellettuali di valore. Per un certo periodo sarebbe effettivamente riuscito a esercitare una certa egemonia culturale (in concorrenza con quella esercitata dalla DC, dotata di ben altri mezzi).[16] Fin dall’inizio della sua storia tuttavia il Pci ha dovuto affrontare lo spinoso problema dell’autonomia degli intellettuali, bene esemplificato dalla nota polemica tra Vittorini e Togliatti. Un travaglio assai simile si è avuto in relazione alla presenza, talora dentro, talora ai margini, talora fuori del partito,  di alcune figure «ingombranti», come ad esempio Pavese, Fortini o Pasolini. L’impressione che si ha, ripensando globalmente agli anni Cinquanta e Sessanta, è che vi fosse nel Paese un’area di intellettualità decisamente volta a sinistra, assai più estesa di quanto il PCI sapesse egemonizzare e condizionare. Si è così progressivamente manifestata, proprio dentro al nuovo Principe, una spaccatura sempre più ampia tra le logiche organizzative della politica e le logiche indipendentiste della cultura, fino a determinare quello che Ajello ha chiamato il «lungo addio» tra il partito e gli intellettuali.
Al di fuori del PCI, andando alla ricerca del nuovo Principe, si sono avuti sostanzialmente: 1) alcuni tentativi di realizzare il modello dell’intellettuale organico - puntando evidentemente su un qualche Principe che apparisse più rigoroso o più efficace, e 2) svariati tentativi di sviluppare un modello di public intellectual legato ai movimenti e quindi sganciato dalle organizzazioni politiche. Mentre la prima tendenza ha avuto degli sviluppi interessanti che si sono tuttavia dispersi nel minoritarismo, nel rientro alla base o nell’autoisolamento (si vedano ad esempio le parabole di Fortini o di Asor Rosa), la seconda ha avuto senz’altro dei riscontri di massa, anche se ormai completamente al di fuori di qualsiasi quadro organizzativo. A Gramsci comunque non sarebbero probabilmente piaciuti gli intellettuali che, soprattutto nel secondo Novecento, hanno disdegnato il momento organizzativo (vuoi anche per l’assenza o la latitanza del nuovo Principe) e che si sono rivolti immediatamente al pubblico. Si tratta dell’intellettuale di movimento, un tipo di public intellectual che pensa e agisce in quanto individuo ma che diventa, in quanto personaggio,  l’ispiratore della mobilitazione di un vasto pubblico intorno a qualche questione particolarmente sentita. Esempi autorevoli di questo tipo di intellettuale sono stati Marcuse e Sartre, ma anche Solženicyn. In Italia possiamo annoverare Dario Fo. Questo modello tendeva a riprodurre, nel campo della cultura della sinistra, il modello del maître a penser che risaliva alla tradizione della grande borghesia e, prima ancora, dell’illuminismo. Sembra tuttavia che anche questa stagione si sia chiusa, e non solo per la sinistra. È oggi abbastanza comune il lamento per la sparizione dei maîtres a penser del secondo Novecento, quale che fosse il loro schieramento.
Oggi il pubblico non sembra proprio andare alla ricerca di un nuovo Principe. E neanche dei maîtres a penser radicali o di sinistra. Non ci sono più masse da educare, non c’è più un popolo da formare o una classe da dirigere. Il fatto è che nessuno si riconosce più in una massa, in un popolo o in una classe. Ciascuno si riconosce solo ed esclusivamente nella propria personalità individuale, nell’imperativo tautologico di «essere se stesso». Sembra essersi rotta definitivamente quell’asimmetria tra il ceto degli intellettuali e i loro destinatari, coloro che dovevano fruire della loro funzione in termini di produzione di idee, di educazione, di organizzazione. Questo non significa che siano diventati tutti intellettuali, come nell’utopia marxiana, oppure che si sia posto fine alla divisione fra lavoro manuale e intellettuale. Anzi, le disparità nel possesso delle conoscenze, nella capacità di produrre conoscenza, o semplicemente di usare le conoscenze in modo adeguato, sembrano addirittura aumentate, come testimoniano ormai inequivocabilmente i risultati di molte indagini. Ciò nonostante, le masse si sono scomposte in una miriade di soggetti singoli che si sentono per proprio conto assolutamente adulti, maturi, in grado di scegliere. E, proprio come consumatori, scelgono dei modelli di pensiero come in uno scaffale. Non c’è neppure più la disponibilità alla mobilitazione, neppure in termini di mode culturali, come nel caso degli esistenzialisti francesi o degli stessi postmodernisti. Oggi anche l’intellettuale di movimento di gloriosa memoria sembra non suscitare più alcuna attrattiva, sembra in via di sparizione, per lasciar posto agli intellettuali mediatici,[17] i guru, i pundit, altrimenti noti come talking head. Questi intellettuali agiscono come imprenditori di se stessi, si rivolgono a un pubblico ben preciso, non hanno la funzione di indicare la direzione di marcia, hanno perso qualsiasi nozione intorno alla guerra in corso, ammesso che ce ne sia ancora qualcuna. Si limitano a vendere emozioni, distribuire opinioni, consigli pratici e, al massimo, tratti di individualità da copiare, affinché qualcuno possa così condire la propria originalità. Sono loro i nuovi intellettuali da studiare.
 
                                                                                              Giuseppe Rinaldi
 
12/06/2014
 
 
 
OPERE CITATE
 
2002   Crehan, Cate
Gramsci, Culture and Anthropology, Pluto Press, London.
 
1975   Gramsci, Antonio
Quaderni del Carcere (a cura di Valentino Gerratana), 4 voll., Einaudi, Torino.
 
2009   Thomas, Peter D.
The Gramscian Moment. Philosophy, Hegemony and Marxism, Brill, Leiden.
 
 
 
 
NOTE
 
[1] Sono le stesse problematiche che hanno animato le ricerche della Scuola di Francoforte e i Cultural Studies anglo americani.
[2] Cfr. Gramsci 1975: 1515-1516.
[3] Cfr. Gramsci 1975: 1513.
[4] Cfr. Gramsci 1975: 1514.
[5] Cfr. Gramsci 1975: 1514.
[6] Cfr. Gramsci 1975: 1515.
[7] Che Lutero fosse stato l’ideologo dello sterminio dei contadini tedeschi pare non essere stato considerato come granché rilevante.
[8] Altrimenti noto come stato esteso o expanded state.
[9] Gramsci, sulla scorta delle sue riflessioni sulla storia d’Italia, aveva parlato di una rivoluzione passiva. Si tratta di un concetto che Gramsci aveva mutuato dal Cuoco. La nozione della rivoluzione passiva esprimeva appunto il riconoscimento della capacità di egemonia culturale della classe dominante, grazie alla quale essa era riuscita a mantenere le classi dominate in una condizione di subordinazione.  Si trattava allora di spiegare in profondità come fosse stata possibile appunto la rivoluzione passiva della borghesia.
[10] Cfr. Crehan: 130.
[11] Cfr. Crehan: 132.
[12] Cfr. Femia: 24.
[13] Cfr. Crehan: 133.
[14] Cfr. Gramsci 1975: 1523.
[15] Cfr. Gramsci 1975: 1430.
[16] In effetti sia il PCI che la DC non costituivano dei semplici partiti politici, ma erano gli organizzatori di vere e proprie formazioni sociali e politiche che affondavano le loro radici nella società civile. Erano dei partiti integrali. È in riferimenti a partiti di questo tipo che Scoppola ha parlato di una Repubblica dei partiti.
[17] Non c’è ancora un termine assodato per indicare questo tipo di intellettuale relativamente nuovo. Qualcuno ha parlato di intellettuale diffuso (embedded), oppure di intellettuale molecolare. Nel mondo anglosassone si parla di public intellectuals riferendosi anche a questa categoria.