mercoledì 9 luglio 2014

Una sinistra senza radici


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Si è prospettata in questi giorni l’ennesima scissione nell’area a sinistra del PD. SEL sta perdendo i pezzi, è riuscita a dividersi sul decreto del governo Renzi riguardante gli 80 euro di riduzione delle tasse in busta paga. Quella che sembrava essere la formazione politica alla sinistra del PD più aperta, meno dogmatica, quella che aveva saputo fare meglio i conti con il «nuovo che avanza», non ha saputo reggere all’impatto di un riformismo moderato come quello di Renzi (un riformismo che peraltro è ancora tutto da valutare nella sua capacità di essere conseguente ed efficace). Questa notizia ha seguito di pochi giorni l’affaire Spinelli che ha lacerato la coalizione elettorale della Lista Tsipras.[1] Si è trattato a quanto pare di una storia di equivoci, poltrone, spartizioni, recriminazioni, personalismi. Anche il precedente esperimento della lista di Rivoluzione Civile, riunitasi intorno all’ex magistrato Ingroia, era evaporato ben presto tra molte polemiche. Tutto ciò, anziché smentire, non fa che confermare un luogo comune. E cioè la tendenza a dividersi, che è ormai universalmente considerata una malattia cronica dell’area collocata alla sinistra del PD e che è ormai diventata un facile oggetto dei lazzi dei comici e delle barzellette. Dove ci sono tre militanti di sinistra, ci sono almeno quattro correnti. Siamo evidentemente – come avrebbe detto acconsentito anche Marx – alla commedia.
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Di fronte al recente inatteso successo elettorale del PD di Renzi alle elezioni Europee si potrebbe ritenere che il destino di quest’area sia ormai segnato e sia cioè quello di una progressiva perdita di significato e di peso politico e, dunque, quello di una magari lenta ma progressiva sparizione. La nuova legge elettorale, se e quando ci sarà, non mancherà probabilmente di dare una spinta strutturale in questa direzione. Così deve avere pensato anche la frazione di deputati che è uscita da SEL e passata al gruppo misto, forse con la prospettiva di entrare nel PD.
Ci si può tuttavia domandare se una simile prospettiva di sparizione sia un bene o un male per il futuro della sinistra in senso lato, PD compreso. La nostra ipotesi è che la sparizione dell’area alla sinistra del PD avrebbe almeno tre conseguenze poco desiderabili: a) un impoverimento del panorama politico dovuto alla sparizione di un’area culturalmente vivace e creativa, seppure assai variegata e contraddittoria, di un laboratorio di idee e di fermenti di cui ha sempre usufruito tutta la sinistra, sempre in senso lato; b) la sparizione della rappresentanza di molti elettori che comunque non avrebbero alcuna disponibilità a dare il proprio consenso al PD e che verrebbero scaraventati nell’area dell’astensione; c) la definitiva emarginazione politica di vari strati sociali e movimenti, già peraltro emarginati, che si rifanno a quest’area.
Ciò avverrebbe in una situazione in cui il PD sta accentuando sempre più la sua configurazione di partito personale, di orientamento pragmatico, in cui il dibattito culturale è sempre più prossimo allo zero, dove al più si discute dei mezzi piuttosto che dei fini. In tal caso la presenza di un’attiva e combattiva area plurale alla sinistra del PD potrebbe svolgere un’utile funzione di laboratorio politico culturale, di elaborazione, di dibattito e sperimentazione. Sono per altro quelle funzioni che Barca, in un recente documento, aveva auspicato diventassero la prassi politica di base di un nuovo PD profondamente riformato al proprio interno.[2] Qualche tradizione in questo senso si trova anche nella storia di alcune delle attuali formazioni della sinistra. Per esempio, val la pena di ricordare la famosa «fabbrica» di Vendola.
È chiaro tuttavia che senza un profondo processo di riaggregazione e ristrutturazione quest’area non potrà assolvere alcuna effettiva funzione e sarà effettivamente condannata all’irrilevanza e alla sparizione. Si potrebbe argomentare che se questo processo non è avvenuto finora, in condizioni assai più favorevoli, non c’è alcun motivo di pensare che debba avvenire in un prossimo futuro, in un contesto che sarà sensibilmente peggiore. L’argomento in effetti non fa una grinza. L’unica speranza ormai è che il pericolo incombente della sparizione possa fungere da spinta per il cambiamento, anche se il cambiamento determinato da vincoli esterni spesso finisce per essere più esteriore appunto che autentico.
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Del resto in proposito c’è un esempio a portata di mano. Le recenti elezioni europee hanno visto all’opera la cosiddetta Lista Tsipras (L’Altra Europa con Tsipras). Si tratta di un cartello elettorale nominalmente ampio come non si era mai visto nel nostro Paese. Comprendeva infatti SEL, PdRC, Azione Civile di Ingroia, la Lista Pirata e altre organizzazioni minori. Il PdCI, dopo una iniziale adesione, si è tuttavia defilato. L’aspetto più significativo è senz’altro il fatto che la Lista Tsipras sia stata promossa da un gruppo di intellettuali dell’area della sinistra (Andrea Camilleri, Paolo Flores d’Arcais, Luciano Gallino, Marco Revelli, Barbara Spinelli e Guido Viale), che poi l’hanno anche di fatto egemonizzata nella stesura dei programmi e nella scelta delle candidature. Ha goduto dell’attenzione di aree d’opinione come quelle de “il manifesto”, di MicroMega, del Fatto Quotidiano, di talune organizzazioni sindacali di orientamento radicale come la FIOM. Nel corso della campagna elettorale la Lista ha raccolto la solidarietà di molte personalità dello spettacolo, della cultura, del giornalismo.[3] Per la prima volta è accaduto che le tradizionali organizzazioni dei partiti della sinistra abbiano condiviso il campo con l’area di opinione e con gli intellettuali. Non a caso sono nati problemi con il PdCI e si è sviluppata una questione di rappresentatività degli eletti che ha visto contrapposti la Spinelli e i candidati esclusi. Il carattere proporzionale delle elezioni europee unito ai contenuti prettamente politici della consultazione avrebbero comunque consentito di saggiare la capacità di impatto elettorale di quest’area ampia e variegata.
La valutazione della prestazione elettorale del cartello è stata alquanto controversa. Alla soddisfazione per il superamento della soglia di sbarramento del 4% si sono contrapposte valutazioni negative circa l’ammontare dei voti ricevuti. Ad esempio, ha scritto recentemente Paolo Flores d’Arcais con un piglio assai critico: «Un anno fa Sel prendeva il 3,2 per cento e Rivoluzione civile (Ingroia + Comunisti italiani + Rifondazione) il 2,25%. Il 4,03 della lista Tsipras è perciò l’1,42 per cento in meno delle percentuali raccolte lo scorso anno e considerate da tutti fallimentari. In termini assoluti va ancora peggio: 1 854 420 lo scorso anno (senza la Val d’Aosta che ha liste sue), 1 009 643 oggi (sempre senza la Val d’Aosta): un’emorragia di 754 786 suffragi, il 40,7 del proprio (e già fallimentare) zoccolo duro. Nel frattempo, quasi metà dei voti del M5S dello scorso anno hanno cambiato indirizzo, come evidenziato dalle indagini sui flussi, mentre Renzi malgrado il vento in poppa non raggiunge i consensi di Veltroni nel 2008, per non parlare dei milioni e milioni in più di renitenti alle urne. Il potenziale reale per una lista di sinistra della società civile era gigantesco, è rimasto invece al pugno di mosche».[4]
Sia che si veda il bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno, è indubitabile che, anche alla luce della recente scissione interna di SEL, il problema fondamentale di quest’area è quella di riuscire a innovare la propria cultura politica, consolidarsi organizzativamente e contrastare le tendenze alla frammentazione. Ciò implicherebbe tra l’altro passare dal cartello elettorale a una forma di organizzazione più matura. Si tratta di comprendere se tutto ciò sia realisticamente fattibile.
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Tutto quel che si può dire dell’area alla sinistra del PD, complessivamente considerata, è proprio che attualmente si tratta di un’area e niente più. La cosa davvero divertente è che non ha neanche un nome. Finora abbiamo dovuto usare la circonlocuzione «a sinistra del PD». Se andate su Wikipedia a cercare qualche ragguaglio troverete degli articoli assai imbarazzati, pieni di contestazioni, dove si parla, senza alcuna chiara definizione, di sinistra radicale, oppure di estrema sinistra o anche di sinistra antagonista e di sinistra extraparlamentare. Con tutti questi termini si possono costruire le intersecazioni più strane. Per convenzione, in questo articolo noi useremo il termine «sinistra» tout court, in modo da abbracciare tutta l’area alla sinistra del PD nel modo più ampio possibile (questa scelta ha un qualche fondamento se consideriamo il PD – com’è giusto – un partito di centro sinistra). Si tratta comunque di un’area terribilmente eterogenea, sia dal punto di vista delle culture politiche che dal punto di vista organizzativo.[5]
 Poiché ormai la presa del Palazzo d’Inverno non è più di attualità, poiché a tutti coloro che si collocano in questa area non piace il riformismo renziano, posto che per costoro non sia una buona strategia entrare in massa nel PD per rafforzare le sinistre interne (sono più d’una anche lì,…), avrebbe senso per loro elaborare una piattaforma comune, un programma di governo chiaro e distinto, un programma che sia tuttavia fattibile, per un riformismo più robusto e più radicale di quello del PD. Su un simile programma sarebbe possibile fare una campagna intensiva, nel «sociale», «tra la gente», chiedendo, alla fine, il consenso degli elettori. Con un simile programma si potrebbe andare alla ricerca di alleanze allo scopo di conquistare un ruolo nei governi locali e di portare avanti in parlamento qualche significativa battaglia di civiltà.
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La ristrutturazione che abbiamo prospettato non sarebbe del tutto impossibile poiché, in effetti, al di là della marea di parole dei distinguo e dei gerghi, quello che gira e rigira nelle analisi e nelle proposte che si fanno nell’area ha molto in comune. Anzi, si ha l’impressione che i nuclei tematici, i tormentoni, che ritornano, siano sempre gli stessi. Fino alla noia. Fino a far sospettare che, al di là di pochi stanchi motivi conduttori, quest’area abbia ben più poco da offrire. Se non andiamo errati nell’area della sinistra ci sono almeno cinque motivi che ritornano con grande insistenza. Li prenderemo in esame uno per uno, fabbricando ovviamente dei tipi ideali, ma sviluppando anche nei loro confronti una serie di osservazioni critiche, allo scopo di evidenziare i loro punti deboli, quelli che necessiterebbero di una migliore elaborazione, magari di un qualche aggiornamento.
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1) Una parola d’ordine che ha molto successo nell’area è quella dei bisogni. Bisogna partire dai bisogni della gente, si sente dire, sottintendendo che questo non è fatto dal centro-sinistra. In genere ci si riferisce ai bisogni dei precari, dei disoccupati, degli emarginati, di quelli che «non arrivano alla fine del mese», e così via. I bisogni tuttavia vengono spesso generalizzati, diventando così una categoria bio-politica astratta, riferita agli esseri umani in genere, indipendentemente da qualsiasi determinazione. Si tratta di dare voce ai bisogni elementari di chiunque si trovi in una condizione di privazione (bisogno della casa, del lavoro, di assistenza medica, di asilo, di cittadinanza, di espressione, di aggregazione). Tutto ciò si rifà a una concezione, non certo nuova, secondo cui un cambiamento radicale del sistema deve partire dai bisogni. Il sistema tenderebbe a eludere i bisogni delle persone anziché soddisfarli, per cui la rivendicazione a partire dai bisogni, lo scatenamento dei bisogni, avrebbe di per sé un valore rivoluzionario. All’estremo, anche le forme di devianza, quali che siano, sono interpretate come espressione radicale dei bisogni insoddisfatti.[6] Le diverse forme di devianza che albergano nel «sociale» sono considerate come potenzialmente antisistema e dunque guardate con simpatia, per le proprie potenzialità politiche. Strategicamente, si pensa che il «partire dai bisogni» possa costituire un linguaggio unificante, dalla forza ineluttabile, basato su ciò che è comune per definizione, capace quindi di aggregare, passando di bisogno in bisogno, una massa di opposizione sempre più grande.
Purtroppo questa teoria è piuttosto semplicistica e finora non ha retto alla prova dei fatti. I bisogni non sono mai oggettivi, sono sempre percepiti, interpretati, filtrati. Possono essere indotti, possono essere soggetti a effetti curiosi, come nel caso della privazione relativa. Storicamente le macchine desideranti all’opera possono avere ottenuto qualche successo locale, ma non hanno mai prodotto aggregazioni durature, anzi hanno spesso prodotto ulteriori spaccature e frammentazioni. Accade che chi si mobilita in nome di un bisogno impellente non si mobiliti mai per tutti gli altri meno impellenti. In altri termini, dalle lotte per i singoli bisogni particolari non si passa mai a un impegno politico di tipo universalistico. Solo il disciplinamento dei bisogni, il loro inquadramento in un progetto universalistico può portare alla politica, ma ogni sovrapposizione della politica viene considerata come un elemento repressivo, come un incanalamento nel «sistema». Si tende in altri termini a restare in balia dei bisogni, aspettando la radicalizzazione che verrà sicuramente dal peggioramento della situazione.
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2) Un’altra parola d’ordine è costituita dalla radicalizzazione dei diritti. Il linguaggio dei diritti è antitetico a quello dei bisogni, perché i bisogni sono tipicamente di carattere induttivo, mentre i diritti sono di carattere deduttivo. Siccome l’elenco dei diritti che vengono rivendicati è molto lungo, e ogni giorno ne viene aggiunto qualcuno, è piuttosto facile confrontare le più varie situazioni specifiche di privazione con l’elenco dei diritti, per denunciare le inadempienze, per mobilitare gli interessati in nome di qualche diritto. Ci sono almeno quattro varianti: i diritti già guadagnati che vengono tolti, i diritti nuovi che devono essere guadagnati, i diritti scritti (specialmente sulla Costituzione) che non sono attuati e i diritti umani in generale che devono trovare attuazione.
Fin qui non ci sarebbe nulla di male. Ma la radicalizzazione dei diritti di cui stiamo parlando va ben oltre la legittima battaglia che chiunque può intraprendere per l’affermazione di un qualche diritto. Il fatto è che la rivendicazione dei diritti viene spesso formulata in nome di un’etica dell’intenzione e al di fuori di qualsiasi etica della responsabilità. Tutto ciò si traduce nella proclamazione di una serie di rivendicazioni senza alcuna fattibilità. Come quando si dice che poiché «siamo in una Repubblica fondata sul lavoro» tutti devono avere un lavoro. Questo rituale rivendicativo, più che a un effettivo allargamento dei diritti, mira principalmente a produrre un atteggiamento di indignazione, a mostrare che il sistema non è in grado di garantire diritti che proclama o scrive. Ciò finisce per svolgere, nelle intenzioni, la solita funzione antisistema: mostrare che solo cambiando radicalmente il sistema, si potranno avere i diritti che spettano di diritto.
Oltre agli inevitabili scivolamenti retorici, la lunga marcia attraverso i diritti va incontro a due scogli di cui spesso non si vuol parlare: la legalità e la fattibilità. Anzitutto, la rivendicazione dei diritti implica spesso il conflitto con i diritti di altri soggetti, con norme e leggi preesistenti: le imprese non possono licenziare, la casa ce la prendiamo, sequestriamo i dirigenti, entriamo illegalmente nel Paese, sabotiamo i cantieri. Secondariamente, purtroppo, i diritti costano, cosa da cui derivano ulteriori conflitti tra i soggetti dei diritti. Poiché le risorse sono limitate, finanziare i diritti di alcuni significa subito togliere finanziamenti ai diritti degli altri. Di fronte a questa obiezione il discorso viene di solito archiviato facendo l’elenco di alcune spese statali palesemente inutili, evocando l’evasione fiscale, oppure usando lo slogan secondo cui «i soldi si prendono dove sono», oppure, nella versione più soap, secondo cui «anche i ricchi devono piangere». Del resto, qualunque forma di razionalizzazione della spesa pubblica che miri a trovare risorse viene accusata di voler infierire con dei tagli indiscriminati allo Stato sociale. In fin dei conti questa tendenza ha sempre considerato gli sprechi e la corruzione come fenomeni di routine, e non come la principale causa dell’insostenibilità dello Stato sociale. Appare chiaro che bisogni e diritti diventano, in questa prospettiva, solo due facce della stessa medaglia, cioè l’espressione di una volontà «senza se e senza ma» che non si pone particolari problemi di fattibilità. Le macchine desideranti sono sempre al lavoro.
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3) Un’altra parola d’ordine, questa volta di ordine più metodologico, riguarda le nuove forme di democrazia. È una diretta conseguenza dell’abbandono della dittatura del proletariato della tradizione comunista, ma di una non ben chiara accettazione della democrazia. In effetti tra tutte le culture politiche che soggiornano nell’area della sinistra, brilla per la sua assenza proprio la cultura politica della democrazia. Questo tipo di prospettiva passa per un’analisi che dichiara finita la politica, finita la democrazia, finito lo Stato.[7] I soggetti (variamente interpretati come lavoratori, gente, popolo, soggetti devianti, soggetti desideranti, oppure titolari di diritti, corpi vitali, o simili) non hanno altra strada che mobilitarsi e dare luogo a nuove forme alternative di partecipazione e di democrazia. La strada è naturalmente quella delle aggregazioni «dal basso», a partire dai livelli locali, per promuovere qualche tipo di autogoverno, anche se spesso si opera in ambiti minimali. Il modello più caratteristico di questa strada per il rinnovamento della democrazia è da molti considerato quello del movimento NoTAV. In altri ambiti, sono stati fatti alcuni esperimenti come quello dei bilanci partecipati, che tuttavia non si sono diffusi più di tanto. A livello accademico si sono discussi e talvolta sperimentati diversi modelli di democrazia partecipativa che tuttavia sono rimasti, appunto, a livello accademico. Questi movimenti locali che rivendicano le nuove forme di democrazia tendono a scivolare 1) verso movimenti single issue (e quindi perdono qualsiasi capacità di essere dei movimenti politici in senso globale e universalistico), oppure verso 2) movimenti referendari (dove c’è senz’altro una caratterizzazione politica universalistica, ma dove poi tutto si consuma nella battaglia per un referendum – si è già costatato più volte che le aggregazioni talora assai ampie nate intorno ai referendum non si traducono poi in alcuna continuità politica).
Il problema di fondo di questo orientamento è che, dando per finiti lo Stato, le istituzioni e la democrazia rappresentativa (in nome di un’altra ipotetica futura democrazia) non si fa nulla per difendere e rafforzare lo Stato, le istituzioni, la democrazia che ci sono e si finisce, obiettivamente, sulla stessa linea di coloro che in questi decenni hanno giocato allo sfascio istituzionale. Purtroppo in questo caso gli sfascisti di destra e quelli di sinistra finiscono per coincidere davvero.
Sul fronte sindacale ci sarebbe uno spazio straordinario per questo tipo di sperimentazioni; una volta si parlava di democrazia economica. Il problema anzitutto è che il sindacato italiano non è mai stato un campione di democrazia interna effettiva e che, soprattutto nei sindacati più radicali (tipo FIOM), internamente vigono ancora le pratiche cooptative della tradizione. Secondariamente il sindacato italiano è tipico per non avere mai voluto sperimentare nelle fabbriche forme di partecipazione alla gestione. Per cui, fino a prova contraria, la sperimentazione di nuove forme di democrazia, sul terreno della democrazia economica sembra davvero preclusa. Sarà per questo che nel nostro Paese in genere si preferisce rivolgersi alle valli di montagna o ai Consigli di quartiere per questo tipo di esperimenti.
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4) Un’altra parola d’ordine ancora riguarda le varie forme di solidarietà. Poiché c’è la «crisi dello Stato sociale», poiché urgono i bisogni della gente, giusti o devianti che siano, poiché il sistema toglie i diritti alle persone, allora si tratta di fare subito qualcosa, di organizzarsi per gestire in proprio la soluzione di alcuni problemi. Qui le iniziative, spesso lodevoli e interessanti, si moltiplicano, seguendo il filo dei bisogni e/o dei diritti violati (dall’ospitalità nei confronti dei migranti, ai corsi di alfabetizzazione, alle mense per i poveri, al riciclaggio di suppellettili usate, alla creazione di opportunità di lavoro, fino agli asili autogestiti, alle collette di viveri e medicinali, all’uso dei beni sequestrati alla mafia, …). Questo ampio settore di impegno e intervento trova spesso collaborazione con il mondo del volontariato e con il mondo cattolico impegnato sul fronte del sociale. A questa stessa tematica appartiene tuttavia  anche la sperimentazione di nuove forme di socialità, che si sono diffuse soprattutto nei cosiddetti CSA e CSOA.
Accade tuttavia che l’impegno in questo tipo di forme di solidarietà, quando ha successo, finisca spesso per essere vissuto come impegno single issue e che raramente si traduca poi in politica, nei termini più generali e universalistici. Spesso le sperimentazioni delle nuove forme di socialità e di self-help diventano del tutto autoreferenziali e finiscono per costituire delle forme di auto emarginazione (come nel caso dei Centri sociali). Sul piano teorico è poi interessante domandarsi perché la solidarietà tendenzialmente non decolla e tende anzi a rimanere circoscritta.  Il fatto è che mentre il linguaggio della politica è tendenzialmente universalistico (l’esempio tipico è il linguaggio dei diritti) il linguaggio della solidarietà è sempre particolaristico, implica sempre un contatto faccia a faccia, implica quindi un restringimento dell’ambito comunitario entro cui si agisce. Quando la solidarietà esce dall’ambito particolaristico, allora diventa un diritto, ma allora si parla d’altro, si dovrebbe parlare, appunto di politica. Si può fare il volontariato per tutta la vita senza incontrare mai la politica.
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5) A livello generale, infine, una parola d’ordine molto popolare, ripetuta come un mantra, concerne la cospirazione del capitalismo finanziario internazionale. Naturalmente la cospirazione riguarda anche e soprattutto l’Unione Europea e ciò fa sì che, all’interno dell’area della sinistra, prevalgano senz’altro posizioni confusamente anti UE e anti euro. La cospirazione viene spesso data come auto evidente. Spesso è concepita come un disvelamento, come la rivelazione di una verità che «loro» vogliono mantenere celata.  È chiaro che la cospirazione del capitalismo finanziario ha soltanto sostituito la vecchia teoria del SIM che piaceva tanto alle Brigate Rosse. In particolare, tutto quel che avviene in Europa è considerato solo come effetto di un complotto neo-liberista.
Senz’altro c’è stata un’ondata neoliberista, senz’altro il capitalismo finanziario ha avuto le sue degenerazioni che vanno denunciate e combattute. Ci sono molte buone analisi del fenomeno con tanto di proposte di soluzione, che attendono una risposta dalla politica. Qui si discute della teoria della cospirazione neoliberista usata come chiave esplicativa di tutto quel che avviene nel mondo e come quadro di analisi principe per effettuare le scelte politiche più disparate. Questo fanatismo persecutorio ha contribuito a mantenere tutta quest’area su posizioni da keynesismo da strapazzo, continuando a chiedere politiche di deficit spending per finanziare il welfare, politiche inflazionistiche di aumento del debito o, addirittura, politiche di cancellazione del debito. Il tutto spesso condito con la proposta di «uscire dall’euro». Un incredibile bricolage fai da te di scienza economica casereccia che, qualora fosse adottato, porterebbe senz’altro il Paese alla rovina.[8]
Questo fanatismo persecutorio ha inoltre impedito di cogliere le differenze – che sono macroscopiche – tra il neo-liberismo e l’economia sociale di mercato che è la teoria economica prevalente in Europa, ha impedito di valutare in maniera obiettiva le riforme del mercato del lavoro praticate ormai in quasi tutto il nord dell’Europa, di prendere in considerazione una seria riforma delle relazioni industriali, sempre sul modello europeo,  e di affrontare la questione del reddito di cittadinanza, anch’esso ormai diffusissimo in Europa, seppure in forme diverse. Insomma, provincialismo bello e buono: la colpa è sempre degli altri.
Si può aggiungere che ha anche impedito di formulare l’obiettivo di una legge per la regolamentazione dei partiti,  magari sul modello tedesco, che potrebbe dare una svolta al sistema politico italiano, contribuendo a regolare il mercato della competizione politica, che in Italia è completamente drogato dai partiti proprietari e dalle oligarchie correntizie. Invece i partitini dell’estrema sinistra (dove ci sono sia i partitini proprietari che i partitini oligarchici) si accontentano di una riforma proporzionale (che non avranno mai) per poter mettere a frutto (in termini di poltrone) le loro percentuali elettorali da prefisso telefonico. L’ala movimentista antagonista invece se ne frega dei partiti e mai s’impegnerebbe per una loro regolazione.
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Combinando in vario modo 1) la teoria dei bisogni, 2) la teoria dei diritti, quella delle 3) nuove forme di partecipazione 4) delle nuove forme di solidarietà e della 5) cospirazione finanziaria si riesce a riprodurre i due terzi dei discorsi che comunemente tengono banco nell’area della sinistra. Se si aggiungessero alcuni riferimenti all’ecologismo (declinati spesso in termini fondamentalisti) e all’antimilitarismo, il quadro sarebbe pressoché completo. Il terzo restante è costituito da recriminazioni 1) nei confronti dei traditori, rappresentati dal vecchio PD, ma ancor più dal PD di Renzi; 2) nei confronti degli elettori che votano in modo «contrario ai loro interessi», oppure 3) nei confronti dei media che «condizionano gli elettori». Non mancano, per completare il quadro, ma bisogna proprio andare a cercarli, sprazzi di quasi tutte le vecchie ideologie della sinistra dell’Ottocento e del Novecento, che vengono custoditi e coltivati con cura forse degna di miglior causa. Si tratta proprio di sprazzi, perché l’area della sinistra dal punto di vista culturale, pur con le debite eccezioni, è complessivamente piuttosto carente, rasenta anzi spesso un vero e proprio preoccupante analfabetismo culturale.
È chiaro che se i cinque punti distintivi che abbiamo individuato vengono preferibilmente declinati in forma radicale, se le recriminazioni nei confronti dei traditori sono così rancorose da impedire ogni alleanza e se per giunta spuntano qua e là fondamentalismi vecchi e nuovi, allora tutto è fatto per chiudersi, per diventare sempre più autoreferenziali e irrilevanti.
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Se tutto è davvero riconducibile ai pochi punti che abbiamo visto, ne consegue che in teoria non dovrebbe essere troppo difficile elaborare un programma comune di governo della sinistra (magari facendo qualche sforzo di approfondimento in più, tenendo anche conto delle obiezioni che abbiamo avanzato – che del resto sono del tutto risapute e ben lungi dall’essere originali). Naturalmente un programma comune di governo dovrebbe implicare un’organizzazione comune la più ampia possibile, abbastanza flessibile da poter praticare una tattica di tipo elettorale, una politica delle alleanze altrettanto flessibile e, contemporaneamente, abbastanza pluralista da lasciare ampi margini di autonomia pratica e teorica agli aderenti, siano essi singoli individui o gruppi, collettivi o quant’altro. Date le diverse prospettive politiche e organizzative che potenzialmente si ritrovano nell’area, che paiono alquanto irriducibili, l’unica struttura che realisticamente potrebbe dare un minimo di organicità all’area stessa sarebbe una struttura federale. Si potrebbe ipotizzare una federazione come quella del Labour Party inglese, cui si possa anche aderire in quanto gruppi locali. Una federazione però munita di organismi, statuti, congressi, programmi, leader ufficiali, maggioranze e minoranze. Insomma un’organizzazione compatta, tatticamente molto flessibile, dotata strategicamente di un grande pluralismo interno e di una grande capacità di fungere da area di dibattito, da laboratorio di idee e di sperimentazioni.
Perché non si fa qualcosa del genere? Perché non ci si pensa neppure? Gli ostacoli a un percorso del genere sembrano purtroppo riguardare quasi esclusivamente i limiti soggettivi, sia degli individui che della miriade di micro organizzazioni di cui è costituita l’area.  Per federarsi, occorre riconoscere gli altri, su un piano di pluralismo e di parità. Occorre avere interesse per gli altri. Occorre una grande flessibilità mentale per distinguere quel che è tatticamente conseguibile in ciascuna situazione dai principi di fondo che - come si dice sempre– sono non negoziabili e che ciascuno potrebbe continuare a professare. Questo però è proprio quello che gli appartenenti all’area della sinistra non sono mai stati in grado di fare. Storicamente sono invece sempre stati portatori, chi più e chi meno, di un atteggiamento personale di presunzione, di autosufficienza, di insofferenza, di fondamentalismo che si traduce nella più totale incapacità di aggregazione, un clamoroso limite  per gente che parla tutti i giorni di socialità e di comunismo.
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Il rapporto dell’area della sinistra con la cultura poi è quanto mai rivelatore di una profonda mancanza di un’identità culturale, soprattutto se pensiamo a possibili prospettive future. In effetti, anche se non lo ammetterebbero mai, le possibilità per quest’area di trovare un’identità di qualche tipo è legata proprio allo sviluppo di una prospettiva culturale unificante. È legata quindi alle fabbriche del sapere e agli intellettuali. Non a caso sono stati proprio gli intellettuali relativamente indipendenti che hanno fatto da collante alla recente Lista Tsipras.
Nell’area della sinistra non mancano intellettuali e istituzioni culturali di primordine. Tra gli intellettuali abbiamo personaggi come Rodotà, Gallino, Zagrebelsky. C’è una rivista come MicroMega. Ci sono dei bravi giornalisti che sono molto competenti e attivi. Il fatto è purtroppo che questa area intellettuale, che si colloca per lo più su posizioni neo illuministe, si trova spesso radicalmente in opposizione con le culture politiche assai diversificate e con le burocrazie (dirigenti e militanti) sia dei partiti parlamentari che dei partitini extraparlamentari. Entrambe poi queste due aree, che già si oppongono tra loro, si trovano in opposizione (o in un rapporto di vera e propria estraneità) con la galassia dei centri sociali e dell’autonomia, la base movimentista, anarcoide e pre-politica che vuole vivere e gridare il proprio dissenso esistenziale, spesso affascinata dalle filosofie nichiliste e dai guru postmoderni. Sono almeno tre mondi difficilmente conciliabili che rischiano di continuare a riprodursi e di riprodurre le loro inconciliabili differenze identitarie. Non esiste per ora un dizionario che sia in grado di mettere in comunicazione questi mondi. Forse non hanno alcuna voglia di essere messi in comunicazione. Magari non ne sentono proprio alcun bisogno.
 
9/07/2014
                                                                                         Giuseppe Rinaldi
 
 
 
 
 
TESTI CITATI
 
2013   Barca, Fabrizio
Un partito nuovo per un buon governo. Memoria politica dopo 16 mesi di governo, documento on-line.
 
2014   Paolo Flores d’Arcais,
Per la critica dei risultati elettorali, in MicroMega 4/2014.
 
 
 
NOTE
[1] La coalizione si è presentata in occasione delle recenti elezioni europee (maggio 2014).
[2] Cfr. Barca 2013.
[3] La lista ha ricevuto l'appoggio, tra gli altri, di Gustavo Zagrebelsky, Stefano Rodotà, Carlo Freccero, Michele Serra, Furio Colombo, Fausto Bertinotti e Luciano Canfora. In seguito hanno sostenuto la lista anche Carlin Petrini, Nicola Piovani, Rita Borsellino, Vauro Senesi, Sergio Staino, Leo Gullotta, Valerio Mastandrea, Gino Strada e Sabina Guzzanti, Andrea Scanzi.
[4] Cfr. Paolo Flores d’Arcais 2014: 12-13.
[5] Dal punto di vista organizzativo abbiamo 1) ampie aree di opinione (“il manifesto”, oppure la rivista MicroMega); 2) organizzazioni single issue (movimenti referendari, il movimento per l’Acqua, i NoTav); 3) movimenti generalisti non strutturati (Occupy, Se non ora quando e simili); 4) movimenti dei centri sociali e simili (CSA, CSOA); 5) partiti vari parlamentari (SEL, Rifondazione, PdCI, Italia dei Valori e simili) e cartelli elettorali temporanei di partiti (Rivoluzione Civile, Lista Tsipras); 6) piccoli partiti extraparlamentari della tradizione marxista (PMLI, Lotta Comunista, PCdL); 7) organizzazioni extra-parlamentari semi clandestine (gruppi anarchici, black block e simili); 8) organizzazioni sindacali (tipicamente la FIOM, ma anche i COBAS). L’elenco è sicuramente incompleto.
[6] Secondo questa concezione, quando fossero soddisfatti i bisogni degli esseri umani questi diventerebbero buoni, mansueti, socievoli. La devianza è frutto della mancata soddisfazione dei bisogni. Insomma la devianza è il prodotto di una società malata.
[7] Molti di costoro tuttavia non disdegnano di ricevere finanziamenti pubblici, di essere eletti e di ricoprire cariche pubbliche.
[8] La cosa divertente è che mentre da un lato si continua a ripetere il mantra dell’ineluttabile fine di sovranità degli Stati nazionali, dall’altro si propone la politica economica keynesiana, cioè una politica economica che implica la piena sovranità degli Stati. Ma la coerenza spesso è un optional.