lunedì 26 maggio 2014

Il grande silenzio

 
 
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In una lunga intervista a Simonetta Fiori, intitolata Il grande silenzio,[1] Asor Rosa ha delineato vivacemente i tratti fondamentali della parabola compiuta degli intellettuali moderni, dalla loro comparsa fino ai giorni nostri. Secondo lo studioso, proprio in questi decenni staremmo assistendo alla conclusione della drammatica vicenda degli intellettuali moderni, un processo iniziato nell’età dei Lumi e che, attraverso alterne vicende, sarebbe giunto fino a oggi. Così egli sintetizza la sua analisi della situazione attuale: «Sono persuaso che sia andata chiudendosi in questi decenni una storia intellettuale cominciata sotto i Lumi e protrattasi fino agli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, sia pure con le tragiche fratture dei totalitarismi nazifascista e comunista. Mutamenti colossali sono intervenuti in tutto l’Occidente; l’Italia, come spesso è accaduto, rappresenta un laboratorio particolare. È finita una lunga storia intellettuale, ma non la possibilità di un esercizio critico dell’intelligenza, anche se oggi è più difficile vederne le manifestazioni».[2] Sulla tanto discussa questione degli intellettuali anche Asor Rosa ha assunto dunque una posizione marcatamente catastrofista. In un’epoca dove è di moda annunciare le grandi svolte e, in particolare, la fine di tutto ciò che ha da sempre caratterizzato il nostro paesaggio umano, non poteva certo mancare l’annuncio della fine degli intellettuali. [3]
Asor Rosa ha individuato con una certa precisione storica e sociologica l’oggetto delle sue considerazioni. Egli non si occupa del generico operatore della conoscenza (knower o savant) che come tale è presente in tutte le società umane (si pensi allo sciamano, al prete, al filosofo, allo scriba), bensì di uno specifico tipo, l’intellettuale moderno, ben caratterizzato nel tempo e nello spazio, che viene così ad avere una sua precisa data di nascita e, ora, anche una sua data di scadenza. L’intellettuale strictu sensu di cui parla Asor Rosa è una figura che ha accompagnato la nascita e lo sviluppo della società moderna fino a oggi e che, come tale, si differenzia rispetto a tutte le altre figure consimili precedenti. Infatti egli afferma in proposito che «La definizione più corretta per l’intellettuale premoderno è savant: colui il quale è dotato di specifiche competenze, che in taluni casi è disposto a mettere al servizio della comunità. Il caso di Niccolò Machiavelli è esemplare. Ma il passaggio fondamentale - per la storia intellettuale che stiamo tratteggiando - è segnato dalla rivoluzione capitalistica, che conferisce agli intellettuali una configurazione di ceto che prima non avevano».[4] Ci sarebbero dunque sempre stati dei savant, ma non sempre questi sono diventati un ceto.[5] In altri periodi storici la trasformazione dei savant in ceto era talvolta già avvenuta, basti pensare ai mandarini, di cui spesso la sociologia si è occupata, oppure ai chierici medievali. Gli intellettuali in senso stretto, cui si riferisce Asor Rosa, sono diventati un ceto specifico nel contesto delle grandi rivoluzioni che hanno contrassegnato l’età moderna. Essi hanno contribuito alle grandi rivoluzioni e proprio da queste hanno tratto alcune delle loro più tipiche caratteristiche.
Solo piuttosto tardi questo nuovo ceto ha trovato una denominazione esplicita: «Il termine nasce nella seconda metà dell’Ottocento, ma avendo alle spalle tutta la complessa esperienza intellettuale e politica che parte dall’Illuminismo e attraversa la rivoluzione francese ed esperienze successive. La parola intelligencija, usata per la prima volta dal romanziere russo Boborykin, quasi contemporaneamente viene ripresa e diffusa da Turgenev. In precedenza si usavano altri termini, come écrivains o gens de lettres. Nell’ Encyclopédie, sotto l’articolo Gens de lettres, Voltaire elenca molti degli attributi che noi saremmo disposti a considerare caratterizzanti per la definizione dell’intellettuale moderno. Gli illuministi in sostanza non arrivarono a coniare un nuovo termine, ma hanno già chiara la funzione».[6]
Pur evitando di entrare all’interno di sottili questioni di definizione sociologica che sarebbero necessarie, lo studioso ha cercato di individuare la differenza specifica che contraddistingue questo modello di intellettualità. Per quel che concerne le sue caratteristiche distintive intrinseche: «…l’intellettuale occidentale è stato contraddistinto fondamentalmente dalla presenza più o meno equilibrata di tre componenti: pensiero forte, pensiero critico, valori.  Per pensiero forte intendo un pensiero che si basa su grandi progetti e guarda a obiettivi alti. Per collocarsi dentro il contesto sociale e culturale in cui nasce, esso deve compiere un’operazione preliminare che consiste nella critica dell’esistente, e quindi nell’indicazione di un suo superamento. Pensiero forte e pensiero critico sono le due facce di una stessa medaglia».[7] Insomma, da questo punto di vista, l’intellettuale moderno di Asor Rosa assomiglia per molti aspetti all’intellettuale legislatore individuato da Bauman,[8] anche se Asor Rosa lo interpreta soprattutto come intellettuale critico.
Ma esaminiamo alcune ulteriori caratteristiche specifiche di questo modello di intellettuale, come è concepito da Asor Rosa. Pur essendo per molti aspetti legato alla prospettiva marxista, lo studioso se ne differenzia alquanto nell’analisi degli intellettuali. Se è vero che il ceto intellettuale moderno è nato sotto il condizionamento strutturale della Rivoluzione industriale, è altrettanto vero che in quel contesto gli intellettuali hanno avuto modo di sperimentare forme molteplici di autonomia, indipendenza, trasgressione e ribellione. Questo è il motivo per cui, fin dall’inizio della loro comparsa, è stato ampiamente dibattuto, in tutte le sue sfaccettature, il problema della dipendenza/ indipendenza degli intellettuali, il problema del rapporto tra gli intellettuali e i loro committenti, a livello etico, economico, politico o sociale. La parabola degli intellettuali moderni, secondo Asor Rosa, dimostra che l’indipendenza dal contesto rappresenta una delle loro fondamentali caratteristiche: «Nel corso degli anni ho molto riflettuto sull’autonomia come condizione imprescindibile della funzione intellettuale, mettendone in discussione dunque qualsiasi forma di organicità. Riesco oggi difficilmente a considerare positiva un’attività del pensiero che decisamente si subordini a un comando, quale che sia. […] nel corso degli anni, e nell’accumulo delle esperienze, mi è sempre stato più chiaro che la funzione intellettuale si è espressa al più alto livello all’interno dei regimi liberaldemocratici, ossia là dove il capitalismo ha trovato un punto di compensazione e compromesso con le forme politico-istituzionali liberaldemocratiche. Mentre essa s’è fortemente impoverita o interrotta o addirittura soffocata là dove sono prevalse soluzioni totalitarie, poco importa se di destra o di sinistra».[9]
Dunque, ammissione piuttosto singolare per uno studioso che comunque non ha mai cessato di riferirsi al marxismo, la figura dell’intellettuale moderno avrebbe trovato il suo miglior terreno di espressione nella società borghese e nell’ambito delle forme politiche - istituzionali liberal democratiche. Tanto che il venir meno di entrambe queste condizioni avrebbe determinato il tramonto stesso di questo modello di intellettuale: «Per motivi non dissimili da quelli che caratterizzano le vicende degli intellettuali, nel secondo dopoguerra la borghesia attenua di molto la sua presenza o addirittura scompare di scena, come accade in Italia, segnata in questo come in molti altri campi da una maggiore fragilità rispetto al resto d’Europa. La scomparsa o la presenza sempre meno significativa della borghesia trascina con sé il tramonto degli intellettuali. Borghesia e intellettualità, secondo me, appaiono legate sul piano storico da un nesso indissolubile».[10]
In genere si ritiene che l’intellettuale moderno sia di tipo generalista e che lo specialismo costituisca una minaccia nei suoi confronti. Asor Rosa è invece contrario all’intellettuale generalista, al tuttologo. Egli riconosce che l’intellettuale deve essere specialista in qualche settore. Ma non è in quanto specialista che è intellettuale. Si rientra nell’intellettuale pubblico quando, a partire dallo specialismo, si affrontano temi di ordine più generale: «L’ho già detto all’inizio, e lo ripeto: i grandi e più autentici maîtres à penser del Novecento erano dei grandi specialisti, spesso scopritori di nuovi territori della conoscenza. Il messaggio che queste scoperte specialistiche veicolavano diventava materia di riflessione collettiva e finiva per improntare altri comportamenti intellettuali. Ora il venir meno di queste figure non solo ha impoverito il dibattito pubblico del contributo che in tal periodo proveniva dai singoli specialismi, ma ha indebolito gli stessi specialismi. La crisi è rifluita all’interno della stessa ricerca, venendole meno il nutrimento rappresentato dalla relazione con il sociale».[11] Si tratta quindi di una specializzazione che non va confusa con la parcellizzazione dell’attività intellettuale, ben nota ai nostri giorni.
La figura dell’intellettuale moderno sarebbe dunque legata indissolubilmente al progetto della modernità. Secondo Asor Rosa la modernità sarebbe stata caratterizzata da tre elementi fondamentali, indissolubilmente intrecciati: l’individualità, la funzione sociale dello sviluppo economico e la politica come governo del bene comune. Il venir meno di questi elementi avrebbe innescato anche il processo di dissoluzione degli intellettuali.
A proposito della modernità: «il moderno compie un gigantesco percorso lineare che va dall’Umanesimo e dal Rinascimento italiano fino alla seconda metà del Novecento: un tragitto segnato essenzialmente da tre categorie. Intanto, come ho già detto, la creatività individuale. La creatività individuale non ha la medesima rilevanza nell’età che precede questo lungo viaggio, ossia nel Medio Evo, il che non esclude che vi fossero anche allora espressioni di creatività individuale, ma perfino esse si manifestarono in forme che negano la categoria fondativa dell’individualità. […]. Secondo elemento della modernità è la concezione del lavoro economico come produzione di beni utili alla collettività, naturalmente commercializzabili, quindi fonte di profitti, ma in un contesto caratterizzato da una visione etica dell’economia. Il terzo elemento è costituito da una concezione della politica come gestione del bene comune. Dentro questo percorso c’imbattiamo in Machiavelli, ma anche nella rivoluzione egalitaria di Robespierre e nell’ottobre rosso di Lenin. Potrà apparire un po’ azzardato interpretare Lenin o Robespierre come i Machiavelli della rivoluzione, ma forse non lo è del tutto. Accanto a queste concezioni, diciamo così, estremistiche del processo, ci sono Bodin, Montesquieu, Tocqueville, e c’è lo “Stato sociale”, ossia la versione socialdemocratica e liberaldemocratica, moderata e riformistica, della modernità. […] Ecco, io direi che il moderno finisce nel corso del Novecento, quando quelle tre caratteristiche dominanti - da me indicate ovviamente in modo molto schematico - sono messe in discussione, prima dai totalitarismi nazifascista e comunista, successivamente in maniera meno cruenta, assai meno dolorosa, ma molto più efficace, dal sormontare della civiltà democratico-capitalistica di massa.».[12]
Insomma, al di là degli incidenti storici dei totalitarismi, la fine della modernità si toccherebbe con mano soprattutto nell’ambito della compiuta affermazione della cosiddetta  società di massa. In questo ambito, tra i fattori di trasformazione che avrebbero inciso maggiormente sul ceto degli intellettuali vengono indicati: 1) la massificazione dell’università; 2) la televisione e i nuovi media; 3) la nuova industria culturale e il mercato editoriale (che avrebbero fagocitato la società letteraria). Più in generale: «È dichiaratamente finito il periodo dei grandi conflitti ideologici che corrispondevano ai grandi conflitti storici e sociali e cercavano di spiegarli, sistematizzandoli. Oggi non c’è più il conflitto tra le classi, forse (almeno nel senso tradizionale del termine) non ci sono neppure più le classi che hanno reso possibile l’esercizio della funzione intellettuale. Non ci sono più le grandi ideologie che davano un senso a quel conflitto. E forse, come qualcuno ha teorizzato, non c’è più il senso della storia».[13] Sempre a proposito della storia lo studioso aggiunge: «...siamo stati testimoni delle ultime manifestazioni di un’opera intellettuale fondata sul presupposto che la storia avesse un senso, che si potesse influire su quel senso o, ammesso che quel senso fosse perduto o lacerato, occorresse lavorare per ridefinirlo. Tutto questo non esiste più».[14]
La nuova situazione derivante dalla società di massa è particolarmente grave per la compagine degli intellettuali critici schierati, per i cosiddetti public intellectuals: «…l’intellettuale di sinistra critico è divenuto nel tempo il relitto di un’età in cui si pensava per grandi sistemi e per grandi contrapposizioni, e si osava aspirare a grandi obiettivi. Poi s’è trattato di governare la mediocrità, e per questo sono occorsi strumenti più circoscritti, neutri, e più parziali. Se serve una collaborazione - ma questo accade sempre più di rado, direi quasi mai - viene richiesto un contributo su singoli segmenti. All’intellettuale critico è subentrato quello flessibile, “usa e getta”. Oggi nel Partito democratico non c’è più nessuna discussione di tipo culturale».[15]
 Per Asor Rosa tuttavia, se è del tutto chiara la fine dell’intellettuale moderno, non altrettanto chiaro è quel che ci aspetta prossimamente. In più passaggi della sua intervista egli ammette di non essere in grado di decifrare le attuali trasformazioni sociali e culturali e, quindi, di non saper individuare quale assetto potrebbe assumere in futuro il settore dei savant. In proposito lo studioso si limita a enunciare un qualche timido ottimismo: «Scompaiono le figure che, se volessimo accoglierne la versione più negativa, presumevano di “avere il diritto” di far lezione alla storia, ma non può scomparire il pensiero forte che è connaturato alla storia occidentale. Esso si manifesterà in forme diverse, in un quadro politico-intellettuale radicalmente mutato. Una delle mie tesi interpretative preferite è che nella secolare storia di questo nostro paese non sempre fortunato, le svolte, i passaggi, le rotture decisive sono stati opera di giovani ingegni. […] Quello che manca ancora è il senso prepotente della distinzione - e quindi il rifiuto aperto - rispetto allo stato esistente delle cose, senza il quale il meccanismo critico non s’innesca. Perché queste energie emergano, anche sul piano pubblico, è necessario cambiare la politica o, meglio, il modo in cui i nostri politici intendono la politica. […] Quando alle giovani generazioni, quando ai nostri giovani davvero “puzzerà questo barbaro dominio”, un nuovo corso della storia italiana, anche della nostra storia intellettuale, potrà cominciare. Nel frattempo bisogna lavorare pazientemente, e anche oscuramente, senza timori né requie, per questo nuovo inizio».[16]
È chiaro che, secondo Asor Rosa, la funzione essenziale dell’intellettuale è una funzione critica e questa non può che essere giocata in contrapposizione all’ordine esistente. Dunque, dopo la fine epocale degli intellettuali della modernità, si tratterebbe di capire come proseguire quella stessa funzione critica in una situazione completamente mutata. In effetti, questa pare costituire la parte più debole dell’intervista. Si tratta di poco più che dell’espressione di buone intenzioni. Asor Rosa evita di confrontarsi con una serie di dati di tendenza relativi alle trasformazioni del lavoro culturale che ormai sembrano inconfutabili. Evita anche di entrare nel merito delle nuove teorie sul ruolo dell’intellettuale che sono state nel frattempo elaborate, soprattutto nell’ambito del pensiero postmoderno. Pur sollecitato dall’intervistatrice, mostra peraltro di non avere alcuna simpatia per le analisi di Bauman e degli altri postmoderni.
Stupisce intanto, nell’analisi complessiva, la scarsa attenzione riservata al pubblico e alle sue trasformazioni. Gli intellettuali moderni hanno svolto la loro funzione in nome di un pubblico, fosse esso quello della Rivoluzione francese, della Russia in via di modernizzazione, delle borghesie nazionali in via di costituzione, delle masse degli Stati nazione oppure delle masse delle classi sociali rivoluzionarie. Quel pubblico, che veniva comunque alimentato dai contesti liberaldemocratici e dalle borghesie, si sta trasformando abbastanza radicalmente e non pare oggi più avvezzo a servirsi delle analisi critiche, delle visioni degli intellettuali e dei loro valori. Come affermano i postmoderni, quel pubblico sembra ora effettivamente rifiutare qualsiasi «grande narrazione». Gli intellettuali «critici» come li abbiamo conosciuti sono indissolubilmente legati alle grandi narrazioni, di un tipo o dell’altro. Senza la disponibilità a una qualche grande narrazione viene meno la funzione dei narratori stessi. Non è chiaro come ci si possa attendere, nell’attuale contesto, una qualche ripresa delle grandi narrazioni.
Anche la frammentazione dell’universo culturale sembra una tendenza assodata, che dovrebbe essere in qualche modo interpretata, cui occorrerebbe porre un qualche rimedio nella prospettiva di una ripresa di un ruolo critico per un ipotetico nuovo ceto di savant. La poltiglia postmoderna che deriva dall’estrema ricchezza e diffusione dell’informazione ma, nello stesso tempo, dal rifiuto di qualsiasi sintesi, dal rifiuto di una nozione di verità o di significato, rende del tutto inutile il sacerdote moderno della conoscenza. Le grandi tradizioni culturali, insegna Collins, nascono nelle interazioni faccia a faccia in gruppi rituali che hanno una certa continuità.[17] Oggi le interazioni faccia a faccia che costituiscono le comunità intellettuali sono sempre meno intense, sempre meno continuative. I brandelli di interazione che sono rimasti e i loro sostituti tecnologici non possono alimentare la costruzione di scuole intellettuali, movimenti, avanguardie. Al più possono dare luogo a delle mode fuggevoli che vengono cancellate da altre mode, altrettanto fuggevoli: nessun requisito di coerenza, mode contradditorie possono ben convivere negli stessi soggetti, nessuna persistenza, nessun progetto, nessun compito o missione duratura. La storia collettiva consapevole è abolita a favore di una fuggevole storia individuale (che qualcuno ama chiamare biografia) fatta di accumuli più o meno casuali di esperienze. Individui sempre più diversi tra loro, incapaci di stare insieme in un progetto qualsivoglia, che possono momentaneamente aggregarsi su questioni molto specifiche, che tuttavia non impegnino più di tanto. Gli intellettuali della modernità avevano cercato di connettere il particolare con l’universale, avevano cercato di costruire le grandi prospettive storiche (in termine di fede, di classe, di nazione,…)  rapportando la dimensione interiore degli individui con il contesto esterno. Il prete forgiava la coscienza individuale in modo che l’individuo potesse stare dentro la sua Chiesa. Il letterato forgiava la coscienza nazionale, in modo che il cittadino potesse stare dentro al suo Stato nazionale, il rivoluzionario forgiava l’uomo nuovo affinché questo potesse diventare il membro della nuova società.
Pur ammettendo in diversi passaggi (alcuni li abbiamo citati) la sostanziale perdita di significato di un qualunque progetto storico, la questione non viene esaminata in dettaglio e non se ne indica un qualche possibile superamento. Di fronte al rifiuto postmoderno di entrare in qualsiasi tipo di progetto storico, non ha più senso alcun progetto formativo, dunque non ha più senso alcun intellettuale. Afferma Asor Rosa in proposito: «La storia è oggi l’onnivoro presente che avanza con la pura oggettività, sia pure solo presunta, delle leggi economiche. La globalizzazione, più che un processo storico, è un gigantesco processo di omogeneizzazione economico sociale. Non avverte alcun bisogno di essere interpretato e necessita soltanto di una regia economica. In questo paesaggio profondamente modificato è sempre più difficile essere ascoltati».[18]  Si sarebbe così entrati nell’era della informazione senza formazione. Staremmo dunque assistendo a un esperimento antropologico dagli esiti catastrofici di destrutturazione di tutte le istituzioni e di assolutizzazione dell’individuo singolo.
È questo il senso del nichilismo, il fare a meno delle sovrastrutture storiche, sociali, culturali. Il problema è che questa suprema forma di rifiuto, che qualcuno considera di liberazione, di anarchismo individualistico, non può che rivelare il vuoto che sta dentro all’individuo stesso. Proprio per colmare questo vuoto strutturale dell’animale umano che per umanizzarsi ha bisogno di una cultura, gli intellettuali moderni hanno per secoli costruito punti di riferimento. Ora i nuovi individui pretendono di essere gli intellettuali di se stessi, gli artisti assoluti della propria autocostruzione. Non più scuole di pensiero, ma semilavorati identitari, modelli da consumare, da imitare e da buttare. In fondo l’intellettuale critico è colui che pretendeva di mettere ordine, di decidere le graduatorie, di stabilire i modelli, i canoni; colui che era il depositario dei valori. Appunto a lui ci si poteva rivolgere per riflettere, per confrontarsi. Ora chiunque abbia un simile ruolo non può che essere accusato di autoritarismo. Qualcuno è arrivato a dire che i classici sono autoritari perché impongono il loro modello di perfezione.
Asor Rosa riconosce dunque, a livello descrittivo, la sussistenza di una serie di trasformazioni che sono state particolarmente oggetto di attenzione da parte dei postmoderni. Tuttavia non condivide la loro visione generale.  Di fronte alla fenomenologia della cultura nella società di massa si tratterebbe di capire se quello che Bauman ha definito come intellettuale interprete abbia una qualche plausibilità. Nella descrizione, peraltro assai insoddisfacente che ne dà Bauman,[19] si tratterebbe di un intellettuale traduttore, una specie di mediatore culturale universale. Il problema è che, se la sua funzione fosse estremizzata, l’interprete sarebbe condannato perpetuamente a non esprimersi. Il suo sarebbe un ruolo del tutto tecnico. L’interprete non avrebbe alcun ruolo costruttivo, si limiterebbe a prendere atto delle ragioni locali, delle richieste di riconoscimento di ciascun singolo o di ciascun gruppo che si formi momentaneamente. L’interprete non potrebbe fare altro che riconoscere che tutti hanno le loro ragioni, che tutti hanno ragione. Non più sacerdote della ragione universale, l’intellettuale diventerebbe l’avvocato di qualsiasi mondo particolare. Ogni mondo particolare avrà la sua cultura, senza tuttavia che ci sia più una cultura.
Non pare questa essere la prospettiva di Asor Rosa. Nell’attesa di una qualche non ben precisa rinascita, sotto nuove altre forme, della componente critica, di un nuovo ceto di savant, quel che è certo, secondo lo studioso, è che l’intellettuale moderno si appresterebbe a scomparire, senza resistere più di tanto, senza lottare, arrendendosi all’evidenza di avere consumato il proprio ruolo storico. In ciò s’intravvede un residuo di economicismo marxista. Quello che succede agli intellettuali è il risultato di processi ineluttabili che avvengono in altre sfere ben più importanti, ben più basilari, come la sfera economica, la sfera sociale o la sfera della tecnica. E comunque il silenzio degli intellettuali implica in un certo senso l’accettazione della fine incombente. Perché non una difesa? Perché non una resistenza? Perché non un contrattacco contro la poltiglia postmoderna?
 
                                                                                        Giuseppe Rinaldi
 
 
26/05/2014
 
 
  
TESTI CITATI
 
 
2009   Asor Rosa, Alberto
Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali (a cura di Simonetta Fiori), Laterza, Bari.
 
1987   Bauman, Zygmunt
Legislators and Interpreters. On modernity, post-modernity and intellectuals, Cornell University Press, Ithaca.  Tr. it.: La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti, Bollati Boringhieri, Torino, 1992.
 
1998   Collins, Randall
The Sociology of Philosophies. A Global Theory of Intellectual Change, Harward University Press, Cambridge, Massachusetts.
 
 
 
 
NOTE
 
[1] Cfr. Asor Rosa 2009.
[2] Cfr. Asor Rosa 2009: 8-9.
[3] È curioso che Asor Rosa sia piuttosto critico nei confronti dei postmoderni, ma che, nello stesso tempo, accolga sostanzialmente la loro dottrina circa la fine della modernità.
[4] Cfr. Asor Rosa 2009: 13.
[5] Sulla distinzione tra ceto e classe, si potrebbero condurre molte osservazioni, ma per ora queste non sono essenziali.
[6] Cfr. Asor Rosa 2009: 11.
[7] Cfr. Asor Rosa 2009: 108.
[8] Cfr. Bauman 1987.
[9] Cfr. Asor Rosa 2009: 17-19.
[10] Cfr. Asor Rosa 2009: 22.
[11] Cfr. Asor Rosa 2009: 77.
[12] Cfr. Asor Rosa 2009: 75-76.
[13] Cfr. Asor rosa 2009: 9.
[14] Cfr. Asor Rosa 2009:10.
[15] Cfr. Asor Rosa 2009: 64.
[16] Cfr. Asor Rosa 2009: 111-112.
[17] Cfr. Collins 1998.
[18] Cfr. Asor Rosa 2009: 9.
[19] Cfr. Bauman 1987.