venerdì 29 agosto 2025

La fine di un Mondo. La deriva culturale del popolo della sinistra







 


1. Ci sono[1] dei fenomeni che sono sotto gli occhi di tutti, ma che non vengono mai esplicitamente portati all’attenzione e fatti oggetto di analisi. Perciò restano conoscenza implicita, senza alcuna riflessione.[2] Questi fenomeni corrispondono un po’ a ciò che Raffaele Simone ha chiamato fenomeni vaghi.[3] Solo in particolari occasioni, in seguito a qualche evento critico, pubblico o privato, ci si rende conto – “si prende coscienza”, si diceva una volta – dell’esistenza di qualcosa di nuovo, anche se magari di assai vecchio nella sostanza. Solo a questo punto, il fenomeno vago può essere circoscritto, diventa familiare, può avere una sua denominazione, può essere analizzato, magari anche compreso nella sua portata.

2. Un caso tipico è quello dell’attuale deriva culturale della sinistra italiana.[4] Intendo qui la sinistra come categoria sociologica, la gente della sinistra o il popolo della sinistra. Si tratta di un fenomeno da tempo collocato sotto gli occhi di tutti, pur non avendo mai avuto alcuna ufficializzazione. Fenomeno vago, appunto. Deriva culturale non vuol dire semplicemente che si perdono le elezioni, come peraltro avviene da un pezzo. Non sto parlando neanche di un eventuale tradimento dei principi e valori della sinistra da parte dei suoi dirigenti, oppure di un abbandono da parte dei partiti della sinistra del proprio popolo. Questi sono fatti che, in qualche misura, sono stati ampiamente rilevati e commentati, come ha fatto, ad esempio, Luca Ricolfi.[5] Io stesso, nel mio piccolo, ho scritto noiosi articoli e saggi in merito, anche se a un certo punto mi sono stancato, visti gli scarsi riscontri. Deriva culturale qui fa piuttosto riferimento alla evaporazione inesorabile della cultura politica della sinistra, come era diffusa e radicata in gran parte del Paese. Sto parlando proprio di un degrado della materia prima, cioè di un degrado intrinseco allo stesso popolo della sinistra. In breve: non siamo più quello che eravamo una volta.

3. Vorrei trattare qui, insomma, della condizione materiale e morale del popolo della sinistra. È una questione intorno alla quale ho sempre creduto, magari a torto, di saperne abbastanza. Sono infatti cresciuto in un ambiente di sinistra, in mezzo a tanti altri come me, in mezzo ai cosiddetti compagni. La qualifica di “compagni” in realtà non ha mai significato un granché, poiché, anche tra i compagni, quelle che emergevano erano sempre le differenze: teorie, ideologie, punti di vista, “sensibilità”, programmi politici e così via. Anche differenze di atteggiamento. Differenze che spesso portavano a rotture, frammentazioni, troncatura di amicizie di rapporti. C’erano anche le invidie e le antipatie personali. C’erano poi anche i furbetti che riuscivano sempre a farsi trovare nel posto giusto, nonostante i tempi cangianti e le incertezze del momento. Tuttavia, al di là della sempre difficile navigazione, al di là dei diversi schieramenti e contrasti, restava sempre la vaga percezione che tutte quelle persone avessero un quid comune, magari davvero assai tenue, capace tuttavia di accomunare, di distinguere dal resto. Di fare la differenza. Si trattava dell’individuazione di un noi collettivo. Un lievissimo comune sentire che si poteva appena avvertire e nel quale si poteva tuttavia confidare. Che magari sarebbe senz’altro emerso, nell’analisi di un fatto politico, nazionale o internazionale, oppure in un momento critico dello scontro politico, in una campagna elettorale importante. Ma sarebbe emerso anche discutendo di libri, oppure discutendo di cinema. Oppure in occasione di una raccolta di firme per qualche iniziativa. Anche la scelta circa la modalità di passare il fine settimana, o di fare le vacanze estive, poteva avere un implicito sottofondo comune. Anche certi hobby avevano un che di distintivo.

4. Su questi vaghi elementi, invero assai indefiniti, superficiali, occasionali ed evanescenti, si basava un senso del noi, un sentimento identitario che derivava da una scelta compiuta, implicita ma anche consapevole, di far parte e di voler continuare a far parte di un certo Mondo.[6] Un Mondo sentito, più intuito che ragionato, ma che per questo non era meno reale.[7] Anche perché gli altri “mondi” erano considerati negativi fuori ogni discussione, erano considerati come dei perfetti disvalori. E, bene o male, questo senso del noi era davvero diffuso. Percepito e condiviso da un numero davvero ampio di persone. Quando c’era qualche iniziativa comune, quelle iniziative davvero basilari, qualificanti, quelle cui non si poteva mancare, ci guardavamo intorno soddisfatti: eravamo comunque in tanti. Magari anche intimamente diversi, ma tanti. Naturalmente qui si sta parlando soprattutto dei tempi andati, del fantastico Mondo dei Boomer[8] e della loro cultura politica. Costoro hanno una descrizione sociologica abbastanza precisa. Sono i nati tra il 1946 e il 1964 e sono stati così chiamati in riferimento al boom demografico (baby boom) indotto dalla fine della guerra.[9] Si tratta oggi della generazione più anziana ancora vivente, che si è particolarmente distinta per una sua specifica cultura politica e per uno straordinario coinvolgimento attivo nelle vicende politiche nazionali e internazionali. Le culture politiche precedenti sono ormai in gran parte trapassate, ahimè, con i loro stessi portatori fisici, e quelle successive, come dirò, costituiscono, proprio sul piano della cultura politica, un notevole punto interrogativo.

5. Premetto qui due righe di teoria sulle questioni generazionali. La nozione sociologica di generazione è incentrata intorno all’esperienza collettiva di un gruppo di età.[10] In questo senso, gli appartenenti a una generazione, accanto al possesso di analoghe caratteristiche di tipo anagrafico, economico e sociale, si ritiene debbano soprattutto aver condiviso una qualche comune esperienza e, dunque, siano rimasti caratterizzati da quella esperienza stessa. Si fa dunque riferimento a qualche tipo di esperienza capace di modificare in modo relativamente profondo chi l’ha compiuta. Esperienze che abbiano avuto un profondo carattere formativo ed educativo. Si suppone che queste modifiche rimangano in qualche misura come permanenti, sia pure in forma compatibile con lo svolgersi della vita ulteriore. Anzi, queste modifiche dovrebbero costituire un background capace di determinare un comune modo di reagire di quella generazione alle più diverse occorrenze della vita pubblica e privata.

6. Le generazioni sociologiche di solito, proprio perché hanno condiviso una qualche comune esperienza, hanno anche avuto modo di sviluppare una loro auto rappresentazione (una narrazione intorno alle loro stesse caratteristiche comuni, una loro propria memoria collettiva). Esse, inoltre, proprio in quanto entità bene individuabili, grazie alle caratteristiche che hanno maturato, sono anche fatte oggetto di rappresentazione esterna, da parte delle narrazioni di altri soggetti (altre generazioni, i media, la letteratura o talune ideologie). Le generazioni dunque sono dei costrutti sociali, ma sono ben lungi dall’essere arbitrarie, poiché sono un prodotto preciso della storia, dell’azione collettiva e della memoria collettiva.

Se è vera la nostra ipotesi, che sia cioè in corso, o sia addirittura in fase avanzata, una progressiva deriva culturale del popolo della sinistra, allora questa deriva culturale dovrebbe, come minimo, essere fatta risalire indietro nel tempo, a cominciare proprio dai Boomer e dovrebbe coinvolgere progressivamente anche le generazioni successive. Naturalmente si tratta, in questa ricognizione, di prendere in considerazione anche le eventuali continuità o discontinuità nella trasmissione culturale tra le generazioni.

7. Un dato di fatto, per intanto, che il senso del noi dei Boomer aveva ancora un carattere trans generazionale. C’erano gli anziani (tecnicamente ora definiti come Silents[11]) da cui si poteva sempre imparare qualcosa. C’era una tensione spasmodica nel tentativo di trovare tra loro delle figure guida, dei riferimenti di valore. Dei Maestri.[12] C’erano poi i più giovani di noi, ai quali ci sembrava di avere qualcosa di importante da trasmettere. C’era poi chi aveva all’attivo esperienze significative e magari esemplari da proporre. Quelli della Resistenza, quelli della nuova sinistra dei primi anni Sessanta, come ad esempio quelli dei Quaderni Rossi. C’era il mondo degli intellettuali, ampio, variegato e diffuso anche a livello locale, ma c’erano anche quelli del sindacato e c’era il vasto mondo del lavoro. E poi c’eravamo noi, gli studenti, che eravamo affacciati su questo Mondo. C’erano quelli del volontariato. C’erano poi gli iscritti e i militanti di numerose organizzazioni single issue. Oppure anche soltanto quelli che non sono mai riusciti a prendere una tessera, nemmeno una volta. Quelli, cioè, impietosamente definiti come cani sciolti. Erano sciolti ma avevano un tasso elevato di coinvolgimento e di partecipazione politica.

8. La sinistra, dunque, aveva allora un profilo nettamente pluri generazionale. La cultura politica, le conoscenze, i principi e i valori, le esperienze si cumulavano e si trasmettevano. E la sinistra pareva comunque in crescita. A un certo punto però è subentrata quella che può essere definita come una rottura generazionale. Non mi riferisco tanto alla Generazione X, ancora legata ai postumi del Sessantotto e alle complesse problematiche del riflusso, e peraltro ancora estranea alle nuove tecnologie, bensì soprattutto alla Generazione Y, quelli che sono detti anche Millenial. È quella la generazione che ha, di fatto, accantonato il patrimonio delle generazioni precedenti. Sono coloro che hanno cercato, attivamente e consapevolmente, di costruire una cultura politica completamente diversa, che doveva essere nuova e alternativa. Una politica che fosse antipolitica, di movimento, caratterizzata da un attivismo pragmatico e anti ideologico. Il che finiva per concretizzarsi in cose strane, come il non partito, il non statuto, il mandato imperativo e, soprattutto, il rifiuto della distinzione tra destra e sinistra. La politica, per intenderci, del Vaffa, che poi ha avuto la sua più rilevante espressione nel movimento di Grillo. Il Vaffa non si riferiva soltanto ai santuari del potere, ma anche all’intera cultura della sinistra precedente. Non a caso, come manifestazione estrema del nuovo che avanzava, c’era l’infrastruttura della rete e la famosa piattaforma di Casaleggio, che ebbe poi degli sviluppi tragicomici.[13] Sono loro i veri e definitivi sciolti dal giuramento. Direi, sciolti da ogni giuramento. Con loro la deriva stava cominciando a divenire tangibile. Tutto questo mentre il PD cercava di raccattare confusamente le frattaglie della vecchia destra (la DC) e della vecchia sinistra (il PCI), in una nuova cultura politica detta “democratica” che, in realtà, non è mai nata.

9. Abbiamo allora cominciato a capire che i più giovani, tra quelli delle generazioni successive, non avevano più quell’impercettibile senso del noi di cui s’è detto. Se ne infischiavano del senso del noi, del magico quid che a lungo aveva unito le nostre generazioni e le altre precedenti. Non consideravano la cultura cumulativa delle generazioni, guardavano principalmente al presente. Il passato e il futuro cominciavano a cadere fuori dal campo di attenzione. Era anche quello un fenomeno vago che avrebbe dovuto allarmare, ma che è stato digerito senza troppo scompiglio. Ma non è di questi esiti che intendo occuparmi. M’interessa inseguire che fine ha fatto quel senso del noi che era così diffuso tra i Boomer, che ci ha segnato abbastanza profondamente e che, bene o male, ha caratterizzato una intera stagione politica del nostro Paese. L’ultima stagione che ha visto di fatto, nel bene o nel male, una forte politicizzazione della sinistra.

10. Dicevo che non siamo più quelli di una volta. C’è oggi, sotto il naso di tutti, un fenomeno emergente, proprio tra i vecchi “compagni”, quelli per lo meno che, compatibilmente con l’età, sono ancora attivi, che ancora leggono, scrivono, discutono, partecipano, ciascuno a suo modo. E forse anche tra coloro della Generazione X – i cosiddetti quarantenni – che stanno faticosamente prendendo in mano quel che resta della politica. Questo fenomeno è il senso di estraneità (cioè l’esatto opposto del senso del noi) che emerge subito, ogni qualvolta si cominci appena ad accennare a qualche tipo di questione che abbia, anche solo vagamente, a che fare con la politica e la cultura, vuoi locale, nazionale o internazionale. In altri termini, non ci si capisce proprio più. Il magico quid è evaporato. È andato a ramengo. Quello che una volta era stato per noi Boomer il “Mondo della sinistra” è diventato un mondo di estranei. Determinando così, appunto, la prospettiva demartiniana della fine di un Mondo. Tralascio qui, per motivi di spazio, le implicazioni psicopatologiche che De Martino attribuiva alla sua “fine del mondo”. Sarebbe interessante, in proposito, trattare ampiamente della nozione di de-storicizzazione. Chi fosse interessato, può ricorrere al mio saggio già citato nella nota n. 6.

11. La cultura politica delle fasce più anziane, come i Boomer, è oggi decisamente cambiata. Lo scambio politico tipico, quando c’è, è configurato come una serie di chiacchiere superficiali[14] unite a una mitragliata di slogan sempre più brevi, emozionalmente carichi e dal carattere intransigente. L’impressione è che i pochi Boomer che sono rimasti attivi sulla scena della cultura politica della sinistra credano per lo più di esser giunti a conclusioni definitive. Solo che queste conclusione sono tutte diverse, non coincidono proprio. E queste conclusioni le buttano fuori, le eruttano così come viene, senza alcuna voglia di esaminare e discutere le conclusioni altrui. Certezze ormai consolidate, ma anche fossilizzate e incancrenite. Al posto di qualsiasi attitudine alla riflessione e alla discussione, sembra essersi sostituito l’impulso a produrre una espressione qualsiasi, urgente e necessaria. Alla stregua della classica parresia.[15] È come se le complesse articolazioni della vecchia cultura politica avessero lasciato il posto a poche enunciazioni schematiche. Le antiche disparità di opinione sono ricondotte a poche stanche formule dogmatiche, del tutto rituali. Ciò rende gli attuali consessi dei Boomer ormai sempre più carichi di posizioni schematiche, di noiose ripetizioni e di quel senso di estraneità reciproca di cui si diceva.

12. Questa deriva incombente verso la fossilizzazione non facilita il rapporto con le altre generazioni, anzi lo rende quasi impossibile. La cultura politica dei Boomer sopravvissuti appare oggi, agli occhi delle generazioni successive, del tutto fuori luogo. Notoriamente, la qualifica di Boomer è sempre più usata in forma spregiativa. Essa è salita alla ribalta, e ha fatto il giro del mondo, in una data precisa. Si tratta del novembre 2019, quando il famoso motto “OK Boomer!” è stato usato, nel Parlamento neozelandese, come qualificazione negativa, da una deputata venticinquenne contro un altro deputato, peraltro della Generazione X. Il gergo dispregiativo anti Boomer, dicono le cronache, era tuttavia già in circolazione sui media da almeno una decina di anni.

Così, dopo esser stati a lungo ignorati, i Boomer da almeno un decennio stanno cominciando a divenire – come generazione – oggetto di attenzione da parte delle altre nuove generazioni, che tendono sempre più a considerarli come un blocco residuale dotato di alcuni tratti comuni eminentemente negativi e inopportuni. In altri termini, i Boomer, da soggetti di una complessa e articolata cultura politica quali erano, diventano ora principalmente oggetti di contumelie e invettive. Qui non si tratta solo più di una rottura generazionale, un mancato passaggio della cultura politica cumulata, bensì di un conflitto generazionale che si sta facendo sempre più palese e aperto. I Millenials e la Generazione Z sembrano sempre più infastiditi anche solo dalla presenza dei Boomer.[16] Il conflitto è ovunque sempre più evidente. Non c’è, a sinistra, una sola formazione politico culturale che sia in grado di costituire uno spazio comune di discorso tra i Boomer e le successive generazioni.

13. Nell’ambito della sinistra, ci troviamo dunque di fronte a un fenomeno di estraneità generalizzata, oppure, se vogliamo, a una doppia estraneità. Anzitutto quella ormai ricorrente entro la generazione dei Boomer ancora in attività e poi, secondariamente, anche e soprattutto, quella tra i Boomer e le generazioni successive. Quest’ultima sta prendendo l’aspetto non solo di una rottura ma anche di un vero e proprio conflitto. La prospettiva di un conflitto delle generazioni più giovani contro i Boomer emerge in maniera abbastanza chiara e preoccupante nel lucido e corrosivo OK Millenials! di Brice Couturier.[17] Emerge anche, in forma assai preoccupante, in termini sociali ed economici, dall’analisi di Luca Ricolfi contenuta ne La società signorile di massa.[18]

14. Il mio intento tuttavia è quello di caratterizzare soprattutto la deriva dal lato dei Boomer. Facciamo un esempio. Non amo parlare in pubblico delle mie esperienze personali, poiché credo che, in fin dei conti, siano del tutto irrilevanti. Ma questa volta, farò una piccola eccezione. Ho avuto modo di provare il senso di estraneità intra generazionale di cui sto parlando, qualche tempo fa, nel corso di una conversazione con una persona della mia stessa generazione, appartenente in qualche modo a quel Mondo comune, politico e culturale, di cui sto descrivendo e lamentando il progressivo e forse definitivo deterioramento. Stavamo discutendo dei fatti di Gaza, di Netanyahu e quant’altro. In quel contesto, essendomi pronunciato su alcune questioni, peraltro di dettaglio, mi sono sentito rivolgere l’epiteto di antisemita. La cosa mi ha dato un qualche fastidio, anche perché, alla mia età e con la mia storia alle spalle, quella era davvero la mia prima volta nei panni dell’antisemita.

15. Mi sono reso conto in quel frangente, in termini esistenziali più che intellettuali, della perfetta inutilità della discussione che stavo facendo. È proprio così, più o meno con una specie di intuizione, che i fenomeni vaghi diventano fatti reali. Il comune percorso generazionale e il senso del noi, il magico quid, non erano più sufficienti a trovare uno straccio di terreno di discorso comune, peraltro su una questione a proposito della quale ormai c’è una storiografia consolidata e una bibliografia enorme, oltre a innumerevoli prese di posizione di studiosi, intellettuali e opinion leader. Una questione oltretutto che, per quelli della mia generazione, esiste da sempre, fin da quando eravamo bambini. Insomma, mi trovavo esattamente come se il mio interlocutore, boomer anch’esso, fosse un estraneo qualsiasi incontrato per caso, in treno o al bar. Esattamente come se il famoso quid non fosse mai esistito.

16. Ho citato questo fatterello perché mi pare emblematico e perfettamente generalizzabile. Nel campo di discorso della sinistra, soprattutto dal lato dei Boomer – ma la cosa vale certamente a maggior ragione anche per le generazioni successive – ormai, al posto di una esperienza formativa e costitutiva comune, al posto di una cultura politica cumulativa, ci sono solo più innumerevoli questioni divisive, che vengono “risolte” apostrofando l’altro come un nemico, rovesciandogli addosso le più improbabili accuse, utilizzando l’insulto e lo screditamento morale. Siamo diventati tanti piccoli fondamentalisti che, invece di studiare le questioni e di argomentare, si beano di aggiungere delle reazioni, come se fossimo costantemente su Facebook. O in un talk show permanente. Il termine reazione è perfetto, per qualificare questa modalità deteriorata e residuale di rapporto.

17. Si dice, in sede di psicologia sociale, che i social media avrebbero avuto l’effetto di produrre, nei loro utenti, un pensiero schematico e semplificato, oltre ad averli abituati ad avere reazioni emotive amplificate e di pancia. Ma i Boomer dovrebbero essere oggi quelli meno contagiati di tutti. Sono ormai gli unici, tra i rimasti ancor vivi, ad avere passato ben più di mezza vita senza computer, senza smartphone e senza social media. In più, il Movimento del Sessantotto aveva avuto, come sua caratteristica, l’impiego massiccio della parola scritta, dalle scritte sui muri fino all’interminabile serie degli opuscoli politici e degli articoli e saggi pubblicati nelle riviste. Passando attraverso una miriade di ciclostilati e fotocopie. Fino ai malloppi dei vari Maestri della teoria che circolavano come non mai. Ho esaminato in dettaglio questo aspetto della cultura dei Boomer nel mio saggio: Un Sessantotto gutemberghiano.[19] Tutto questo curricolo formativo è silenziosamente caduto nel dimenticatoio. Come non fosse mai esistito.

18. Era ovviamente da un bel po’ che questo senso di estraneità aveva pieno effetto, che era ormai onnipresente e si infilava più o meno in tutte le questioni. Più o meno in tutti i rapporti interpersonali. Ma sembravano sempre estraneità di volta in volta particolari, specifiche e occasionali. Estraneità di cui si prendeva magari atto, ma magari come “contraddizioni in seno al popolo”, per usare un frasario un po’ datato. Ora sembra proprio il caso di prender atto che sta sopravvenendo una estraneità generalizzata.

Bisogna riconoscere che, ben oltre alla questione palestinese, in effetti, veniamo da stagioni divisive davvero straordinarie. Vediamone alcune, a mo’ di esempio. La sarabanda delle scissioni avvenute intorno al PD e all’ineffabile Renzi. Il conflitto contro tutti del movimento del Vaffa, nato proprio entro la Generazione Y. Il senso di estraneità reciproca con i No-Vax, nato intorno alle discussioni sulla questione delle vaccinazioni. E più in generale intorno alla valutazione della scienza e della tecnologia. Oppure sulla questione dell’invio di armi all’Ucraina. Uno degli argomenti più divisivi è ancora oggi costituito dalle cause della guerra tra Russia e Ucraina. La NATO poi è in assoluto uno degli argomenti più divisivi. La definizione di cosa sia il regime di Putin è un’altra questione altamente divisiva. Più o meno come era stata divisiva la questione intorno alla vera natura della Unione Sovietica, negli anni Venti e Trenta. Per non parlare delle questioni relative alla pace e alla guerra, con tutti gli annessi e connessi, tra cui la questione delle spese militari. Tutte le volte che parlo della democrazia, quella sostanziale, non quella formale, vedo intorno a me sguardi di pena e commiserazione. Per la maggior parte dei Boomer la democrazia era sempre stata “borghese” e sempre lo sarà! Meglio poi non parlare di magistratura, di legge elettorale, di regolamentazione dei partiti e dei sindacati. Mi dicono che anche nel movimento femminista ci sono oggi delle profonde spaccature.

19. Non parliamo poi ancora di Jobs Act e di questioni legate al mondo del lavoro e al ruolo del sindacato. Il recente Referendum del giugno 2025 ha visto profonde divisioni interne alla sinistra, come una valanga che nessuno più riesce a fermare.[20] Sulle questioni ambientali ci sono poi innumerevoli dissidi, come sulla cosiddetta democrazia diretta e sui beni comuni. Non parliamo poi dei diritti civili e del politically correct. Anche sulla immigrazione siamo riusciti a creare nemici e fronti contrapposti. Possiamo aggiungere anche le ricorrenze del calendario civile, con punte estreme il 25 aprile. Non parliamo poi dell’Europa. Non parliamo poi ancora dell’America e dell’Occidente, sempre colpevoli, secondo alcuni, di qualsiasi nefandezza. Si riesce anche a litigare, in campo filosofico, in maniera piuttosto irriducibile, sui principali filosofi degli ultimi tre o quattro secoli.

Insomma, ci ritroviamo divisi su tutto. Ripeto, su tutte queste questioni è del tutto legittimo esistano punti di vista diversi. Meno comprensibile è che non ci siano più chiavi interpretative minimamente condivise e che ormai nessuno abbia più voglia di dibattere, di studiare, e che le opposte fazioni si affrontino a colpi di insulti, condanne moralistiche e interdizioni perpetue. Ovviamente tutte queste questioni divisive rendono impossibile la formulazione di un qualsiasi programma elettorale progressista di sinistra. Tutto ciò, ovviamente, si è tradotto e si tradurrà in pessimi risultati elettorali. Il 2027 non è poi così lontano. Ma questo sembra non importare a nessuno. Gli effetti concreti della deriva culturale si sono visti nel 2022, quando la sinistra disunita ha fatto vincere la destra.

20. E qui vengo alla questione dell’Occidente senza pensiero, nella sua versione più idiosincrasica. Nel particulare cioè delle nostre vite e dei nostri rapporti quotidiani. Se appena si cerca di approfondire qualcuna delle questioni in gioco, ci si troverà di fronte sempre e soltanto a pezzi di ragionamenti, talvolta di senso comune, talvolta provenienti da epoche passate, talvolta raccattati sui social o presso qualche sito di riferimento di nicchia. Tutte le posizioni, anche le più strampalate, hanno oggi il loro sito di riferimento che coordina i loro adepti. Le analisi (che riguardano magari questioni di grande complessità) sono spesso ridotte all’osso. Spesso si tratta di semplificazioni difficilmente accettabili e del tutto inutili. Al posto dell’approfondimento, abbiamo le ripetizioni martellanti. Le poche e vecchie cause motrici della storia e della società, ossificate, vengono invocate per spiegare le conseguenze più varie, per proporre politiche del tutto improbabili. Scattano sempre gli stessi modelli esplicativi. Colpa dei padroni, degli americani, delle banche, della UE, della finanza internazionale, dei rigurgiti neofascisti, del neoliberismo, del patriarcato, dell’antisemitismo,[21] degli immigrati[22] e di quant’altro.

21. Come abbiamo fatto a cadere così in basso? Io mi do la seguente spiegazione. Finché c’erano le ideologie,[23] nel Mondo di cui ci stiamo occupando, c’erano anche le agenzie di produzione ideologica, c’erano gli intellettuali di riferimento, c’erano innumerevoli corpi intermedi che si occupavano intensamente della produzione delle idee. E le idee che circolavano avevano un carattere decisamente professionale. E di idee in circolazione ce ne erano assai. Alcune erano sicuramente pessime, ma alcune decisamente illuminanti, capaci di dar senso alla nostra vita e alla nostra storia. C’era di che scegliere. Tra gli intellettuali c’erano – come dice Aldo Schiavone nel suo saggio – i Maestri, coloro che erano in grado di analizzare le grandi questioni e di operare le grandi sintesi prospettiche che davano senso alle nostre vite e al nostro impegno nella storia. Nonostante le differenze di analisi e di opinione, si aveva l’impressione di una qualche omogeneità, per lo meno nei presupposti di metodo, che consentivano un qualche dibattito civile. Le nuove interpretazioni, quando c’erano, venivano soppesate, i dibattiti procedevano con un certo ordine. Tutti avevano l’impressione di occuparsi all’incirca delle stesse questioni, quelle all’ordine del giorno, che erano perciò considerate da tutti come le più importanti. Magari ci si divideva, ma c’era la consapevolezza che le questioni erano quelle. In genere, ci si divideva per delle ragioni. Se non si era d’accordo con qualcuno o qualcosa, si sapeva sempre spiegare perché. Questo anche perché investivamo tempo e denaro per informarci, per studiare.

22. Bastava leggere qualche rivista o qualche libro ben scelto, per tenersi aggiornati sugli sviluppi dei dibattiti nazionali e internazionali. Magari c’erano dei benemeriti che ogni tanto si peritavano di fare delle sintesi ad usum delphini. Magari anche ricche di copiosi riferimenti storici e con repertori bibliografici che avrebbero ammazzato chiunque. Oppure bastava frequentare le numerose e diffuse conferenze in cui si faceva il punto delle principali questioni. Si poteva dibattere con i relatori, fare delle domande. Ma poi, come ho già accennato,[24] c’era un sacco di gente che scriveva. Lettere, articoli di giornale, saggi di vario genere, inchieste, denunce, relazioni a convegni, documenti politici. Habermas avrebbe detto che c’era qualcosa che somigliava al suo modello della opinione pubblica democratica. Al modello del Diskurs. Oggi, a sinistra, non ci sono più dibattiti, non c’è più opinione pubblica, ci sono solo risse da stadio.

23. Con la fine delle ideologie, questo universo culturale comune, questo universo pubblico di discorso, è progressivamente venuto meno. Non sto qui a esaminare in dettaglio perché e come questo sia avvenuto. Sarebbe troppo lungo. Di fatto gli intellettuali pubblici sono diventati dei chiacchieroni televisivi, le riviste hanno chiuso, le case editrici hanno cominciato a sfornare paccottiglia per le nuove generazioni dalla bocca troppo buona. Perfino i corsi scolastici e gli esami sono stati drasticamente semplificati. Oggi si può pigliare una laurea triennale con una tesina di 25 pagine. Così, è accaduto che ciascuno dei Boomer, neanche più tanto giovani, si è trovato a dover ricominciare a camminare con le proprie gambe. Gestire in proprio (cioè da soli) la ricerca delle informazioni e la loro interpretazione. Gestire in proprio la costruzione e il mantenimento di uno straccio di visione del mondo. Tanto per sapere cosa si vive a fare.

24. Di fronte al venir meno di un comune universo di discorso, i più “deboli” (mi sia permesso questo aggettivo, che nell’intenzione vuol essere di grande simpatia) si sono subito persi per strada. Magari anche sommersi dalle accidentalità e dalle incombenze, sempre più difficili, della vita quotidiana. Un riflusso lento e progressivo che in generale ha significato comunque un impoverimento della partecipazione. I più tenaci, sempre più pochi, hanno invece cercato di concentrarsi sulle questioni più commestibili, quelle più alla loro portata, lasciando da parte gli aspetti più ostici, quelli che avrebbero richiesto competenze e linguaggi specializzati. Direi che – contro Lyotard[25] e la schiera dei post-marxisti postmoderni – sia sopravvenuta un’incapacità generalizzata di produrre grandi narrazioni che fossero appena decenti,[26] la qual cosa ha assicurato il proliferare delle piccole narrazioni, particolaristiche e identitarie, come quelle della cultura woke. O quelle dei tanti cespugli della sinistra minoritaria nostrana.

25. Avvenne così che, da quella che era sempre stata una galassia, si è dato luogo alla formazione di tanti piccoli micro sistemi – “giochi linguistici” di tipo pragmatico, direbbe il solito Lyotard – sempre più isolati e incomunicabili, sempre più concentrati a cuocere nel proprio brodo. Le idiosincrasie individuali e il progredire delle età anagrafiche hanno fatto il resto. Gruppi di irriducibili, sempre meno numerosi, entro cui ormai si perpetuavano pochi spezzoni di cultura politica, sempre più ripetitivi, sempre meno efficaci a cogliere nel segno i processi e i cambiamenti sociali, e le grandi vicende internazionali. Sempre meno efficaci a indicare prospettive credibili per affrontare la grande trasformazione tecnologica ed economica di fronte alla quale ci troviamo. Ciò ha prodotto anche l’allontanamento dal pensiero scientifico, dalle scienze economico sociali in particolare. Dalle scienze umane. E l’allontanamento dalla filosofia e dai valori dell’umanesimo. Umanesimo, oltre a democrazia, è un’altra parola che suscita ilarità e compassione nel mio circondario, tutte le volte che la pronuncio. Con l’aggravante del fatto che il pensiero politico ha comunque fondamentali risvolti filosofici. La filosofia è nata con la polis, ma la polis non sta in piedi senza una qualche passabile filosofia politica condivisa.

26. Coltivare in proprio anche solo qualche spezzone di discorso approfondito diventava sempre più oneroso, sempre meno remunerativo. E così è venuto il momento in cui ci siamo arresi. Siamo diventati tutti ritualisti nel senso di R. K. Merton. Coloro cioè che, essendo ormai del tutto impossibilitati nei mezzi, continuano inutilmente a vagheggiare i vecchi fini. Si pensi, ad esempio, al degrado subito dal dibattito nel campo delle scienze dell’educazione. Che pure è un campo che coinvolge innumerevoli professionisti, dotati di un certo livello di istruzione, nelle scuole di ogni livello. La qualità scadente della istruzione che trasmettiamo alle giovani generazioni è allarmante, ma nessuno si preoccupa. Neanche le giovani generazioni stesse. Tutti contenti.

27. All’appartenenza viva a un Mondo – la cultura politica della sinistra funzionava proprio come un Mondo demartiniano – con tutte le sue variegate sfaccettature, è così succeduta la coltivazione di costellazioni di identità rituali, rigide, impermeabili a ogni cambiamento. Lasch parlerebbe di Io minimo.[27] Che queste identità siano confinate in piccoli gruppi di irriducibili (destinati a sciogliersi solo con la sopravvenuta inabilità dei singoli appartenenti) oppure confinate entro la soggettività di singoli cani sciolti. Finché c’era un Mondo, era facile partecipare, discutere, scegliere tra le diverse alternative, magari anche cambiare posizione, ingenuamente anche infinite volte. Venuto meno il Mondo, l’economia del cambiamento non poteva più funzionare. Cambiare prospettiva da soli[28] era diventato sempre più oneroso, sempre più difficile. Non restava che rinchiudersi in una sorta di Fortezza dei Tartari. Ormai si costruiscono solo più cinte difensive, fortificazioni per difendere quelle quattro idee in croce che qualcuno ancora conserva gelosamente. Cimeli di un passato che una volta era stato vivo ma che ora è poco più che ridotto a un fossile museale. In generale, possiamo dire che alle elaborazioni complesse delle analisi e dei punti di vista che erano propri di un Mondo, è subentrato il fai da te individualizzato e, soprattutto, disperato. È subentrata la presunzione autoreferenziale di albergare e mantenere un residuo di cultura politica senza un autentico confronto, senza elaborazione, senza pubblico discorso, ma semplicemente sventolando una bandierina.

28. Se qualcuno poi cerca faticosamente di mantenere qualche standard culturale appena un po’ più elevato, magari affine a quei Maestri cui pure si era ispirato in passato, oppure se cerca di armeggiare con qualche forma di pensiero meno semplicistico, un po’ più articolato, oppure se cerca di tenersi aggiornato al panorama culturale internazionale, ebbene costui sollecita e suscita, nel circondario, l’incredulità e poi le immediate diffidenze. E talvolta aperte ostilità. Financo aggressività. L’Io minimo, oggi così diffuso, non può che produrre il rancore contro i diversi. Perché l’appiattimento cui siamo soggetti è una cosa che si deve consumare tutti insieme. Chi non si appiattisce come tutti, è decisamente un provocatore. Mal comune, mezzo gaudio. Sono reazioni in fin dei conti comprensibili, sebbene non giustificabili. Non si hanno ormai più gli strumenti per capire ciò che appena si distanzia dal senso comune. Costui sta dalla mia parte oppure è contro di me? Devo dargli ragione o devo dargli torto? Nel dubbio, è sempre meglio tenersi alla larga, meglio bannare senza esitazione. L’Io minimo è implacabile.

29. Quando vengono progressivamente meno i criteri di valutazione in termini di cultura politica, cioè criteri legati a un comune universo di discorso, a un universo di principi e valori, a un’enciclopedia di concetti condivisi, a un Mondo, come si diceva poc’anzi, allora si fa strada con prepotenza la logica realistica dell’amico/ nemico. Quella che è piaciuta tanto a certi nostri marxisti post-marxisti. Che hanno mollato Karl per avere in cambio l’altro Carl. Non contano più le idee, bensì i rapporti tra le persone. Si passa, ahimè, come dice Lyotard, dalla semantica alla pragmatica. La tendenza allora è quella a costituire piccole consorterie di sodali, che discutono di niente al proprio interno, ma che sono convinti di avere alcune comuni idee – bandiera, alcuni vessilli simbolici da sventolare, qualche vecchia canzone da ascoltare, qualche rito periodico da compiere. Qualche causa assurda da sostenere. Appunto, cose come i “giochi linguistici” e le “piccole narrazioni” di Lyotard. Da brandire contro tutto il resto del mondo. Soprattutto da brandire contro i concorrenti interni alla sinistra stessa. Il che avviene oggi ancora esattamente come nella vecchia Unione sovietica. Il capitalismo poteva anche aspettare, ma quello che dovevi combattere, e far fuori subito, era il tuo immediato concorrente interno. Al di sotto degli striminziti e spesso assurdi vessilli simbolici, se si va a ben guardare, spesso ci sono soltanto piccoli interessi di bottega. Occupare qualche posto nella pletora di piccole organizzazioni che non contano più nulla, piazzare gente della tua lobby negli incarichi e organismi dirigenti, far venire qualcuno dei tuoi a tenere una conferenza da fuori, o a presentare un libro, mandare qualche post su Facebook per intrattenere la tua cerchia, rilasciare qualche intervista a nome della tua organizzazione, fare delle cene per raccogliere fondi, farsi invitare a tenere qualche pubblico dibattito. In tutto questo attivismo da amico/ nemico, accade così inevitabilmente che il famoso merito, tanto blaterato in teoria quanto sempre ignorato in pratica, vada a farsi benedire e si generi quella caratteristica selezione degli incapaci, così tipica ormai ad ogni livello delle organizzazioni superstiti del popolo della sinistra. Deriva culturale e selezione degli incapaci sono un miscuglio tossico che caratterizza sempre più il panorama tardo della fine di questo Mondo.

30. Spero di avere adeguatamente motivato che un Occidente senza pensiero,[29] l’argomento del mio precedente saggio, non è solo un vezzo intellettualistico. O un argomento salottiero di moda. È piuttosto qualcosa che ha riguardato da vicino le nostre vite, quel che eravamo e quel che siamo purtroppo diventati. E che determina oggi la chiusura delle nostre prospettive e delle nostre speranze rispetto al futuro. Per noi e per quelli che verranno (anche se a costoro la cosa sembra davvero poco importare!). Si tratta di una deiezione nella quale siamo scivolati, senza neppure accorgercene. Senza neppure gridare. Senza neppure invocare aiuto. Semplicemente perché stavamo precipitando tutti nella stessa direzione, e ci sembrava allora una cosa del tutto normale.

In questo saggio mi sono occupato soprattutto del Mondo che ho conosciuto meglio, quello dei Boomer di ieri e di oggi. Se questo è però il quadro della deriva della cultura politica nell’ambito dei Boomer – cioè, quella generazione ancor vivente che nel contesto della propria formazione ha avuto le maggiori iniezioni di cultura politica – ci si può seriamente domandare allora quale sia la situazione presso le generazioni successive. Su questo argomento ho avuto qui solo il modo di fornire qualche flash estemporaneo. Magari tornerò sull’argomento. Qualche tempo fa mi sono ampiamente occupato della questione[30] e posso dire che, in merito, è ormai disponibile una vasta letteratura e che questa non è delle più confortanti. Peraltro, basta guardarsi intorno.

Giuseppe Rinaldi (29/08/2025)

 

OPERE CITATE

1983 Anderson, Benedict, Imagined Communities. Reflections on the Origin and Spread of Nationalism, Verso, London. Tr. it.: Comunità immaginate. Origini e diffusione dei nazionalismi, Manifestolibri, Roma, 1996.

 2021 Couturier, Brice, OK Millenials! Puritanisme, victimization, identitarism, censure. L’enquête d’un baby-boomer sur les mytes de la génération “woke”, Éditions de l’Observatoire, Paris.

 1984 Lasch, Christopher, The Minimal Self. Psychic Survival in Troubled Times, Norton, New York. Tr. it.: L’io minimo. La mentalità della sopravvivenza in un’epoca di turbamenti, Feltrinelli, Milano, 1985.

 1979 Lyotard, Jean-François, La condition postmoderne, Les Éditions de Minuit, Paris. Tr. it.: La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano, 1981.

 1952 Mannheim, Karl, The Sociological Problem of Generations, in Mannheim, Karl (a cura di), Essays on Sociology of Knowledge, Routledge and Kegan Paul, London. [1923]

 2000 Putnam, Robert D., Bowling Alone. The Collapse and Revival of American Community, Simon & Schuster, New York. Tr. it.: Capitale sociale e individualismo, Il Mulino, Bologna, 2004.

 2017 Ricolfi, Luca, Sinistra e popolo. Il conflitto politico nell’era dei populismi, Longanesi, Milano.

 2019 Ricolfi, Luca, La società signorile di massa, La nave di Teseo, Milano.

 2022 Ricolfi, Luca, La mutazione. Come le idee di sinistra sono migrate a destra, Rizzoli, Milano.

 1969 Riesman, David & Glazer, Nathan & Denney, Reuel, The Lonely Crowd, Yale University Press, New Haven and London. Tr. it.: La folla solitaria, Il Mulino, Bologna, 1999. [1950]

 2012 Rinaldi, Giuseppe, “La fine del mondo. Crisi e storicità in Ernesto De Martino”, in Anima e Terra, n. 2, ottobre, pp. 133-157.

 2025 Schiavone, Aldo, Occidente senza pensiero, Il Mulino, Bologna.

 

NOTE

[1] Recentemente ho scritto un saggio di analisi intitolato Occidente senza pensiero. Cfr. Finestre rotte: Occidente senza pensiero . In quel saggio, in dialogo ideale con Aldo Schiavone (Cfr. Schiavone 2025), mi occupavo di una questione un poco astrusa, cioè del destino culturale dell’Occidente, nella attuale tormentata fase storica. Devo dire che il mio saggio, tranne lodevoli eccezioni e qualche latrato fuori luogo, non ha suscitato grandi reazioni, né positive né negative. Il saggio che qui presento, tratta esattamente e pervicacemente gli stessi argomenti dell’altro, non più però dal punto di vista generale, bensì dal punto di vista idiografico, cioè particolare. Diciamo che qui mi occupo del lato particolare del vuoto di pensiero dell’Occidente, quello che ci riguarda da vicino e ci tocca direttamente come individualità storiche. Mi aspetto pertanto almeno qualche reazione negativa, ma staremo a vedere. Preciso, dati i tempi, che nella stesura di questo testo non ho fatto uso alcuno di strumenti di intelligenza artificiale.

[2] Senza concetto, avrebbe detto Hegel.

[3] Ho provveduto a spiegare dettagliatamente la nozione di fenomeno vago nel mio saggio Finestre rotte: Il fenomeno vago della postverità.

[4] Userò il termine “sinistra” in senso ampio, senza alcuna distinzione interna, riferendomi soprattutto agli elementi basilari della cultura politica sinistrese. Circoscrivo per semplicità il discorso alla sinistra italiana. Quanto al termine deriva, così recita il Passerini Tosi: «Andare alla deriva = Detto di nave che non si può più governare ed è trascinata dalle correnti. […] In senso figurato […] Lasciarsi trascinare senza reagire. Esser come in completa balia degli eventi».

[5] Cfr. Ricolfi 2017 e Ricolfi 2022.

[6] Uso qui il concetto di Mondo, che ha avuto una rispettabile tradizione filosofica, a cominciare da Kant e Schopenhauer per continuare con Dilthey e Husserl, e che, specificatamente nel campo storico sociale, culmina con uno dei miei Maestri virtuali, Ernesto de Martino. Sulla nozione di “mondo” in Ernesto De Martino si può vedere il mio saggio Rinaldi 2012. Il saggio è stato da poco rivisto e ripubblicato sul mio blog: Finestre rotte: La fine del mondo. Crisi e storicità in Ernesto De Martino (2012).

[7] Su questo punto, il riferimento ovvio è Comunità immaginate di Benedict Anderson. Cfr. Anderson 1983.

[8] Uso questo termine, anziché termini similari, solo perché è più preciso e permette così il raffronto con le altre generazioni. Sociologicamente, i Boomer sono coloro che sono nati tra il 1946 e il 1964. Sono coloro che, nel 2025, hanno tra 61 e 79 anni. La generazione successiva è la cosiddetta Generazione X, che comprende i nati tra il 1965 e il 1979. Sono coloro che, nel 2025, hanno tra 46 e 60 anni. Sono costoro a rappresentare il contingente più ampio dell’attuale personale politico. La generazione successiva è quella dei Millenial (detti anche Generazione Y) che comprende coloro che sono nati tra il 1980 e il 1994 e che, nel 1925, hanno una età compresa tra 31 e 45 anni. Costoro – vista la gerontocrazia tipica del nostro Paese – si apprestano a costituire la schiera new entry nell’ambito del personale politico. La generazione successiva è la Generazione Z, nata tra il 1995 e il 2012. Oggi nel 2025 hanno un’età compresa tra 13 e 30 anni. Data la loro età, sono ancora in gran parte coinvolti nei processi di formazione. Sono coloro cui dovrebbero essere rivolte formidabili e obbligatorie iniziative di formazione alla cultura civica e alla vita politica. Sarebbe questo il solo investimento che potrebbe provare a invertire la deriva di cui stiamo parlando. Ma nessuna forza politica nostrana ha all’ordine del giorno qualcosa di simile.

[9] Il boom demografico vale soprattutto per gli Stati uniti. Un po’ meno per l’Italia.

[10] Questa definizione è stata prodotta da Karl Mannheim, in un articolo del 1923. Cfr. Mannheim 1952.

[11] Sociologicamente così è stata denominata la generazione dei nati prima del 1946, tra il 1928 e il 1945.

[12] Sembra strano oggi, ma queste figure guida c’erano, erano numerose e distribuite anche a livello locale. Le si poteva incontrare, si poteva discutere con loro, si potevano ascoltare le loro conferenze o leggere i loro articoli sulle riviste. Oggi, a destra e a sinistra, tutti credono di saperne abbastanza e di non aver alcun bisogno di figure guida. Chi si presentasse come figura guida sarebbe perfettamente ignorato. Ovviamente, fanno eccezione i leader populisti.

[13] Tutto ciò è ormai caduto nel dimenticatoio. Il danno arrecato è stato grave, ma costoro uno straccio di analisi e di autocritica non la faranno mai. Scurdammoce o’ passato!

[14] Non posso non evocare qui il mondo della chiacchiera come descritto da alcuni filosofi esistenzialisti.

[15] La parresia è l’impulso irrefrenabile a dire pubblicamente quella che si ritiene essere la verità, a qualsiasi costo.

[16] La mia impressione è che le radici ultime di questa conflittualità siano assai profonde. Non ho spazio qui per entrare in argomento. Altrove ho parlato di mutazione antropologica. Cronologicamente, i primi a rilevare qualcosa di simile a questa mutazione sono stati David Riesman (1909-2002) e Marshall McLuhan (1911-1980). A seguire poi molti altri studiosi, come ad esempio Cristopher Lasch (1932-1994). Si tratta di una diversa strutturazione dell’Io dovuta a processi sociali e soprattutto culturali. Riesman, nel suo The Lonely Crowd, contrappone il tipo psicologico degli inner-directed a quello degli other-directed. Ho trattato diffusamente di questa problematica nel mio saggio David Riesman e l’individuo ben socializzato, peraltro mai pubblicato su Città Futura. Cfr. Finestre rotte: David Riesman e l’individuo ben socializzato. Si veda eventualmente Riesman 1969 [1950].

[17] Cfr. Cuturier 2021.

[18] Cfr. Ricolfi 2019.

[19] Si veda il mio saggio Un Sessantotto gutemberghiano. Cfr. Finestre rotte: Un Sessantotto gutemberghiano .

[20] Si veda eventualmente la mia analisi dei risultati referendari nel mio recente saggio: Finestre rotte: Referendum 2025 .

[21] Oggi anche l’ONU è da taluni considerato come antisemita. Mi sento dunque in buona compagnia.

[22] In occasione del Referendum 2025, è accaduto spesso di sentire rudi militanti della “rivolta” landiniana sostenere che la presenza, nel pacchetto dei Referendum, della questione della cittadinanza agli immigrati avrebbe alimentato l’assenteismo elettorale e fatto perdere voti ai referendum sul lavoro. Un chiaro invito a non ripetere più l’errore di simili connubi contro natura.

[23] Assumo qui – seguendo l’opinione corrente – che ci sia stata effettivamente una fine delle ideologie, anche se la questione è davvero assai discutibile e controversa. È senz’altro riscontrabile che siano finite giustamente alcune ideologie decisamente dannose e financo perverse. Insieme a loro sono state buttate ideologie invece del tutto indispensabili, come l’umanesimo, la democrazia, l’eguaglianza oppure il cosmopolitismo. Non ho spazio qui per trattare questa problematica.

[24] Vedi nota 17.

[25] Cfr. Lyotard 1979. Lyotard è un filosofo post-strutturalista e postmodernista.

[26] Il problema non è se le narrazioni siano piccole o grandi, bensì se siano giuste o sbagliate. Siccome Lyotard è un relativista, guarda soltanto alla dimensione delle narrazioni (grandi o piccole) e non al loro contenuto.

[27] Cfr. Lasch 1985.

[28] Mi riferisco qui allo studio di Robert Putnam Bowling Alone. Cfr Putnam 2000.

[29] Vedi la nota n. 1.

[30] Ho, da tempo, un saggio in sospeso su questo argomento. Non ho grandi incentivi a completarlo.






sabato 9 agosto 2025

La fine del mondo. Crisi e storicità in Ernesto De Martino (2012)












1. Sembra proprio[1] che la fine del mondo sia all’ordine del giorno. Le predizioni del calendario maya che ce l’annunciano sono soltanto la punta dell’iceberg di un fenomeno assai più ampio e pervasivo. Il catastrofismo sta, infatti, diventando un motivo sempre più diffuso nell’odierna cultura di massa, dal cinema, alla letteratura, alle altre arti. Anche presso i leader d’opinione si respira un clima di crisi che produce continuamente dati preoccupanti e previsioni pessimistiche. Negli ultimi decenni, correnti culturali autorevoli hanno annunciato con serietà eventi catastrofici di tutti i tipi. In un elenco sommario, si possono annoverare cose come: la crisi delle scienze europee, la fine delle avanguardie, la fine della metafisica, l’eclissi della ragione, la fine della filosofia, la fine della modernità, la fine della storia, la fine dei valori, la fine dell’arte, la fine della religione, la fine della politica, il dileguamento dell’essere, la fine dell’utopia, la fine della democrazia, la fine del soggetto, la fine dello Stato, la fine della verità, la liquefazione della società, la fine dello sviluppo, la fine del pianeta. E chi più ne ha, più ne metta. Tutti questi epiloghi epocali sono stati presentati come dati di fatto evidenti, oppure come il “compimento” di un destino ineluttabile. Il catastrofismo è ormai talmente diffuso che non fa quasi più notizia, anche se è probabile che, alla fin fine, questo modo di vedere le cose non sia del tutto privo di conseguenze. Vale allora davvero la pena di cercare, al di là del senso comune, una qualche spiegazione del fenomeno, tentando di capire se esso abbia qualche solido fondamento e, soprattutto, quali ne siano le cause.

2. Questi interrogativi hanno un senso, tanto più che, se si considerano le cifre sulle tendenze globali che riguardano parametri come lo sviluppo economico, la speranza di vita, la diffusione dei conflitti, la frequenza dei crimini, il livello d’istruzione, eccetera, e se si fanno le opportune comparazioni con altre epoche, si potrebbe essere indotti a concludere che, in generale, l’umanità non sia mai stata così bene come negli ultimi tempi. Proprio di questo parere, al termine dell’esame di una gran mole di dati, è il sociologo Pino Arlacchi.[2] Del resto, anche gli storici hanno individuato, nella seconda metà del Novecento addirittura un’epoca d’oro.[3] A questi dati di fatto, che dovrebbero orientare all’ottimismo, si obietta che non sono tanto le condizioni oggettive che contano, quanto gli aspetti morali, e che, proprio su questo piano, si ha l’impressione di una crisi generale, di una netta decadenza.[4] Arlacchi ha ammesso anch’egli che, accanto a una situazione globale che va, di fatto, verso un netto miglioramento, sembra persistere un’esagerata diffusione di paura, una percezione del rischio del futuro che forse non è mai stata così acuta. Secondo Benasayag e Schmit, staremmo addirittura andando incontro a un cambiamento radicale della nostra concezione del futuro, da un futuro concepito come promessa, a un futuro concepito come minaccia.[5]

3. A dispetto della crescente diffusione del fenomeno, sono davvero pochi gli studiosi che si sono occupati del catastrofismo in maniera approfondita. Una ragguardevole eccezione è costituita da Ernesto De Martino, uno dei più raffinati intellettuali italiani del secolo scorso. Alla sua morte prematura, nel 1965, ha lasciato una gran quantità di materiali di ricerca che avrebbero dovuto costituire un’opera intitolata, appunto, La fine del mondo.[6] Etnologo e antropologo di mestiere, De Martino aveva una profonda formazione filosofica e, nel corso della sua opera, ha sempre cercato di tenere unito, per quanto possibile, l’aspetto dell’indagine sul campo con la riflessione teorica fondamentale. Il suo programma di ricerca intorno alla fine del mondo resta uno dei più articolati e argomentati, anche se inserito in una ben precisa prospettiva di filosofia della storia, una prospettiva che oggi il lettore comune fa qualche fatica a identificare. In quel che segue, cercherò di presentare i concetti fondamentali utili a intendere la filosofia della storia di De Martino e, di conseguenza, la sua concezione della fine del mondo. Svilupperò poi alcune osservazioni circa il catastrofismo attuale e il suo ruolo nella cultura contemporanea.

4. La nozione di mondo usata da De Martino va intesa in modo assai specifico. Essa fu introdotta nel Mondo magico, la sua prima opera di ricerca, seppure non ancora sul campo, pubblicata nel 1948.[7] L’espressione “mondo magico” è di origine filosofica ed è stata concepita in opposizione al “mondo della natura” e al “mondo dello Spirito”. Per cogliere adeguatamente la genesi di questo concetto, occorre tener presente quale fosse il programma di riforma dell’etnologia che De Martino aveva in mente: si trattava di prendere le distanze dal cosiddetto naturalismo, la corrente all’epoca più diffusa e nettamente prevalente a livello internazionale,[8] per fondare ex novo un’etnologia di tipo storicistico, secondo i canoni della filosofia crociana. Era un progetto alquanto temerario, se si considera che fenomeni tipicamente etnologici, come il mito, la magia e la religione, avevano trovato scarsissima considerazione nell’ambito della stessa filosofia crociana.[9] De Martino si trovò così di fronte al difficile compito di collocare il campo della nuova disciplina etnologica non più nella natura, ma non ancora compiutamente nella storia. Fu indotto allora a individuare, in un primo momento, proprio il mondo magico come un mondo borderline, un vero e proprio momento di passaggio tra la natura e la cultura. Il mondo magico non era più natura, ma non era ancora compiutamente cultura, poiché in esso non si era ancora affermata la storicità, qui intesa, secondo Croce, come dialettica all’interno dei distinti.

5. Nel mondo magico de martiniano, la categoria specifica capace di strutturare l’azione degli individui e delle collettività era la presenza, e la sua dialettica interna era prodotta dalla contrapposizione tra la presenza e il rischio costante della sua perdita. Si trattava di un mondo aurorale, dove lo Spirito, in tutte le sue articolazioni, correva costantemente il rischio di essere sopraffatto e di ritornare nell’indistinto. Il problema fondamentale che costituiva il mondo magico non era ancora tanto legato all’Utile, al Bello, al Buono e al Vero, cioè al problema di cosa fare nella storia, quanto al problema di stare dentro a una storia, cioè il problema preliminare dell’esserci come soggetto storico. Con l’introduzione della categoria della presenza e del correlativo negativo del rischio della presenza, il mondo magico veniva così a trovare una sua fondazione ontologica e diventava disponibile per le operazioni cognitive della nuova etnologia storicistica. Questa operazione poteva essere concepita come una estensione delle quattro tradizionali categorie crociane.

6. Il concetto de martiniano della presenza non ha tuttavia un’origine filosofica, bensì psichiatrica. L’avvento dello Spirito nella storia poteva infatti avere qualche analogia con il problema della nascita e del mantenimento della coscienza nel soggetto individuale. De Martino era stato così indotto ad approfondire lo studio della letteratura psicopatologica e a far propria la teoria che potesse esserci qualche analogia tra gli stati di coscienza dei primitivi e quelli dei malati di mente. La teoria non era assolutamente nuova.[10] Come i malati di mente apparivano sempre sul punto di perdere la coscienza di sé e il senso della realtà, così i primitivi potevano sembrare sempre sul punto di perdere l’aggancio con il loro mondo, per ritrovarsi precipitati nella pura naturalità. De Martino approfondì con attenzione i meccanismi di strutturazione della coscienza e di perdita della coscienza, così com’erano stati descritti dalla scuola psichiatrica francese; si avvalse, in particolare, degli studi di Janet sulla dissociazione dell’io, sulla perdita di contatto con la realtà, sul misticismo.[11] Il problema dell’unità della coscienza, i disturbi della coscienza, la derealizzazione, divennero così altrettanti elementi descrittivi che potevano aiutare nell’interpretazione delle caratteristiche fondamentali del vissuto del mondo magico.

7. Basandosi sulla psicopatologia e su numerose fonti etnologiche, De Martino aveva così potuto concentrare la sua attenzione su una singolare, a suo dire, condizione psichica in cui: «[…] l’indigeno perde per periodi più o meno lunghi, e in grado variabile, l’unità della propria persona e l’autonomia dell’io, e quindi il controllo dei suoi atti. In questa condizione, che subentra in occasione di una emozione, o anche soltanto di qualcosa che sorprende, il soggetto è esposto a tutte le suggestioni possibili».[12]

 E così proseguiva: «Tutto accade come se una presenza fragile, non garantita, labile, non resistesse allo choc determinato da un particolare contenuto emozionante, non trovasse l’energia sufficiente per mantenersi presente adesso, ricomprendendolo, riconoscendolo o padroneggiandolo in una serie di rapporti definiti. In tal guisa il contenuto è perduto come contenuto di una coscienza presente. La presenza tende a restare polarizzata in un certo contenuto, non riesce ad andare oltre di esso e perciò scompare e abdica come presenza. Crolla la distinzione fra presenza e mondo che si fa presente: il soggetto, in luogo di udire o di vedere lo stormir delle foglie, diventa un albero le cui foglie sono agitate dal vento».[13]

8. Il rischio della perdita della presenza provocava, a livello individuale, una situazione di disagio psichico, che era definita e descritta come angoscia:  «Un’angoscia caratteristica lo travaglia: e quest’angoscia esprime la volontà di esserci come presenza davanti al rischio di non esserci. La labilità diventa così un problema e sollecita la difesa e il riscatto: la persona cerca di reintegrare la propria presenza insidiata».[14] La nozione di angoscia, che pure era stata elaborata in campo psichiatrico, aveva un suo importante corrispettivo nelle filosofie dell’esistenza e in quella che poi diventerà la psichiatria fenomenologica.

La presenza veniva dunque ad assumere una posizione centrale nella visione di De Martino; si trattava di una categoria ad ampio spettro, capace sul piano filosofico di costituire una condizione preliminare all’ingresso nel mondo della storia, di rendere possibile la stessa storicità e, sul piano empirico, di spiegare i vissuti individuali e le credenze che si ritrovavano nel mondo magico: «Il fatto negativo della fragilità della presenza, del suo smarrirsi e abdicare, è incompatibile per definizione, con qualsiasi creazione culturale, che implica sempre un modo positivo di contrapporsi della presenza al mondo, e quindi una esperienza, un dramma, un problema, uno svolgimento, un risultato».[15] Nel mondo magico, dunque, il dramma fondamentale era costituito dallo sforzo di mantenere la presenza, di mantenersi cioè al livello dell’operabilità storica.

9. Nelle società primitive, il rischio della perdita della presenza – ed è questo il tema centrale del Mondo magico – veniva affrontato e scongiurato grazie a una serie di risorse culturali che dovevano essere pertanto caratteristiche specifiche del mondo magico stesso e che avrebbero cessato di avere senso qualora il mondo magico fosse stato superato. Si trattava cioè di una serie di tecniche e di istituzioni volte precisamente a dominare le situazioni di crisi e a ottenere il riscatto della presenza. Avviene così che il grande protagonista del dramma del mondo magico sia lo sciamano. Esso è depositario di una tecnica culturalmente elaborata (dunque pertinente al dominio dell’Utile) che è in grado di produrre, nell’ambito della comunità, attraverso appositi rituali, la reintegrazione della presenza minacciata, sia sul piano individuale – lo sciamano è una specie di terapeuta – che su quello collettivo – lo sciamano costituisce e ricostituisce il vissuto del mondo comunitario. Le pratiche magiche che sono operate in riferimento a quel mondo dunque funzionano effettivamente e hanno il senso di contribuire costantemente alla costituzione del soggetto del mondo storico e a impedire lo sprofondamento nella natura.

10. Spiegava De Martino nella conclusione della parte metodologica del suo saggio: «Qui noi siamo in presenza del primo abbozzo di quel dramma che creò il mondo della magia, nella varietà dei suoi temi culturali. Infatti il semplice crollo della presenza, la indiscriminata coinonìa, lo scatenarsi di impulsi incontrollati, rappresentano solo uno dei due poli del dramma magico: l’altro polo è costituito dal momento del riscatto della presenza che vuole esserci nel mondo. Per questa resistenza della presenza che vuole esserci, il crollo della presenza diventa un rischio appreso in un’angoscia caratteristica: e per il configurarsi di questo rischio la presenza si apre al compito del suo riscatto attraverso la creazione di forme culturali definite. Per una presenza che crolla senza compenso il mondo magico non è ancora apparso; per una presenza riscattata e consolidata, che non avverte più il problema della sua labilità, il mondo magico è già scomparso. Nel concreto rapporto tra i due momenti, nella opposizione e nel conflitto che ne deriva, esso si manifesta come movimento e come sviluppo, si dispiega nella varietà delle sue forme culturali, vede il suo giorno nella storia umana».[16]

11. Sarebbe tuttavia fuorviante pensare che questa prima nozione del mondo magico sia stata ricavata esclusivamente in base alle esigenze teoriche dello storicismo crociano e della psicopatologia. Nel primo Novecento, nell'ambito della filosofia continentale, si erano andate delineando molte nozioni consimili che avevano tentato di cogliere, in modo globale, aspetti dell’esperienza umana che il positivismo aveva trascurato. Basti pensare e all’Erlebnis (il vissuto) diltheyano, al Lebenswelt (mondo della vita) husserliano, oppure al Dasein (esser-ci) heideggeriano. Si tratta di concetti che erano nati sul terreno delle forme trascendentali e che tuttavia avevano preso ben presto una torsione fenomenologico – esistenziale. Nonostante svariati accenni critici nei confronti di Husserl e di Heidegger, queste nozioni ebbero comunque una progressiva e rilevante influenza su De Martino e vennero da lui rielaborate nel quadro di un esistenzialismo positivo, vicino a quello di Abbagnano.[17]

Questo è il motivo per cui, già nel Mondo magico, la categoria della presenza (che, a rigore, avrebbe dovuto restare rigorosamente formale) aveva acquistato sempre più il carattere di un esistenziale, di un vissuto, cioè di un tratto caratteristico dell’esistenza. Poiché questo concetto era destinato a un’applicazione di tipo etnologico, si è profilata fin da subito anche la possibilità che vi fosse una pluralità di vissuti, che potessero dunque coesistere diversi mondi, diversi modi di esserci, gli uni accanto agli altri, ciascuno dotato di proprie caratteristiche, tanto da rendere difficile l’adozione di un’unica epistemologia, di un’unica teoria della verità. Una conseguenza tipica di questo pluralismo relativistico è costituita dal dibattito riguardante la cosiddetta “efficacia” dei poteri magici, su cui non possiamo però qui dilungarci.[18]

12. La sovrapposizione tra categorie formali e concetti fenomenologico – esistenziali e, soprattutto, l’ipotesi di un mondo aurorale, culturalmente costituito, in cui lo Spirito non fosse ancora del tutto apparso nelle sue eterne articolazioni, infastidirono alquanto il Croce e l’ambiente crociano e ciò portò a un’annosa polemica tra Croce e De Martino.[19] De Martino, nei suoi lavori successivi, formalmente si piegò all’autorità di Croce, facendo una sorta di autocritica su alcuni punti ma, di fatto, continuò a sviluppare le due basilari nozioni di mondo e di presenza sempre più in direzione fenomenologico – esistenziale. Furono proprio queste nozioni che gli permisero di elaborare una sua più matura e compiuta visione dei fenomeni storici e culturali, compreso il suo interesse per le apocalissi culturali.

13. Una decina di anni dopo, in Morte e pianto rituale,[20] l’autocritica viene esplicitata. De Martino ammetteva ora con chiarezza che il mondo magico era già a pieno titolo un mondo storico e non un mondo a parte, ancora impegnato a risolvere il problema dell’unità della coscienza. La presenza si manifestava secondo le determinate potenze del fare, operava già cioè culturalmente, come lo Spirito storico. Il problema del salto dalla natura alla storia viene così messo da parte poiché, procedendo retrospettivamente, c’è sempre storia, anche se nelle civiltà più primitive la vita culturale è tendenzialmente ricondotta alla soluzione dei problemi più elementari. Proprio per questo però è costantemente presente il rischio dell’annientamento della storicità, cioè la perdita della progettualità in rapporto ai valori dello scegliere e dell’operare. Non c’è più un ipotetico rischio di disgregazione del soggetto, c’è ora una situazione di fallimento della storicità di fonte a problemi specifici che di volta in volta vengono posti.[21] Il riscatto della presenza ha ora il significato di una reintegrazione della storicità che può essere conseguita attraverso opportune tecniche, elaborate e messe a disposizione nella cultura. Nel mondo magico si ricorreva agli uffici dello sciamano, ora, nel caso del lutto, si ricorrerà agli uffici del rituale o, più in generale, della religione.[22]

14. Tuttavia, la differenza tra il mondo magico e il mondo storico non sparisce del tutto, essa viene incamerata e riprodotta nel mondo storico stesso: si dà ora per scontata la coesistenza di una pluralità di mondi storici, non del tutto omogenei tra loro. All’interno di ciascun mondo storico, in relazione agli specifici problemi che si pongono, si determina una specifica costituzione dell’identità individuale, una specifica concezione della realtà, si determinano specifiche tecniche di costituzione e mantenimento della storicità, modi particolari di intendere lo spazio e soprattutto il tempo. La perdita della presenza, intesa come la perdita della capacità di far fronte ai problemi storici che si pongono in ciascun mondo, diventerà così la fine di quel mondo.

 15. La perdita di presenza è ora interpretata, nell’ambito di una teoria dell’azione, come un problema di tipo morale, come un indebolimento della capacità o volontà di stare dentro alla storia, un problema che De Martino comincia a concettualizzare come un deficit di éthos. Poiché questo concetto riveste un ruolo rilevante nell’ultimo De Martino, è utile chiarirne la genesi, seppure a grandi linee. Nello storicismo crociano, l’éthos altro non era se non la categoria trascendentale dell’etica - una delle quattro articolazioni dello Spirito - la quale rendeva possibili le autonome manifestazioni storiche della sfera etica. Tuttavia Croce, in una celebre pagina[23] de La storia come pensiero e come azione, sorvolando sulla rigorosa separazione dei distinti, aveva avallato la possibilità di intendere l’éthos come una sorta di forma comune, condivisa da tutte le altre categorie spirituali. Su questo passaggio si basò De Martino per sostenere l’identificazione della presenza con l’éthos crociano. Tuttavia l’éthos non venne inteso da De Martino come pura forma generale della storicità, ma venne, ancora una volta, inteso in senso fenomenologico – esistenziale come energia, potenza e simili, echeggiando addirittura accenti bergsoniani.

16. Afferma infatti De Martino: «Ora questo éthos coincide con la presenza come volontà di esserci in una storia umana, come potenza di trascendimento e di oggettivazione […]. La mera vitalità che sta “cruda e verde” nell’animale e nella pianta deve nell’uomo esser trascesa nell’opera, e questa energia di trascendimento che oggettiva il vitale secondo forme di coerenza culturale è appunto la presenza. Esserci nella storia significa dare orizzonte formale al patire, oggettivarlo in una forma particolare di coerenza culturale, sceglierlo in una potenza distinta dell’operare, trascenderlo in un valore particolare: ciò definisce insieme la presenza come éthos fondamentale dell’uomo e la perdita della presenza come rischio radicale a cui l’uomo – e soltanto l’uomo – è esposto».[24] Negli scritti successivi, questo stesso concetto di éthos venne sempre più frequentemente riportato come “éthos del trascendimento”, e usato indifferentemente con lo stesso senso della presenza. Tuttavia, sulla scia dell’esistenzialismo positivo, il trascendimento venne sempre più interpretato come un doverci essere, una sorta di slancio, d’impegno a realizzarsi nella storia, ponendo e perseguendo il valore nelle varie sfere spirituali. La perdita della presenza è ora, esplicitamente, la perdita dell’éthos, cioè la perdita della capacità di trascendimento, la perdita della storicità che, in riferimento a ciascun mondo, significa la perdita del proprio specifico nucleo di valori fondanti, capace di indirizzare l’azione individuale e collettiva. Poiché il nucleo dei valori fondanti rappresenta l’impalcatura stessa di quel mondo, in caso di perdita dell’éthos del trascendimento, il singolo individuo non potrà che sperimentare il vissuto della fine del mondo (Weltuntergangserlebnis). Questa esperienza di perdita dunque non è più solo appannaggio del mondo magico, ma è divenuta possibile entro qualsiasi mondo che si sia storicamente costituito e che non riesca più a strutturare un suo corso d’azione e sia divenuto perciò obsoleto.

17. Ciascun mondo ove si organizzi un progetto storico è dunque sempre sotto l’incombenza del fallimento, della dissoluzione. È dunque normale che, all’interno di ciascun mondo, si sviluppino e si rendano disponibili delle tecniche per preservare la storicità stessa, per governare gli eventuali vissuti della fine del mondo. Abbiamo già visto che nel mondo magico le tecniche rituali avevano la funzione di preservare la storicità. Nelle altre situazioni storiche si avranno altre modalità specifiche per affrontare i vissuti della fine e per favorire il mantenimento della storicità. L’indagine sulla fine del mondo, cui De Martino si accingeva, aveva dunque lo scopo principale di esaminare come i vari mondi provvedano a mantenere la loro stessa storicità, a curare il rischio e a controllare eventualmente i momenti di passaggio da un mondo divenuto ormai obsoleto a un mondo nuovo. Insomma, la nuova etnologia di De Martino si costituiva ora come una sorta di teoria generale dell’azione storica, della sua crisi e delle tecniche per il suo mantenimento. Una teoria dunque che si può presentare anche come terapia delle défaillances della storicità, sia a livello individuale, sia a livello collettivo. Con De Martino dunque, rispetto a Croce, la storicità diventa essa stessa un affare storico.

18. Le successive indagini sul campo condotte da De Martino sono ormai guidate proprio dagli assunti generali che abbiamo descritto. Ciò vale per il lamento rituale lucano, per le pratiche magiche del Sud e, in particolare, per il rito della tarantola.[25] L’indagine sul rito della tarantola aveva, tra l’altro, aumentato la familiarità di De Martino con la psicopatologia e, in un certo senso, gli aveva fornito un’ulteriore inclinazione a scorgere analogie tra le patologie esistenziali individuali e le patologie culturali. Il rischio di perdere se stessi era del tutto analogo al rischio di perdere il proprio mondo, si trattava dei due rovesci della stessa medaglia. All’interno di questa prospettiva aveva dunque un senso ricercare e studiare, a livello individuale e collettivo, le più svariate tracce di rappresentazione culturale del dramma della perdita del proprio mondo e della sua reintegrazione, del dramma cioè mediante il quale ciascuna società produce e mantiene la propria prospettiva storica.

19. Gli ambiti cui rivolgersi erano molteplici. Nell’ambito della psicopatologia, non era sfuggita a De Martino, accanto alla descrizione della disgregazione del soggetto, la presenza di alcune patologie di tipo psicotico in cui venivano in primo piano, in forma più o meno allucinatoria e delirante, proprio svariate narrazioni della fine del mondo. In questo quadro il delirio della fine del mondo era interpretato come un processo di presa di coscienza di una situazione critica e, in prospettiva, di produzione della guarigione. Ma l’ambito più caratteristico delle narrazioni della fine del mondo era quello costituito dalla storia delle religioni, a partire dal messianismo ebraico, fino al cristianesimo.

Fu proprio il cristianesimo a rendere celebre l’apocalisse, intesa come rivelazione degli eventi che avrebbero visto la fine di questo mondo e l’inaugurazione di un nuovo mondo. Narrazioni di fine del mondo avevano costituito il nucleo di riferimento anche di movimenti ereticali e di movimenti politico religiosi a sfondo millenaristico. Data la sua propensione comparatista, sia nello spazio sia nel tempo, non era poi sfuggita a De Martino la presenza di analoghe narrazioni della fine del mondo presso molte società che avevano subito la colonizzazione e avevano patito varie forme di destrutturazione culturale. Anche le ideologie e i movimenti rivoluzionari del XX secolo, agli occhi di De Martino, mostravano di essere narrazioni della fine di un mondo e della rinascita di un mondo nuovo. Caratteri apocalittici potevano poi essere anche attribuiti a diversi movimenti culturali del Novecento, a sfondo letterario, filosofico o artistico. Così, poco a poco, la categoria dell’apocalisse culturale, intesa qui indifferentemente come vissuto della fine o come narrazione della fine del mondo, diventa via via centrale negli interessi di De Martino, fino a costituire un vero e proprio progetto di ricerca.

20. Non è questa la sede per esaminare in dettaglio i materiali di ricerca dedicati da De Martino alla Fine del mondo. Ci limiteremo ad alcune rapide incursioni, volte a evidenziare l’approccio de martiniano alle varie apocalissi culturali. Un caso esemplare è costituito dai materiali dedicati al messianismo religioso. Secondo De Martino, la nascita e lo sviluppo del cristianesimo sarebbero avvenuti all’interno del messianismo ebraico, cioè nel quadro di una visione apocalittica del rinnovamento e dell’avvento prossimo del Regno dei Cieli. Gesù, attraverso la profezia, riuscì a mobilitare i suoi seguaci intorno all’aspettativa della fine del vecchio mondo e dell’avvento di un nuovo mondo. La morte imprevista di Gesù rappresentò un fatto traumatico, un elemento di crisi, con cui quel mondo, appena costituitosi, dovette confrontarsi. Nacque così l’adattamento narrativo della resurrezione e del prossimo ritorno di Gesù, che aveva la funzione di ricostruire l’operabilità intramondana, cioè una prospettiva d’azione storica, tra i discepoli costernati. Ma anche l’attesa del prossimo ritorno, pure creduta e professata per un certo periodo, col passare del tempo era andata affievolendosi. Per risolvere questa ulteriore fonte di crisi e di angoscia, il ritorno di Cristo venne posticipato a una data imprecisata nel futuro. Ciò ha dato, tra l’altro, luogo alla produzione della stessa Apocalisse di Giovanni, cioè la rivelazione profetica delle cose che accadranno alla fine dei tempi. In tal modo, il mondo cristiano ha potuto costituire una storicità di durata indeterminata, all’interno della quale hanno potuto nascere costumi, istituzioni, organizzazioni comunitarie, insomma il complesso delle elaborazioni culturali della stessa civiltà cristiana. La procrastinazione del ritorno del messia ha contribuito a definire anche – cosa non secondaria – una nuova rappresentazione del tempo, un segmento lineare con un punto alla fine che può essere abbracciato in un’unica prospettiva, che è stata poi ereditata dall’intero Occidente.

21. Ciascun mondo non va dunque inteso come qualcosa di dato una volta per tutte, ma come un costrutto suscettibile di cambiamenti che si confronta continuamente con i fatti contingenti, con i rischi, e che, in un certo senso, cerca di elaborare degli adeguamenti funzionali. Lo scopo di questo adeguarsi è sempre l’allargamento e il consolidamento dell’operabilità intramondana, cioè l’allargamento della capacità stessa di quel mondo di stare dentro a una storia, di rappresentare e produrre una propria storia. Gli incidenti e i rischi di percorso che sopravvengono all’interno di ciascun mondo si rispecchiano nella coscienza dei partecipanti come turbamento, come angoscia, come paura e rappresentazione della fine, come domanda di consolidamento e di riscatto. È come se i parametri costitutivi di ciascun mondo venissero costantemente aggiustati, non in base a un disegno preordinato ma in base a una sorta di bricolage, a una continua correzione ad hoc, volta comunque a tenere in piedi quel mondo, a mantenerlo nella sua funzione primaria generatrice di storicità.

Alla base delle svolte e dei cambiamenti è posto il criterio di assicurare l’operabilità intramondana. Si sarebbe tentati di dire che ciascun mondo elabora i propri parametri di fondo, sviluppa i propri adattamenti, i propri orientamenti di valore, purché funzionino. Sotto questo profilo ci troveremmo prossimi a Nietzsche, quando sostiene che la storia è mossa dalle illusioni. Evidentemente però, per De Martino, c’è qualcosa che resiste alle illusioni poiché ciascun mondo si scontra regolarmente con le limitazioni dei dati di fatto. A partire dalla pressione inemendabile dei fatti, lo stesso fatto può tuttavia ancora essere interpretato in mille modi diversi, e le interpretazioni possono essere messe al riparo da tutte le constatazioni irrevocabili, da tutte le confutazioni. È come se De Martino sostenesse che le culture hanno sì dei limiti nella bruta fattualità, ma all’interno di questi limiti possono attualizzare liberamente le loro illusioni prospettiche, che vanno a costituire il nucleo dei loro valori fondamentali, pur di mantenersi in tiro con la storia.  Solo lo sviluppo spirituale interno a ciascun mondo può determinare le ulteriori articolazioni dei valori fondamentali e dunque la perpetuazione dell’illusione stessa.[26]

Il carattere non logico, drammatico, imprevedibile, di questo sviluppo è messo bene in rilievo dal fatto che si possono determinare esiti paradossali. Ad esempio, afferma De Martino:  «La storia del Cristianesimo è la storia della tematica del regno nella sua paradossia di una storia che ne  è la smentita, di una storia che rischia di distruggersi nella sua attesa e nella sua fruizione attuale, e di un modellamento delle sue immagini e della sua esperienza in guisa da promuovere il continuarsi della storia. La Chiesa è la grande guaritrice dei rischi del Regno: appunto per questo la storia del Regno è storia della Chiesa».[27]

22. Un mondo che sappia tenere alta la propria storicità può cambiare anche radicalmente, tanto da diventare col tempo irriconoscibile. De Martino, ad esempio, ha prospettato la possibilità di sviluppo di un mondo ulteriore, capace di superare il mondo cristiano in via di esaurimento, in cui il simbolismo cristiano venga meno, recuperando una organizzazione simbolica del tempo e una cultura civica laica, senza per ciò dissolvere la storicità: «Occorre ricomporre il nostro simbolismo su un piano esclusivamente civile, partecipando ad un orizzonte epocale determinato, con un inizio e una meta non assoluti, ma relativi a questa epoca, e non affidati a numi ma interamente a uomini e ai loro istituti. Un evento iniziale e fondatore impiantato nel cuore della storia, interamente operato da uomini e destinato ad uomini, un nuovo corso in svolgimento, una meta in prospettiva; questo non può essere che una rivoluzione, i dieci giorni che sconvolsero il mondo».[28]

La riflessione sull’apocalisse cristiana si apprestava così a diventare una riflessione antropologica sulla temporalità e la storia. Solo questo aspetto avrebbe potuto costituire un poderoso programma di ricerca.

23. Un altro terreno ove poteva trovare applicazione la prospettiva delle apocalissi culturali era costituito dalle trasformazioni indotte, nel Terzo mondo, prima dalla colonizzazione e poi dalla decolonizzazione. L’argomento comportava, per De Martino, la possibilità di riprendere le analisi condotte nel Mondo magico. Si sarebbero potute vedere all’opera la crisi della presenza, l’opera di reintegrazione dei riti e della magia, i tentativi di governare culturalmente i traumi individuali e collettivi, il confronto tra diversi mondi temporali dei colonizzati e dei colonizzatori.

24. De Martino era convinto che le società primitive andassero anch'esse soggette a cambiamenti, ma che questi cambiamenti non avessero un posto nel loro schema temporale prevalente, che era rimasto fondamentalmente ciclico. Queste società si trovavano in una situazione in cui: «[…] la storicità del divenire, la iniziativa individuale, il mutamento, la innovazione debbono essere  occultati alla coscienza, e ridischiusi attraverso tale occultamento. Si “può” stare nella storia come se non ci si stesse, cioè i comportamenti sono appresi nella coscienza culturale egemonica come ripetizione cerimoniale di un ordine paradigmatico fondato una volta per sempre illo tempore. Lo stesso futuro è riassorbito, attraverso la divinazione, in modelli mitici dell'accadere. La fine del mondo appare, in questa prospettiva, unicamente come crollo di tale regime protetto (colpe rituali, infrazioni di tabù, impossibilità di riattualizzare sempre di nuovo nelle cerimonie i simboli mitici di origine e di fondazione)».[29]

Si tratterebbe dunque di mondi piuttosto avvezzi alla ripetizione, dotati di minori capacità di governare i cambiamenti, assai più soggetti al crollo rispetto ai mondi più complessi.

25. La colonizzazione aveva prodotto, tra le altre cose, un brutale impatto da parte delle società primitive con il mondo della storia lineare, e la distruzione o la decadenza del tradizionale comportamento mitico rituale, ma anche il processo di decolonizzazione si è trovato a dover fare i conti con le persistenze degli schemi temporali arcaici. Così De Martino spiegava la nascita di svariate manifestazioni nativiste che miravano a connettere i due schemi temporali, in maniera simile a quanto è accaduto con il messianismo. Si tratta dei movimenti profetici chiliastici (millenaristi). Questi sviluppi di mondi sincretici, a metà strada tra il vecchio e il nuovo, miravano a ricostruire uno spazio possibile di operabilità, dunque un primo abbozzo di storicità. Nei movimenti di questo tipo avevano particolare spazio la profezia e il potere carismatico. Negli appunti di De Martino appaiono lunghi elenchi di questi movimenti e un loro tentativo di classificazione.[30] Compare anche un esplicito interesse per le manifestazioni psicopatologiche riscontrabili presso gli appartenenti ai movimenti nativistici. Insomma, egli era alla ricerca di una connessione tra la destrutturazione della presenza a livello individuale e la destrutturazione culturale. In una annotazione egli afferma che  «[…] si tratta […] di considerare il nesso organico che le apocalittiche culturali manifestano tra il rischio psicopatologico e reintegrazione operativa secondo valorizzazioni comunitarie della vita umana».[31]

26. Comunque l’ipotesi de martiniana tende costantemente a negare la possibilità che queste manifestazioni abbiano un carattere regressivo e tende a insistere – come già nel Mondo magico - sul carattere di tecniche ricostruttive della presenza di queste manifestazioni: «La istituzionalizzazione è un tratto fondamentale della apocalisse culturale, nel senso che i comportamenti sintomatici della crisi della presenza sono nella apocalisse culturale tendenzialmente sottratti dalla anarchia individuale del loro prodursi e incanalati in esperienze e riti comunitari di “sette” e “chiese”. La varia agitazione psicomotoria e il vario emergere sintomatico di impulsi inconsci sono, mediante tale istituzionalizzazione rituale, unificati secondo modelli socializzati di comportamento, ricevendo una calendarizzazione che li disciplina rispetto al “quando” e alla “durata” dell’esecuzione […] come anche rispetto al come e al perché dell’esecuzione stessa (il “come” subisce una certa moderazione in rapporto all’anarchia della crisi individuale e il “perché” è determinato dal significato escatologico complessivo del movimento e dai miti che ne formano l’orizzonte)».[32]

27. L’approccio interpretativo dell’apocalisse culturale è stato applicato anche alla contemporaneità occidentale, una situazione in cui mito e religione hanno lasciato il posto a visioni del mondo di tipo secolare. De Martino aveva così approfondito lo studio delle apocalittiche rivoluzionarie e delle apocalittiche letterarie contemporanee. La differenza di fondo è costituita dal fatto che le ultime sono, secondo la sua definizione, apocalissi senza escaton, non contemplano cioè alcun cambiamento, alcuna salvezza. Si tratterebbe cioè di apocalittiche puramente negative. La distinzione tra questi due tipi di apocalissi è assai rilevante nell’ultimo De Martino e si fonda comunque sempre sulla sua nozione di perdita della presenza o di perdita dell’ethos del trascendimento. La fine di un mondo può infatti – come si è visto - essere culturalmente pilotata e aprire alla costituzione di un nuovo mondo; ma può anche accadere che, al vissuto della fine, non si ponga rimedio alcuno e quindi si entri in una destrutturazione dove prevale l’assoluto negativo: «[…] proprio questo éthos che attraversa il mondo degli uomini generando la varietà delle civiltà e degli istituti, degli ingegni e dei geni, e sollevando ben in alto l’umano sull’immediatamente vitale -  proprio questo éthos può esser raggiunto dalla catastrofe e patire un morire incommensurabilmente più grave di quel morire naturale che condividiamo con gli animali e con le piante: qui si configura un’insidia radicale, che solo  l’uomo minaccia e che solo l’uomo sa misurare. Non si tratta di quel negativo relativo e di quel relativo vuoto che nascono quando chi è impegnato nell’esercizio di una forma “fa un’altra cosa” […]. Questo negativo appartiene al rapporto delle forme tra loro, all’urto dei positivi: ma vi è il rischio di un assoluto negativo che si riferisce al rapporto fra la vitalità che è sempre materia, e la presenza come volontà di forma».[33]

28. Secondo De Martino le ideologie rivoluzionarie moderne, e l’ideologia marxista in particolare, svolgono di fatto la stessa funzione di reintegrazione della storicità che era stata svolta dalla tradizione mitico religiosa. De Martino seguiva dunque un’interpretazione, oggi abbastanza diffusa, che considera le ideologie del cambiamento sociale e politico come una sorta di versione moderna del messianismo, dove la salvezza è posta non nell’al di là, bensì nella realizzazione della società degli eletti, del paradiso in terra. Nei suoi lavori compaiono gli appunti di lettura dell’opera di Norman Cohn,[34] studioso del millenarismo, che è stato uno degli iniziatori di questa tematica. Osserva in proposito De Martino: «Nel messianismo rivoluzionario affiorano i temi di una salvezza terrestre e collettiva, dell’avvento di una città celeste sulla terra, del popolo eletto che bandisce e affretta questo avvento, dell’Anticristo e della battaglia finale, cataclismatica e decisiva, dopo la quale il mondo sarebbe emerso totalmente trasformato e redento, senza più il negativo, i conflitti, le tensioni che caratterizzano il mondo attuale. Ma i due grandi movimenti totalitari del nostro tempo, comunismo e nazismo hanno mantenuto questi temi fondamentali, sia pure in altra forma […]. Vero è che quei messianismi tradizionali sono religiosi, mentre il nuovo escatologismo sociale si dichiarò “scientifico” e sostituì alla “volontà di Dio” i “fini della storia”.

Ma pur attraverso tale secolarizzazione restò la tematica apocalittica in quanto prospettiva di un mondo da purificare dagli agenti corruttori, dalle tensioni e dai conflitti. La identificazione sociale di tali agenti (i grandi, gli ebrei, il clero, la borghesia) può variare, ma l’orientamento fondamentale resta. E altresì resta il quadro finale di una società resa unanime nelle sue credenze ed esente da conflitti».[35]

29. Dagli appunti di De Martino si evince anche uno studio approfondito dell’antropologia marxiana, soprattutto per quel che concerne il giovane Marx. Secondo De Martino, il marxismo avrebbe tuttavia trascurato il problema della presenza, cioè il problema della storicità, e si sarebbe accontentato di mantenere il proprio discorso soprattutto al livello dell’economico:  «Vi è un’attività umana in senso trascendentale, cioè come principio che rende intelligibile qualsiasi attività mondana e concreta, sia essa rivolta alla utilizzazione della natura sia orientata verso altre valorizzazioni: ma quest’attività in senso trascendentale, come principio di intelligibilità, è l’éthos del trascendimento valorizzante. Che poi la realizzazione di questo principio cominci necessariamente con un progetto comunitario dell’utilizzabile, che questo progetto stia alla base degli ulteriori trascendimenti, e che esso costituisca un documento indispensabile per misurare in tutti i campi dalla vita culturale la distanza  fra ciò che gli uomini credono di fare e ciò che essi fanno realmente, tutto ciò non significa che le “soprastrutture” siano da ridursi alle “strutture”, e che tutti i valori culturali siano “maschere” dell’economico».[36]

La religione e la magia dunque, per quanto collocabili sempre, secondo De Martino, sul piano della strumentalità, si sarebbero mostrate maggiormente in grado di affrontare il problema del mantenimento della presenza, secondo l’éthos del trascendimento. Questa critica al marxismo era già comparsa anche in Furore, Simbolo, Valore, in un articolo occasionale in cui si dava conto di un dibattito, occorso in Unione Sovietica, circa l’opportunità di istituire simboli e cerimonie socialiste. Il successo economico non poteva sostituire la mancanza di senso.

30. Accanto alle apocalittiche rivoluzionarie, De Martino aveva individuato la presenza di un’altra apocalittica, assai poco avvertita ma molto diffusa, che egli tuttavia considerava come la visione della fine più caratteristica dell’Occidente contemporaneo. Si trattava della cosiddetta cultura della crisi che, da tempo, aveva elaborato una prospettiva catastrofista senza però essere in grado di costituire in positivo alcun orizzonte operativo. Era una cultura caratterizzata da un progressivo disimpegno nei confronti del doverci essere, da un appiattimento sul presente, da una disgregazione dell’impegno collettivo, dal progressivo affievolirsi dell’ethos del trascendimento, cioè della storicità.[37]

Nell’intento esplicito di studiare la cultura della crisi del suo tempo De Martino aveva individuato un nuovo terreno di ricerca etnologica, che consisteva nell’esame dei contenuti dei prodotti letterari e artistici. Egli era convinto che la diffusione di certe tematiche di carattere pessimistico, nichilistico o catastrofico potesse essere considerata come un indice della difficoltà dell’Occidente stesso di porsi in un atteggiamento di storicità, un indice della diffusione di una vera e propria patologia culturale. In contrasto con le visioni di speranza, manifestate sia dai movimenti di riscatto del Terzo mondo che dalla cultura marxista, la contemporanea cultura della crisi esprimeva invece un disagio esistenziale generalizzato nei confronti delle componenti fondamentali di un qualsiasi mondo di vita, come il rapporto con il proprio corpo, il rapporto con gli oggetti e con gli altri. Essa peraltro riproduceva con evidenza le caratteristiche tipiche delle psicopatologie e sembrava avere perso la capacità di dare vita a un qualsivoglia mondo dotato di senso compiuto e di organizzare l’impegno storico della società. Insomma, la cultura della crisi descriveva il disagio, faceva parte del disagio, ma non lo sapeva oltrepassare.

31. De Martino non intendeva certo riproporre qualche teoria della morte dell’arte e la sua ipotesi di ricerca non riguardava l’arte nel suo complesso, cioè il valore estetico delle opere, quanto la presenza ricorrente, in esse, di determinate tematiche negative: «Non si tratterà tanto di decidere se e in che senso queste opere sono riuscite quanto piuttosto di mettere a nudo il momento in cui si manifestano come opere contraddittorie, come scacchi della prassi, come conati che ricadono su se stessi, come energie morali abdicanti».[38]

A differenza del mondo magico o del mondo religioso: «L’attuale congiuntura culturale dell’Occidente conosce invece il tema della fine al di fuori di ogni orizzonte religioso di salvezza, e cioè come nuda e disperata presa di coscienza del mondano “finire”. In particolare questa disposizione risalta in alcuni documenti letterari nei quali si esprime il vario immergersi nella attuale catastrofe del mondano, del domestico, dell’appaesato, del significante e dell’operabile, onde risultano minute descrizioni dell’assurdo, veri e propri inventari di macerie e meticolosi regressi distruttivi».[39]

L’arte, di per sé avrebbe una funzione culturale positiva, ma l’arte contemporanea della borghesia occidentale sarebbe intrinsecamente malata: «La “crisi” nelle arti figurative, nella musica, nella narrativa, nella poesia, nel teatro, nella filosofia e nella vita etico-politica dell’occidente è crisi nella misura in cui la rottura con un piano teologico della storia e con il senso che ne derivava (piano della provvidenza, piano dell’evoluzione, piano dialettico dell’idea) diventa non già stimolo per un nuovo sforzo di discesa nel caos e di anabasi verso l’ordine, ma caduta negli inferi, senza ritorno, e idoleggiamento del contingente, del privo di senso, del mero possibile, del relativo, dell’irrelato, dell’irriflesso, dell’immediatamente vissuto, dell’incomunicabile, del solipsistico, ecc.».[40]

32. Il simbolo emblematico di questa situazione involutiva, più volte evocato negli scritti di De Martino, è quello della catastrofe nucleare: «Nella sua forma più vistosa, più esteriore e più tragicamente paradossale questa disposizione annientatrice trova il suo infausto coronamento nel terrore atomico della fine, cioè nella prospettata possibilità che l’umanità si autodistrugga mediante l’impiego antiumano della sua sapienza tecnica: tuttavia il semplice fatto che la catastrofe atomica abbia potuto assumere rilievo concreto e alimentare il correlativo terrore significa che il rischio della fine era cominciato molto prima, e affondava le sue radici in una catastrofe molto più segreta, profonda e invisibile».[41]

33. A questa situazione di crisi dell’éthos del trascendimento faceva da riscontro una crisi profonda dell’azione collettiva. Un esempio significativo di questo fenomeno è costituito dal furore, cioè dallo scatenamento distruttivo fine a se stesso. In un articolo occasionale, scritto per commentare un grave episodio di violenza collettiva dei giovani teen-ager svedesi, De Martino osservava: «Si tratta di pure e semplici esplosioni di aggressività senza premeditazione e senza organizzazione, senza capo e senza scopo. Gli episodi di violenza non insorgono per qualche cosa e contro qualcuno: inesplicabilmente, come per un richiamo misterioso, gruppi di adolescenti e di giovani, dai quindici ai vent’anni, senza conoscersi tra loro e nulla avendo in comune tranne l’età, formano banda temporanea ed entrano in furore distruttivo. […] Questi ribelli senza causa non si propongono rapina o vendetta nel senso comune di queste parole: sono mossi da un impulso di annientamento delle persone e delle cose, vogliono ridurre in cenere il mondo, far sfoggio della loro potenza di eversione. Nessun legame interpersonale nasce da tali tempestosi assembramenti, da queste orge di furore: le bande temporanee si sciolgono così come si sono formate, senza lasciare traccia di rapporti oltre la scarica distruttiva».[42]

De Martino insomma, avvertiva, nel venir meno della storicità, il rischio del nichilismo: «È da tempo che una cupa invidia del nulla, una sinistra tentazione da crepuscolo degli dèi dilaga nel mondo moderno come una forza che non trova adeguati modelli di risoluzione culturale, e che non si disciplina in un alveo di deflusso e di arginamento socialmente accettabile e moralmente conciliabile con la coscienza dei valori umani faticosamente conquistata nel corso della millenaria storia di Occidente».[43]

De Martino, data la sua originaria formazione idealistica, ha evidentemente avvertito più di altri il profondo danno che può derivare da un’involuzione culturale, poiché dal suo punto di vista non c’era altro se non la cultura a organizzare e guidare la prospettiva storica di una società.

34. È probabile che De Martino non abbia avuto modo di conoscere l’opera di T. Kuhn, lo storico e filosofo della scienza che, nel 1962, aveva pubblicato La struttura delle rivoluzioni scientifiche.[44] Tra le teorie di questi due studiosi ci sono tuttavia somiglianze per alcuni aspetti sorprendenti, dovute probabilmente al fatto che entrambi si sono occupati del cambiamento culturale. Vale davvero la pena di rilevare alcune delle analogie.

Kuhn ha proposto un modello storico capace di render conto dei cambiamenti delle teorie che avvengono periodicamente nell'ambito della comunità scientifica. Egli ha individuato anzitutto una situazione di scienza normale, nella quale la comunità scientifica condivide un paradigma consolidato, con cui procede speditamente ed efficacemente nell'esplorazione della natura. Tuttavia ogni paradigma non è mai in grado di rispondere adeguatamente a tutti problemi, per cui nella visione della natura generata da ciascun paradigma tendono inevitabilmente ad accumularsi delle anomalie inspiegabili. Di fronte alle anomalie, in un primo tempo vengono proposte delle soluzioni tampone, le cosiddette ipotesi ad hoc, che tendono a circoscrivere le anomalie stesse e a preservare il paradigma vigente. L'accumulo delle anomalie produce però, a lungo andare, una situazione di crisi del paradigma, descritta come una situazione drammatica in cui la comunità scientifica si divide, in cui non si riesce più a dare un senso ai dati sperimentali, in cui sembra siano venuti meno tutti i fondamenti. Ma la crisi del paradigma non rappresenta una crisi della scienza nel suo complesso; vengono infatti proposti diversi nuovi paradigmi che possono anche trovarsi in concorrenza tra di loro. Questa situazione di incertezza può perdurare a lungo, fino a quando un nuovo paradigma non riesce a imporsi su tutti gli altri dimostrando di essere capace di ricomprendere il paradigma precedente e di rendere ragione delle anomalie. Il cambiamento così realizzato costituisce una rivoluzione scientifica che permette di inaugurare un nuovo periodo di scienza normale, il quale comunque sarà nuovamente perturbato da anomalie, che daranno luogo nuovamente a una crisi e a una nuova rivoluzione scientifica. Insomma, i cambiamenti nella scienza si succedono mediante un andamento alternato di crisi dei vecchi paradigmi e di formazione di paradigmi nuovi. I paradigmi di Kuhn sono stati interpretati come delle vere e proprie visioni del mondo, coerenti al loro interno, che vengono sostituite da altre visioni del mondo, secondo uno schema che potremmo definire gestaltico.

35. Non sarà sfuggita al lettore la stretta analogia tra i paradigmi di Kuhn e i mondi di De Martino, tra la situazione di crisi del paradigma e la situazione delle apocalissi culturali. Come il paradigma definisce il quadro di normalità entro cui gli scienziati possono agire per conseguire il successo conoscitivo, così, secondo De Martino, ciascun mondo culturale definisce un contesto normale di storicità (che per De Martino era il mondo del familiare, del domestico e dell’appaesato) che permette agli individui di agire comunemente, in base a una specifica struttura valoriale di fondo, condivisa e data per scontata. Ciò vale per quei mondi arcaici dove il tempo è vissuto come dotato di una struttura ciclica, sia per quelli il cui vissuto è dotato di una struttura lineare; vale per i mondi della magia, della religione o per i mondi laici.

Come i paradigmi di Kuhn, i mondi di De Martino assicurano l’operabilità, godono così di un’ampia libertà di autostrutturazione, fino a suscitare – come  dicevamo – il  sospetto che si tratti di visioni arbitrarie, o addirittura di illusioni. Tuttavia, le resistenze inemendabili della realtà pongono dei problemi imprevisti, evidenziano continuamente delle anomalie che rischiano di mandare in crisi la presa di quel mondo sulla realtà. Come le teorie scientifiche, i mondi costituiti non ignorano la possibilità della crisi, sospettano che ci sia dell’altro, sentono la loro limitatezza e sono in grado di prospettare delle ipotesi di cambiamento. Nell'ambito di ciascun mondo sono infatti previsti degli strumenti culturali che permettono di rappresentare la crisi, di affrontarla, di prospettare i cambiamenti necessari per ricostituire un nuovo mondo che sappia mantenersi nella storicità. Le apocalissi culturali rappresentano dunque la presa di coscienza dell’ineluttabilità del logoramento del vecchio mondo e l’annuncio di un mondo nuovo: insomma, l’ammissione che nessun mondo è in sé eterno, che il cambiamento è inevitabile, che sussiste tuttavia una via di uscita, per quanto il cambiamento prospettato possa essere radicale.

36. Tra le due teorie c’è tuttavia una significativa differenza. Mentre per Kuhn lo sviluppo della storia della scienza è cumulativo e le nuove teorie devono inglobare le vecchie in un allargamento progressivo della presa sulla natura, per De Martino invece la storicità è sempre esposta al rischio della perdita definitiva. Se falliscono le tecniche di reintegrazione e di trasformazione, quando l’inadeguatezza di un mondo diventa a ogni piè sospinto palese e la sua crisi è sempre più marcata, allora si ha la netta percezione e rappresentazione di una fine del mondo imminente, di un crollo complessivo di tutti i fondamenti, senza alcuna alternativa, fino a degenerare in termini patologici nella totale de-strutturazione, cioè nell’assoluto negativo.

37. Dai materiali di De Martino sulla Fine del mondo emerge, in definitiva, l’ipotesi che l’attuale atmosfera di crisi culturale, l’attuale catastrofismo, cui abbiamo fatto cenno all’inizio, possano essere interpretati in termini di crisi di storicità. È innegabile che individui, collettività e culture definiscano le coordinate del loro agire non soltanto riguardo allo spazio, ma anche a proposito del tempo. Le modalità con cui ci si colloca nel tempo sono fondamentali per la determinazione del significato e dell’impegno di qualsiasi progetto, individuale o collettivo, di breve o lungo termine. Che queste modalità siano fortemente dipendenti dalla cultura e vadano soggette a variazioni degne di rilievo e che possano anche collassare fino a smarrire il senso del proprio agire, fino a perdere di vista i valori fondamentali normalmente dati per scontati, tutto ciò è più che presumibile. In De Martino troviamo dunque le basi per quella che potremmo definire un’interpretazione della crisi, ma anche per qualcosa come una terapia della crisi, o addirittura una sorta di terapia della storicità.

38. L’assunto, che De Martino ha dato per scontato fin dall’inizio, è che sia gli individui, sia le collettività non possano evitare di stare nella storia, che il doverci essere nella storia, l’éthos del trascendimento, sia l’unico criterio distintivo dell’umano, che la perdita di storicità costituisca ipso facto la perdita dell’umanità stessa. Le apocalittiche culturali rappresentano dunque un’arma a doppio taglio. Il venir meno di un mondo storico, la crisi carica di angoscia, di incertezze, può preludere al passaggio verso un nuovo mondo storico, in un tentativo senza fine di superare ostacoli, di porre valori, di risolvere problemi. Come si è visto tuttavia il mondo storico non è un dato trascendentale, bensì un preciso prodotto culturale che risponde all’imperativo del doverci essere nella storia, che può però sempre essere messo in discussione,  può sempre venir meno, può sempre essere ingoiato dalla ingens sylva della natura. È dunque del tutto ammissibile la possibilità della catastrofe senza salvazione, il precipitare nel puro negativo, l’annientamento stesso della prospettiva storica, assai diversa dalla fine della storia immaginata da certi filosofi.[45]

39. Se questo è vero, siamo allora in grado di comprendere meglio cosa abbia comportato la parola d’ordine postmoderna della “fine delle grandi narrazioni”.[46] È abbastanza comprensibile che alla fine del Novecento, uno dei secoli più tragici, si sia sentito il bisogno di mettere sotto accusa quei megaprogetti che hanno preso forma negli stati nazionali, nei nazionalismi, nei totalitarismi e negli imperialismi. Questi progetti, che hanno determinato la storia del novecento, sono stati giustamente criticati ed è stato senz’altro doveroso prendere le distanze nei loro confronti. La mossa di rinunciare alle grandi narrazioni per colpa di una serie di narrazioni sbagliate non sembra tuttavia sia stata del tutto appropriata. Rinunciare di per sé alla presenza nella storia significa lasciare spazio alle accidentalità, significa rinunciare a qualsiasi nucleo di valore significativo, perdere la dimensione della temporalità, rinunciare a costruire un mondo, perdere in definitiva la propria identità.

Adattare la dimensione temporale ai ritmi del quotidiano, alla ripetizione o alla frammentazione dell’esperienza, ci riporta indietro alle società arcaiche. Soprattutto, ci rende incapaci di affrontare gli imprevisti, di affrontare i problemi che lo zoccolo duro della realtà comunque ci presenta. L’illusione postmoderna della sospensione della storia (bene espressa nelle varie “filosofie della fine” che abbiamo citato in apertura), del ritorno alla ripetizione rassicurante, oppure dell’accettazione della frantumazione, del ripiego sui piccoli mondi, mondi protetti che sussistono per proprio conto e che solo per caso s’intersecano, ignorandosi a vicenda, o tutt’al più “riconoscendosi”, ci rende, come dice De Martino, più spaesati, più vulnerabili, più incapaci di reagire, più disgregati, più alla mercé degli avventurieri di ogni sorta, in una parola, meno padroni di noi stessi. L’annuncio postmoderno della fine della storia non sembra dunque costituire la soluzione del problema, sembra piuttosto essere parte del problema stesso. Non è rinunciando alla storia che possiamo metterci al sicuro dai rischi, ma facendo la storia con più consapevolezza e, soprattutto, con più responsabilità.

Giuseppe Rinaldi (ottobre, 2012)

(Rev. 2.0 - 09/08/2025)

 

NOTE

[1] Questo saggio è stato pubblicato su Anima e Terra n. 2, ottobre 2012. La presente versione (2.0) consta sostanzialmente di una riformattazione e di alcune minori correzioni.

[2] Cfr. P. ARLACCHI, L’inganno e la paura. Il mito del caos globale, Il Saggiatore, Milano, 2009.

[3] Così in E. J. HOBSBAWM, Il secolo breve. 1914-1991: l'era dei grandi cataclismi (1994), Rizzoli, Milano, 1995.

[4] Spesso la tragedia dello sterminio degli ebrei è stata evocata come caso esemplare per sintetizzare l’emergere del male radicale all’interno di un secolo in cui si è conseguita la massima prosperità.

[5] Cfr. M. BENASAYAG, & G. SCHMIT, L’epoca delle passioni tristi (2003), Feltrinelli, Milano, 2004.

[6] Questi materiali sono stati ordinati e pubblicati, postumi, in E. DE MARTINO, La fine del mondo. Contributo all'analisi delle apocalissi culturali (a cura di C. Gallini e M. Massenzio), Einaudi, Torino, 1977.

[7] Cfr. E. DE MARTINO, Il mondo magico (1948), Boringhieri, Torino, 1973.

[8] L’ambizioso programma fu enunciato in E. DE MARTINO, Naturalismo e storicismo nell’etnologia, Laterza, Bari, 1941. Si tratta di una raccolta di saggi di carattere principalmente metodologico. Il programma anti naturalistico di De Martino si contrapponeva a studiosi del calibro di Lévi-Bruhl, Marcel Mauss ed Émile Durkheim.

[9] Questi, infatti, non rientravano agevolmente nel quadro delle quattro forme dello Spirito (Bello, Vero, Utile e Buono) e dunque venivano collocati a margine della cultura e della storia.

[10] Freud aveva sostenuto qualcosa di simile in Totem e tabù. Lévy-Bruhl aveva discettato a lungo delle funzioni mentali delle popolazioni primitive.

[11] Sul rapporto tra De Martino e Janet cfr. P. ANGELINI, Ernesto De Martino, Carocci, 2008, pp. 37-41. Le opere di Janet sono ampiamente utilizzate in E. DE MARTINO, Il mondo magico, cit. e in E. DE MARTINO, Morte e pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento pagano al pianto di Maria, Einaudi, Torino, 1958. Cfr. anche P. JANET, L’automatisme psychologique (1889), Librairie Félix Alcan, Paris, 1973 e P. JANET, De l’angoisse a l’extase. Étude sul les croyances et le sentiments (1926), Tome I - II, Librairie Félix Alcan, Paris, 1975.

[12] E. DE MARTINO, Il mondo magico, cit., p. 92.

[13] Ivi, p. 93.

[14] Ivi, p. 95.

[15] Ivi, p. 94.

[16] Ivi, p. 95.

[17] Si veda ad esempio il seguente passo in E. DE MARTINO, La fine del mondo, cit., pp. 699: «La presenza, nelle espressioni “perdita della presenza”, “presenza che si riscatta”, “crisi della presenza”, “presenza che si dilegua” (e recede verso l’assenza), “presenza inautentica”, “presenza malata”, ecc. va intesa nel senso di Dasein, e precisamente come “presentificazione emergente”, “ethos del trascendimento”, “energia oltrepassante la situazione”, “intenzionalità in atto”, “esserci-nel-mondo”, operatività secondo forme di coerenza culturale, apertura all’intersoggettivo e al relazionale, movimento per entro un orizzonte di origine e di destino, partecipazione  progettante alla società in sviluppo e alla storia in cammino di un’epoca».

[18] Vedi E. DE MARTINO, Il mondo magico, cit., cap. 1.

[19] I documenti fondamentali della polemica sono tuttora riportati nell’edizione del Mondo magico, curata da Cesare Cases. Cfr. E. DE MARTINO, Il mondo magico, cit.. Una ricostruzione dettagliata e rigorosa della polemica si trova in S. F. BERARDINI, De Martino, Croce e il problema delle categorie, in Pozzoni, Ivan (a cura di), Benedetto Croce. Teoria e orizzonti, Limina Mentis, Milano, 2010.

[20] Cfr. E. DE MARTINO, Morte e pianto rituale nel mondo antico cit..

[21] Non a caso, in Morte e pianto rituale De Martino si apprestava a studiare il trauma del lutto.

[22] Rituale e religione, secondo De Martino, sono comportamenti destorificati e, come tali, sono in grado di costruire un ambiente protetto nei confronti dei rischi di perdita che le accidentalità della storia possono imporre.

[23] Cfr. B. CROCE, La storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari, 1938, pp. 44 e segg..

[24] E. DE MARTINO, Morte e pianto rituale nel mondo antico, cit., p. 14.

[25] Cfr. E. DE MARTINO, Morte e pianto rituale nel mondo antico, cit., E. DE MARTINO, Sud e magia, Feltrinelli, Milano, 1959 e E. DE MARTINO, La terra del rimorso, Il Saggiatore, Milano, 1961.

[26] L’uso del termine illusione qui ha il senso di una rappresentazione utile e necessaria. La nozione di illusio elaborata dal sociologo francese Pierre Bourdieu ha molti punti in comune con questa concezione de martiniana.

[27] E. DE MARTINO, La fine del mondo, cit., pp. 286-287.

[28] Ivi, p. 296.

[29] Ivi, p. 365.

[30] Lo studio di questi movimenti è stato particolarmente approfondito da Vittorio Lanternari (si veda ad es. V. LANTERNARI, Movimenti religiosi di libertà e salvezza (1960), Editori Riuniti, 2003).

[31] E. DE MARTINO, La fine del mondo, cit., p. 382.

[32] Ivi, p. 382.

[33] E. DE MARTINO, Morte e pianto rituale nel mondo antico, cit., p. 17.

[34] Cfr. N. COHN, I fanatici dell'Apocalisse (1957), Comunità, Milano, 1965. In riferimento ai tempi più recenti, questa concezione è stata sviluppata da Voegelin, da Talmon e, in Italia, da Pellicani.

[35] E. DE MARTINO, La fine del mondo, cit., pp. 417-418.

[36] Ivi, p. 431.

[37] Per De Martino, oramai vicino al socialismo, questa cultura coincideva con la allora cosiddetta “cultura borghese”.

[38] Ivi, p. 466.

[39] Ivi, p. 467.

[40] Ivi, p. 471.

[41] Ivi, p. 468.

[42] L’articolo è stato inserito nella raccolta di saggi E. DE MARTINO, Furore, simbolo, valore, Feltrinelli, Milano, 1962, pp. 225-226.

[43] Cfr. E. DE MARTINO, Furore, simbolo, valore, cit., p. 231.

[44] Cfr. T. S. KUHN, La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962), Einaudi, Torino, 1969.

[45] Com’è noto, la fine della storia è una tematica che è stata sviluppata soprattutto nell’hegelismo e nel nichilismo. Recentemente una teoria della fine della storia è stata riproposta dal filosofo statunitense Francis Fukuyama (Cfr. F. FUKUYAMA, La fine della storia e l'ultimo uomo (1992), Rizzoli, Milano, 1996). Senza voler entrare nel merito, sicuramente Fukuyama ha colto, nella fine della contrapposizione dei blocchi e nella generalizzazione del sistema della concorrenza e del liberalismo politico, una specie di fine del progetto, di fine della mission di un certo Occidente. Ciò tuttavia non significa, per Fukuyama, il trionfo del negativo.

[46] Cfr., ad esempio, J.F. LYOTARD, La condizione postmoderna (1979), Feltrinelli, Milano, 1981.