1. Solo quando scoppiano le guerre,[1] come quella attuale in
Ucraina, tendiamo a porci una serie d’interrogativi sulla pace come fossimo
nati ieri. E gli interrogativi tendono a moltiplicarsi, quanto più le
prospettive della pace si fanno oscure e incerte e quanto più siamo coinvolti dalla
guerra, anche nella nostra vita quotidiana. La riflessione sulla pace e sulla
guerra sembra dunque procedere a sbalzi, al ritmo delle guerre che ci
colpiscono da vicino. Le due Guerre del Golfo (1990-91 e 2003-11) erano state,
in ordine di tempo, l’ultima ormai scordata occasione di riflessione pubblica
sull’argomento. Quasi contemporaneamente, analoghi dibattiti si erano tenuti in
occasione delle Guerre jugoslave (1991-2001) e in occasione dell’11 settembre
2001. Nessun dibattito ovviamente intorno alle innumerevoli guerre lontane o
guerre dimenticate,[2] quelle guerre che, abitualmente, appena possiamo, ci
scrolliamo di dosso.
La guerra russo ucraina combattuta alle porte
dell’Europa ci ha dunque trovati piuttosto impreparati e così abbiamo finito
per rispolverare e riportare in auge vecchi luoghi comuni. Si sono avute molte
grida ma decisamente poche riflessioni approfondite e argomentate. E si è
preferito trascurare l’ampio patrimonio di riflessione sulle questioni della
pace e della guerra che si è ormai accumulato nel campo degli studi
politologici e filosofici, nonché nel campo storiografico. In questo scritto
cercherò di compiere un’esposizione sintetica intorno alle principali questioni
teoriche che si pongono da sempre a proposito della pace e della guerra. Niente
di particolarmente nuovo dunque, ma una sintesi intorno alle questioni
fondamentali. Insomma, quello che a me pare il minimo indispensabile da cui
partire.
2. Pace e definizioni.
Per mettere un po’ di ordine nelle diverse questioni, è preferibile, come
sempre, cominciare dalle definizioni.
Cominceremo proprio dalla pace. Si tratta anzitutto, in via preliminare, di
mettere da parte certi usi generici della parola “pace”. La pace che ci
interessa e sulla quale ci concentreremo è quella connessa all’ambito stretto
delle comunità politiche, sia nei
loro rapporti esterni, internazionali, sia al proprio interno, come nel caso
della guerra civile. Il termine “pace” sta a indicare genericamente, in quest’ambito,
un’assenza di conflitto violento,[3] quel tipo di conflitto cioè che
generalmente è identificato con il termine guerra.
Parlare di pace significa necessariamente tirare in ballo il suo rovescio, cioè
appunto il conflitto violento e la guerra. Si tratta dunque di una definizione in termini negativi. La
pace, a quanto pare, non ha un suo significato autonomo e non può che essere
definita in stretta antitesi con la guerra. Pace e guerra sono due diversi
alternativi stati possibili. Una familiare dicotomia suggerisce che ci si trovi
in pace, oppure ci si trovi in guerra.
Le cose tuttavia non
sono così semplici. Se appena facciamo un qualche sforzo di riflessione, ci
renderemo conto immediatamente che, all’occorrenza, possiamo individuare
diversi stati intermedi compresi tra la
pace e la guerra. In certi casi può anche risultare non del tutto chiaro se
una certa situazione sia di pace o di guerra. Nel linguaggio comune si esprime
qualcosa di simile dicendo: «Siamo sull’orlo di una guerra», oppure: «Ci sono
segnali di pace all’orizzonte». In taluni casi, un chiarimento definitivo può
derivare solo da un’esplicita dichiarazione
di guerra o dalla sottoscrizione di una tregua,
oppure di un trattato di pace. Ci
sono poi delle situazioni che possono essere considerate come guerre anomale o guerre non convenzionali.
Una simile incertezza
terminologica e concettuale la stiamo sperimentando proprio in questi mesi.
Notoriamente, per i Russi l’aggressione all’Ucraina non è una guerra. È stata
denominata operazione militare speciale.
I cittadini russi che la chiamassero “guerra” potrebbero essere perseguiti
penalmente.[4] Del resto nessuna esplicita dichiarazione
di guerra è stata pronunciata da entrambe le parti. Secondo Putin, chi
fornisce armi all’Ucraina è già “in guerra” con la Russia. Secondo alcuni
pacifisti, gli USA, la UK, l’Europa sarebbero già in guerra con la Russia. Secondo
il papa, questa sarebbe la Terza guerra mondiale “a pezzi”. Secondo alcuni
altri, poi, la NATO aggressiva era già in guerra con la Russia fin dagli anni
Novanta. Come si vede, la definizione dei confini tra pace e guerra è tutt’altro
che semplice. I dati di fatto e la propaganda sembrano ormai intrecciarsi in
maniera indissolubile.
Ancora più complessa è
la situazione nel caso della guerra interna,
o guerra civile. È difficile che le
guerre civili siano dichiarate (anche se talvolta accade). Ci sono guerre
civili de facto che non sono mai
state combattute come tali e che sono state riconosciute come tali solo
successivamente. È il caso, ad esempio, del riconoscimento, da parte dello
storico Claudio Pavone, della Resistenza italiana al nazifascismo come guerra civile. È probabile che nel
Donbass, dal 2014 in poi, si sia combattuta una guerra civile, con ogni probabilità fomentata dalla Russia con l’introduzione
clandestina di uomini e mezzi. O forse una guerra
di secessione.
3. Almeno due tipi di
pace. Nella letteratura filosofica e politologica è stato spesso fatto
notare come si possano annoverare due
tipi di pace, quella negativa,
quella più ovvia cui abbiamo già accennato, e quella positiva. La distinzione risale a Johan Galtung 1969. Galtung
tratta non tanto della guerra quanto della violenza. La pace negativa è
costituita dalla assenza di violenza
personale, mentre la pace positiva è costituita dall’assenza della violenza strutturale. Per Galtung la pace positiva
coincide dunque con la giustizia sociale.
La distinzione tra pace negativa e positiva è stata poi usata ampiamente da
Bobbio specificatamente in relazione alla guerra. Si parla comunemente di pace
negativa quando il significato che si conferisce al concetto è soprattutto
quello di negazione della guerra,
cioè negazione del conflitto violento interno o internazionale. Si parla invece
di pace positiva quando, oltre alla
mera negazione della guerra, si vuol riempire il concetto della pace di una
serie di connotazioni positive, che
appartengano solo e soltanto alle situazioni di pace. Queste connotazioni
dunque si aggiungono alla pace
negativa, cioè all’assenza di guerra. Si può parlare, in tal caso, di cessazione
della violenza strutturale, ma anche di tranquillità, felicità, di fioritura
umana, di prosperità, di progresso e simili. Oppure anche di armonia,
integrazione, aiuto reciproco, cooperazione e scambio. Come ben si vede da
questi esempi, se la nozione di pace negativa come assenza di guerra è relativamente precisa, pur con tutti i
problemi del caso, la nozione di pace positiva è ancor più vaga, tanto che questa può essere ricondotta al capitolo generico
dei benefici della pace – quali che
questi possano essere. Oppure anche delle conseguenze
positive della pace.[5] Si noti tuttavia che la condizione di pace positiva
non si presta a definire un modello
preciso di società, come, per esempio, la società cristiana, la società
aperta, oppure la democrazia o il socialismo. Cioè, la pace difficilmente si
lascia tradurre in un preciso modello di società che sia alternativo ad altri
modelli. Sono i diversi modelli di società che possono sperimentare, talvolta,
la condizione della pace positiva (o della guerra).
4. La guerra. Se
vogliamo sapere cosa è la pace, almeno nella sua forma elementare, dobbiamo
dunque come minimo sapere bene cosa sia la guerra. La guerra necessita dunque,
a sua volta, di una definizione, che può risultare anch’essa piuttosto
difficoltosa. Di solito non basta però definire la guerra come non pace. La guerra ha invece una sua
definizione in positivo, cioè dotata
di suoi specifici e autonomi contenuti. Vagamente, il termine guerra può
significare un conflitto di qualsiasi
tipo, ma abbiamo già detto che ci sono conflitti che non sono guerre. Allora
abbiamo dovuto introdurre fin da subito la specificazione di «conflitto
violento». La guerra è un conflitto la cui caratteristica precipua è l’uso sistematico della violenza.
Secondo una definizione esaustiva proposta da Bobbio, la guerra in senso
stretto sarebbe caratterizzata dal conflitto
violento entro o tra comunità politiche e/o Stati.[6] Osserva Bobbio: «Va
da sé che, una volta definita la pace come non guerra, la definizione di pace
dipende dalla definizione di guerra […]. Le più frequenti connotazioni di «guerra»
sono queste tre: la guerra è, a) un conflitto, b) tra gruppi politici
rispettivamente indipendenti o considerati tali, c) la cui soluzione viene
affidata alla violenza organizzata».[7] Si noti che, secondo Bobbio, la guerra rientra nel novero della politica
e che la violenza impiegata non ha da essere sporadica o casuale, bensì organizzata.
5. La questione della
violenza. La definizione della guerra non poteva che evocare anche la questione della violenza. La violenza è
uno dei principali contenuti della guerra. La nozione di violenza, ovviamente,
è assai più ampia della nozione della guerra. Non ogni violenza è guerra.
Possiamo pensare alla violenza dei fenomeni naturali, a parole violente, alla
violenza nei confronti degli animali, oppure alla violenza psicologica. Nel
caso della guerra, siamo interessati a un particolare uso della violenza allo
scopo di risolvere un conflitto di tipo politico, tra comunità politiche o
entro di esse.
Che tipo di violenza è
quella della guerra? Secondo Hobbes la guerra era lo stato prepolitico per
eccellenza che comportava svariate forme
di violenza, la cui massima espressione poteva giungere fino all’estremo
dell’uccisione del nemico. La soglia minima
che ci interessa in questo caso sembra sia proprio l’ammissibilità dell’uccisione del nemico. Altrimenti anche un
incontro di boxe potrebbe essere
considerato come una guerra. Per Hobbes, la costituzione dello stato politico attraverso il contratto determinava
la fine della guerra di tutti contro
tutti e del conseguente rischio di
essere ammazzati. La pace negativa (la negazione della guerra) si oppone
dunque al conflitto violento entro le comunità politiche e tra gli Stati e,
dunque, a quelle forme di violenza che, oltre alla distruzione delle cose,
ammettono l’uccisione del nemico.
Fatta questa distinzione fondamentale, tuttavia fin dai tempi di Hobbes le forme della violenza connesse alla guerra si sono moltiplicate a dismisura, in un museo degli orrori senza fine. Dalla generica uccisione del nemico si è giunti al genocidio, ossia al tentativo di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Oppure alla minaccia atomica, la quale implicherebbe la possibile distruzione dell’intera umanità.
Occorre riconoscere che
si è fatto uno sforzo per codificare l’uso
della violenza in guerra, giungendo alla proibizione di determinate
condotte e alla definizione dei crimini
di guerra e di tribunali
internazionali. Alla messa al bando di determinati tipi di armi. Va
tuttavia riconosciuto che lo ius in bello,
cioè il diritto bellico, nazionale e
internazionale, nonostante i lodevoli sforzi, ha ottenuto scarsi successi nel
governo della violenza in guerra. L’attuale guerra russo ucraina fornisce in
merito una documentazione impressionante di barbarie. D’altro canto questa
guerra mostra anche come non tutti i
contendenti sono uguali nell’osservanza del diritto bellico e nel
contenimento della barbarie della guerra. Qui mi riferisco precisamente alla guerra contro i civili messa in atto
sistematicamente dai Russi in Ucraina. Ciò va detto chiaramente, contro le
troppo facili generalizzazioni che corrono. E contro le troppo comode
equidistanze.
In generale, abbiamo
dunque la possibilità minimale di cercare di controllare l’uso della violenza in guerra, oppure la possibilità
di far cessare ogni violenza bellica
attraverso la pace. Abbiamo tuttavia anche la possibilità di rifiutare altri tipi di violenza che sono di fatto
possibili. Fino al rifiuto di tutti i
tipi possibili di violenza – ammesso che ne sia possibile un inventario.[8]
In questo caso non possiamo parlare semplicemente di diritto bellico o di pace
negativa, ma dovremo parlare proprio di un’altra cosa e cioè della nonviolenza.[9] Questa va oltre la
guerra in senso stretto e diventa così un atteggiamento,
una predisposizione a comportarsi, da applicare sempre, in tutte le situazioni,
in tutti i casi della vita, non solo in contrapposizione alla guerra. L’insieme
della nonviolenza è dunque assai più ampio dell’insieme della pace negativa.
Anche se la pace negativa non può che
essere uno degli aspetti compresi nella nonviolenza.
6. La nonviolenza. Trascrivo
qui una definizione generale e generica: «La nonviolenza è una pratica
personale che consiste nel non causare offesa ad altri in qualsiasi caso. Essa
può derivare dalla credenza che offendere persone, animali e/o l’ambiente non sia
necessario per ottenere qualsiasi tipo di scopo. Può avere come riferimento una
filosofia complessiva che implichi l’astensione da ogni violenza. Può essere
basata su principi morali, religiosi o spirituali, oppure le ragioni per
promuoverla possono anche essere di tipo strategico o pragmatico».[10] La
nonviolenza è dunque anzitutto una pratica
personale, più che uno strumento di
lotta politica, anche se questa è stata talvolta impiegata proprio in
questo senso. Si noti che la nonviolenza, secondo Aldo Capitini, non andrebbe
intesa semplicemente come negazione della violenza, bensì dovrebbe essere
intesa come un valore autonomo, dotato di un proprio contenuto positivo.
Per comprendere la
posizione della nonviolenza, che riguarda indubbiamente il nostro discorso e a
cui faremo spesso riferimento, può essere utile riandare a Lev Tolstoj
(1828-1910). Preferisco rifarmi a Tolstoj, piuttosto che al ben più noto Gandhi,
perché la sua posizione mi pare più chiara ed esemplare. Per una considerazione
critica di Gandhi, si veda Losurdo 2010. Tra la fine degli anni Settanta e
degli anni Ottanta dell’Ottocento, anche in seguito all’esperienza personale
della guerra, Tolstoj visse una profonda crisi[11] e sperimentò un’intensa
trasformazione interiore che lo spinse alla fede in Dio, alla semplicità
volontaria, al rifiuto di tutte le forme di violenza, alla dieta vegetariana e
all’animalismo. In questo ambito elaborò i principi fondamentali della
nonviolenza, in un contesto fondamentalmente di tipo religioso. I riferimenti
principali da cui aveva attinto sono costituiti dai Vangeli, dal cristianesimo
minoritario (ad esempio i Quaccheri), da alcuni testi orientali e da alcune
filosofie, tra cui quella di Schopenhauer.
Nell’ambito della nonviolenza, la dottrina centrale di Tolstoj - che si rifà soprattutto al Discorso della montagna evangelico - è quella della non-resistenza al male con il male.[12] Tolstoj ritiene che la non resistenza al male, quando sia perseguita rigorosamente, possa condurre – oltre che alla liberazione interiore – a un’autentica trasformazione sociale e possa provocare il dissolvimento degli ordinamenti sociali oppressivi e disumani. Tutto ciò senza ricorrere ad alcuna forma di violenza. Per questo occorre tuttavia un radicale impegno personale individuale, fino a giungere a praticare la disobbedienza civile, rifiutare il servizio militare e rifiutare il pagamento delle tasse, poiché queste sono usate dagli Stati per finanziare le guerre. In ciò seguendo David Henry Thoreau (1817-1862) come precursore. Il fondamento ultimo della nonviolenza è posto da Tolstoj nel comando divino contenuto nel Vangelo. E in ultima analisi nella fede. Notoriamente fu Tolstoj a influenzare Gandhi, con tutto quel che ne seguirà, circa la dottrina della nonviolenza, dottrina che in Gandhi prende il nome di ahimsa.
Come si può notare, si tratta di un pensiero senz’altro estremamente profondo. È stato tuttavia sempre fatto notare come sia anche piuttosto difficile da praticare, poiché implica, negli eventuali praticanti, un cambiamento radicale di vita e, di fatto, uno scontro radicale con l’esistente, in pressoché tutte le sue manifestazioni. Si noti che la strada proposta dalla nonviolenza implica uno scoglio di gran rilievo in materia di etica, su cui avremo modo di discutere ampiamente, e cioè la possibilità che il male sia lasciato libero di agire senza ostacoli. Questo poiché gli eventuali ostacoli posti al male implicherebbero a loro volta il ricorso alla violenza. E dunque alla riproposizione della violenza stessa. Questa posizione – come vedremo oltre – implica un’irrisolvibile incongruenza dei valori.
7. Bellicisti, pacifisti
e nonviolenti. Siamo così giunti a circoscrivere, in termini di prima
approssimazione, oggetti concettuali come pace negativa e positiva, guerra, violenza
e nonviolenza. Siamo così ora in grado di meglio comprendere le dottrine o le elaborazioni teoriche corrispondenti a questi concetti e,
conseguentemente, anche una serie di movimenti
pratici che vi si ispirano. Avremo dunque le teorie pacifiste (nel senso della pace negativa ed eventualmente
della pace positiva), le teorie
belliciste (ed eventualmente violentiste,
cioè le filosofie della violenza,
anche se queste sono state raramente esplicitate e professate[13]) e le teorie della nonviolenza sul modello
tolstojano e poi gandhiano. Avremo dunque, di conseguenza, come prima
sistemazione, su un continuum,
orientamenti e movimenti bellicisti, pacifisti e nonviolenti. Si potrebbero produrre ulteriori distinzioni, ma la
cosa andrebbe troppo oltre i nostri scopi.
8. Esistono davvero i
bellicisti? Dei tre punti di vista, il bellicismo
è oggi l’orientamento meno caratterizzato, meno teorizzato, meno organizzato.
Si tratta di un “–ismo”, il che comporterebbe, in senso proprio, una sorta di esaltazione della guerra, una sua
promozione fino alla sua massima realizzazione, che corrisponderebbe al
perseguimento di una sorta di guerra
perfetta o di guerra perpetua.[14]
Sicuramente, guardando al passato, possiamo trovare in merito numerosi casi
storici. Molte società del passato si sono costituite avendo la guerra come fulcro. O, per lo meno,
avendo al proprio interno gruppi sociali
interamente devoti alla pratica della guerra. I quali spesso, proprio per
questa loro attività connessa all’esercizio della forza, finivano per ricoprire
una posizione sociale centrale e dominante. Oggi, in generale, nelle più
diverse società, la centralità della guerra sembra in via di superamento. Anche
molti di coloro che oggi sono impegnati settore della guerra, nel settore
militare, ritengono auspicabile non doversi mai ricorrere effettivamente alla guerra.
Il termine “bellicismo” oggi – almeno in Occidente – viene applicato in forma
residuale soprattutto per designare coloro che ritengono possibile l’uso della
guerra in determinate situazioni, oppure che, pur non esaltando la guerra, la
accettano come necessaria, oppure ancora coloro che, una volta scoppiata una
guerra, non vi si oppongano con la dovuta risolutezza. Talvolta si tratta di un
termine che ha abbandonato la connotazione descrittiva e ha assunto
connotazione retorica e dispregiativa, come il ben più noto termine guerrafondaio.
La domanda che ci
dobbiamo porre allora è se oggi esistano realmente i bellicisti in senso
proprio, o se questi non siano soltanto dei pacifisti
deboli. Oppure pacifisti minimali,
pacifisti moderati, o anche pacifisti imperfetti. In talune
situazioni retoriche coloro che, pur non desiderandola, accettano la guerra
come una necessità sono stati
considerati come dei bellicisti. Si ponga mente al dibattito occorso in Italia
alla vigilia della Grande guerra. Bellicisti autentici erano sicuramente gli
interventisti, ma oggi sarebbero considerati bellicisti anche coloro che
avevano come motto «Né aderire, né sabotare», oppure i cattolici che, pur
disapprovando la «inutile strage», la ritenevano comunque doverosa in termini
di obbedienza alle leggi vigenti dello Stato. Ancora diversa la posizione di
taluni interventisti democratici, che
volevano unicamente quella guerra per
porre fine a tutte le guerre.
Come si vede, anche in
questo caso, la distinzione tra bellicismo e pacifismo sembra piuttosto evocare
un continuum, piuttosto che una secca
dicotomia, come sembra invece emergere invece dal dibattito superficiale dei
giorni nostri. Può essere anche comprensibile il fatto che nello scontro
politico si sia indotti a dicotomizzare, ma è sufficiente un minimo di
riflessione per concludere che la dicotomia tra pacifismo e bellicismo
costituisce una ben povera rappresentazione della realtà. Soprattutto una
rappresentazione di fatto priva di utilità. Tratteremo più in là della teoria della guerra giusta, che è un
caso esemplare di situazione di continuità tra i due opposti.
9. Militaristi.
Abbiamo visto che la guerra è una forma di violenza
organizzata. Nelle società a elevata divisione del lavoro, i militari sono i professionisti della guerra. La questione degli armamenti, degli
eserciti e più in generale della tecnica militare, è una conseguenza delle
distinzioni precedenti. Armi, eserciti e tecniche militari sono impiegati per
produrre i conflitti violenti e organizzati tra le comunità politiche ed entro gli
Stati, cioè le guerre. La posizione attribuita all’organizzazione militare nell’ambito
della società diventa dunque fondamentale. Quando la sfera strumentale della
guerra tende a prevalere e a sopravanzare le altre sfere della società, si
parla di militarismo e di società e/o
Stati militaristi. Possiamo parlare più correttamente, in generale, di società a trazione militare. Si tratta
di società la cui attività fondamentale ruota attorno alla guerra e dove i
militari giocano un ruolo centrale nelle principali decisioni. E dove consumano
nella loro attività le principali risorse economiche e finanziarie accumulate
dalla società stessa. Nel corso dei secoli, in Occidente siamo stati testimoni
del passaggio progressivo da società a trazione militare verso società a
trazione commerciale, o a trazione industriale, tecnologica e finanziaria.
Queste ultime tendono ad attribuire al settore militare un ruolo sempre più
strumentale e marginale. Questa tendenza si è accentuata dopo la fine della
Seconda guerra mondiale. Il caso degli USA è esemplare: pur essendo una potenza
militare, la sua trazione fondamentale è di tipo tecnologico, industriale e
finanziario. Oggi è di moda trascurare questo punto, a causa dell’anti
americanismo pregiudiziale assai diffuso nel nostro Paese. Sul piano del
militarismo, gli USA e la Russia non sono proprio la stessa cosa. La Russia di
Putin, insieme a pochi altri esempi, è invece effettivamente una potenza a trazione militare (o si illude
di esserlo, viste le scarse prestazioni sul campo).
Dunque, armamenti,
eserciti e tecnica militare costituiscono dei mezzi che rendono possibile
l’esercizio della guerra. Secondo un certo senso comune diffuso, il semplice possesso
di armamenti ed eserciti sarebbe un indice certo di militarismo. Si trascura tuttavia il fatto che oggi, nella
maggioranza dei casi, il possesso di armamenti ed eserciti ha la funzione di
provvedere alla difesa. Questo per
garantire un bene pubblico indubbio che
si chiama sicurezza. Si è discusso a
lungo su come ottenere la sicurezza senza disporre tuttavia di apparati di
difesa ma una soluzione efficace non pare sia stata ancora trovata. Se comunque
nel mondo tutti gli eserciti
servissero solo per la difesa, non ci sarebbero più guerre. Forse è vero che in
determinate circostanze i mezzi militari rendono anche più probabile l’esercizio della guerra. Ma è anche del tutto possibile
pensare ad armi, eserciti e tecniche militari che siano perfettamente
approntate, ma mai adoperate. L’idea che se hai un’arma prima o poi la usi è un’idea
stupida e superficiale. Anche gli svizzeri tengono lo schioppo sotto il letto,
ma è difficile pensarli come pericolosi aggressori e guerrafondai. Secondo la teoria della deterrenza, le atomiche
sarebbero armi prodotte proprio per non essere mai usate.
C’è ancora
indubbiamente, da qualche parte nel mondo, un militarismo aggressivo. Ci sono ancora imperialismi a trazione militare, com’è proprio il caso della
Russia. Ma oggi nel mondo c’è anche un realistico impiego di eserciti e
armamenti per la mera difesa. O anche
per gli interventi umanitari nelle
situazioni di crisi. L’esigenza di finanziare con risorse pubbliche una forza
di difesa non può che dipendere dalla valutazione razionale di quanto
pericoloso sia l’ambiente internazionale in cui ci si trova. I recenti
avvenimenti dell’aggressione della Russia all’Ucraina hanno indubbiamente reso
più pericoloso l’ambiente internazionale, determinando così – a parere di molti
- l’esigenza di maggiori investimenti nella sicurezza.[15] Dunque, anche nell’ambito
del militarismo, sarebbe il caso di introdurre delle distinzioni. Anche il
povero Enrico Letta è stato rappresentato con l’elmetto. Non tutti i militarismi sono uguali. Dovrebbe essere evidente che
il militarismo della NATO non è esattamente uguale al militarismo della Russia di
Putin. Le semplificazioni eccessive precludono la comprensione della realtà e
impediscono un’azione efficace nel mondo.
Può ben essere che il
superamento e infine l’abolizione dell’apparato militare possa essere in futuro
una conseguenza desiderabilissima dell’affermazione universale di una
situazione di pace positiva. Magari
connessa anche all’accettazione universale della prospettiva filosofica e
religiosa della nonviolenza. Al giorno d’oggi però un simile obiettivo non
sembra essere alla nostra portata. Può al più costituire al più una idea regolativa, nel senso kantiano del
termine.
10. La pace si dice in
molti modi. Gli elementi definitori che abbiamo fin qui introdotto hanno
mostrato la complessità delle questioni affrontate, tale da afflosciare la
sicumera di molti protagonisti dell’odierno dibattito pubblico. La prima
acquisizione inevitabile, per chi frequenti ancorché saltuariamente questo
campo, è proprio quella per cui la pace «si dice in molti modi». Questo vuol
dire che, a dispetto del senso comune, non
c’è un concetto unico di pace. Si tratta piuttosto – come dicono i filosofi
- di una «somiglianza di famiglia», cioè di una rete di concetti interconnessi e di relativi usi linguistici. Dunque chi dice di essere per la pace non ha ancora detto niente: dovrebbe sforzarsi di
esplicitare chiaramente cosa intende per pace. Altrimenti, bisognerebbe
concludere inevitabilmente che tutti
vogliono la pace. Ma una volta affermato il punto, tutti si scontrerebbero immediatamente
intorno alle questioni che hanno appena evitato di chiarire. Nella letteratura
filosofica e politologica si fa riferimento ad almeno quattro tipi di pace.[16]
Molto diversi tra loro. Abbiamo dunque: a) la pace come resa incondizionata; b)
la pace come tregua; c) la pace come trattato; d) la pace positiva. Potremmo
aggiungere un quinto tipo: e) la pace come conseguenza della nonviolenza, che
sarebbe poi un tipo particolare di pace positiva, alla quale abbiamo tuttavia
già accennato.
11. La pace come resa
incondizionata. È questo un tipo di pace che sopravviene quando uno dei
contendenti (o più di uno) è talmente coartato che non può neanche decidere di
scendere in guerra. Di solito si cita in proposito un famoso esempio da
Rousseau. Il filosofo, all’inizio del suo Contratto
sociale,[17] scrive contro Hobbes: «Si vive tranquilli anche nelle carceri:
basta questo per trovarcisi bene? I Greci rinchiusi nell’antro del Ciclope ci
vivevano tranquilli, aspettando che venisse il loro turno di essere divorati».
Si trovavano dunque certo in pace i
marinai di Ulisse, chiusi nella prigione del ciclope, in attesa di essere
divorati. È questa una condizione di pace (senz’altro assenza di guerra e di
violenza nell’immediato!) che deriva dalla totale passività, dalla totale
costrizione, cioè dalla resa
incondizionata al nemico.
La storia è piena di
casi in cui una comunità politica avrebbe sicuramente scelto di combattere,
solo se appena avesse potuto farlo. Possiamo pensare a situazioni nelle quali l’oppressione
è così forte che i soggetti non hanno neppure la possibilità di scegliere eventualmente la via delle
armi. L’attuale Afghanistan gode senz’altro di una situazione di pace in
seguito alla resa incondizionata ai talebani. L’attuale Iran, che godeva senz’altro
della pace interna, sta mostrando che quella pace si fondava sostanzialmente
sull’oppressione (in particolare delle donne) e sta precipitando verso una
situazione di guerra civile. Spesso ci si dimentica che per decidere di
scendere in guerra occorre perlomeno disporre di un minimo di libertà d’azione. Rispetto a una situazione di totale
dominazione, checché ne pensasse Tolstoj, la possibilità di combattere una
guerra può anche essere considerata, in taluni casi, come una sorta di
miglioramento della propria posizione, un auspicabile avanzamento. Solo la
determinazione assoluta di non opporsi al
male può sconsigliare di ricorrere alla guerra nelle situazioni più estreme
di oppressione.
12. La pace come non
libertà. Coloro che sono nella situazione descritta da Rousseau hanno sicuramente la pace (ammesso che
così si possa chiamare), ma non hanno
alcuna libertà. Non si tratta di un caso tanto raro. Assomiglia questa alla
situazione hobbesiana post contrattuale, dopo che i cittadini hanno ceduto
tutti i loro poteri al Leviatano (lo stato assolutistico) e sono così diventati
sudditi. Hanno la pace ma sono
sottomessi in tutto e per tutto al potere assoluto. Per di più l’hanno fatto
per propria scelta e volontà. Si ricorderà che quella situazione, secondo
Hobbes, in un solo caso si sarebbe potuta risolvere in una guerra civile:
qualora il Leviatano avesse attentato alla vita dei cittadini. I sudditi
sottomessi nel patto hobbesiano sarebbero dunque appena più fortunati dei
marinai di Ulisse nella prigione del ciclope. Questo tipo paradossale di pace,
intesa come resa incondizionata e totale
sottomissione all’arbitrio, è stata ampiamente teorizzata e praticata. Ad
esempio, nel caso di certi martiri cristiani. O nel caso della nonviolenza
tolstojana già citata. È tuttavia davvero singolare – dovrebbe indurre a
qualche riflessione coloro che in questa materia mostrano grandi certezze - che
il tipo più infimo di pace, la pace
come resa incondizionata, finisca con
il coincidere con quella che taluni presumono essere il tipo più nobile di pace e cioè quello derivante dalla
applicazione integrale della nonviolenza.
13. Una digressione nell’attualità:
forse la pace non è tutto. Più recentemente, e assai più ignobilmente, nel
dibattito nostrano seguente alla guerra in Ucraina, il noto opinionista prof.
Orsini ha teorizzato l’opportunità della resa
incondizionata di fronte all’aggressore russo, pur di avere salva la vita. Così,
secondo il professore, avrebbero dovuto fare gli Ucraini di fronte all’invasione
russa. In uno dei tanti talk-show, il
prof. Orsini ci ha ricordato anche che: «Anche sotto il fascismo i bambini
potevano vivere felici». Poiché Putin non avrebbe probabilmente divorato gli Ucraini
come il ciclope – anche se avrebbe potuto far ammazzare il loro presidente –
dunque gli Ucraini, se si fossero subito arresi, avrebbero certo perso
totalmente la libertà ma avrebbero guadagnato comunque la pace. Almeno per la
popolazione civile e per i bambini. Dunque, ne conseguirebbe che i morti che la
resistenza degli Ucraini ha indirettamente provocato (militari, civili e i
bambini) sarebbero tutti da mettere sulla coscienza di Zelens’kyj, del suo
bellicoso governo, con tutti i suoi alleati, che non si sono prontamente
arresi. E sulla coscienza di tutti quelli che hanno dato ragione a Zelens’kyj e
lo hanno aiutato. Si tratta ovviamente, questa di Orsini, non della conseguenza
di una professione di fede nonviolenta, ma di una davvero singolare
applicazione dell’etica della responsabilità (vedi oltre). Al professor Orsini non
viene neppure in mente il punto problematico fondamentale e cioè il fatto che forse la pace non è tutto.
14. Scoglio: la pace e l’incongruenza
dei valori. La situazione della pace come resa incondizionata ci fornisce l’occasione
per affrontare uno scoglio teorico di notevole interesse. Ci costringe a
domandarci se la pace (la pace prima di
tutto, a qualunque costo) possa
essere davvero considerata come il bene
supremo. Se possa cioè essere considerata indipendentemente dalla situazione nella quale essa si realizza. Se
possa cioè essere valutata in piena autonomia da ogni altra considerazione, se
sia davvero un valore in sé,
incomparabile rispetto ad altri valori. Appena la pace viene tolta dal suo
carattere assoluto e viene considerata in termini situazionali, viene cioè
confrontata con altri valori, o altri beni, nascono molte questioni
inaspettate. Per avere in cambio la pace, possiamo rinunciare completamente
alla nostra libertà? Cos’è una pace senza libertà? Anche la giustizia può essere
tirata in causa. Una pace ingiusta è
una vera pace?
Molti autorevoli
intellettuali nostrani, soprattutto di sinistra, negli infiniti talk-show che si sono susseguiti dopo il
24 febbraio, seguendo più o meno consapevolmente il prof. Orsini, consigliavano
senz’altro agli Ucraini di non resistere.
Che deponessero le armi. Qualcuno si affannava addirittura a negare con argomentazioni fantasiose che
quella messa in atto dagli Ucraini fosse una resistenza. Addirittura, si
sentivano di decidere che non si
dovessero mandare armi agli Ucraini, perché questi si arrendessero prima,
dunque con meno danni per loro.
Qualcuno, beato lui, s’inventò anche le “armi non offensive”. Possiamo qui
parlare di altruismo? Se gli Ucraini
avessero subito obbedito a questi desiderata, oggi sarebbero senz’altro in pace, sarebbero cioè sotto la pace di Putin (dove senz’altro anche
i bambini potrebbero vivere felici!). Qualcuno ha pensato di mettere a
confronto il bene di una simile pace con i beni della libertà e della
giustizia? Qualcuno di questi “altruisti” ha pensato almeno di chiedere il
parere degli Ucraini? Cioè dei diretti
interessati. Purtroppo nell’epoca del pensiero
incontinente nessuno si ferma ad approfondire le questioni.
Credo abbia colto nel
segno il filosofo Alexandr Dugin (un filosofo russo euroasiatista e
nazibolscevico, per chi non lo conoscesse) quando dice che gli Occidentali si
sono rammolliti, sono in piena decadenza, perché non sono neanche più in grado
di pensare di poter morire per la propria causa. Del resto Heidegger era dello
stesso parere. Fa davvero pena, oggi, vedere coloro che hanno imbracciato le
armi per difendere il proprio Paese, o chi per essi, negare ad altri di fare la
stessa cosa, in nome della pace.
Queste considerazioni (e
questi esempi) ci pongono di fronte a un problema ben noto nell’ambito dell’etica.
Normalmente si pensa che i valori e/o i beni siano semplicemente di carattere
additivo, che possano cioè essere sempre assommati tra loro a piacere. Per
questo tutti i valori e/o i beni dovrebbero
sempre essere tra loro compatibili. In realtà è noto fin dalla filosofia
antica che i valori o i beni possono non
essere compatibili tra loro. Perseguire determinati valori può implicare necessariamente la rinuncia ad altri. I
due tipi aristotelici di giustizia, la giustizia distributiva e la giustizia
commutativa, ad esempio, non sono affatto compatibili. Per avere l’uno si deve
necessariamente sacrificare l’altro. In generale, è poi noto come sia molto
difficile essere giusti e buoni contemporaneamente. In campo teologico, se Dio
è giusto, non può essere buono, e viceversa. Nel caso del contratto hobbesiano,
accade che per avere la pace si debba sacrificare la libertà. Questa spiacevole
situazione è nota come incongruenza dei
valori.[18] Dunque – spiace per taluni pacifisti puri – la pace deve scendere
dal piedistallo del bene assoluto o per lo meno deve accettare di essere messa
a confronto con altri possibili valori o beni. Come minimo con la libertà e la
giustizia. Ma anche con beni assai più prosaici. Come ad esempio la
sopravvivenza materiale, cioè la vita.[19]
Per Orsini, la vita dei bambini vale la capitolazione e dunque la pace come resa
incondizionata. Per altri tuttavia la guerra può significare una possibilità di
vita. I poveri buriati (una delle
etnie asiatiche prevalenti nell’esercito Russo attuale che combatte in Ucraina
- la Repubblica di Buriazia è una repubblica della Federazione Russa) sono
spinti ad arruolarsi e a combattere perché è pressoché l’unico lavoro che è messo loro a disposizione.
Non possono permettersi di fare i pacifisti più di tanto. Poiché l’incongruenza
dei valori è una questione fondamentale, ce ne occuperemo oltre.
15. La pace come tregua o
“situazione di pace”. È questa la pace che corrisponde all’interruzione
temporanea delle ostilità. Se vogliamo, corrisponde alla nozione della tregua. I contendenti sono ostili tra loro. Sono liberi di
decidere se continuare o meno a combattersi. Decidono tuttavia di sospendere le
ostilità. Siamo cioè in una situazione di ostilità
non belligerata.
È questa una situazione
ben nota, poiché l’abbiamo sperimentata nel corso della lunga Guerra fredda.
Anche se la Guerra fredda è stata in realtà belligerata indirettamente,
attraverso una serie notevole di proxy
war, le guerre indirette o guerre per procura. È questa anche la situazione
descritta dalla locuzione della pace
armata. È anche la situazione descritta dall’equilibrio del terrore, o dall’equilibrio
della deterrenza. Non si combatte più, cioè ci si è messi in una situazione
di tregua, per il fatto che la prosecuzione dei combattimenti produrrebbe esiti
non desiderati o temuti da entrambe le parti. Dunque, ci si mette in uno stato
di tregua per la paura degli effetti di una continuazione dello stato di guerra
belligerata. Si accetta di smettere di combattere perché si è sottoposti a una
minaccia (o a uno svantaggio) più grande (sia da parte dell’altro contendente,
sia da parte di un Terzo che sia intervenuto). Tuttavia perdura l’inimicizia e
la minaccia reciproca, e resta alta la probabilità di riprendere il conflitto.
16. Scoglio: si può
imporre la pace? Un caso filosofico interessante, un vero e proprio scoglio
etico, è quello dell’imposizione della
pace (nel senso della tregua o
del trattato). Affinché si dia il
caso, occorrono minimamente due contendenti e un Terzo, il mediatore, il
pacificatore, che costringa i due a
deporre le armi. Usando magari la persuasione, l’influenza, distribuendo garanzie
e vantaggi di qualche tipo. Ma è possibile anche pensare che il Terzo possa
provvedere all’imposizione della pace
attraverso l’uso della forza.
Non sarà sfuggito al
lettore che, in un certo senso, la possibilità di imporre la pace, cosa spesso effettivamente successa nella storia,
ha in sé qualcosa di contradditorio. In una visione completamente irenica, la
pace dovrebbe in un certo senso imporsi
da sé. Tuttavia purtroppo la guerra, una volta iniziata, tende ad auto
alimentarsi, tende addirittura a intensificarsi. Il Terzo allora è posto di
fronte al dilemma di lasciare che la guerra continui oppure di imporre la pace.
Se tuttavia sceglie di imporre la pace, si troverà a usare una guerra per
imporre la pace. I pacifisti si scandalizzeranno, ma questo è un altro problema
legato all’incongruenza dei valori.
Per avere la pace si finisce per accettare che si apra una nuova guerra tra il
Terzo pacificatore e i due contendenti. Non affrontiamo qui quali possano
essere gli eventuali interessi del Terzo nello scendere in guerra per imporre
la pace. In generale, dall’intervento del Terzo non si ha alcuna garanzia
preventiva; potrebbe certo scaturire anche una pace senza libertà e/o senza
giustizia.
L’idea di un Terzo pacificatore attraverso l’uso della
forza non dovrebbe tuttavia risultare così peregrina. Si tenga conto che l’ONU
dovrebbe, in teoria, proprio agire come un Terzo
virtuoso, capace di sedare i conflitti internazionali eventualmente anche
con la forza, come sta scritto nella sua Carta. Si noti tuttavia di sfuggita che,
se appena si accetta la prospettiva che il Terzo possa (o sia tenuto a)
intervenire con la forza per riportare la pace, allora si dovrà come minimo
ammettere che non tutte le guerre sono
uguali. Alcune sarebbero guerre comuni destinate a continuare o a finire
con la sopraffazione dell’uno da parte dell’altro. Altre sarebbero invece guerre
determinate dall’intervento del Terzo che avrebbe tuttavia come scopo il
ristabilimento della tregua o della pace.
Dovrebbe suscitare un
certo stupore il fatto che – in concomitanza con la attuale guerra russo
ucraina - a livello mondiale non si sia aperto per lo meno un acceso dibattito
circa la riforma dell’ONU,
organizzazione oggi pesantemente screditata dal fatto che lo Stato palesemente aggressore,
la Russia, siede nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, con il diritto di veto.
Questo significa che la Russia, con la sua aggressione, ha di fatto privato il
mondo intero di quel minimo di organizzazione internazionale abilitata a
fungere da Terzo virtuoso nelle controversie. È come pretendere da ora in avanti
che – ove sia violata – la pace si
ristabilisca da sola. Perché questa reticenza ad affrontare la questione
della riforma dell’ONU? Evidentemente l’idea di una forza militare
internazionale capace di fare interventi di pacificazione anche con le armi non
è così popolare, in parte per una forma di pacifismo estremista ma in parte
anche per malcelato bellicismo: qualora ci si trovasse nella situazione di fare
la guerra è preferibile avere le mani libere.
Così avviene che si stia
togliendo di mezzo proprio il Terzo virtuoso che sarebbe in grado di
intervenire con la forza e di “rendere il male con il male” all’aggressore. Ciò
paradossalmente potrebbe anche essere in linea con i migliori auspici dei
nonviolenti. Quel che seguirà tuttavia a questa nuova situazione non sarà il
regno della pace positiva ma il regno
dell’anarchia internazionale, dove
ognuno farà quello che vuole, o quello che si potrà permettere, grazie magari
alle sue bombe atomiche. Così gli Stati deboli cercheranno la protezione degli
Stati forti, di coloro che sono in grado di vendere
protezione nel più puro stile mafioso.
17. La pace come ordine
privo di ostilità. È la condizione che si configura quando cessano tutte le ostilità. Solitamente
questa è la condizione che si consegue sul
piano del diritto attraverso la stipulazione di un trattato di pace e, in termini fattuali, attraverso la cessazione
delle violenze, il ritiro delle forze e il disarmo. È quella che Bobbio, sulle
orme di Aron, chiamava la pace di
soddisfazione. Perché è così difficile la pace di soddisfazione? La
difficoltà è dovuta al fatto che la condizione di pacificazione, una volta
raggiunta, non garantisce il mantenimento della pace stessa. Detto in altri
termini, la pace non si auto rigenera, la
pace non è in grado di garantire il mantenimento della pace stessa. Poiché
i trattati di pace possono sempre essere violati, la condizione pacifica
guadagnata è sempre reversibile. La pace non
ha alcuna autonomia, è comunque instabile e può tendere a precipitare verso
la guerra.
Si tratterebbe allora di
comprendere quali siano le condizioni, che non dipendono dalla pace stessa, che
possono favorire (o addirittura garantire) il mantenimento della pace.
Ad esempio, secondo un famoso assunto del politologo Michael W. Doyle, gli
Stati democratici di solito non si fanno la guerra tra loro. Dunque la
democratizzazione globale degli Stati costituirebbe una delle precondizioni per
il mantenimento di una pace priva di ostilità. Anche un ONU riformato e
funzionante (non quello attuale) potrebbe dare un contributo. È chiaro che le
condizioni che potrebbero mantenere la pace potrebbero essere le più varie. Non
posso entrare nel merito. C’è un’intera disciplina dedicata a questo tipo di
questioni e cioè i peace studies, o
anche peace and conflict studies.
In generale, possiamo
però dire con relativa certezza che una delle cause principali della fine della pace è il sopravvenire dell’ingiustizia, sia all’interno delle
nazioni sia tra di loro. Il mantenimento di un ordine privo di ostilità, il
mantenimento di una pace di soddisfazione conseguita, implica evidentemente la
giustizia. La pace senza giustizia percorre poca strada. Chi voglia mantenere
una pace ordinata senza ostilità dovrebbe dunque contemporaneamente procurare la giustizia. È chiaro che una
condizione di ingiustizia può spingere al ricorso alla violenza, determinando
una catena causale che può portare alla guerra, interna o esterna. Sappiamo
bene tuttavia che la pace di per sé non è senz’altro in grado di procurare la
giustizia. D’altro canto, lo scopo di procurare la giustizia può implicare
anche la rottura della pace. Per questo la pace è sempre a rischio. Ovviamente,
la giustizia sussistente in una data situazione viene sempre giudicata dal
punto di vista dei soggetti coinvolti, i quali potrebbero non essere affatto
concordi sulla natura giusta o ingiusta della pace in questione. Anche in
questo caso si presenta l’opportunità di ricorrere all’intervento di un Terzo,
capace di intervenire nel merito delle ingiustizie rivendicate. Ma il Terzo
come si è visto non è sempre un ospite gradito.
Queste semplici
considerazioni stanno a significare che gli sforzi per realizzare e mantenere
la pace non possono avere mai fine. Una volta stipulato il trattato di pace c’è
sempre il rischio che l’ingiustizia, sopravvenuta o latente, rovini la pace.
Allora al pacifista consapevole non resterebbe altro che reinterpretarsi come politico impegnato indefinitamente per l’implementazione
della giustizia. Impegnarsi solo per la
pace è indice davvero di corte prospettive sulla natura della pace stessa.
18. Pace positiva. I
filosofi hanno spesso anche trattato della pace positiva, della quale abbiamo
già accennato in apertura, per circoscrivere la pace negativa. Questa non è
soltanto un effetto del diritto, attraverso un trattato di pace, che come
abbiamo visto può però sempre essere violato. È piuttosto la condizione che la
società nazionale e la comunità internazionale assumono dopo che si sia
instaurata una pace giusta e sia
stata instaurata la giustizia. Un
caso tipico è costituito dalla teoria di Galtung, cui abbiamo già accennato.
Spesso questo concetto è
stato tacciato di essere un concetto assai vago e di fatto utopico. Esso implica l’esistenza di società pacifiche e giuste e la contestuale trasformazione
spirituale degli individui in modo da diventare essi stessi pacifici e giusti.
Quando si pensa alla pace positiva non si può fare a meno di evocare la
kantiana pace perpetua.[20] La quale
tuttavia – Kant era un pessimista cronico – assomigliava più a una pace trattata che non a una pace positiva universale. Sul piano
filosofico si può disquisire se una pace positiva fondata sulla giustizia sia
possibile, sia effettivamente alla portata della natura umana o se non sia
piuttosto incompatibile con questa. Per qualificare la inemendabilità della natura umana Kant ha usato la nota metafora
del legno storto: «Dal legno storto dell’umanità
non si potrà mai cavare alcuna cosa dritta».[21] Non posso addentrami in questa
problematica del rapporto tra la guerra e la natura umana ma la segnalo al
lettore come stimolo per la riflessione.
Tutto ciò ha comunque una conseguenza importante, cui ho già accennato ma che vale la pena di ribadire in forma più estesa. La realizzazione della pace positiva non può essere conseguita restando all’interno dell’esclusivo dominio della pace stessa (e dei relativi pacifismi). La pace da sola non è sufficiente. Non pare bastevole alla sua compiuta realizzazione positiva. Questo significa che l’impegno per la pace non può essere disgiunto dall’impegno politico per la realizzazione di una società giusta. L’impegno per la pace non può dunque essere single issue. Raramente tuttavia i movimenti pacifisti mostrano esser consapevoli dell’esigenza, per la costruzione e il mantenimento della pace, di connettere strettamente la difesa della pace con la realizzazione della giustizia. Questa miopia dei pacifisti si spiega col fatto che ammettere di doversi impegnare per la giustizia finirebbe per sporcare le mani alla purezza apparente dell’impegno per la pace. Queste considerazioni mostrano anche i limiti della nonviolenza. La quale azzarda a ritenere che sia sufficiente la diffusione della nonviolenza per la realizzazione della giustizia. Una società con una maggioranza di nonviolenti praticanti sarebbe presumibilmente comunque sempre ostaggio di una minoranza di violenti praticanti. Anche a Paperopoli c’era la Banda Bassotti.
19. Un’altra
classificazione. I diversi tipi di pace di cui abbiamo discusso
rappresentano solo una delle tante classificazioni delle situazioni di pace.[22]
Un’altra classificazione della pace, che riprende alcuni aspetti della
precedente, è stata fornita da Raymond Aron.[23] Egli distingue tre tipi di
pace. A) Anzitutto la pace di potenza.
È la pace che si ottiene grazie al sopravvenire di un potere forte che impone l’ordine
e, dunque, la pace. Può essere di tre tipi, di equilibrio, di egemonia o
di imperio. B) Abbiamo poi la pace di
impotenza, che era quella fondata –
all’epoca di Aron – sull’equilibrio del terrore tra le potenze atomiche. Queste
erano costrette a non farsi la guerra poiché la guerra avrebbe implicato la
mutua distruzione assicurata. C) In ultimo, abbiamo la pace di soddisfazione. È la pace che sopravviene
quando ciascuno è in sé soddisfatto della propria situazione, per cui non cerca
in nessun modo l’aggressione. Spiega Bobbio che: «La pace di soddisfazione ha
luogo quando in un gruppo di stati nessuno ha pretese territoriali o d’altro
genere verso gli altri, e i loro rapporti sono fondati sulla fiducia reciproca
(che è proprio l’opposto del timore reciproco); pace di soddisfazione è quella
che vige dopo la seconda guerra mondiale fra gli stati dell’Europa occidentale».[24]
La classificazione di
Aron ha il merito di mettere in luce la dimensione di potere (e di disuguaglianza)
che comunque è spesso connessa anche alle situazioni di pace (come nel caso
estremo dell’antro del ciclope) e che contribuisce drammaticamente a privare la
pace di quel manto idealistico che spesso i pacifisti le attribuiscono. La pace
non elimina il potere e questo può sempre riprodurre l’ingiustizia.
20. Dai tipi di pace ai
tipi di pacifismo. Visti i diversi tipi di pace, si possono anche dare per
definiti i principali obiettivi possibili
dei diversi movimenti pacifisti, cui – come dicevamo – possiamo aggiungere
anche i movimenti nonviolenti. Per la chiarezza del discorso pubblico, e per l’efficacia
del dibattito, questi movimenti dovrebbero però dichiarare esplicitamente quale tipo di pace vorrebbero raggiungere,
nelle diverse specifiche situazioni. E dovrebbero evitare di contrabbandare un tipo di pace per un altro,
come invece amano fare abitualmente, quasi senza accorgersene.
21. Intermezzo. Nell’intento
di capitalizzare i dubbi del lettore volenteroso che sia giunto fino a questo
punto, propongo un esercizio di
riflessione su un caso concreto.[25] Vediamo con qualche dettaglio la
narrazione di quel che accadde a Srebrenica tra il 6 e il 25 luglio 1995. Siamo
in Bosnia-Erzegovina, pochi mesi prima della firma dell’accordo di Dayton sulla
spartizione interna del Paese tra la Repubblica serba (Republika Srpska) e quella croato bosniaca. Srebrenica era una delle
tre enclave bosniache in territorio
serbo (Srebrenica, Žepa e Goražde). Di qui la forte pressione dell’esercito
serbo nei confronti delle poche enclave
rimaste. L’intento era quello di effettuare una pulizia etnica dell’enclave che sarebbe in prospettiva
divenuta territorio serbo. Srebrenica era presidiata da un contingente di
alcune centinaia di caschi blu olandesi dell’UNPROFOR, cioè dell’ONU. Avrebbero
dovuto difendere gli abitanti locali da eventuali aggressioni dei serbi. Tra il
6 e il 25 luglio le forze soverchianti dei serbi, comandati dal generale
Mladich, circondarono l’enclave, la
conquistarono senza difficoltà e, sotto la minaccia delle armi, ridussero all’impotenza
il contingente dei caschi blu olandesi. Nei giorni successivi perpetrarono sistematicamente
il massacro di più di 8000 civili bosniaci. La Corte internazionale di
giustizia ha successivamente definito il massacro come genocidio.
Nonostante vari processi
e inchieste, la posizione del battaglione olandese dell’UNPROFOR non è stata ancora
del tutto chiarita. Gli olandesi avevano solo armi leggere ed erano sicuramente
inferiori di forze rispetto ai serbi. Per cui non furono in grado di
intervenire e di assolvere al loro compito di proteggere la popolazione.[26] In
un quadro di disorganizzazione della catena di comando, non ci fu alcun
significativo aiuto o intervento aereo dall’esterno in difesa dall’enclave, nonostante fosse stato più
volte richiesto dal comandante del contingente, questo perché a quanto si disse
non sarebbe stato conforme alle regole di ingaggio della missione. Ai caschi
blu non restò che riparare nella loro base e cercare di intavolare qualche
timida trattativa con Mladich. Una moltitudine di bosniaci sfollati si radunò
nei pressi della base ma gli olandesi non furono in grado né di ospitarli né di
difenderli. Gli uomini di Mladich li prelevarono con il pretesto della
identificazione, separarono gli uomini, li caricarono su mezzi e li portarono
via e procedettero al massacro che infuriò nei giorni successivi.
Quando si resero conto
di quel che stava accadendo, gli olandesi non furono comunque in grado di
intervenire. Le inchieste e i processi che ci furono, a vari livelli, non hanno
portato a nulla di definitivo. Circolano diverse versioni interpretative, da
chi dice che, praticamente abbandonati dal Comando centrale della missione, i
caschi blu non abbiano potuto fare altro che stare a guardare. Qualcuno li
accusa addirittura di avere anche, per certi aspetti, collaborato con i Serbi,
avendo consentito il prelevamento di coloro che si erano rifugiati nei pressi o
addirittura dentro alla base. È stato accertato che, in alcuni specifici casi,
i caschi blu non abbiano dato rifugio ad alcuni bosniaci che lo richiedevano
espressamente e che poi sono stati massacrati. Per alcune specifiche omissioni processualmente accertate
alcuni ufficiali sono stati condannati. Comunque, nonostante la situazione
imbarazzante della loro posizione, forse per una sorta di riparazione, i
soldati del contingente hanno anche ricevuto un’onorificenza dal governo
olandese.
Il caso dei caschi blu
olandesi nella sua complessità resta insoluto. A parte la responsabilità
penale, gli olandesi del contingente UNPROFOR restano a tutt’oggi nel limbo
indistinto di una non accertata
responsabilità morale. In una posizione che può essere definita come «al di
là del bene e del male». Ecco allora qualche
motivo di riflessione circa la filosofia della pace e della guerra.
Qualcuno può sostenere che l’ONU, come pacificatore armato, non dovesse neppure
trovarsi nella ex Jugoslavia, lasciando così che i diversi contendenti di
quella guerra si pacificassero da soli. Qualche sincero umanitario può
sostenere che, pur essendo inferiori in termini di forze, i caschi blu dovevano
comunque intervenire per tentare di proteggere la popolazione; avrebbero cioè
dovuto fare il loro dovere morale comunque, eventualmente anche sacrificando la
propria vita. Oppure si può sostenere che l’ONU abbia peccato di omissione: doveva
intervenire con regole di ingaggio più dure, con maggiori forze e più
efficacemente, costringendo i Serbi a stare al loro posto. Anche con la
minaccia o l’uso delle armi. Ma c’è anche un altro interessante punto di vista:
i caschi blu olandesi non hanno fatto altro che tenere un comportamento del
tutto consono con le prescrizioni nonviolente tolstojane di non rispondere al male con il male. Meglio
dunque sarebbe stato in questo caso che non si fossero neanche presentati in
Jugoslavia.
22. Un po’ di metaetica.
Dopo il nostro intermezzo, passiamo ora a proseguire il nostro ragionamento.
Finora ci siamo accontentati di individuare diversi tipi di pace, mostrando svariati
problemi ad essi connessi. Ci siamo cioè occupati principalmente dei diversi obiettivi che possiamo avere in
mente quando dichiariamo di essere per la
pace. Dovrebbe essere emerso come minimo che la pace è un obiettivo di per
sé assai problematico. Ma la pace non è solo problematica in quanto obiettivo. È
anche decisamente problematica se consideriamo il modo con cui la vogliamo. Ebbene sì, la pace non solo si dice ma anche si vuole in diversi modi. Prenderemo in considerazione due modi
principali. Ce ne sarebbero anche altri, ma questi due sono i più importanti. In
termini di metaetica,[27] la pace può essere considerata in due modi diametralmente
opposti: dal punto di vista deontologico
oppure da quello consequenzialista.
Si tratta di una distinzione del tutto analoga a quella forse più nota di Max
Weber tra l’etica dell’intenzione (o
convinzione) e l’etica della responsabilità. Il primo punto di vista tende a considerare
la pace come principio in sé. Il
secondo punto di vista tende a considerare la pace in base alle sue conseguenze. Detto in sintesi, se assumiamo
la pace come un principio universalmente valido, e dunque moralmente doveroso,
saremo portati a disinteressarci delle sue conseguenze, le quali però, come s’è
visto, possono anche non essere sempre buone. Se consideriamo invece
primieramente le conseguenze della pace, non saremo più in grado di trattare la
pace come un principio universale, valido sempre e comunque. Potremmo anche
mettere in conto, in certi casi, di dover rinunciare
alla pace, per evitare certe sue conseguenze negative e/o per conseguire
altri beni che siano ritenuti preferibili o prioritari.
23. Deontologi.
Vediamo meglio. Chi adotta la prospettiva deontologica ritiene in generale che ci
siano dei principi, proprio come la pace, che sono buoni o cattivi in sé. Questi principi sarebbero dunque
dotati di un loro valore intrinseco. Questa
convinzione si traduce in un dovere,
in un comandamento morale al quale si
deve soltanto obbedire. Chi non obbedisce si rende colpevole e si colloca ipso facto dalla parte del male. Il
principio della pace è dunque considerato una cosa buona di per sé e dovrebbe sempre
essere realizzato senza discutere, a
tutti i costi: etsi pereat mundus.
Resta allora solo il
problema di definire come si giunga a stabilire un principio come quello della
pace, quale ne sia il fondamento o la giustificazione. I fondamenti che possono
essere individuati sono molteplici e curiosamente possono anche essere in contrasto tra loro. Tuttavia mirano tutti
a conferire alla pace il suo valore
intrinseco. Qui può essere utile, a scopo meramente illustrativo della
problematica, rammentare la vecchia classificazione kantiana delle etiche eteronome, formulata a seconda
del carattere interno o esterno rispetto all’individuo del
principio che le guida. In termini esterni,
il dovere della pace può derivare da un comando divino, oppure da un’abitudine
sociale trasmessa (la tradizione e l’educazione) oppure ancora da una legge degli
uomini. In termini interni può
derivare invece da un impulso socievole, fornitoci dalla natura, oppure da un
sentimento morale, oppure ancora dalla spinta verso la perfezione derivante
dalla nostra coscienza razionale. Se si vuol essere kantiani fino in fondo, si
può poi invocare anche l’imperativo categorico, come caso di etica dell’autonomia.[28]
Quale che sia il
fondamento posto alla sua base, è opportuno notare che, in ambito deontologico,
il principio della pace viene in tal modo assolutizzato.
Ciò indubbiamente lo mette al riparo da qualsiasi dubbio e da qualsiasi
eccezione. Questa strategia può tuttavia essere controproducente. Già Kant
aveva avvertito come l’assolutizzazione di un principio possa costituire l’anticamera
del perfezionismo morale, del ritualismo e financo del fanatismo morale. In fin dei conti le cose dai tempi di Kant non sono cambiate
molto. L’impressione è che coloro che si auto proclamano pacifisti in senso
deontologico non siano gran che consapevoli di questi rischi. Se il principio così
individuato è considerato come un assoluto allora non può mai essere
confrontato e messo in concorrenza con altri valori. Gli eventuali insuccessi
pratici derivanti dall’applicazione del principio (la prova dei fatti) non
scalfiscono minimamente il valore che è stato assunto. Il tutto in linea con la
convinzione che le conseguenze non interessino più di tanto: «Il mio dovere l’ho
fatto, accada ciò che vuole».
24. Qualche esempio
particolare. Discutiamo più concretamente qualche caso. Almeno i casi
principali. Chi è religioso è facile che, per fondare la pace, invochi la legge divina. Spesso in ambito cristiano
si cita il Vangelo come legge suprema. Tuttavia ciò non sempre sembra bastare.
Il caso di Tolstoj mostra come ci si possa trovare in disaccordo anche a
partire dal Vangelo. Tolstoj riteneva che il vangelo predicasse una forma
radicale di nonviolenza e ciò lo portò allo scontro con la sua Chiesa. Il
moscovita patriarca Kirill oggi benedice la guerra di Putin. Il Catechismo
della Chiesa cattolica sostiene invece la teoria della “guerra giusta”
discostandosi dalla prospettiva deontologica (vedi oltre). Non ci potrebbero
essere interpretazioni più divergenti dello stesso principio.
Secondariamente, tra i
deontologisti c’è chi preferisce fondare il principio della pace sulla legge
umana, sulle prescrizioni del diritto.
In Italia, ad esempio, c’è chi sostiene che la nostra Costituzione proibirebbe
la guerra in tutte le sue forme. Secondo i pacifisti che fondano la pace sulla
Costituzione, poiché la Costituzione proibisce la guerra, il nostro Paese non
dovrebbe neppure partecipare alle missioni internazionali di pacificazione, non
dovrebbe produrre e vendere armi. Non dovrebbe stare nella NATO. In teoria non
dovrebbe neppure possedere un esercito e (forse) non dovrebbe neppure
difendersi in caso di aggressione. È evidente che una simile interpretazione
della Costituzione istituirebbe la Pace non solo come obbligo morale o politico individuale ma anche come obbligo legale per tutti i cittadini
italiani e le loro istituzioni. In realtà sappiamo che la questione è piuttosto
controversa. Secondo autorevoli giuristi, sembra che la Costituzione proibisca certamente
le guerre di aggressione. Tuttavia non è certo che proibisca le guerre di
difesa e/o di resistenza. Altrimenti non sarebbe stato neanche previsto un
Ministero della Difesa.
In terzo luogo è stata
spesso indicata come fondamento della pace una convinzione della coscienza, intima e individuale, che
imporrebbe all’individuo di non indossare divise, di non portare armi, di non
fare il servizio militare, di rifiutare dunque la guerra, o anche tutte le
forme di violenza. Si tratta della cosiddetta obiezione di coscienza. Si tratta questo di un principio che non è fatto valere per tutte le coscienze o
per le istituzioni ma limitato alla coscienza
individuale. L’obiettore, insomma, ammette
che gli altri eventualmente facciano la guerra, tuttavia rivendica per sé
la prerogativa di seguire la propria coscienza e di rifiutarsi di farla. Il
principio dell’obiezione di coscienza è stato accolto – com’è noto - dalla
legge italiana dopo molte controversie (è appena il caso di ricordare in merito
la figura di Don Milani[29] e la sua polemica con i cappellani militari).
Naturalmente anche in questo caso la convinzione intima può derivare da una
pluralità di fonti, dall’adesione a qualche religione, dall’adozione di un
qualche imperativo morale, o simili, da un sentimento di amore verso tutti gli
umani o addirittura verso tutti gli esseri viventi. Molte delle argomentazioni
individuali addotte per l’obiezione di coscienza possono essere legate non solo
al rifiuto della guerra ma anche al rifiuto di ogni violenza.
25. Consequenzialisti.
Vediamo ora l’altra posizione metaetica. Secondo la prospettiva consequenzialista, o dell’etica della responsabilità, non accade mai che un’azione sia buona
o cattiva in sé, ma va sempre
valutata in base ai suoi effetti o conseguenze. Una scelta è buona solo se
produce conseguenze buone, anche e soprattutto nel caso specifico. Unico
criterio normativo che deve stare alla base della scelta sono dunque le conseguenze. Questo orientamento si
richiama alla responsabilità di colui
che sceglie la linea di condotta. L’eventuale ossequio a principi a-priori
implicherebbe invece la deresponsabilizzazione
individuale e una universalizzazione irrealistica. Per comprendere questa
posizione ci si può rifare dibattito intorno alla questione dell’obbedienza
assoluta alle leggi. Se n’è discusso alquanto a proposito del caso Eichmann. Se
obbedire alla Legge o allo Stato è sempre
un atto dovuto, allora non si sarà mai
responsabili delle eventuali conseguenze dannose. Deontologicamente, in senso
stretto, Eichmann avrebbe avuto perfettamente ragione. La sentenza di condanna
contro Eichmann – piaccia o no - è stata pronunciata in un quadro
consequenzialista.
Mentre sul piano
deontologico, il principio della pace è considerato come universale, sul piano
del consequenzialismo invece non può mai essere considerato come universale,
deve sempre essere messo in relazione alle specifiche situazioni. Dipende, in
altri termini, dalle circostanze. Questo
significa che il principio della pace, come ogni altro principio, viene considerato
come contingente. Poiché le
conseguenze di una scelta possono essere diverse da caso a caso, nella
prospettiva consequenzialista è ammesso dare valutazioni diverse a seconda dei casi. In certi casi si può
decidere per la pace, in altri per la guerra. Dato quest’approccio per così
dire minimalista, i consequenzialisti tendono a non assolutizzare le loro
scelte e così rischiano assai meno di incorrere nel perfezionismo morale o nel fanatismo.
26. Obiezioni. Un’obiezione
al consequenzialismo è che non possiamo
conoscere tutte le conseguenze delle nostre scelte, per cui il processo
decisionale per essere corretto dovrebbe essere infinito. Inoltre tutti i
principi sarebbero relativizzati alle singole situazioni esaminate. Ogni
decisione sarebbe unica e diversa da ogni altra. In questo modo il mondo dei
valori diverrebbe altamente instabile, sottoposto all’arbitrio valutativo di
ciascun singolo e di ciascuna situazione. Un’altra obiezione è che possiamo non trovarci d’accordo sull’analisi
delle conseguenze, poiché, in quanto umani, ragioniamo sempre in condizioni di incertezza o di relativa ignoranza. Oppure siamo sempre
sottoposti ai condizionamenti più
diversi. Il consequenzialista dunque non avrebbe alcuna garanzia di essere nel
giusto, non potrebbe mai rifarsi ad alcun fondamento consolidato. I
consequenzialisti risponderebbero che è proprio così, che queste sono le autentiche condizioni di ogni scelta
morale.
27. Qualche implicazione.
Vediamo qualche concreta implicazione. Nello specifico della guerra russo -
ucraina, i pacifisti deontologici
anche più soggettivamente sinceri si stupiscono di essere considerati spesso
come «amici di Putin». In realtà essi, adottando deontologicamente il principio
della pace, facendo dunque il loro “dovere”, non si faranno mai carico delle
specifiche conseguenze delle loro azioni, anche quando siano abbastanza prevedibili.
Ad esempio, è fattualmente abbastanza chiaro che se si togliessero gli aiuti militari
all’Ucraina, questa sarebbe facilmente sopraffatta. I deontologisti tuttavia non
si sentono minimamente imbarazzati da simili conseguenze, perché le conseguenze
non li riguardano affatto. Se tutti ragionassero come loro, Putin avrebbe già
vinto. Ma questo, appunto, non li riguarda proprio. E così si stupiscono di
essere considerati “alleati oggettivi” di Putin.
Anche gli interventisti consequenzialisti (si noti
che i consequenzialisti possono anche essere non interventisti) hanno un dilemma da risolvere. Accettando la
guerra, anche dopo articolata riflessione, non possono che accettarne anche le gravose
conseguenze, le quali si manifesteranno però solo dopo la scelta. Essi, al momento della scelta avevano ritenuto
che le conseguenze sarebbero state tutto sommato accettabili se messe a
confronto con un male peggiore che sarebbe
derivato se avessero deciso altrimenti. Tuttavia costoro si espongono alla confutazione da parte della realtà. La
posizione dei deontologi resta invece inconfutabile. Il consequenzialista
interventista può essere comunque accusato di avere scelto il male minore della guerra, perché è
comunque un male. Ma potrebbe anche essere ancor più accusato qualora il male
minore si riveli essere in realtà un male peggiore. Il consequenzialista non
può mai avere la coscienza del tutto tranquilla, finisce sempre per avere in
qualche modo le mani sporche. E questo può sempre essergli rimproverato dal
deontologo (il quale può sempre comodamente dire «Non in mio nome!»). In altri
termini, i consequenzialisti sono indotti, in ogni situazione, a cercare di
calcolare e prevedere i risultati (di cui saranno comunque responsabili, nel
bene e nel male) e a scegliere di conseguenza. Ai deontologi invece non importa
dei risultati specifici, dei quali non si sentono responsabili. Per loro conta
solo l’aderenza al principio assoluto.
28. Dell’incompatibilità
delle due posizioni. Possiamo domandarci a questo punto se sia possibile
conciliare queste due prospettive. Ebbene, no, non è possibile. Si può solo
stare da una parte o dall’altra. Si può, volendo, argomentare a favore dell’uno
o dell’altro punto di vista, in maniera più o meno convincente, ma mai in
termini risolutivi. Per questi due mondi, «fare la cosa giusta» può significare
cose completamente diverse.
Che fare allora? Di
fronte a questi due orientamenti incompatibili si finisce spesso per scegliere
una modalità o l’altra a seconda dei casi. Diciamo pure a seconda della
convenienza del momento. Si finisce per formulare delle argomentazioni miste
che possono essere anche abbastanza ridicole. Ci sono tuttavia dei soggetti che
sono invece più costanti e tendono più o meno a essere sempre deontologi oppure
sempre consequenzialisti, in base a un atteggiamento personale spesso poco
consapevole. Una specie di predisposizione.
Mi permetto qui di suggerire
una scappatoia. Di porre all’attenzione la possibilità di adottare un criterio di
tipo decisamente pragmatico, un criterio piuttosto “a spanne”, anche se si
tratta di un criterio piuttosto vicino al modo di pensare consequenzialista. Si
tratta di far ricorso alla casistica empirica nota, all’esperienza passata. Nella
storia passata hanno avuto migliori risultati (cioè, hanno fatto meno disastri)
coloro che hanno applicato ciecamente i loro valori o principi, oppure coloro
che hanno esaminato attentamente e prudentemente le possibili conseguenze delle
loro scelte? Cosa convien fare in generale, sulla base del senno di poi? È
chiaro che ciascuno formulerà la propria risposta. Dal mio punto di vista, da
un esame spassionato, emerge come i
consequenzialisti siano meglio adattati alla democrazia. Le ragioni
dovrebbero essere facilmente ricavabili da chiunque conosca appena un po’ le
regole elementari della democrazia. Propongo al lettore questo compito come
esercizio. Sono disposto a correggere gli elaborati.
29. La teoria della
guerra giusta. Il caso più celebre di consequenzialismo è senz’altro quello
della teoria della guerra giusta[30]
alla quale val la pena di riservare uno spazio particolare. È una teoria che
risale addirittura ad Agostino e a Tommaso d’Aquino.[31] Prima ancora si trova,
ad esempio, in Cicerone. È stata ripresa nell’ambito del giusnaturalismo
moderno e, per suo tramite, è giunta fino a noi. A tutt’oggi è una teoria che
ha molti sostenitori ed è ancora ampiamente dibattuta. C’è una letteratura
immensa sull’argomento. In campo filosofico, tra i sostenitori
contemporanei della teoria della guerra giusta possiamo annoverare i filosofi
Michael Walzer[32] e Norberto Bobbio.[33]
La premessa minimale della teoria è che le guerre non sono tutte uguali. Ci sono
guerre inique e guerre giuste. Le guerre giuste si distinguono per essere tali sia
nelle motivazioni che le hanno scatenate (jus
ad bellum) sia nella condotta sul campo (jus in bello). Per quel che concerne lo jus ad bellum, la sola guerra giusta tendenzialmente è quella che è
messa in atto per difendersi da una aggressione. La guerra di offesa non è mai
giusta. Nel corso della complessa storia di questa teoria sono state dettate
precise condizioni affinché si possa parlare di guerra giusta. Abbiamo, nell’ordine:
1) La giusta causa. 2) La retta intenzione. 3) L’autorità
appropriata (legale) e la dichiarazione pubblica. 4) La guerra come ultima
risorsa. 5) La probabilità di successo. 6) La proporzionalità. Entrare nel
merito dei punti precedenti esula dalle finalità di questo scritto. Il lettore
che fosse interessato non farà fatica a trovare un’adeguata documentazione. Va
segnalato che l’epiteto di “guerra giusta” non ha in questo caso alcun significato morale, bensì ha un significato giuridico. È definita giusta
la guerra che abbia determinati requisiti accertabili in base alla tecnica
giuridica. La teoria permette dunque di esprimere un giudizio di tipo giuridico
sulla guerra. Il giudizio ovviamente, come tutti i giudizi, potrebbe anche
essere errato. Potrebbe anche essere riconsiderato nel caso del sopravvenire di
nuovi dati.
Non manca chi ha fatto notare come la teoria della guerra
giusta sia del tutto corretta ma che nessuna delle guerre passate sarebbe in
grado di passare la prova, se questa fosse condotta in maniera rigorosa. Questa
teoria si presta soprattutto a essere impiegata quando in sede internazionale
un consesso di nazioni (ad esempio in sede ONU) deve decidere se operare o meno
un intervento. Come accade facilmente nelle faccende umane, la teoria è tuttavia
stata anche usata strumentalmente dai bellicisti. L’aggressione americana all’Iraq
nel 2003, ad esempio, è stata giustificata anche col pretesto che fosse una
guerra giusta.[34] In quell’occasione fu anche elaborata una assai discutibile
dottrina della guerra preventiva.
Occorre dunque tener conto di un possibile uso ideologico e propagandistico
della teoria della guerra giusta. Le strumentalizzazioni non bastano tuttavia a
invalidarla e, come si diceva, è ancora ampiamente dibattuta.
Taluni hanno sostenuto –
lo riporto per imparzialità affinché siano chiare tutte le posizioni – che la
teoria della guerra giusta poteva valere per le guerre convenzionali. Non
varrebbe più ora che c’è la possibilità della guerra atomica. Norberto Bobbio ha discusso ampiamente su questo
punto. Il problema è che la possibilità della guerra atomica non ha messo fuori
mercato le altre guerre convenzionali. E su queste, che sono di fatto le uniche
a essere praticate, è comunque il caso di pronunciarsi. In effetti l’arma
atomica ha una funzione di deterrenza
ed è poco probabile che venga mai più usata (dopo il caso del Giappone) poiché
con la tecnologia odierna l’uso dell’arma atomica implicherebbe la mutua distruzione assicurata. Le guerre
convenzionali hanno invece molta più probabilità di essere utilizzate e di
fatto lo sono. Abbiamo dunque bisogno anche di ragionare circa il da farsi
relativamente alle guerre non atomiche.
Ma avremmo anche bisogno
di ragionare rispetto alle armi atomiche. Negli ultimi decenni l’arsenale
atomico mondiale è rimasto congelato dal TNP (Trattato di non proliferazione
nucleare) e l’opinione pubblica non pare si sia mai preoccupata più di tanto circa
la questione dello smantellamento. Solo nel 2017 è stato proposto da un ristretto
gruppo di Paesi il TPNW (Trattato per la proibizione delle armi nucleari) cui
però non hanno aderito gli Stati
possessori delle bombe o aspiranti tali. Certi pacifisti si rifiutano di mandare
qualche cartuccia e qualche obice agli Ucraini che stanno facendo la loro resistenza, un caso cioè che sarebbe generalmente
riconosciuto come guerra giusta, ma non dedicano neanche un tweet alla causa della messa al bando
delle armi nucleari. Meno male che ci ha pensato Putin a riproporre la
questione.
30. L’ambiguo caso della
Chiesa cattolica. Come ho spiegato ampiamente in un mio saggio precedente,[35]
da sempre la Chiesa cattolica sostiene esplicitamente la dottrina della guerra
giusta, fin da Agostino e Tommaso d’Aquino. Nel mio saggio ho mostrato
dettagliatamente come il Catechismo della Chiesa cattolica sia totalmente
incentrato intorno alla teoria della Guerra giusta. Ciò significa l’adesione
piena a una prospettiva consequenzialista. Ciononostante, il Papa nel suo
attuale pubblico insegnamento mostra di condividere una prospettiva
deontologica talvolta assai estrema, fino quasi alla nonviolenza tolstojana,
cioè alla proibizione di rendere il male con il male. Questo soprattutto quando
sono in questione gli aiuti militari e le spese per la difesa. Ma poi il Papa
non trae tutte le conseguenze dalla sua adesione alla nonviolenza. Il messaggio
è dunque piuttosto ambiguo. Nel Catechismo si teorizza il diritto alla difesa e
alla resistenza da parte di chi è aggredito e invece nelle piazze la Chiesa
tuona contro l’invio delle armi in Ucraina e contro gli investimenti nella
sicurezza. Si tratta di una palese contraddizione che, nel mio saggio, ho
sintetizzato nella formula del peace
populism. Intendendo con ciò che questa contraddizione sia dovuta
principalmente allo scopo più o meno consapevole della Chiesa di ottenere una
qualche popolarità a buon mercato. Un
pacifismo deontologico e fondamentalista è senz’altro più popolare di un
consequenzialismo responsabile.
Va notato che la teoria
consequenzialista della guerra giusta della Chiesa cattolica (almeno quella
contenuta nel Catechismo) si espone alle critiche deontologistiche di coloro
che professano rigorosamente la
teoria della nonviolenza. Per rendersene conto, basta mettere a confronto il
Catechismo della Chiesa cattolica con Tolstoj.[36] Agli occhi di Tolstoj, il
Catechismo cattolico sarebbe da considerarsi come una mera manifestazione di eresia, un vero e proprio tradimento dell’insegnamento di Cristo. Se
stiamo alla lettera, è probabile che Tolstoj abbia ragione. Solo la plateale
ignoranza dilagante presso il grande pubblico permette oggi alla Chiesa
cattolica di sostenere e insegnare la guerra giusta nel Catechismo e,
contemporaneamente, di presentarsi come sostenitrice di un pacifismo
deontologico nonviolento, senza che nessuno ne ravvisi le incongruenze.
31. Di che pacifismo sei?
Da quanto detto, dovrebbe risultare chiaro fin qui che i problemi che
questa materia comporta sono davvero complessi e che ciascuno dovrebbe essere attentamente
impegnato nel costruire la propria posizione personale. Una posizione comunque
che, per la natura stessa della cosa, non sarà alla fine esente da lati oscuri,
incongruenze, conseguenze non desiderate. Sarà dunque una posizione che avrà
punti forti, ma anche punti di debolezza. Sarà una simile posizione che sarà
poi utilizzata per formulare gli opportuni cauti giudizi sui casi concreti.
Dovrebbe dunque risultare chiaro che non ci si può accontentare di
superficialità e banalità. Se il ragionamento fin qui sviluppato sarà sembrato
eccessivo, ebbene pensi il nostro coraggioso lettore che quel che qui è stato
fornito è solo un approccio del tutto elementare. La complessità delle
questioni è ben maggiore. In altri termini, non c’è via di scampo, bisogna studiare! Vediamo allora in
sintesi, ad usum delphini, quali sono
le principali posizioni possibili.
32. Nonviolenti. Abbiamo
anzitutto i nonviolenti. Pare questo
il caso relativamente più chiaro, sebbene sia il più difficile da mettere in
pratica. Riteniamo di doverli collocare in una loro categoria a parte per il
fatto che essi hanno, come obiettivo, non tanto la eliminazione della guerra bensì
l’eliminazione della violenza in generale. Se poi intendono – come fa Galtung –
per violenza anche la violenza sociale
(cioè le disuguaglianze, lo sfruttamento, l’impedimento allo sviluppo delle
potenzialità umane di ciascuno, la discriminazione e simili) essi sarebbero
impegnati nella impresa di costruire, senza fare uso della violenza, una
società completamente nuova, in una vera e propria rivoluzione, sia sul
piano istituzionale sia sul piano degli individui. Dal punto di vista
metaetico, l’approccio dei nonviolenti è generalmente di tipo deontologico, con
tutti i suoi pregi ma anche con i difetti che abbiamo ampiamente discusso in
precedenza. I nonviolenti, posti di fronte alla guerra, si troveranno comunque
a dover affrontare e risolvere la molteplicità dei dilemmi circa la pace e la
guerra che abbiamo segnalato. In particolare, potranno facilmente trovarsi di
fronte alla incongruenza dei valori e
ai paradossi derivanti dal “non opporsi al male con il male”. E al rischio del
fanatismo. Un problema particolare poi è quello della efficacia effettiva in
termini pratici della metodologia nonviolenta.
33. Pacifisti assoluti.
Abbiamo poi i pacifisti deontologici.
Sono coloro che – per i principi più diversi – scelgono sempre la pace, «senza se e senza ma». Costoro potrebbero
essere definiti come pacifisti assoluti.
Diciamo pure che costoro, per quanto ampiamente variegati al loro interno, costituiscono
un blocco relativamente monolitico. Questa posizione deve comunque risolvere il
problema (che non hanno i nonviolenti) di identificare cosa si debba intendere per
guerra, cioè di identificare l’oggetto della loro opposizione. Abbiamo visto
che l’oggetto guerra è piuttosto fuzzy
e, a seconda di quel che si intende, può produrre comunque già delle
differenziazioni interne assai marcate nello schieramento. Ci possono essere
posizioni assai radicali ove si vietino la produzione e il commercio di armi,
ove si chieda lo smantellamento degli eserciti, ma anche ove si vietino i
cosiddetti interventi umanitari, le varie forme di interposizione, oppure gli
interventi dell’ONU. Ove si condannino nel passato e nel futuro tutte le forme di resistenza armata e ove si
condanni anche la guerra passata al nazifascismo. C’è poi anche chi intende la
pace solo come obiezione di coscienza individuale (la riserva solo per sé e non
la impone agli altri) e chi la intende invece come norma legale da imporre a
tutti attraverso una Costituzione. Anche i pacifisti deontologici possono
facilmente trovarsi di fronte alla incongruenza
dei valori e al paradosso di “non opporsi al male con il male”. E al
rischio del fanatismo. Il pacifismo assoluto sembrerebbe dunque la posizione
più facile ma al proprio interno, osservando un minimo di rigore, può riservare
molti problemi piuttosto difficili da risolvere.
34. Pacifisti relativi.
Ma l’elenco non è finito. L’approccio metaetico consequenzialista pone più di
un problema, per quel che riguarda il da farsi rispetto alla pace (e alla
guerra). Se i pacifisti deontologici sceglieranno pressoché sempre la pace, senza badare alle
conseguenze, i consequenzialisti invece
potranno essere indotti a scegliere, in casi specifici diversi, sia la pace sia
la guerra. Ma allora, i consequenzialisti sono da considerare come pacifisti o non
piuttosto come bellicisti? Oppure vanno considerati di volta in volta, solo
sulla base della loro scelta del momento? Risultando così come dei ballerini morali che transitano troppo
facilmente da una posizione all’altra?
Facciamo un esempio per
capirci. Bertrand Russell (1872-1970) è ritenuto generalmente un’importante
figura di filosofo e attivista pacifista. È famoso per essersi impegnato per la
messa al bando delle armi atomiche. Si è opposto alla partecipazione della Gran
Bretagna alla Prima guerra mondiale. Per questo fu privato della cattedra e fu
perfino incarcerato. Eppure Russell, dopo un notevole impegno per prevenire il
conflitto, giunse ad approvare la guerra contro la Germania nazista. Come
dovremmo considerare la sua posizione? Siamo in presenza di un pacifista eroico,
oppure di un bellicista guerrafondaio? Oppure di un voltagabbana? Russell ha
chiarito la sua posizione in un famoso articolo del 1943[37] nel quale egli si
considera non un pacifista assoluto ma “pacifista politico relativo”.[38] Ben
al di là di essere un altalenante, egli si considera dunque un pacifista perfettamente coerente. Ma
come tale, e proprio in quanto tale, ammette che talune guerre vadano appoggiate.
Va da sé che i nonviolenti e i pacifisti assoluti difficilmente accetterebbero
Russell in loro compagnia.
Se non vogliamo trattare
anche Russell come un guerrafondaio allora non possiamo fare altro che accettare
la sua argomentazione e ampliare la nostra classificazione dei pacifisti. Avremo
allora, da un lato, i pacifisti assoluti
che deontologicamente scelgono sempre la pace e poi avremo, d’altro canto, anche
i pacifisti non assoluti, pacifisti “relativi”,
che non scelgono sempre la pace e si
riservano di giudicare caso per caso. Dovrebbe essere abbastanza chiaro, almeno
a partire dall’esempio di Russell, che i pacifisti relativi non possono essere
assimilati tout court ai bellicisti
(i quali sceglierebbero pressoché sempre la guerra). Assumiamo dunque che non basta
dare un appoggio circostanziato a una certa guerra, per essere considerati tout court bellicisti o guerrafondai. Si
può combattere Hitler anche in nome della
causa della pace. Anche qui, le distinzioni sono importanti, non si tratta
della stessa cosa! Nella recente letteratura anglosassone sulla pace e sulla
guerra si parla tranquillamente di relative
pacifism, di contingent pacifism,
oppure di conditional pacifism. Se
non si accetta questa soluzione si corre il rischio di screditare una categoria
di pacifisti sicuramente numerosa e ben impegnata. Facendo un cattivo servizio
alla causa della pace. Si tratterebbe dunque di ammettere una buona volta che i
pacifisti relativi siano comunque dei
pacifisti a pieno titolo e che un pacifista
in certi casi possa anche stare dalla parte della guerra. Pazza idea! Ancora
una volta, questa non è una questione che può essere affrontata in maniera
schematica. Il pericolo del fanatismo è sempre alle porte.
35. Pacifisti relativi
insufficienti. I pacifisti relativi (che non possono che essere
consequenzialisti) costituiscono tuttavia un gruppo davvero composito, spesso diviso al proprio interno in base alle
diverse analisi condotte circa l’opportunità o i costi e i benefici delle diverse
scelte di pace o di guerra. È il caso di ricordare che molti pacifisti relativi
(forse la maggioranza!) sembra che, nel caso del conflitto russo – ucraino,
abbiano optato proprio per la pace (cioè, di fatto, per la resa incondizionata
dell’Ucraina). Sembra tuttavia che i pacifisti relativi facciano notizia solo
quando scelgono di appoggiare la guerra. Nel caso della guerra russo – ucraina,
diversi di loro hanno appoggiato la resistenza ucraina, fino ad approvare le
sanzioni, l’invio di armi, guadagnandosi così l’appellativo dispregiativo di pacifisti con l’elmetto. Ugualmente
hanno approvato l’aumento delle spese militari per la sicurezza, beccandosi
l’accusa di essere dei guerrafondai e di voler togliere risorse alla sanità,
all’istruzione e a una miriade di altre buone cause.
Il livello decisamente
poco elevato dell’attuale dibattito italiano sulla guerra in Ucraina suggerisce,
ahimè, una pessimistica considerazione circa i molti pacifisti relativi che sono
in circolazione. Tra i quali può essere anche collocato il già citato prof.
Orsini. Nonostante il parere autorevole di Ockham,[39] per tutti costoro mi verrebbe
di suggerire una nuova categoria, quella dei pacifisti relativi insufficienti. Se non piace questo termine, si
potrebbe anche parlare di pacifisti relativi
deboli. Come diceva Viano: «di quelli che non ce la fanno». O, ancora, di pacifisti relativi opportunisti. Che abbiano
optato per la pace o per la guerra, costoro, come consequenzialisti, mostrano abbastanza
palesemente di avere operato la loro scelta in base ad analisi assai discutibili delle conseguenze. Purtroppo, l’analisi
delle conseguenze non sempre è caratterizzata da onestà e imparzialità, da
considerazioni approfondite e di ampio
respiro. Talvolta può essere caratterizzata da basse e ciniche convenienze, da
abietti e futili motivi. Non tutti si chiamano Bertrand Russell. Non tutti
si chiamano Albert Einstein (il quale sulla guerra a Hitler ha sostenuto
posizioni analoghe a quelle di Russell). L’analisi delle conseguenze poi può
non sempre essere caratterizzata dall’impiego di dati fondati e deduzioni
logicamente corrette. Dunque, bisogna purtroppo riconoscerlo, il
consequenzialismo è in fin dei conti fin troppo democratico. Ce n’è davvero per
tutti i gusti, e anche gli imbecilli sono comunque sempre autorizzati a fare la
loro brava analisi delle conseguenze. Del resto in una democrazia è senz’altro giusto
che sia così. La democrazia dovrebbe essere così robusta da scoraggiare gli
imbecilli e invece li subisce continuamente. E forse li alimenta.
36. Utilitarismo e verità.
I pacifisti relativi insufficienti, che sono una legione, non sono purtroppo una
sorpresa poiché abbiamo già sottolineato la possibile parentela del
consequenzialismo con le etiche
utilitaristiche. L’utilitarismo tradotto in pratica purtroppo spesso
dimentica il principio cardine che lo dovrebbe improntare, il principio della “maggior
felicità per il maggior numero”,[40] e tende a scadere in mero opportunismo individualistico. Questo è
il motivo per cui, in ambito consequenzialistico occorre sempre esercitare una
grande vigilanza affinché l’analisi delle conseguenze non sia viziata dagli
innumerevoli bias in cui ci si può
imbattere. Mentre in campo deontologico il dibattito non può che vertere
intorno ai valori universali (i quali però per lo più si assumono a torto o a
ragione senza gran ché dibattere), in campo consequenzialista invece il
dibattito è essenziale. Dovrebbe sempre
essere approfondito, ampio, documentato, e soprattutto pubblico, per permettere
la formazione di un’opinione pubblica
matura e consapevole. In altri termini, per fare bene i consequenzialisti bisogna studiare. Mi permetto in
proposito di richiamare una considerazione recentemente espressa da Emanuele
Parsi,[41] e cioè che le democrazie non possono proprio funzionare al di sotto
di una certa soglia di circolazione della verità. A maggior ragione, ciò
dovrebbe valere di fronte a questioni gravi come quelle della pace e della
guerra. Occorrerebbe dunque un forte commitment
per la verità. È invece un dato fatto che il pubblico medio attuale non si
occupa di politica e men che mai di politica internazionale. E le informazioni che
circolano sono quelle che corrono sui social media e sui media nazionali. E,
soprattutto, i nostri pacifisti relativi insufficienti tendono a decidere piuttosto irresponsabilmente con un tweet o con un Like, magari in base a un bel corredo di fake.
37. Per concludere. Lo
scopo di questo saggio, divenuto ormai fin troppo lungo, era quello di fornire
alcuni strumenti elementari di analisi a chi volesse condurre una riflessione
indipendente e non banale sulle questioni della guerra e della pace. Lo scopo
era anche di esercitare un’opera minima di chiarificazione del linguaggio che,
su questo tema, è oggi davvero molto inquinato. Spero di avere mostrato ancora
una volta come la filosofia possa disseminare dubbi piuttosto che propinare
certezze e come possa rappresentare tuttavia uno strumento critico nei
confronti per lo meno delle forme più crasse di superficialità. Ho cercato di
essere il più obiettivo possibile, non rinunciando ovviamente di volta in volta
a esprimere le mie opinioni. Per rispetto nei confronti del lettore, mi sono tuttavia
sforzato di rendere sempre ben distinguibili le mie analisi argomentate dalle
mie opinioni e valutazioni. Ringrazio i pochi lettori che siano giunti fin qui,
sperando di avere fatto loro un qualche buon servizio. Disponibilissimo a
ricevere critiche e osservazioni. E a
ricevere, qualora fosse il caso, anche qualche ringraziamento. In ossequio al motivo
kantiano del «legno storto», non mi faccio comunque nessuna illusione che tutto
ciò possa servire a migliorare anche di un solo millimetro la nostra etica
pubblica.
Giuseppe Rinaldi (24/11/2022)
OPERE CITATE
2021 AA. VV., (a cura di), Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo. Decima edizione, Terra Nuova Edizioni.
1962 Aron, Raymond, Paix et guerre entre les nations, Calmann-Lévy, Paris. Tr. it.: Pace e guerra tra le nazioni, Edizioni di Comunità, Milano, 1970.
1990 Berlin, Isaiah, “Alla ricerca dell’ideale”, in AA., VV. (a cura di), Etica ed economia, La Stampa, Torino. [1988]
1984 Bobbio, Norberto, Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, Bologna.
1989 Bobbio, Norberto, Il terzo assente. Saggi e discorsi sulla pace e sulla guerra, Edizioni Sonda, Torino.
1991 Bobbio, Norberto, Una guerra giusta? Sul conflitto del Golfo, Marsilio, Venezia.
2010 Losurdo, Domenico, La non-violenza. Una storia fuori dal mito, Laterza, Bari.
1967 Erasmo, da Rotterdam, Il lamento della Pace (a cura di Luigi Firpo), UTET, Torino. [1517]
1969 Galtung, Johan, “Violence, Peace, and Peace Research”, in Journal of Peace Research, Vol. 6, No. 3 (1969), pp. 167-191.
1995 Kant, Immanuel, Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in Kant, Immanuel , Scritti di storia, politica e diritto (a cura di Filippo Gonnelli), Laterza, Bari. [1784]
1965 Milani, Lorenzo (Don), L’obbedienza non è più una virtù, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze.
1991 Kant, Immanuel, Per la pace perpetua (a cura di salvatore Veca), Feltrinelli, Milano. [1795]
2022 Parsi, Vittorio Emanuele, Il posto della guerra e il costo della libertà, Bompiani, Milano.
1992 Rousseau, Jean-Jacques, Il contratto sociale (a cura di Tito Magri), Laterza, Bari. [1762]
1943-44 Russell, Bertrand, “The Future of Pacifism”, in The American Scholar, Vol. 13, No. 1 (Winter 1943-44), pp. 7-13.
2009 Tolstoj, Lev, La confessione, Feltrinelli, Milano. [1882]
1988 Tolstoj, Lev Nikolàevič, La mia fede, Editoriale Giorgio Mondadori. [1884-1892]
1894 Tolstoi, Leone, Il Regno di Dio è in voi, Fratelli Bocca, Roma.
1997 Walzer, Michael, Just and Unjust Wars, Basic Books, Harper Collins Publishers. Tr. it.: Guerre giuste e ingiuste. Un discorso morale con esemplificazioni storiche, Liguori, Napoli, 1990.
NOTE
[1] Ho iniziato a scrivere questo saggio pochi
giorni dopo il 24 febbraio 2022, data dell’aggressione all’Ucraina da parte
della Russia. Per questo sono andato a ripescare materiali relativi alla mia
attività di insegnamento, insieme a una gran quantità di vecchi appunti e
scritti risalenti al periodo delle guerre jugoslave e al periodo della occupazione dell’Afghanistan. Ricordo
in proposito di avere dato un mio perdurato contributo alla Campagna contro le
mine antiuomo in Afghanistan, condotta dall’ICS. La stesura del saggio è durata
per tutti questi lunghi mesi di guerra, nel corso dei quali ho potuto tuttavia
assistere al pressapochismo sia del dibattito mediatico sia delle prese di
posizione delle diverse forze politiche, pacifisti compresi. Ho potuto
assistere anche alle incertezze, alle ambiguità e al tradimento della causa dei
resistenti ucraini da parte di molti degli appartenenti alla mia stessa parte
politica, fattori questi spesso uniti all’ignoranza e allo stravolgimento della
verità storica. Ho pensato più volte di lasciar perdere. Che non ne valesse
proprio la pena. Ho trovato la motivazione minima per condurre a termine questo
lavoro dopo la liberazione di Kherson. Slava
Ukraini!
[2] Cfr. AA. VV. 2021.
[3] Si noti che possono ben sussistere conflitti
d’altro tipo, considerati come accettabili o addirittura utili e
indispensabili. Come, ad esempio, il conflitto tra i candidati in una
democrazia.
[4] Putin dichiara che la sua è un’operazione
militare speciale, ma poi dichiara la mobilitazione “parziale” come se fosse in
guerra. D’altro canto, l’Ucraina non ha mai dichiarato guerra alla Russia. Si è
trovata in guerra suo malgrado.
[5] Si veda il noto saggio di Erasmo da
Rotterdam: Il lamento della pace.
Cfr. Erasmo da Rotterdam 1967[1517].
[6] È il caso di far notare che perché si possa
parlare di guerra occorre che ci siano delle comunità politiche. La nozione di guerra dunque ha poco a che
vedere con la questione dell’aggressività umana, com’è stata trattata dagli
etologi, o dagli psicologi. Certo, l’aggressività rappresenta uno dei substrati
biologici della guerra. Ma si può dire la stessa cosa anche del pollice
opponibile.
[7] Cfr. Bobbio 1984: 124.
[8] La definizione di ciò che è considerato
violento è senz’altro di tipo storico e culturale. Certi rituali primitivi
erano – e sono talvolta tuttora – violenti. Violenti i sacrifici, animali ma
anche umani, previsti da talune religioni. Violenti certi metodi educativi, o
certe modalità nel rapporto tra uomo e donna. Taluni considerano violento il
cibarsi di carne animale o di certi prodotti animali. Qualcuno considera
violento anche l’uso di certi aggettivi o espressioni linguistiche. Ma violenza
è anche quella legale, esercitata dallo Stato. È nozione comune il fatto che lo
Stato moderno abbia il “monopolio della violenza”.
[9] Scrivo “nonviolenza” senza il trattino
seguendo un’indicazione di Aldo Capitini.
[10] La definizione è tratta da Wikipedia,
versione in lingua inglese. La traduzione è mia.
[11] Di questa crisi è dato conto nello scritto La confessione. Cfr. Tolstoj 2009.
[12] Trascrivo per comodità del lettore quello
che secondo Tolstoj costituirebbe l’autentico comandamento del Discorso della Montagna. Il testo è
banalmente tratto da Wikipedia: «Primo precetto (Matteo, V, 21-26). L’uomo non
solo non deve uccidere l’uomo, ma nemmeno adirarsi contro di lui, suo fratello;
non deve disprezzarlo né considerarlo “stupido”. Se avrà questionato con
qualcuno dovrà riconciliarsi con lui prima di offrire i suoi doni al Signore,
vale a dire prima di accostarsi a Dio con la preghiera.
Secondo precetto (Matteo, V, 27-32). L’uomo non
solo non deve commettere adulterio, ma neppure servirsi della bellezza della
donna per il proprio piacere; e se sposa una donna, deve restarle fedele per
tutta la vita (nella tradizione cattolica corrente sono qui unificate la
seconda e terza antitesi).
Terzo precetto (Matteo, V, 33-37). L’uomo non
deve impegnarsi in niente, sotto giuramento.
Quarto precetto (Matteo, V, 38-42). L’uomo non
solo non deve rendere occhio per occhio, ma quando qualcuno lo percuote su una
guancia, deve porgergli l’altra; deve perdonare le offese, sopportarle con
rassegnazione e non rifiutare nulla di ciò che gli venga chiesto.
Quinto precetto (Matteo, V, 43-48). L’uomo non
solo non deve odiare i suoi nemici e combatterli, ma deve amarli, aiutarli e
servirli».
[13] Nella filosofia di Hobbes, lo stato di natura è descritto come una
lotta violenta di tutti contro tutti, dove è contemplata l’uccisione del
nemico. In Hegel la violenza è generatrice della Storia. Si ricordi la sua
metafora del bancone del “macellaio della storia”. La volontà schopenhaueriana è eminentemente conflittuale e violenta.
In alcuni aspetti della filosofia di Nietzsche la violenza è contemplata come
fondamento stesso della realtà. La teoria darwiniana – che è teoria scientifica
- implica, di fatto, la predazione che rappresenta comunque una forma di
violenza. Ma una vera e propria filosofia della violenza è contenuta nel darwinismo sociale che è uno stravolgimento della teoria darwiniana. Molte
filosofie della razza si fondano sul conflitto razziale inteso come motore della
storia. Nonostante molte ragguardevoli filosofie abbiano posto come fondamento
la violenza, nella storiografia filosofica si esita a riconoscere l’esistenza
di una corrente sotterranea che potremmo chiamare violentismo. Quando si vuol dire qualcosa del genere di solito si
ricorre al realismo politico. Ma non
è la stessa cosa.
[14] Osserva Bobbio che, mentre si può pensare a
una pace perpetua, assai più
raramente è stato elaborato il pensiero di una guerra perpetua. I bellicisti che ammettono la guerra normalmente
la considerano come un elemento temporaneo, da concludersi con una pace. Sorge
dunque il dubbio che i bellicisti possano, in qualche misura, essere
considerati minimamente pacifisti.
[15] Coloro che sono contrari alle spese
militari di solito lo sono per principio. E tendono a non considerare se la
situazione attuale internazionale sia o meno una situazione di insicurezza. Il
problema sembra non li riguardi. Posto che si ammetta di essere in una
situazione di insicurezza, non spiegano se in tal caso si debba ugualmente
procedere con un disarmo unilaterale.
[16] Faccio qui riferimento all’articolo di
Andrew Fiala contenuto nella Enciclopedia Stanford. Vedi: Fiala, Andrew,
“Pacifism”, The Stanford
Encyclopedia of Philosophy (Fall 2021 Edition), Edward N.
Zalta (ed.), URL = https://plato.stanford.edu/archives/fall2021/entries/pacifism/..Fiala
è uno tra i più importanti studiosi anglosassoni della materia.
[17] Cfr. Rousseau Capitolo IV, Della schiavitù.
[18] Per un orientamento sulla questione si può
vedere: Hsieh, Nien-hê and Henrik Andersson, “Incommensurable Values”, The
Stanford Encyclopedia of Philosophy (Fall 2021 Edition), Edward N.
Zalta (ed.), URL = https://plato.stanford.edu/archives/fall2021/entries/value-incommensurable.
[19] Si noti si può sostenere che anche la vita
non sia un valore assoluto. E che vada comunque sempre commisurato con altri
beni materiali o immateriali altrettanto importanti. È noto che gli umani,
essendo animali culturali, sono in grado di sacrificare volontariamente la
propria vita, in determinate condizioni. Giusta o sbagliata che sia la
decisione. Una riflessione articolata sulla questione si trova nel mio saggio:
Durkheim e i “suicide bombers”. Cfr. Finestre
rotte: Durkheim e i “suicide bombers”” .
[20] Cfr. Kant 1991 [1795].
[21] Cfr. Kant 1995[1784]. La traduzione che
propongo qui si trova in Berlin 1990.
[22] Ci siamo rifatti particolarmente ad Andrew
Fiala, uno dei più importanti studiosi anglosassoni di queste questioni.
[23] Cfr. Aron 1962.
[24] Cfr. Bobbio :137
[25] Il resto di questo paragrafo è tratto da un
mio saggio precedente.
[26] Cfr. Pirjevec 2001: 469 e segg..
[27] La pace può essere trattata anche sul piano
della metaetica, cioè attraverso
quella disciplina dell’etica che riflette sui metodi dell’etica stessa.
[28] Non posso qui dilungarmi su questa
classificazione. Chi fosse interessato troverà ampi ragguagli in merito su un
qualsiasi manuale di storia della filosofia o in qualsiasi monografia su Kant.
[29] Cfr. Milani (Don) 1965.
[30] Si noti che il consequenzialismo ha
prodotto molte altre argomentazioni a proposito della pace e della guerra.
[31] Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, II-II, Questione 40.
[32] Cfr. Walzer 1997.
[33] Cfr. Bobbio 1984, Bobbio 1989, Bobbio 1991
[34] Detta anche Seconda Guerra del Golfo, fu
combattuta nel 2003 anche se gli eventi possono essere datati tra 2003 e 2011.
La guerra fu condotta dagli USA (allora presidente era George W. Bush) e da una
coalizione dei cosiddetti Volenterosi.
Si tratto di una cosiddetta “guerra preventiva”. Le analisi e le inchieste
successive dimostrarono che non sussistevano le motivazioni per considerare
questa guerra come una “guerra giusta”.
[35] Cfr. il mio saggio Catechismo, guerra e resistenza. Finestre
rotte: Catechismo, guerra e resistenza.
[36] Si veda Tolstoj 1988 e Tolstoi 1894.
[37] Cfr. Russell 1943-44.
[38] La qualificazione di “politico” Russell
intende distinguere la sua posizione da quella degli obiettori di coscienza.
[39] Il quale sosteneva che le entità (i
concetti) non dovrebbero essere moltiplicate se non per estrema necessità.
[40] Il principio benthamiano costituisce un
nobile tentativo di universalizzare in qualche modo l’utilitarismo.
[41] Cfr. il recente Parsi 2022.
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