lunedì 3 novembre 2025

Ernesto de Martino, il nichilismo e noi. Con postfazione 2025



 







1. In un volume[1] collettaneo di Ernesto de Martino, intitolato Furore, simbolo, valore, si trova un breve articolo intitolato Furore in Svezia, che contribuisce al titolo stesso della raccolta. Il furore cui si fa riferimento è un episodio accaduto nel 1956, durante il capodanno, nel centro di Stoccolma: cinquemila adolescenti abbigliati con giubbe di cuoio si erano scatenati e avevano tenuto la strada, molestando i passanti, rovesciando automobili, frantumando le vetrine ed erigendo barricate. Si ebbero scontri violenti con la polizia, si contarono numerosi feriti e molti arresti. Fenomeni analoghi, seppure di minore intensità, si erano ripetuti in quel periodo, nel fine settimana, nel centro di Stoccolma e in altre città svedesi. Il lettore odierno non fa alcuna fatica ad andare con la memoria a episodi analoghi, anche ben più gravi, accaduti nei tempi successivi, fino ad oggi, sia nel nostro paese sia altrove. Si tratta di episodi violenti che si caratterizzano per la loro apparente assoluta mancanza di senso.

2. Già de Martino osservava: «Si tratta di pure e semplici esplosioni di aggressività senza premeditazione e senza organizzazione, senza capo e senza scopo. Gli episodi di violenza non insorgono per qualche cosa e contro qualcuno: inesplicabilmente, come per un richiamo misterioso, gruppi di adolescenti e di giovani, dai quindici ai vent’anni, senza conoscersi tra loro e nulla avendo in comune tranne l’età, formano banda temporanea ed entrano in furore distruttivo. […] Questi ribelli senza causa non si propongono rapina o vendetta nel senso comune di queste parole: sono mossi da un impulso di annientamento delle persone e delle cose, vogliono ridurre in cenere il mondo, far sfoggio della loro potenza di eversione. Nessun legame interpersonale nasce da tali tempestosi assembramenti, da queste orge di furore: le bande temporanee si sciolgono così come si sono formate, senza lasciare traccia di rapporti oltre la scarica distruttiva».[2]

3. Naturalmente già all’epoca in cui scriveva De Martino erano stati avanzati vari tentativi di spiegazione di questi fenomeni. Egli sottolineava tuttavia la non esaustività delle spiegazioni economiche (i giovani in questione non condividevano la stessa condizione sociale, non si trovavano cioè in situazioni sociali ed economiche particolarmente critiche), come pure delle spiegazioni incentrate sull’eccesso di benessere svedese, oppure sulla solitudine delle alte latitudini dovuta ai ritmi naturali della giornata (freddo, mancanza di luce) e invocava l’esigenza di ricorrere al contributo dell’etnologia e della storia delle religioni per comprendere meglio il fenomeno: «Dal punto di vista dell’etnologia e della storia delle religioni il capodanno di Stoccolma e altri episodi affini perdono il loro carattere più preoccupante di assoluta eccezionalità e si manifestano come un pericolo che tutte le epoche e tutte le civiltà hanno dovuto fronteggiare, con maggiore o minore successo. Questo pericolo è l’angoscioso essere afferrati dalla nostalgia del non-umano, è l’impulso a lasciar spegnere il lume della coscienza vigilante e ad annientare quanto, nell’uomo e intorno all’uomo, testimonia a favore dell’umanità e della storia. […] L’etnologia e la storia delle religioni confermano largamente la tesi secondo cui una delle funzioni fondamentali della civiltà consiste nel controllo e nella risoluzione di ciò che Freud chiamò “istinto di morte”, cioè l’abdicazione della persona come centro di decisione e di scelta secondo valori, la tendenza a cancellare dall’esistenza quanto esiste, la cieca tentazione della eversione e del caos, la nostalgia del nulla».[3]

4. Insomma, de Martino ipotizzava una specie di patologia, propria dell’animale culturale, che consiste giusto nel disancoramento dalla propria cultura (che de Martino considerava un artefatto storico) o, se si preferisce, nel disancoramento dal proprio Mondo, e nella conseguente messa in opera di comportamenti distruttivi nei suoi stessi confronti. In seguito al venir meno del legame con la cultura, che dà forma alla storicità delle varie comunità e che dunque così contribuisce a definire i comportamenti e le identità dei singoli, si spalancherebbe l’abisso primordiale dell’assoluto negativo.

Questa condizione, si badi bene, non ha nulla a che fare con l’istinto meccanico dell’animale, regolato e selezionato per secoli dall’evoluzione, che non ha nulla di distruttivo, ma è una situazione potenziale specifica degli umani, nel cui orizzonte culturale può prendere forma qualunque aberrazione distruttiva, contro qualsiasi cosa abbia un significato culturale compiuto, in termini di limitazione, di coerenza, di convenzione, di durata. Ciò può implicare la distruzione di qualsiasi cosa sia comunemente considerata come dotata di valore. Invece di realizzare se stessi in termini costruttivi, attraverso le diverse forme valoriali che la cultura mette a disposizione, si cerca di costruire e mantenere una propria momentanea identità attraverso la distruzione, più o meno sistematica, del prodotto culturale storico che una società è riuscita a mettere insieme.

Non si tratta dunque di una manifestazione culturale nuova, una qualche forma di cultura critica radicale o alternativa, il tentativo di criticare un qualche valore che istituisce un particolare mondo dell’esserci, ma di un gesto distruttivo nei confronti di quello che c’è, di ciò che è condiviso dalla gran parte dei membri di una società. Si tratta di un gesto semplicemente regressivo che evoca modalità infantili e/o primitive di rapporto con l’oggetto e con gli altri.

5. Questa possibilità, insita nell’animale culturale, si scontrava con l’ottimismo storicistico, professato dallo stesso De Martino, secondo il quale, la storia sarebbe il campo della realizzazione costruttiva, o dell’ethos del trascendimento – come egli si esprimeva attraverso il suo linguaggio fenomenologico esistenzialistico. Il furore è dunque un comportamento del tutto possibile per l’animale uomo, un comportamento attraverso il quale l’uomo non riconosce più il proprio stesso patrimonio culturale e lo vandalizza e devasta. Un comportamento determinato da una sorta di affermazione di sé attraverso la produzione del caos, attraverso lo scoperchiamento del nulla, il bisogno di mostrare il nulla che abita sotto la sovrastruttura culturale, di vanificare come illegittimo qualsiasi ordine di valore instaurato. Insomma, la disgregazione al posto della realizzazione costruttiva.

6. De Martino osservava, nel suo articolo, che nelle società arcaiche e nelle civiltà del mondo antico l’abisso primordiale che inevitabilmente si rivela quando viene meno l’identificazione basilare con la propria cultura era ben noto. Esso era considerato come qualcosa di molto pericoloso, tanto che veniva circoscritto e ritualizzato. Egli fa l’esempio del capodanno babilonese, oppure dei Saturnali romani, oppure ancora delle tradizioni carnevalesche.

Così racconta de Martino: «Nel capodanno babilonese il rito disfaceva il tempo trascorso nell’anno spirante, cancellava per così dire la storia che si era accumulata, ed esprimeva un regresso all’epoca mitica delle origini, quando il caos dominava e il cosmo non era ancora stato fondato. In rapporto a questo schema tecnico il rito comportava aspetti di distruzione e di annientamento dell’ordine sociale vigente, come l’umiliazione e l’abbassamento della stessa potenza regale, la simbolica trasformazione degli schiavi in padroni, la violenta eliminazione dei mali fisici e morali contratti nel corso dell’anno spirante, e infine la instaurazione dell’indistinzione originaria del caos. Ma il rito includeva anche l’opposto momento della reintegrazione dell’ordine, e del ripristino dei valori sociali e morali: veniva infatti rappresentata la lotta dell’eroe Marduk contro il mostro marino Tiamat, con la vittoria finale dell’eroe e la fondazione primordiale del cosmo. In tal modo lo schema mitico - rituale del capodanno babilonese consentiva all’impulso di morte di manifestarsi attraverso eversioni e inversioni annientatrici dell’ordine vigente: ma gli impulsi distruttivi non erano fatti valere sul piano realistico, ma su quello simbolico del rito, e soprattutto la vicenda riceveva il suo senso dalla ripetizione del dramma della creazione e della reintegrazione di un ordine nuovo senza macchia, uscito per la prima volta dal caos».[4]

Carattere comune di questi espedienti di manipolazione del nulla e di reintegrazione del significato, di questi artefatti culturali di morte e rinascita, sono la durata circoscritta nel tempo, la cancellazione temporanea dei ruoli e delle barriere sociali, lo scatenamento emozionale, il sacrificio o la distruzione di qualche entità simbolica, la narrazione di miti legati alla questione dell’ordine e del disordine, la reintegrazione dell’ordine. Insomma, si tratta di un modo per evocare l’abisso senza farsene travolgere, un modo per circoscriverlo e per produrre una reintegrazione culturale.

7. In mancanza di una capacità diffusa di reintegrazione, può sopravvenire il fascino del nulla, il nichilismo. Così De Martino aveva interpretato la crisi culturale del periodo del secondo dopoguerra. «È da tempo che una cupa invidia del nulla, una sinistra tentazione da crepuscolo degli dèi dilaga nel mondo moderno come una forza che non trova adeguati modelli di risoluzione culturale, e che non si disciplina in un alveo di deflusso e di arginamento socialmente accettabile e moralmente conciliabile con la coscienza dei valori umani faticosamente conquistata nel corso della millenaria storia di Occidente».[5]

8. De Martino dunque ci avverte che le culture, tutte le culture, anche le più complesse, sono estremamente fragili, che la connessione che si stabilisce tra i corpi biologici e il patrimonio culturale che vien costantemente elaborato e accumulato è estremamente labile, che la cultura, la quale ha il compito di dirigere attraverso i propri valori il comportamento umano, è in fondo un costrutto artificiale, un prodotto non necessario della storia, che avrebbe potuto essere completamente diverso da quello che ci ritroviamo. Si tratta di una forma di rappresentazione o, se si preferisce, addirittura di una illusione, come direbbero volentieri diversi filosofi continentali. Ammesso che così sia, si tratta tuttavia di un’illusione necessaria, poiché quello che siamo in quanto umani è esattamente il costrutto culturale che siamo in grado di produrre e di mantenere, senza farci troppo ammaliare dal fascino dell’abisso.

 

 

postfazione 2025 

1. Lo scritto antropologico di Ernesto De Martino, che ho testé presentato e analizzato, ha ben poco a che fare con la tradizione continentale che si è occupata del nichilismo in quanto categoria filosofica. Mi riferisco alla tradizione che ha tra i suoi esponenti principali Nietzsche ed Heidegger, seguiti da una schiera di epigoni. Dato che De Martino, nel suo saggio sul nichilismo, ha preso le mosse dalle manifestazioni del disagio giovanile degli anni Cinquanta, ho pensato di metterlo a confronto con Umberto Galimberti, un rispettabile seguace di Nietzsche e Heidegger, che ha trattato anch’egli della tematica del rapporto tra il nichilismo e i giovani. Credo che il raffronto possa risultare piuttosto utile, anche al fine di chiarire alcuni concetti fondamentali riguardanti il ruolo delle marche emotive e del simbolismo nella costruzione della coscienza collettiva e dell’ordine morale della società. Ciò mi permetterà, indirettamente, di distinguere tra quel che è la teoria sociale, invero oggi piuttosto misconosciuta, e quel che sono certe favole filosofiche che sono invece piuttosto di moda.

2. De L’ospite inquietante[6] – che porta come sottotitolo Il nichilismo e i giovani – di Galimberti mi sono occupato fin dal 2007, quando il volume è uscito. Questo perché lo scritto possiede almeno due livelli di lettura. Il primo è quello dell’instant book sui problemi della condizione giovanile, dove si compiono diverse analisi e considerazioni a partire dai fatti di cronaca e dalla ricognizione di vari elementi empirici relativi al disagio e alla violenza giovanile.[7] A quell’epoca era questo il livello che mi aveva soprattutto interessato, poiché ero allora impegnato in una ricerca sociologica sui giovani. Il secondo livello di lettura, quello più sottile e forse più sfuggente, riguarda invece proprio la questione filosofica del nichilismo. Nell’impianto del saggio di Galimberti, il concetto teorico filosofico del nichilismo – com’è stato elaborato da Nietzsche e Heidegger – viene ampiamente utilizzato in termini esplicativi per dar ragione del disagio giovanile e per proporre addirittura una soluzione che dovrebbe condurre oltre il nichilismo. Qui, indubbiamente, la filosofia si fa antropologia, sociologia, psicologia e soprattutto tecnica terapeutica per curare i mali del mondo. Più volte, nel suo scritto, Galimberti manifesta una certa sufficienza nei confronti delle scienze umane che – in quanto scienze – sarebbero incapaci di fare effettivamente fronte ai problemi dei quali si occupano. Più efficace sarebbe, appunto, la filosofia, almeno quella che intende Galimberti. Questo secondo piano di lettura è quello di cui mi occuperò in questa sede.

3. Non mi occuperò quindi della questione effettiva del disagio giovanile e/o della violenza insita in taluni comportamenti giovanili, argomenti di cui comunque è pervaso il libro di Galimberti, a proposito dei quali va comunque riconosciuto che egli è in grado di fare una miriade di osservazioni senz’altro intelligenti e interessanti. Mi occuperò piuttosto della teoria filosofica sottostante e quindi, indirettamente, dell’annosa questione dell’uso possibile delle teorie filosofiche a fini terapeutici. Vedremo purtroppo come la terapia proposta da Galimberti finisca per costituire essa stessa una delle cause, forse la più importante, della malattia che egli intende curare.

4. Dati i miei scopi, del saggio di Galimberti esaminerò qui soprattutto l’introduzione e le conclusioni. Fin dalle prime battute, Galimberti propone la sua versione del nichilismo: «[…] i giovani, anche se non sempre ne sono consci, stanno male. E non per le solite crisi esistenziali che costellano la giovinezza, ma perché un ospite inquietante, il nichilismo, si aggira tra loro, penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive ed orizzonti, fiacca la loro anima, intristisce le passioni rendendole esangui».[8]

Galimberti dice con chiarezza che il disagio di cui parla è di natura culturale: «E questo perché se l’uomo, come dice Goethe, è un essere volto alla costruzione di senso (Sinngebung), nel deserto dell’insensatezza che l’atmosfera nichilista del nostro tempo diffonde il disagio non è più psicologico, ma culturale. E allora è sulla cultura collettiva e non sulla sofferenza individuale che bisogna agire, perché questa sofferenza non è la causa, ma la conseguenza di un’implosione culturale di cui i giovani, parcheggiati nelle scuole, nelle università, nei master, nel precariato, sono le prime vittime».[9]

5. Insomma, abbiamo ormai una catastrofe culturale alle spalle e la condizione odierna dei giovani sarebbe soltanto una conseguente manifestazione di quanto è già accaduto. Se questo fosse vero, ogni questione di rimedi sarebbe fuor discussione: «Se il disagio giovanile non ha origine psicologica ma culturale, inefficaci appaiono i rimedi elaborati dalla nostra cultura, sia nella versione religiosa perché Dio è davvero morto, sia nella versione illuminista perché non sembra che la ragione sia oggi il regolatore dei rapporti tra gli uomini, se non in quella formula ridotta della “ragione strumentale” che garantisce il progresso tecnico, ma non un ampliamento dell’orizzonte di senso per la latitanza del pensiero e l’aridità del sentimento. Le pagine di questo libro non indicano un rimedio di facile ed immediata attuazione. E già questa ammissione di impotenza la dice lunga sulla natura del disagio che, lo ripeto, non è esistenziale ma culturale».[10]

Mi permetto di osservare en passant che le teorie che individuano nella storia un qualche peccato originale funzionano tutte più o meno così. Si tratta anzitutto di individuare dove e quando è avvenuto il fattaccio che a tutt’oggi ci condiziona da vicino e ci impedisce di essere quel che vorremmo o dovremmo essere. Dopo avere fatto con sicurezza la diagnosi, si tratterebbe allora di cercare un rimedio, a proposito del quale, tuttavia, si può essere anche piuttosto vaghi e possibilisti. Ci si può anche limitare a evocare vaghe speranze. Ad aspettare qualche forma di salvazione. O a concludere che non c’è più niente da fare.

6. Nel caso di Galimberti e del nichilismo, la diagnosi è piuttosto precisa: in estrema sintesi è tutta colpa della ricerca esasperata di un senso, la quale ricerca è in corso non da ieri, ma fin dagli inizi della tradizione giudaico cristiana. Più o meno, si tratterebbe di un problema che sussiste fin dagli albori della civiltà, o fin dalla creazione biblica, per quelli che la considerano seriamente.

Nonostante il fatto che la questione, messa così, assuma decisamente una prospettiva epocale cosmico storica, Galimberti, con un guizzo creativo, prospetta comunque il suo rimedio: «E se il rimedio fosse altrove? Non nella ricerca esasperata di senso come vuole la tradizione giudaico-cristiana, ma nel riconoscimento di quello che ciascuno di noi propriamente è, quindi della propria virtù, della propria capacità, o, per dirla in greco, del proprio daimon che, quando trova la sua realizzazione, approda alla felicità, in greco eudaimonia? In questo caso il nichilismo, pur nella desertificazione di senso che porta con sé, può segnalare che a giustificare l’esistenza non è tanto il reperimento di un senso vagheggiato più dal desiderio (talvolta illimitato) che dalle nostre effettive capacità, quanto l’arte del vivere (téchne tou biou) come dicevano i Greci, che consiste nel riconoscere le proprie capacità (gnothi seauton, conosci te stesso) e nell’esplicitarle e vederle fiorire secondo misura (katà métron). Questo spostamento dalla cultura cristiana a quella greca potrebbe indurre nei giovani quella gioiosa curiosità di scoprire se stessi e trovar senso in questa scoperta che, adeguatamente sostenuta e coltivata, può approdare a quell’espansione della vita a cui per natura tende la giovinezza e la sua potenza creativa».[11]

7. Galimberti avanza dunque l’ipotesi (invero piuttosto azzardata) che la ricerca del senso (che secondo lui è caratteristica specifica non degli umani in generale bensì della tradizione culturale giudaico cristiana) potrebbe essere la causa principale stessa del disagio nichilistico, non solo dei giovani attuali, a questo punto, ma dell’intero Occidente. Stiamo male proprio perché siamo costantemente alla ricerca del senso. Il nichilismo che ci attanaglia sarebbe solo la conseguenza estrema della nostra malata ricerca del senso. L’interpretazione di Galimberti qui segue ovviamente Nietzsche più o meno alla lettera.

In alternativa alla prosaica ricerca del senso, destinata a non avere alcuna soddisfazione, destinata anzi a generare proprio il nichilismo, Galimberti propone un ritorno ai Greci. La cosa suona, a prima vista, davvero un poco bizzarra, poiché, per la maggior parte delle persone appena un po’ acculturate, la tradizione giudaico cristiana, è nota proprio per avere incorporato la cultura greca. Dunque la perniciosa “ricerca esasperata di senso” si sarebbe manifestata fin da subito anche e soprattutto presso i Greci. Del resto, la filosofia occidentale, nella comune accezione, si è sempre occupata della ricerca del senso. Fin dai filosofi presocratici.

8. Ma allora, cosa vuol dire Galimberti? Di quali Greci sta parlando? Galimberti è piuttosto ambiguo, poiché parla di un non ben precisato daimon che i giovani dovrebbero imparare a scoprire dentro di sé e a coltivare. Cosa è l’arte del vivere di cui parla? Come dobbiamo intendere lo gnothi seauton? Apparentemente, il discorso di Galimberti sembrerebbe essere di tipo socratico, ma allora non avrebbe senso contrapporlo così decisamente alla cultura giudaico cristiana. In realtà Galimberti ha in mente una ben precisa interpretazione anti cristiana (e antisocratica) della cultura dei Greci, cioè quell’interpretazione alquanto discutibile che ha origine nella romantica Nascita della tragedia di Nietzsche e che poi si è sviluppata, attraverso la filosofia continentale successiva, in Heidegger e nei suoi epigoni.[12] Il recupero del daimon interiore, la pratica dell’arte di vivere, la condanna della ricerca del senso, fanno più che altro riferimento a Dioniso, che per Nietzsche era l’antagonista per eccellenza di Socrate. Il lato alternativo alla cultura greca ufficiale.

9. Solo sotto la luce nera di Dioniso si comprendono, nel fraseggio di Galimberti, “la gioiosa curiosità di scoprire se stessi”, l’ “espansione della vita” e la “potenza creativa” della giovinezza. L’unico elemento, tra quelli citati, che sarebbe estraneo al dionisiaco è il katà métron, che è senz’altro una concessione al socratismo. Qualsiasi misura, infatti, implica, di già, la definizione di un qualche senso. Forse si tratta di un’allusione a quello che, secondo Nietzsche, sarebbe stato il breve momento miracoloso della sintesi tragica tra apollineo e dionisiaco. Galimberti recupererà, nel seguito delle sue argomentazioni, proprio i tratti salienti di una analoga sintesi, o avvento di una condizione di equilibrio instabile, che egli ritrova nelle nozioni da lui proposte del nomadismo e dell’etica del viandante. Cioè, di un pensiero e di un’etica capaci di operare senza alcun punto fisso di riferimento.

Noi nel nostro piccolo avevamo sempre pensato, invece, che coloro che son colpiti dal nichilismo avessero per lo meno bisogno, per uscirne, di qualche punto fisso di riferimento. O al più rimpiangessero di non averne uno. Come ognun vede, quella di Galimberti costituisce un’indicazione piuttosto paradossale, e cioè di procedere a un alleggerimento della cultura, proprio in un’epoca nella quale avremmo decisamente bisogno di più cultura. Un invito a lasciar andare via anche quel poco di senso che c’è rimasto, convinti che l’epoca del senso sia ormai irrimediabilmente finita e, soprattutto, convinti che nel flusso del pensiero e dell’etica nomade staremo tutti senz’altro meglio.

10. Si tratta dunque, secondo Galimberti, di sostituire, alla ricerca considerata ormai vana e superata del senso della vita, una nuova nozione – che a noi parrebbe invero più romantica che greca – della vita come arte totale. Non tuttavia di un’arte meccanica si tratta, e neanche intellettuale, bensì di un’arte intesa come espressione di sé, ove soltanto si potrebbe realizzare il miracoloso equilibrio nomade tra daimon e métron. C’è un punto che a mio modesto avviso va precisato. Tutti coloro che fanno proposte simili, che credono fortemente nella vita come espressione, tendono a dare per scontato di aver dentro una incomparabile ricchezza nascosta, che stia lì, solo ad aspettare di venir fuori. Si tratta solo di togliere via gli impedimenti. In una versione democratica di queste teorie, tutti sarebbero egualmente ricchi di queste mirabili risorse interiori, dunque ci sarebbe abbondanza di speranza per tutti.

Per cui siamo spinti a concludere che la proposta terapeutico – culturale di Galimberti, proprio per i suoi presupposti, non può che risultare del tutto inconsistente. A chi manifesta o denuncia, più o meno consapevolmente, di avere il vuoto dentro, Galimberti sembra prescrivere qualcosa come: «Esprimi quello che hai dentro». O, peggio: «Diventa quello che sei». Quello che hai dentro, oppure quello che sei allo stato originario – a meno che tu non pensi di essere un Dio – altro non è se non il coacervo magmatico delle emozioni, l’istinto di branco dell’animale, il complesso disparato di tutti gli impulsi grezzi, come questi sono prima che siano resi consapevoli ed educati in un contesto culturale qualsiasi. Il risultato di simili prescrizioni, un effetto perverso vero e proprio, non può essere allora altro che proprio il furore di cui parlava De Martino. La terapia culturale proposta da Galimberti potrebbe alimentare e aggravare la malattia culturale stessa che invece egli intenderebbe curare.

11. La strada proposta da Ernesto De Martino è decisamente un’altra. Il nichilismo, lo sprofondamento nel nulla, è un pericolo esistenziale cui è continuamente esposto l’animale culturale umano. Questo accade perché sotto la coperta della cultura – la sola che ci rende quel che siamo – c’è solo la nostra natura animale, positiva e pregevole fin che si vuole, ma pur sempre animale. Quando, per qualche motivo estrinseco, si affloscia l’orizzonte di senso che ci viene dalla cultura – allora perdiamo la storicità, perdiamo cioè il fine, perdiamo il senso dei valori, il senso del nostro impegno nella società e il senso della nostra prassi nella storia. Perdiamo la nostra stessa individualità. Non sappiamo più donde veniamo, chi siamo, dove andiamo. È questo un rischio costante cui l’animale uomo è da sempre sottoposto, poiché esso è – appunto – l’animale culturale per eccellenza. Occorre allora esser consapevoli di questa specifica condizione umana e procedere, di conseguenza, a un’opera costante di reintegrazione, cioè a una opera di manutenzione dei rapporti che intercorrono tra la nostra parte culturale e sociale (quella che è stata definita come l’altro generalizzato[13]) e la nostra parte animale (la natura di cui facciamo indissolubilmente parte).

12. Questa manutenzione dei rapporti tra natura e cultura, dice De Martino, non può limitarsi a essere di tipo meramente individuale, perché andando a scavare nella carne della nostra natura individuale, troveremo sempre e soltanto lo stesso nulla che vi trovano tutti. O, se vogliamo, potremmo trovare quelle poche cose elementari che l’evoluzione ha fatto per noi.[14] La manutenzione del rapporto natura/ cultura non è dunque un fatto privato e personale, deve invece passare necessariamente attraverso i rituali collettivi della cultura stessa. La reintegrazione non può che avvenire attraverso la dimensione simbolica, che è sempre culturale e collettiva, anche quando viene interiorizzata dai singoli. Anche quando ce ne dimentichiamo.

13. L’emersione del vuoto nelle nostre vite, cosa che talvolta ineluttabilmente avviene, non è dovuta all’ospite inquietante di Galimberti, nato dalla tracotanza assiologica giudaico cristiana risalente a svariati secoli or sono. È dovuta alla nostra fortuita e sopravvenuta incapacità nell’uso dei rituali collettivi di reintegrazione a livello simbolico.[15] De Martino, riferendosi alle società semplici, parla in tali casi di cerimonie tribali, parla del carnevale o dei Saturnali. Trasferendo tuttavia l’equivalente di questi rituali nella nostra società occidentale, complessa e tecnologica, i problemi si complicano. Perché cose come il rischio della presenza e la perdita della storicità assumono aspetti del tutto nuovi e imprevisti. E di enorme portata. E così, oggi, l’esigenza dei rituali di reintegrazione si presenta in forma allargata e totalmente nuova. Rispetto alle società primitive, i problemi che abbiamo oggi hanno a che fare in gran parte con l’affievolimento (o la complicazione) dei rituali collettivi in presenza, quelli che chiamiamo face to face. Sono questi i rituali della vita quotidiana di cui ha ampiamente trattato l’interazionismo simbolico. E questi hanno a che fare, anche e soprattutto, con varie forme di sconnessione, nella nostra esperienza, tra le marche simboliche e le marche emotive. È bene ricordare che le marche emotive sono proprio quelle che – dentro di noi – regolano il rapporto tra natura (il corpo) e cultura (il simbolismo collettivo).

14. È da notare che la sconnessione tra l’emotivo e il simbolico si presta a essere molto più frequente in una società complessa piuttosto che in una società semplice. Nelle società semplici difficilmente si sfugge alla mobilitazione delle emozioni intorno al patrimonio simbolico riconosciuto immediatamente da tutti a livello locale. Nelle società complesse, invece, il simbolismo acquista un volume e una autonomia enormi e così può accadere che la dimensione emozionale, collettiva e individuale, venga facilmente sconnessa, oppure possa anche trovare una moltitudine di connessioni improprie.

Basti ricordare come l’isolamento forzato del covid abbia fatto scoprire, a una moltitudine di studenti, solitamente distratti da mille cose, l’essenzialità del rapporto in presenza con gli insegnanti e con la propria classe. Basti ricordare che, di fronte alla crescita degli episodi di violenza tra i giovani, da più parti si richiede l’adozione di una sorta di educazione affettiva, obbligatoria e gestita dalla scuola pubblica. Oppure si ricordi la devastazione operata dagli smartphone, nell’ambito dei rapporti face to face, nei confronti di intere nuove generazioni, come è stato comprovato dagli ormai celebri lavori di Twenge e Haidt. Oppure, ancora, si pensi ai danni colossali per la democrazia causati dal progressivo affievolimento dei rituali formali e informali della partecipazione politica. Ma va notata anche la comparsa di nuovi rituali collettivi decisamente perniciosi – che si servono magari anche delle nuove tecnologie – come quelli del razzismo o del populismo, o di movimenti demenziali come QAnon.

15. Si tratta allora di prendere consapevolezza, di comprendere fino in fondo, anche nel dettaglio delle micro interazioni, come avvenga effettivamente la sempre avventurosa e mai garantita costruzione dei legami sociali e culturali, quei legami che – soltanto loro – sono in grado di tenere a bada il nichilismo, cioè il vuoto di senso. Come avvenga la costituzione stessa della società come entità morale (il termine è di Durkheim). E quali siano invece le forze disgregatrici cui le società vecchie e nuove, sono sottoposte. Le risposte dell’antropologia culturale, della psicologia sociale, della sociologia e della linguistica sono ormai abbastanza chiare e convergenti. Sulla linea di De Martino, disponiamo oggi di una tradizione teorica che comprende figure decisive come Durkheim, Mauss, GH Mead, Merton, Geertz, Goffman, Douglas, Collins, solo per citarne alcune Abbiamo dunque ormai un’ampia disponibilità di elementi di teoria sociale con cui possiamo effettivamente affrontare i problemi della costruzione del senso, della solidarietà sociale e delle identità collettive. Evitando accuratamente i danni dei deragliamenti nichilisti alla Galimberti. Qui, per esser questa una postfazione, non mi posso dilungare oltre. Se ci sarà qualche interesse, avrò modo eventualmente di tornare su queste tematiche.

Giuseppe Rinaldi (14/10/2012 – rev. 3/11/2025)

 

OPERE CITATE

1962 De Martino, Ernesto, Furore, simbolo, valore, Feltrinelli, Milano.

2007 Galimberti, Umberto, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano.

 

NOTE

[1] Il suggerimento di procedere alla pubblicazione di questo saggio è nato nell’ambito di una discussione, presso Città Futura, ove era emersa l’esigenza di meglio comprendere i fenomeni, sempre più dilaganti e preoccupanti, del disagio individuale, della aggressività e della violenza. Spero che, con tutti i suoi limiti, esso possa fornire un qualche utile contributo. Questo saggio è stato da me originariamente pubblicato sul sito Finestre rotte il 14/10/2012, con il titolo de L’illusione necessaria. Ha poi subito alcuni rimaneggiamenti, fino alla versione che qui presento, con una nuova titolazione, meno metaforica e più aderente al contenuto. Alla nuova versione mi è sembrato utile aggiungere una postfazione, relativamente ampia, che ha come principale oggetto il confronto tra la nozione del nichilismo demartiniano con quella, opposta, del nichilismo filosofico, come trattato nell’ambito della tradizione nicciano - heideggeriana. In questo confronto mi sono servito del saggio L’ospite inquietante di Umberto Galimberti. In calce, ho inserito qualche breve considerazione sui rituali collettivi di reintegrazione come sono oggi concepiti e concepibili nell’ambito delle scienze umane. Nella scrittura non ho utilizzato strumenti di AI.

[2] De Martino, 1962: 225-226.

[3] De Martino, 1962: 227.

[4] De Martino, 1962: 228.

[5] De Martino, 1962: 231.

[6] Cfr. Galimberti 2007.

[7] All’epoca, l’opinione pubblica era stata scossa dai famosi lanci di sassi dal cavalcavia, azione altrettanto priva di senso delle devastazioni di Stoccolma di cui parla De Martino.

[8] Cfr. Galimberti 2007: 11.

[9] Cfr. Galimberti 2007: 12.

[10] Cfr. Galimberti 2007: 13.

[11] Cfr. Galimberti 2007: 14. Le traslitterazioni dal greco sono di Galimberti stesso.

[12] Che questo sia esattamente ciò che ha in mente Galimberti è piuttosto inequivocabile. Soltanto per brevità evito di esaminare, per filo e per segno, tutto il testo, del quale peraltro ho prodotto una ampia schedatura. A testimoniare dell’ispirazione nicciana in questo testo sta il fatto – dettaglio curioso ma significativo – che  il penultimo capitolo sia dedicato alle emozioni e alla musica.

[13] Si tratta di un concetto elaborato nell’ambito dell’interazionismo simbolico.

[14] L’uomo, proprio perché è destinato evolutivamente ad avere necessariamente una cultura, è solo debolmente determinato e vincolato dal patrimonio istintivo genetico.

[15] Durkheim, nel suo noto saggio sul Suicidio, ha introdotto la nozione di anomia, che non cessa di essere discussa e utilizzata, seppure con modifiche e aggiornamenti.

 





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lunedì 15 settembre 2025

Identità e definizioni (2007-2025)



Introduzione

1. Identità[1] è una delle parole più inflazionate dei nostri tempi. Tutti vogliono avere un’identità. Una volta che si ritenga di avere una qualsiasi identità, tutti cercano di difenderla e preservarla. Si parla d’identità individuale, d’identità collettiva, si progettano scissioni politiche in nome dell’identità. Anche i massacri etnici sono stati spesso condotti in nome dell’identità. Cos’è dunque l’identità? A dispetto della grande diffusione del termine, non sembra siano stati fatti molti sforzi per definirla. L’identità rischia così di diventare una specie di concetto ombrello destinato a veicolare i significati più disparati. L’aumento d’interesse che si è registrato negli ultimi tempi per questi temi e lo sviluppo di alcuni recenti dibattiti sull’identità, in ambito politico e storiografico, non hanno contribuito a sciogliere le ambiguità, hanno anzi finito per aggrovigliare ancora di più il problema. L’identità è indubbiamente un concetto di frontiera, che può essere affrontato solo mettendo in contatto discipline anche assai lontane e poco disponibili a frequentarsi. Eppure, alcune semplici distinzioni potrebbero cominciare a spazzar via le ambiguità più macroscopiche e a permettere un modesto salto di qualità in termini di precisione semantica, di utilizzabilità e di analisi critica del concetto.

 

Identità e neuroscienze

2. Dell’identità si sono occupate svariate discipline. I filosofi hanno affrontato la questione dal loro punto di vista, indagando intorno a entità come l’anima, l’io, la coscienza o il soggetto. Gli psicologi, studiando il problema della personalità e del sé. Politologi, sociologi, antropologi e storici hanno trattato dell’identità riferendosi a entità sovra individuali, come gruppi, classi, etnie o nazioni. Di fronte a un panorama così variegato, l’utilizzabilità del concetto di identità si gioca sulla possibilità di andare oltre, anche drasticamente, alla pluralità delle prospettive strettamente disciplinari per identificare un nucleo chiaro e distinto di significato. Un solido riferimento fondativo può essere costituito dai recenti progressi avvenuti nell’ambito delle scienze cognitive. I risultati delle neuroscienze, della psicologia evoluzionistica, unitamente ad alcune analisi filosofiche nel campo dei modelli della mente si stanno imponendo sempre più come riferimenti imprescindibili per qualsiasi tentativo di definire l’identità. Certo, si tratta di risultati che lasciano ancora aperte molte questioni ma, per intanto, contribuiscono anche a chiuderne definitivamente delle altre.

3. In termini generali, a partire dai risultati delle discipline che abbiamo citato, è sempre più chiaro che corpo e cervello formano un tutto indissolubile e che il fenomeno che chiamiamo mente può essere spiegato in base alle funzioni svolte da vari sottosistemi o moduli del cervello. Per spiegare la mente si fa sempre meno ricorso a un qualche organo supremo d’integrazione delle parti: tutte le ipotesi basate sulla suprema regia di qualche homunculus sono state respinte dai dati sperimentali. Se c’è qualcosa come l’identità, occorre riconoscere che questa in primis è resa possibile e prodotta dai sottosistemi della mente, nell’ambito di un cervello. E ciò vale anche quando si riferisce a entità sovra individuali, come identità etniche, nazionali o religiose.

Si è recentemente assistito, nell’ambito delle neuroscienze, all’elaborazione di svariati modelli della mente, tendenzialmente convergenti perché sempre più vincolati ai risultati sperimentali. Per i nostri scopi, faremo riferimento a uno di questi modelli, quello di Antonio Damasio, che ha il pregio di fondarsi su recenti evidenze empiriche e di essere stato costruito con una notevole sensibilità teorica e filosofica. Come tanti altri modelli di questo genere, presenta un complesso di funzioni mentali, stratificate dalla più semplice alla più complessa e interagenti tra di loro. Nel seguito di questo paragrafo saranno presentati quegli elementi del modello della mente di Damasio che possono essere utili per la definizione dell’identità.

4. Nel modello di Damasio, il livello più elementare, che peraltro non riveste particolare importanza per il nostro discorso, è costituito dal proto-sé. È la funzione che governa lo stato dell’organismo biologico ed è automatico e inconsapevole (com’è inconsapevole il fatto di respirare). In altre parole, il proto-sé è una dimensione, assai vicina al livello biologico, che opera prima di qualunque consapevole percezione. Il secondo livello, che Damasio ha chiamato coscienza nucleare, è costituito da una specie di coscienza percettiva elementare che ha per oggetto le immagini[2] sensoriali. È interessante considerare come, nell’organizzazione modulare del cervello proposta da Damasio, sia proprio la produzione o la riproduzione delle immagini sensoriali a indurre la coscienza nucleare e non viceversa. La coscienza nucleare, in altri termini, costituirebbe un sottoprodotto del funzionamento dei moduli che elaborano l’informazione sensoriale. La coscienza nucleare risulterebbe così del tutto istantanea, appiattita sulle percezioni presenti e completamente priva di storia. In un certo senso, potrebbe essere considerata come uguale in tutti gli esseri umani. Probabilmente una simile forma di coscienza è presente anche in molti animali.

A un terzo livello abbiamo la coscienza estesa. Nella coscienza estesa, l’insieme delle immagini sensoriali prodotte dai singoli moduli è elaborato e contestualizzato, cioè messo in rapporto con la memoria delle immagini accumulata in precedenza. La coscienza estesa è generata nell’ambito della memoria operativa, una funzione che è in grado di mantenere attive, per un tempo limitato, diverse immagini sensoriali e di operare su di esse allo scopo di produrre una serie di risultati. In funzione delle esigenze di elaborazione, sono trasferiti nella memoria operativa anche gli schemi operativi appresi in passato e le immagini sensoriali depositate nella memoria a lungo termine.

Nell’ambito della coscienza estesa si produrrebbe il fenomeno della consapevolezza di sé o autocoscienza. Ciò avviene quando la coscienza nucleare viene associata alle attività che hanno luogo nella memoria operativa: in sostanza, invece di produrre una coscienza associata a una immagine sensoriale, viene in tal caso prodotta la coscienza dell’attività di elaborazione che sta avvenendo nella memoria operativa.

È importante considerare che il volume di immagini sensoriali che possiamo tenere in mente contemporaneamente è assai limitato e così pure è limitata la durata della loro evocazione (da qualche decimo di secondo a qualche decina di secondi). Questo è il motivo per cui la memoria operativa è sempre costretta a operare in successione, richiamando più volte in memoria, sommariamente, tutti i contenuti necessari. Solo attraverso l’elaborazione successiva delle immagini, possiamo sviluppare la percezione soggettiva del tempo. Nello stesso modo possiamo anche anticipare immagini future. Come vedremo, la continuità temporale è considerata come una delle caratteristiche più importanti dell’identità.

5. Agli effetti di un’indagine sull’identità è importante considerare quale sia la natura delle immagini contenute nella mente. La memoria a lungo termine non va concepita come un magazzino: secondo Damasio, i contenuti della memoria a lungo termine vanno intesi come delle funzioni di ricostruzione, cioè come rappresentazioni disposizionali. Senza entrare nei dettagli, ciò significa che tutto ciò che apparentemente “ricordiamo” viene, in effetti, ricostruito nuovamente attraverso gli stessi canali sensoriali che avevano generato la rappresentazione originaria (e che in tal caso funzionano, in un certo senso, come degli organi di simulazione). La memoria di un volto visto in passato, ad esempio, non sta in alcun deposito visivo. È ricostruita tramite gli stessi apparati cerebrali che ci permettono di percepire i volti.

L’insieme di tutte le immagini sensoriali che siamo ipoteticamente in grado di ricostruire viene chiamato da Damasio memoria autobiografica. Non è mai possibile tuttavia attivare contemporaneamente, nella memoria operativa, tutte le rappresentazioni disposizionali di cui siamo capaci (anche perché queste, spesso, sono attivate dal contesto). Ciò significa che, di volta in volta, riusciamo a mettere a fuoco sempre e soltanto una minima parte del nostro sé autobiografico. Possiamo qui in proposito utilizzare la nota metafora della “mente come faro”: nel momento in cui focalizziamo un aspetto del nostro sé autobiografico, mettiamo in secondo piano tutti gli altri. L’immediata e totale consapevolezza del nostro sé autobiografico è impossibile. Kant aveva già espresso un’opinione assai simile.

6. Per completare gli elementi essenziali del modello, occorre aggiungere che le rappresentazioni disposizionali non hanno solo una natura cognitiva, ma hanno anche una natura emotiva. Damasio ha introdotto, a questo proposito, la nozione cruciale di marca somatica. Il cervello monitora costantemente, nel corso della nostra esperienza, i nostri stati interni e genera sensazioni di piacere e di dolore, oppure, in maniera più complessa, genera le nostre emozioni. In tal modo tutte le immagini sensoriali che entrano nella nostra memoria a lungo termine recano associata una marca somatica specifica, una specie di qualificazione emotiva che riveste un ruolo fondamentale nell’elaborazione successiva dell’informazione, nelle decisioni, nella fondazione dei valori. Molti risultati sperimentali presentati da Damasio hanno dimostrato la sussistenza di una profonda integrazione tra l’emotività e le funzioni cognitive superiori. Quest’acquisizione pare ormai irrefutabile.

 

L’identità individuale

7. Identità personale. Possiamo ora domandarci come si debba riformulare la nozione generica dell’identità, tendendo conto dei vincoli di un modello della mente e del cervello come quello di Damasio. L’identità coincide evidentemente con il costrutto, realizzato e mantenuto attivo nell’ambito della coscienza estesa, che si origina quando la memoria operativa elabora una parte dei contenuti del sé autobiografico. Possiamo chiamare questo costrutto identità personale, ovvero l’identità personale qui ed ora. In altri termini si ha identità personale quando, nella mente, si produce una qualche specifica seppur momentanea e transitoria autorappresentazione dell’individuo stesso. La continuità dell’identità personale è costituita per lo più dalla coerenza delle successive autorappresentazioni che avvengono all’interno della memoria operativa. Si tratta dunque di un costrutto continuamente riprodotto, che ha una continuità temporale precaria, soggetto a mutamenti e variazioni tra un’evocazione e l’altra e influenzato fortemente dalle diverse situazioni contingenti, dalle diverse mutevoli focalizzazioni. Abbiamo così l’impressione di una continuità della nostra identità, anche se questa è una successione di stati particolari che mettiamo a fuoco di volta in volta. L’identità personale, com’è già stato rilevato, è limitata fortemente dalla capacità di elaborazione simultanea della memoria operativa.

8. Se la nostra identità personale si basasse solo su questi fuggevoli costrutti sarebbe davvero una ben debole e vaga identità. Allo scopo di sfuggire ai limiti di elaborazione della memoria di lavoro, spesso i vari aspetti dell’identità personale sono espressi attraverso una sintesi linguistica, oppure mediante il ricorso a rappresentazioni simboliche di qualche genere. Queste formulazioni linguistico-simboliche, dopo essere state prodotte (sempre attraverso elaborazioni e rielaborazioni successive nell’ambito della memoria operativa), possono a loro volta essere memorizzate e richiamate, come tanti spezzoni di identità. Così nella nostra limitata memoria di lavoro, all’occorrenza, possiamo richiamare delle sintesi, espresse in forma linguistico-simbolica, delle nostre esperienze passate, della nostra condizione presente. Nello stesso modo possiamo produrre delle simulazioni concernenti i nostri scopi e progetti futuri. In questo modo l’identità personale, composta potenzialmente di una miriade d’immagini sensoriali, ma elaborata ed espressa per lo più in forma linguistica, è collocata in un passato, in un presente, e in rapporto a un futuro. Solo attraverso la continua elaborazione di questi materiali posiamo generare il senso di una continuità, di un progetto, di un adattamento efficace al mondo che ci circonda.

9. Il ruolo del linguaggio. L’identità personale che viene attivata nella coscienza estesa è sempre costituita da un sottofondo di immagini sensoriali e di operazioni a queste connesse; ma, come si è visto, essa è costituita soprattutto da espressioni verbali attraverso le quali siamo in grado di autorappresentarci in forma sintetica e di tenere il filo del passato, del presente e del futuro. Questo flusso verbale interiore è stato assai studiato dagli psicologi e dai filosofi della mente che l’hanno chiamato linguaggio interno (inner speech). Il linguaggio, in altri termini – ben oltre alla funzione comunicativa con gli altri – permette la costruzione di una mappa della nostra esperienza interiore ed esteriore a un livello assai ampio di sintesi e generalizzazione. Queste mappe linguistiche, quando vengono attivate, sono in grado, come qualsiasi altro oggetto internalizzato, di costruire un oggetto per la coscienza nucleare e, di conseguenza, di generare la coscienza estesa (rendendo così possibile la produzione della consapevolezza di sé, o autocoscienza). Diventiamo così via via consapevoli delle rappresentazioni linguistiche che produciamo a proposito di noi stessi.

La potenza del linguaggio internalizzato sta nel suo carattere semiotico–simbolico, nella sua capacità di astrazione, nella sua capacità di definire delle etichette linguistiche attraverso le quali noi possiamo ulteriormente operare, senza essere costretti a riprodurre dettagliatamente le immagini sensoriali (e facendo così ricorso al livello sensoriale solo quando sia necessario). Come ha affermato Felice Cimatti: «L’autocoscienza non rappresenterebbe quindi – cartesianamente – il punto di partenza della vita mentale, bensì sarebbe una sorta di dono inaspettato che la mente riceve dal linguaggio, o meglio dal fatto che usa il linguaggio per riferirsi a sé stessa». (Cimatti 2000: 236). Quindi, paradossalmente, non è l’io a padroneggiare il linguaggio, bensì il linguaggio a permettere la costruzione di un riferimento all’io. Il linguaggio verbale, attraverso l’inner speech, è così in grado di generare l’autocoscienza nella sua forma più elevata e di sovrintendere all’esperienza interna.

Ma esso rappresenta anche l’interfaccia verso il mondo esterno, verso la cultura della società umana, molta parte della quale è espressa in forma linguistica o comunque possiede una traduzione linguistica. In questo modo l’animale uomo può entrare in possesso – senza averla esperita direttamente – dell’esperienza fatta da altri, sintetizzata e accumulata in forma simbolica.[3]

10. Come la cultura esterna rappresenta la massima proiezione nel passato e nel futuro della specie umana, così l’identità personale rappresenta la massima proiezione verso il passato e verso il futuro del singolo individuo. Entrambe queste proiezioni sono costruite nella sola forma più efficace possibile: in forma simbolica. Grazie alla mediazione del linguaggio, abbiamo allora costantemente due processi: un processo di socializzazione che va dalla cultura già accumulata verso l’identità personale e un processo di creazione culturale, che va dall’identità personale verso il deposito culturale esterno. Stranamente, mentre il processo di socializzazione oggi è alquanto studiato e riconosciuto, non altrettanto lo è il processo di creazione culturale; come se, di fronte all’abbondanza strepitosa di prodotti culturali, oggi l’individuo non possa fare altro che scegliere cosa interiorizzare, senza poter offrire alcun contributo attivo. Il contributo individuale alla cultura è riconosciuto per lo più solo nei casi di personalità considerate straordinarie.

11. La categorizzazione e la classificazione. Anche la conoscenza intellettuale della realtà, sia esterna sia interna, avviene in gran parte attraverso il linguaggio, in particolare attraverso la sua natura concettuale. Il concetto in senso logico ha origine nell’ambito dell’individuazione delle proprietà degli oggetti, in altre parole nell’ambito delle operazioni di classificazione. Pur essendo diffuse presso tutti gli esseri viventi, le operazioni di classificazione possono essere enormemente potenziate, nell’uomo, grazie proprio al linguaggio verbale (Cimatti 2000). Esso è un potente strumento attraverso il quale possiamo classificare la realtà esperita, immagazzinare le nostre stesse classificazioni, trasmetterle ad altri, oppure apprendere da altri nuove classificazioni. Il linguaggio costituisce quindi un potente strumento che la cultura ci mette a disposizione per segmentare il continuum dell’esperienza e per individuare tutti quegli elementi dotati di caratteristiche distintive che riteniamo importanti per noi. Sia in termini di inner speech, sia in termini di cultura, attraverso il linguaggio gli esseri umani provvedono costantemente a classificare se stessi, gli altri e la natura (Durkheim & Mauss 1903).

12. Poiché la classificazione è legata all’individuazione delle caratteristiche salienti dell’ambiente (interno o esterno che sia), ne consegue che le classi (cioè i concetti) che produciamo e riproduciamo sono sempre fortemente marcate in termini emotivi. L’organismo reagisce agli stati del mondo con il piacere, il dispiacere, la fuga, l’aggressione, e così via. Ciò significa che possiamo caricare di significati emotivi le classi che abbiamo individuato, e nello stesso tempo che siamo in grado di individuare delle classi proprio perché le carichiamo emotivamente. La connessione tra classificazioni e emozioni è una condizione del tutto normale per gli organismi viventi (Damasio 1994; Damasio 1999; LeDoux 2002). Operazioni di classificazione che siano emotivamente neutre diventano possibili nell’uomo solo con forme assai elaborate di autocontrollo e nell’ambito di una simbolica assai astratta.

13. Gli psicologi hanno a lungo studiato la classificazione, definendola come categorizzazione. È interessante il fatto che, nell’ambito della categorizzazione, essi abbiano collocato fenomeni come il pregiudizio, il razzismo e i cosiddetti fenomeni di labeling. In altri termini, tutti i confini che tracciamo, più o meno consapevolmente, all’interno o all’esterno di noi stessi, ricadono nell’ambito dei processi di categorizzazione. La maggior parte di questi processi sono appresi dal contesto, dati per scontati e solo raramente provvediamo a riflettere sulle nostre classificazioni ed eventualmente a modificarle (dietro sollecitazione di nuove informazioni, nuove esperienze, nuove marche emotive). I gruppi organizzati e le istituzioni spesso tendono a favorire l’adozione di categorizzazioni rigide ed esclusive, poiché interesse dei gruppi e delle istituzioni è spesso quello di marcare i confini, organizzare e inquadrare gli individui. Attraverso il linguaggio interno siamo in grado di classificare o categorizzare noi stessi. Spesso adottiamo i principi di classificazione che ci sono dati dalla nostra cultura, ma siamo anche in grado di innovare e creare nuovi criteri di classificazione riferiti a noi stessi o agli altri. I concetti quindi costituiscono la moneta comune attraverso la quale costruiamo la nostra identità personale e conosciamo il mondo esterno.

14. Spesso tuttavia dimentichiamo il carattere convenzionale del linguaggio e delle classificazioni e tendiamo a considerare i concetti come se fossero degli oggetti realmente esistenti. Questo meccanismo è ben noto in filosofia, ove le classi presenti nel nostro linguaggio sono ipostatizzate, considerate ancor più reali delle nostre percezioni, e definite come idee platoniche, essenze, concetti a priori e così via. Questo meccanismo ci vincola alquanto e ci impedisce di aggiornare e rivedere in modo flessibile le nostre classificazioni, ci impedisce di modificare la rappresentazione che abbiamo di noi stessi e di modificare le conoscenze che abbiamo acquisito. Sono quindi piuttosto fuorvianti tutte quelle definizioni dell’identità che, basandosi su malintese esigenze di logica classificatoria, mettono l’accento sull’individuazione di caratteristiche costitutive, essenziali, irriducibili, che distinguono gli individui gli uni dagli altri. Ciò induce a interpretare l’identità in funzione della diversità dalle altre identità, inducendo l’esigenza di marcare ossessivamente delle distinzioni e dei confini come fossero realtà assolute (così è nata la famigerata coppia dell’Io e dell’Altro, ovvero dell’Identità e dell’Alterità). In realtà, come si è visto, l’identità personale non è tanto definita da un insieme di caratteri logici, distintivi nei confronti delle altre identità, quanto dalla sua funzione di costituire una sintesi prospettica che prende forma in un corpo, in un cervello, in seguito a una serie di esperienze ed elaborazioni specifiche. Il problema dell’identità non consiste tanto nel definire quanto siamo simili o diversi dagli altri, quanto nel produrre una buona strutturazione dei nostri elementi interni. Ciò lascia presagire che le identità non siano mai definitive e siano soggette a una continua attività di costruzione e ricostruzione. Abbiamo parlato di “buona” strutturazione: ciò introduce il problema, assai complesso, di una eventuale confronto qualitativo tra le diverse strutturazioni identitarie.

15. Forme d’identità. Ci si può allora domandare se ci siano dei tipi d’identità, se i costrutti identitari vengano elaborati seguendo stili diversi, se non sia possibile, in altri termini, una morfologia dell’identità personale. In campo psicologico, molte delle problematiche relative alle diverse forme dell’identità sono già state ampiamente studiate sotto l’etichetta delle tipologie della personalità. È abbastanza singolare che tutto questo patrimonio di riflessioni sia stato raramente preso in considerazione dalle discipline che si sono occupate dell’identità[4].

Poiché questo campo è decisamente sconfinato, ci limiteremo ad elencare alcuni dei parametri che sono stati variamente presi in considerazione allo scopo di caratterizzare le diverse forme che il costrutto identitario può manifestare all’osservazione empirica. Parecchi di questi parametri sono stati individuati nell’ambito dello studio delle patologie della personalità: ciò è abbastanza comprensibile, poiché le disfunzioni del costrutto identitario ci possono talvolta permettere di evidenziare le diverse possibili strutturazioni interne dell’identità stessa (così come sta accadendo nell’ambito degli studi sulla differenziazione delle funzioni cerebrali).

Molte ricerche hanno sottolineato via via diversi aspetti come il grado di integrazione o di separazione tra le varie parti dell’identità, la coerenza interna dei vari elementi, la stabilità e l’instabilità nel tempo, il grado di dipendenza o di indipendenza dal contesto, la dominanza di elementi centrali a discapito di altri elementi periferici, la rigidità o la flessibilità, il grado di integrazione tra gli aspetti emotivi e gli aspetti linguistici, il grado di differenziazione linguistica e culturale. È forse possibile aggiungere, a questa lista, molte altre caratteristiche. Prese insieme, queste caratteristiche possono comunque contribuire a disegnare, in un certo senso, la “forma” dell’identità, indipendentemente dagli specifici contenuti che ciascuno svilupperà nell’ambito della propria personale esperienza. Gli individui dunque sono sicuramente diversi tra loro in virtù delle peculiarità biografiche, ma possono essere diversi tra loro anche in virtù della diversa strutturazione formale della loro identità. Tuttavia, mentre è normale che ci sia un’estrema diversità in termini biografici, non è possibile in pratica che ci siano infinite forme diverse di identità, poiché siamo limitati dalle strutture cerebrali, dalle strutture della mente, dai meccanismi linguistici e simbolici, dal tipo di dinamica che instauriamo con la dimensione emotiva. Anzi, alcune delle configurazioni d’identità che si possono empiricamente identificare possono anche essere non sviluppate, deviate, o addirittura patologiche.[5] Se si ammette che le identità personali possano avere diverse forme, più o meno realizzate, più o meno mature, più o meno “buone”, si può allora cominciare a ragionare intorno al significato dello sviluppo dell’identità personale, al di là delle specifiche diversità culturali.

16. Autobiografie. Diversa dall’identità personale in senso stretto è la narrazione autobiografica, o il prodotto autobiografico. Poiché la memoria di lavoro è limitata e l’identità personale che evochiamo qui e ora risulta piuttosto instabile e fuggevole, accade spesso che l’individuo riversi i costrutti identitari, di volta in volta realizzati, in qualche forma di memorizzazione esterna più solida e duratura: di solito si tratta di narrazioni verbali, oppure soprattutto di narrazioni scritte (ma può trattarsi anche di materiali di altra natura, come raccolte di foto, diari, collezioni di oggetti e così via). Queste “narrazioni di sé” possono raggiungere una notevole voluminosità, fino a divenire vere e proprie autobiografie scritte. Il prodotto autobiografico avrà dunque la caratteristica di essere propriamente hard, ovvero un oggetto materiale esterno, mentre l’identità personale, che continuamente generiamo e rigeneriamo, sarà invece piuttosto soft, piuttosto virtuale. È chiaro da quanto si è detto in precedenza che non è assicurata alcuna corrispondenza certa tra l’identità personale e il prodotto autobiografico. Accade perciò assai spesso che ci troviamo a utilizzare i nostri prodotti autobiografici esterni (le nostre identità “materializzate”, depositate, trascritte, certificate) come sostituti del lavoro di generazione dell’identità personale, dando il via a un gioco di rimandi tra memorizzazione interna e memorizzazione esterna che talvolta può essere anche assai ingannevole.

Recentemente, nell’ambito delle dottrine costruttivistiche sviluppate da Jerome Bruner, si è insistito molto sull’equivalenza tra identità e autobiografia. Indubbiamente ci sono delle relazioni, ma il tentativo di ricondurre schematicamente l’identità personale all’autobiografia può essere fuorviante. Una cosa è l’autobiografia teorica, ovvero l’insieme di tutti gli eventi che costituiscono una vita individuale: un simile insieme è chiaramente infinito, virtuale e impossibile da tradurre in alcunché di concreto. Altra cosa è il resoconto scritto, prodotto da un soggetto, della propria autobiografia. È chiaro che il resoconto scritto sarà soltanto una parziale e imperfetta rappresentazione dell’autobiografia teorica. Uno stesso soggetto, in tempi diversi, potrebbe produrre diverse autobiografie scritte. Altra cosa ancora, ovviamente, è l’identità qui ed ora, così come viene vissuta e sperimentata dal soggetto: quella che abbiamo chiamato identità personale. 

 

Memorie esterne ed esoscheletri identitari 

17. L’autobiografia scritta rappresenta un tipico caso di memoria esterna. Nell’ambito della psicologia evoluzionistica è stata prodotta un’interessante distinzione tra memoria biologica e memoria esterna. La memoria biologica è quella collocata dentro la mente individuale e sempre direttamente accessibile (per quanto soggetta a notevoli imperfezioni di funzionamento); la memoria esterna è invece costituita da tutti i depositi culturali cui possiamo avere accesso allo scopo di potenziare le capacità di elaborazione della nostra mente (Donald 1991). Si tratta di una memoria virtualmente infinita, in gran parte codificata in forma simbolica e, in particolare, nella forma del linguaggio verbale. È assai interessante il fatto che la memoria esterna possa costituire anche un’estensione della nostra memoria operativa (che è limitatissima), poiché siamo in grado di depositarvi i risultati parziali delle nostre elaborazioni, eventualmente per poterle poi affinare in un secondo momento (ciò accade, ad esempio, quando prendiamo gli appunti, oppure quando produciamo successive revisioni di uno scritto).

18. Nell’ambito della memoria esterna troviamo non solo i nostri prodotti autobiografici oggettivati, ma anche una miriade di oggetti in senso lato che descrivono, definiscono, fissano una volta per tutte la nostra identità: i nostri documenti personali, i ricordi materiali della nostra vita, le nostre relazioni personali, le icone religiose che ci hanno coinvolto, le istituzioni con cui siamo in rapporto. Tutto ciò con cui abbiamo familiarità, ciò di cui abbiamo fatto esperienza, ciò che siamo in grado di manipolare, direttamente o indirettamente, rappresenta per noi una sorta di memoria biografica esternalizzata, un insieme di luoghi della memoria, come dicono gli storici.

19. Per la costruzione dell’identità personale ricorriamo dunque anche a una gran mole di queste memorie, di questi supporti esterni: infatti, oltre agli elementi strettamente biografici, per costruire la nostra identità personale utilizziamo anche tutti gli elementi depositati nella cultura cui apparteniamo, compresi quelli, assai enfatizzati, di tipo etnico-nazionalistico, religioso, ideologico o razziale. Si tratta di prodotti simbolici preconfezionati, depositati e pronti all’uso, che, all’occorrenza, vengono trasferiti nella memoria biologica dove vengono elaborati ed interiorizzati; possono poi eventualmente essere riprodotti all’esterno, in modo da renderli disponibili ad altri. Come dei veri e propri esoscheletri identitari esterni, queste memorie ci incanalano costantemente nell’attività quotidiana di costruzione della nostra identità personale. Se il legame con queste memorie esterne viene poi anche marcato somaticamente (attraverso esperienze emotive intense, come rituali, cerimonie, bandiere, divise, tessere), ebbene tutto questo servirà ulteriormente a produrre un forte senso di autenticità, a dare evidenza al fatto che una certa caratteristica è stata da noi assunta, talvolta irrevocabilmente, come una qualificazione certa della nostra identità, cioè che davvero noi apparteniamo a un determinato gruppo piuttosto che un altro, o che condividiamo un determinato progetto d’azione. Così si diventa membri di famiglie, di gruppi politici, di affiliazioni religiose, si entra in una banda di delinquenti, si entra a far parte di un esercito, oppure si acquisisce una cittadinanza.

Per quanto sfuggente, il costrutto che abbiamo chiamato identità personale sembra dunque costituire il fulcro dell’identità. Essa rappresenta la mediazione originale, mai definitiva, tra le condizioni momentanee interne di un corpo, il patrimonio immagazzinato nella memoria autobiografica e il più vasto deposito culturale collettivo della memoria esterna.

20. Spesso tuttavia i confini tra l’interno e l’esterno (tra ciò che abbiamo fatto nostro e ciò che consideriamo estraneo) sono così indefiniti da farci dubitare dove risieda effettivamente la nostra identità. Ciò accade tanto più poiché stiamo assistendo, in termini di evoluzione culturale, a una crescita esponenziale del volume complessivo della memoria esterna disponibile. In una simile situazione, la tentazione di immergersi totalmente nella memoria esterna può essere davvero assai forte. La sintesi identitaria tuttavia non può che avvenire effettivamente dentro l’individuo. Il fatto che l’identità personale sia continuamente costruita e ricostruita offre l’opportunità del cambiamento, ma determina anche la sua debolezza di fondo, il fatto di essere esposta a qualsiasi tipo di invasione, pressione, distorsione o cancellazione. Questo è il motivo per cui il terreno dello sviluppo, della costruzione e ricostruzione dell’identità personale è oggi un vero e proprio campo di battaglia (Freud aveva perfettamente colto quest’aspetto) dove si confrontano le pulsioni del corpo, le razionalizzazioni dell’esperienza individuali e della biografia e le pressioni della cultura esterna, delle istituzioni e del potere.

L’identità personale è dunque senz’altro evanescente, “della stessa materia di cui sono fatti i sogni”, ma costituisce la sola possibilità data all’individuo umano di produrre una rappresentazione complessiva e originale di sé, cioè la possibilità di oggettivarsi e di riflettersi. Se questo è vero, allora occorre mettere l’accento non tanto sul volume costantemente in crescita delle memorie esterne, il che implica comunque una certa passività e dipendenza, quanto sulle potenzialità e sui processi di sviluppo dell’identità personale, il che permette uno sviluppo autonomo. Occorre far sì che gli individui, invece di venir pedestremente “socializzati”, abbiano modo di procedere autonomamente e consapevolmente nella loro autocostruzione.

 

Identità e prospettiva individualistica 

21. Poiché l’identità personale si colloca precisamente all’incrocio tra il corpo e la cultura (e il potere), una delle varianti fondamentali capace di determinarne la forma finale sarà costituita dal grado di libertà concesso all’individuo nella sua elaborazione. Possiamo distinguere, per ciò che ci interessa, tra contesti che cercano di inculturare gli individui in modo totalizzante e contesti che lasciano agli individui uno spazio di elaborazione autonomo. Per dirla con Durkheim, possiamo distinguere tra solidarietà meccanica e solidarietà organica.[6] Sarebbe errato ritenere, come qualcuno ha inteso, che questa distinzione coincida con quella tra Oriente e Occidente. Nel corso della storia dell’umanità sono state molte le civiltà che hanno conferito valore all’autonomia individuale, come ha opportunamente sottolineato Amartya Sen (Sen 2004). D’altro canto, assai spesso anche nella storia dell’Occidente si sono sviluppate ipotesi culturali e sociali che hanno tentato di negare all’individuo qualsiasi autonomia.

22. È vero però che, proprio nella tradizione europea, in alcuni periodi e in alcune aree privilegiate si è sviluppata una forma identitaria che ha particolarmente valorizzato l’autonomia dell’individuo a discapito degli elementi sovra individuali. Si tratta di un modello in cui l’individuo viene spinto a prendere le distanze, in forma critica, dalla cultura esterna e dalla propria collocazione sociale. È un modello che costringe l’individuo a trovare da sé la propria strada, a costruirsi e a ricostruirsi continuamente, a portare il peso morale delle proprie decisioni, andando incontro anche a perdite, crisi e smarrimenti, oppure a scontri con il proprio ambiente. Questa prospettiva individualistica comprende, come ha suggerito Steven Lukes, almeno cinque dimensioni fondamentali che sono fortemente interrelate, che si richiamano a vicenda e che, insieme, contribuiscono a definire la nozione moderna di individuo e, in campo politico, di cittadino (Lukes 1973).

23. La prima dimensione, il valore intrinseco dell’essere umano individuale, sancisce la centralità dell’individuo e, soprattutto, implica che tutte le più tradizionali categorie aggregative (la nazione, la stirpe, la classe, la religione di appartenenza, e così via) vengano ad assumere un’importanza morale secondaria. Questo, tra l’altro, è il presupposto della nozione politologica e filosofica di cosmopolitismo.

La seconda dimensione è costituita dalla nozione di autonomia (o di auto–direzione) in base alla quale le scelte dipendono dall’individuo stesso e non da qualche agenzia o causa al di fuori del suo controllo. Osserva Lukes in proposito: «In particolare, un individuo è autonomo (a livello sociale) nella misura in cui sottopone le pressioni e le norme con cui ha a che fare a una valutazione consapevole e critica, e formula intenzioni e prende decisioni pratiche come risultato di una riflessione indipendente e razionale». (Lukes 1973: 52).

La terza dimensione è la nozione della privacy, in altre parole la nozione di uno spazio privato di esistenza, un’area inviolabile entro cui l’individuo dovrebbe essere messo in grado di fare e di pensare qualsiasi cosa egli scelga, per perseguire il suo stesso bene nella maniera che gli è propria. Anche questa nozione si è affermata storicamente. Ha scritto infatti Hannah Arendt: «Nella sensibilità antica l’aspetto di deprivazione della privacy, indicato nella parola stessa, era considerato predominante; significava letteralmente uno stato di privazione che poteva toccare anche facoltà più alte e più umane. Un uomo che vivesse solo una vita privata e che, come lo schiavo, non potesse accedere alla sfera pubblica, o che come il barbaro, avesse scelto di non istituire un tale dominio, non era pienamente umano. Noi non pensiamo più alla privazione quando parliamo di vita privata, e questo è in parte dovuto all’enorme arricchimento della sfera privata apportato dall’individualismo moderno». (Arendt 1958: 28).

La quarta dimensione, l’autosviluppo, mette l’accento sul carattere unico e irripetibile dell’individuo che viene considerato come il risultato di un processo di autocostruzione che dà luogo, come risultato, a un’opera unica. Ciascun individuo ha diritto a intraprendere il proprio processo di autorealizzazione e il risultato di questo processo è considerato comunque degno di rispetto.

La quinta dimensione è costituita dall’individuo astratto. Sotto questo aspetto, l’individuo viene considerato sotto un profilo molto generale, facendo astrazione da una serie di caratteristiche specifiche e contingenti. Ciò rende possibile attribuire all’individuo astratto cose come diritti, doveri, facoltà, bisogni, indipendentemente dalle loro condizioni particolari.  Afferma Lukes: «Secondo questa concezione, gli individui sono rappresentati in maniera astratta come dati, forniti di dati interessi, desideri, propositi, bisogni, ecc. [...]; mentre la società e lo Stato sono rappresentati come insiemi di effettivi o possibili aggiustamenti sociali che rispondono più o meno adeguatamente alle richieste degli individui. Le regole sociali e politiche e le istituzioni sono, secondo questo modo di vedere, viste collettivamente come un artificio, uno strumento modificabile, un mezzo per soddisfare indipendentemente dati obiettivi degli individui; i mezzi e il fine sono distinti». (Lukes 1973: 73).

24. Questo modello, come appare evidente, indebolisce grandemente la solidarietà meccanica durkheimiana, e si limita a concepire la società e la cultura come contesti all’interno dei quali gli individui possono perseguire, con relativa libertà, la loro costruzione personale. Va detto che questo modello, in un certo senso, seleziona le capacità creative degli individui attraverso un meccanismo di prova ed errore, dove possono anche sopravvenire molti fallimenti (infatti le maggiori obiezioni contro questo modello sottolineano proprio l’incertezza del risultato finale e le diseguaglianze di esiti che possono originarsi).

Il predominio totale della cultura sull’individuo, nel caso dell’uomo ultra socializzato, la condizione di solidarietà meccanica, costituiscono quindi solo una delle possibilità che sono date nell’ambito della produzione delle identità individuali. Il nostro cervello ha indubbiamente bisogno di una lingua, di una cultura, ma il modo in cui la lingua e la cultura sono interiorizzate è sempre una possibilità relativamente aperta. In regimi storici e sociali assai specifici, isolati, tradizionali, che si ripetono sempre uguali, la forma della solidarietà meccanica può avere anche una sua plausibilità. In contesti come quelli globali dei giorni nostri, lo sganciamento dell’individuo da pressioni culturali troppo soffocanti rappresenta sempre più un bisogno, una necessità ineludibile.

25. Una perorazione dell’autonomia individuale sembra tuttavia destinata ad avere oggi, in Occidente e nel mondo, uno scarso successo. Il motivo è che essa è tacciata di occidentalismo. Si ritiene comunemente che l’autonomia individuale sia il grande peccato mortale dell’Occidente, rappresenti il tentativo imperialistico di imporre la ragione occidentale alle altre culture. In realtà non pare proprio che l’autonomia individuale sia una manifestazione di occidentalismo; questa pare essere una favola superficiale nata con il mito dell’individualismo greco e della superiorità dell’Occidente sull’Oriente. L’autonomia individuale può invece ben aspirare a diventare uno di quei valori universali di cui ha parlato Sen: «È evidente che dobbiamo affrontare una questione metodologica. Che cos’è un valore universale? Perché qualcosa sia considerato come tale, occorre davvero un consenso generale? Se fosse così, la categoria “valore universale” probabilmente resterebbe vuota. Non conosco alcun valore […] contro il quale non siano state sollevate obiezioni. A mio parere, non è questo ciò che conta per considerare qualcosa come valore universale. Al contrario, l’essenziale è stabilire se in ogni parte del mondo gli uomini possano avere ragioni per considerarlo tale». (Sen 2004: 67)

26. Ma si può imporre l’autonomia individuale a chi non desidera essere autonomo? Si può imporre un modello aperto di identità a chi invece si trova bene nell’ambito di un modello chiuso? Certo, l’autonomia – per chi non sia preparato – può anche risultare traumatica. Il salto da una condizione di totale dipendenza dalla memoria esterna a una condizione che richieda una personale elaborazione può essere difficile e disorientante. Tuttavia chi sperimenta, anche solo parzialmente, qualche grado in più di autonomia, difficilmente accetta poi che questa gli sia revocata, anzi, è facile che s’impegni per difenderla. Oggi, i maggiori nemici dell’autonomia non sono gli individui, ma le incrostazioni di potere istituzionali e le politiche dell’identità che hanno interesse al controllo sociale, in altre parole che hanno interesse a impedire il cambiamento e la crescita individuale. Occorre allora sostenere gli individui nei loro progetti di cambiamento e di crescita, più che difendere le culture nei loro progetti di conservazione.

 

Politiche dell’identità 

27. Da quanto abbiamo detto, risulta che l’identità personale costituisce sempre di più la posta in gioco di una guerra in cui si combattono, senza esclusione di colpi, ideologie, forze politiche e istituzioni. Molte vecchie ideologie si sono aggiornate e hanno posto proprio l’identità al centro delle loro elaborazioni. Possiamo chiamare questi orientamenti politiche dell’identità. Nell’ambito delle politiche dell’identità si producono enunciazioni circa la natura e l’importanza dell’identità, si promuovono determinati modelli d’identità ai danni di altri, si mobilitano gli individui intorno a questioni di identità, si protesta per la perdita dell’identità, si richiede insistentemente la valorizzazione e il riconoscimento delle identità, oppure si categorizzano, si combattono fino alla cancellazione, identità considerate negative. Le politiche dell’identità hanno avuto indubbiamente successo: milioni di persone sono costantemente mobilitate in nome di un qualche carattere identitario e molti dei conflitti in corso oggi nel mondo vengono giustificati su base identitaria.

28. Possiamo distinguere, all’interno di queste politiche dell’identità, due tendenze tipiche, che apparentemente sono opposte, ma che talvolta sfumano l’una nell’altra. La prima tendenza è quella culturalista. Il culturalismo nega qualsiasi autonomia individuale e ritiene che l’individuo altro non sia che il riflesso della sua cultura. L’identità individuale non è considerata altro che memoria esterna trasferita all’interno. L’identità non è costruita autonomamente dall’interno, ma deve essere importata dall’esterno. Senza questo apporto l’individuo sarebbe completamente vuoto. Da questa impostazione deriva inevitabilmente che le realtà sovra individuali (le comunità, le etnie, le religioni, le culture…) possiedano una loro organicità e una loro autonomia. Corrispondano a essenze realmente esistenti che precedono gli individui. La cultura viene così presentata come un rutilante mercato di identità (così accade secondo la corrente New Age), oppure, in forma assai più seriosa, come un complesso di elementi di significato ereditati dalla comunità, che fanno sì che l’individuo trovi la sua definizione, trovi la sua àncora, la sua vera essenza. Si tratta comunque sempre di esoscheletri da importare, da indossare, a volte da cambiare il più rapidamente possibile, oppure da custodire gelosamente, da difendere e da portare per sempre. Se la cultura prende completamente il posto dell’io individuale si avrà come risultato la formazione di individui culturalmente marcati in modo indelebile, incapaci di andare oltre i propri vincoli percepiti come oggettivi, incapaci di cambiare. A questi individui iper culturalizzati, cioè iper inculturati, non resta altro, che tentare di costruirsi, nel flusso dell’odierna confusione, un’isola dove siano garantite e riconosciute le proprie irrinunciabili peculiarità culturali (proprio questa è la politica dell’identità tipica del multiculturalismo nordamericano).

29. La seconda tendenza è quella che ha postulato la fine dell’identità. In contrasto con la generale emergenza della tematica identitaria, taluni ambienti politici e intellettuali, oggi assai influenti, sembrano convinti di una prossima fine dell’identità. I discepoli di Nietzsche e dell’ermeneutica ci hanno spiegato che è appena avvenuta una svolta epocale, che viviamo in un orizzonte senza fondamenti, che le “grandi narrazioni” sono state smascherate e hanno fallito, che tutti i punti di vista si equivalgono, che l’io è irrimediabilmente diviso o illusorio. In campo filosofico si osserva che il “progetto dell’io”, tipico della razionalità moderna, un progetto considerato come assolutistico e prevaricatore, sarebbe fallito, e avrebbe anzi causato le più grandi catastrofi storiche.

Si ha così, come conseguenza, lo svuotamento dell’identità dall’interno, o il suo riempimento con frammenti discontinui che possono essere gestiti con una logica del tutto ludica e gratuita. Qualunque forma di ordine, di costruzione, di coerenza è guardato con sospetto, come se si trattasse di un’imposizione di potere arbitraria e violenta. In conseguenza della profetizzata svolta epocale, faremmo bene a indebolire le identità, o addirittura a sbarazzarci delle identità e saremmo decisamente tutti più felici, dando via all’espressione libera dei nostri frammenti momentanei, realizzando identità fluide o liquide, secondo una celebre metafora di Zygmunt Bauman. La politica dell’identità che consegue a questa visione è una politica che promette la liberazione definitiva da tutte le imposizioni, attraverso la destrutturazione, la sottrazione sistematica a qualsiasi sistema di regole. Si tratta, come ognun vede, di una liberazione assai onerosa, che comporta la distruzione preventiva proprio di quel soggetto che si intenderebbe liberare.

30. Come possiamo interpretare queste tendenze? Non si vuol qui certo ignorare il fatto che le politiche dell’identità abbiano avuto origine nell’ambito di legittime lotte contro effettive discriminazioni e imposizioni basate su elementi identitari (come l’etnia, la lingua, il genere, la fede religiosa). Ma la giusta lotta contro le discriminazioni andrebbe combattuta non in nome dell’identità, ma in nome dell’uguaglianza, che è l’obiettivo politico meno identitario che ci sia. Le politiche dell’identità hanno invece trasformato le legittime aspirazioni all’uguaglianza nella valorizzazione delle più bizzarre idiosincrasie culturali e nel più totale deprezzamento dell’identità personale.

I sostenitori della fine dell’identità presentano, infatti, un modello caricaturale e superficiale dell’identità personale. Pensano che l’identità sia come un testo dai mille significati e che – proprio per questo – non abbia alcun autentico significato. Sembrano proprio loro i maggiori traumatizzati dalla “sparizione del soggetto”, nonostante le neuroscienze spieghino come la mente umana funzioni benissimo senza ricorrere a un “fantasma nella macchina”. Tutto il potere rivoluzionario delle loro teorie si concentra nel tentativo di mostrare che la costruzione dell’identità è, per l’appunto, una costruzione. Se è una costruzione, allora non ha una vera essenza. E senza essenza siamo perduti. In più, sembrano prediligere le forme di identità più folli e sgangherate, più frammentarie e incoerenti e ci avvertono che proprio queste rappresentano il nostro inevitabile destino.

31. I sostenitori delle posizioni culturaliste tendono, d’altro canto, a presentare un modello caricaturale delle culture, che essi considerano alla stregua di essenze, di entità organiche (dei testi organici) che devono essere incorporate negli individui. Essi ignorano il fatto che la riproduzione culturale – in ultima analisi – avviene sempre all’interno della mente individuale, entro quei processi assai precari che abbiamo delineato nella prima parte di questo scritto. Fortunatamente, nessuna cultura è in grado di riprodursi in maniera assolutamente perfetta (saremmo tutti perfettamente uguali e seriali). L’incorporazione della cultura, per quanto inevitabile, lascia sempre uno spazio all’autonomia individuale. Si tratta di capire – questo è il punto – se questo spazio deve essere negato, cancellato, oppure se deve essere valorizzato, deve essere riconosciuto e ampliato – certo, a discapito dell’onnipotenza della cultura.[7] È difficile in effetti chiedere a un sistema culturale di essere flessibile: dopo che, ad esempio, un libro sacro è stato scritto e riconosciuto, ovvero riversato nella memoria esterna, diventa un elemento “oggettivo”, permanente, e i suoi effetti si riversano a loro volta per secoli e secoli su generazioni e generazioni. Lo stesso vale per una lingua, o per un sistema giuridico. Gli individui invece sono potenzialmente assai più flessibili delle loro culture, purché questa flessibilità[8] venga loro riconosciuta, venga loro richiesta, venga incoraggiata e valorizzata.

32. Appare chiaro quindi che le politiche dell’identità, vuoi nella forma forte del culturalismo, vuoi nella forma debole della fine dell’identità, mancano completamente il loro obiettivo poiché ignorano o sottovalutano la vera natura dell’identità personale. Paradossalmente, fattori come l’incompletezza dell’animale uomo, la relativa frammentazione dell’io, il fatto che la mente sia una repubblica più che una monarchia (la “società della mente” è assai più di una semplice metafora[9]) assicurano che possa sempre instaurarsi una dialettica tra individuo e memoria esterna, nell’ambito della quale gli individui possano effettivamente prodursi come costrutti originali. Solo nell’ambito di una simile prospettiva l’identità può trovare un proprio autentico futuro. Se vogliamo valorizzare lo sviluppo delle identità personali individuali (questa sarebbe l’unica politica dell’identità veramente sensata) bisogna riconoscere che l’identità non è solo un’illusione, non è solo una delle tante maschere possibili che possiamo indossare. Per lo sviluppo individuale abbiamo bisogno di più identità, non di meno identità. Certo, non di identità più forti (cioè meno libere, più vincolate, rigide), bensì di identità più autonome, più indipendenti, più creative. 

 

Pacchetti contro progetti

33. La possibilità di un vuoto di senso non ha nulla di anormale, è connaturato all’essere umano, proprio perché esso è destinato a costruirsi incontrandosi con la memoria esterna, con la cultura. Dunque nell’essere umano c’è effettivamente un bisogno d’identità che preme per essere soddisfatto. Al vuoto di senso si può rispondere in forma nichilista, prefigurando un bisogno d’identità destinato a restare insoddisfatto, proclamando che l’identità è appunto vuota. Oppure si può rispondere promettendo la soddisfazione del bisogno di identità mediante l’interiorizzazione di pacchetti di significati già pronti e disponibili, preconfezionati, “chiavi in mano”, capaci di fornire tutte le risposte e di fugare ogni dubbio. In alternativa a entrambe queste risposte è però possibile una terza via, che proceda proprio dalla strutturale “incompletezza” della condizione umana e prospetti il compito della costruzione del proprio personale, unico, originale pacchetto di significati, magari attraverso prove ed errori, attraverso tentativi e ricerche, andando anche incontro, talvolta, alla sconfitta e al fallimento.

34. Il bisogno di identità può così essere più propriamente inteso come bisogno di sviluppo di un progetto individuale. Gli studiosi della coscienza hanno sottolineato lo stretto legame che sussiste tra il proprio linguaggio interno e la possibilità di progettare il futuro. Grazie all’inner speech siamo in grado di fare un quadro della nostra situazione, prendere coscienza dei nostri bisogni, dei nostri desideri, costruire un modello del nostro futuro, definire quali passi compiere per realizzarlo. Certo, nel progetto possono trovare posto anche elementi legati ai contenuti della memoria esterna, ma qualora questi fossero schematicamente e rigidamente interiorizzati vanificherebbero qualunque progetto individuale e consegnerebbero il soggetto a un progetto esterno, standardizzato, lo porrebbero in una condizione di alienazione, come si dice nella tradizione filosofica. Nell’ambito del nostro progetto personale possiamo invece decidere con relativa libertà quali elementi culturali accettare e quali rifiutare, come fondere gli elementi che ci interessano, come creare qualcosa di completamente nuovo.

35. Lo sviluppo dell’identità personale in senso progettuale contribuisce così a correggere sia gli aspetti negativi delle culture (la loro eccessiva rigidità), sia i limiti dell’individuo (la tendenza ad adeguarsi alla memoria esterna, oppure la tendenza a concentrarsi vanamente sul proprio interiore “vuoto” di significato). Una società d’individui intenti alla libera autocostruzione potrà conoscere certamente anche dei conflitti, potrà determinare anche una situazione di concorrenza, ma ciò avverrà tra individui e non tra appartenenze, istituzioni, poteri e categorie astratte. Coloro che viaggiano, coloro che migrano, coloro che cercano di conoscere altre lingue e altre culture hanno già messo in dubbio la normalità quotidiana, sono già disposti a intraprendere un progetto di cambiamento. Si tratta di aiutarli. Invece, paradossalmente, molti di costoro trovano, dalle nostre parti, quelli che consigliano loro di non cambiare, di difendere la loro cultura (anche se spesso hanno ben poco da difendere), di custodire gelosamente tutti i pezzi delle loro vecchie identità, oppure di lanciarsi nella voragine del nulla. Un pessimo servizio.

 

Spazi di autonomia, traduzione e negoziazione

36. È vero che, quando gli individui si spostano e s’incontrano, portano comunque inevitabilmente con sé, per quanto rielaborati, i depositi interiorizzati delle loro rispettive culture, le loro memorie esterne. C’è però grande differenza tra il confronto tra culture e il confronto tra individui. Il confronto tra le culture può avvenire a livello istituzionale, a livello dei prodotti culturali, a livello del potere politico, dei rappresentanti che ciascuna cultura esprime. Nel confronto tra le culture, gli individui contano solo come esemplari delle loro rispettive culture e tutte le altre particolarità individuali vengono minimizzate. Se le culture sono moderate, possono indubbiamente addivenire a un modus vivendi, a qualche forma di aggiustamento reciproco, ma se sono fortemente antagonistiche, è facile che nasca il conflitto. Nel conflitto, ciascuna cultura tende a rappresentarsi nella sua purezza, nella sua schematicità, fino a divenire una caricatura di se stessa. In simili casi non s’intravede come possa avvenire una mediazione, se non con la sconfitta di una cultura rispetto all’altra. In questo modo si arriva dritti allo scontro di civiltà.

37. Se, invece, a incontrarsi sono gli individui, si può sfruttare lo spazio di autonomia che ciascun individuo ha (o dovrebbe avere, se è un individuo maturo, ben formato) rispetto alla propria cultura. Intanto gli individui possono riconoscersi in base ad una serie di elementi comuni a tutti gli uomini (dall’espressione delle emozioni, alle paure, ai bisogni, alla sofferenza, fino al bisogno spontaneo di ciascun individuo di costruire la propria identità personale in forma originale). Di fronte alle diversità di memorie esterne essi possono poi tentare di effettuare una traduzione. Nel caso di una difficoltà di traduzione (poiché è probabile che non tutto sia facilmente traducibile) si possono mettere in atto meccanismi di negoziazione – tra individui – che possono essere realizzati proprio grazie allo spazio di autonomia di cui ciascun individuo dispone. Anzi, non si tratta solo di una semplice possibilità: la condizione di normalità consiste proprio nella negoziazione tra individualità mature e spiccate.

38. Appare dunque chiaro che uno spazio di autonomia individuale rispetto alle rispettive culture (così come esse ufficialmente si rappresentano) è desiderabile e necessario. Non bisogna dimenticare tuttavia che gli individui non sono uguali per quel che concerne l’ampiezza del loro spazio interno di autonomia. Come abbiamo suggerito, essi possono avere forme diverse di identità e ciò è legato alla rigidità maggiore o minore dell’inculturazione che ciascuno ha ricevuto, alla profondità della rielaborazione personale che ciascuno ha realizzato. La traduzione e la negoziazione risentono anche dei limiti linguistici, per cui chi si trova a disporre di migliori e più ricche risorse linguistiche sarà più facilitato; chi dispone invece di scarse risorse linguistiche sarà inevitabilmente più sfavorito. Ci sono anche dei limiti legati alle situazioni relazionali: lo spazio di autonomia individuale rispetto alla propria cultura si accresce quanti più incontri si fanno con persone appartenenti ad altre culture. Queste considerazioni ci fanno comprendere come il reciproco isolamento renda difficile qualsiasi traduzione e negoziazione. La costruzione di isole culturali, in nome della salvaguardia delle tradizioni o della purezza, impedisce sistematicamente qualunque forma di traduzione e negoziazione, impedisce la maturazione personale e frustra le potenzialità individuali.

39. Il concetto di uno spazio di autonomia individuale nei confronti della cultura non implica il rifiuto delle culture. La comprensione di una cultura diversa dalla nostra non dipende dalla nostra capacità di rifiutare la nostra cultura, ma dall’effettiva profondità e ricchezza con la quale noi abbiamo davvero compreso la nostra. È l’adesione superficiale a una cultura (la mera e brutale inculturazione) che ci rende incapaci di metterci in un atteggiamento di traduzione e di negoziazione, cioè ci rende incapaci del cambiamento.

Per comprendere questo punto può essere utile ricorrere al concetto di inner complexity, sviluppato dallo psicologo William Dember negli anni Sessanta. Gli individui differiscono per complessità interna (ovvero, per noi: differiscono per gradi maggiori o minori di autonomia e sviluppo della loro identità personale). Chi è meno complesso proverà poco interesse e difficilmente capirà chi è più complesso. E viceversa. Chi è meno complesso farà traduzioni così semplificate da tradire l’interlocutore. Certo, far sì che tutti gli individui posseggano la inner complexity necessaria affinché gli incontri avvengano al livello più approfondito possibile è un obiettivo difficile da raggiungere. Ma non ci sono scorciatoie. Talvolta si cerca di produrre, come tipica scorciatoia, la reciproca comprensione sulla base dei buoni sentimenti. Ma la politica dei buoni sentimenti è destinata a fare poca strada. Lo si capisce considerando il funzionamento delle marche somatiche emotive, come prospettata da Damasio. Ancora una volta appare evidente come, ai fini dell’esito dell’incontro, sia importante non tanto la diversità delle rispettive culture, quanto una strutturazione matura dell’identità personale di quelli che s’incontrano, la sola che può davvero rendere possibile un’effettiva traduzione e negoziazione.

 

In conclusione

40. Com’è stato evidenziato, i risultati delle neuroscienze, unitamente a quanto prodotto nell’ambito di altre discipline collaterali, possono dare un contributo decisivo alla discussione critica intorno all’identità. L’identità può così avviarsi a diventare un concetto che può essere definito con cura, utilizzato con precisione e costantemente riformulato e aggiornato con il progredire della ricerca. In tal modo si potrà progressivamente superare l’attuale indubbia confusione terminologica, la compartimentazione disciplinare e la proliferazione di speculazioni gratuite e lontane dai dati sperimentali. Gli sviluppi futuri nei campi dell’identificazione e della localizzazione delle funzioni cerebrali, nei campi dei modelli della mente e della coscienza, nel campo della linguistica e nel campo dei rapporti tra linguaggio ed emozioni non potranno che contribuire a precisare sempre meglio la nozione di identità personale. Se a tutto questo aggiungeremo anche le relative ricadute nel campo della psicologia della personalità e della psicologia sociale, avremo a disposizione un quadro relativamente esaustivo, capace di connettere la dimensione biologica con la dimensione sociale e culturale. In ogni caso, da questo complesso di sviluppi, non potranno che uscir rafforzate sia la nozione dell’unicità del costrutto identitario personale, sia quella che abbiamo definito come prospettiva individualistica.

41. L’attuale odierna popolarità della tematica dell’identità tuttavia non sembra tanto dovuta a lodevoli motivazioni di ordine scientifico, quanto invece al fatto che svariate agenzie sono impegnate in una guerra senza quartiere che ha per obiettivo proprio l’”occupazione” delle identità individuali. Partendo dal discutibile assunto che le identità individuali siano instabili, vuote, facilmente manipolabili, e che i modelli culturali siano delle configurazioni organiche, è in corso il tentativo di suddividere l’umanità non più secondo le vecchie linee di frattura, dotate di una qualche base obiettiva (generi, generazioni, classi sociali), ma secondo linee di frattura identitarie, etniche, religiose, nazionali, culturali. Questa tendenza – che non è solo un’invenzione degli intellettuali – è stata ben esemplificata dalla nozione, elaborata da Samuel Huntington, delle civiltà intese come prospettive irriducibili, destinate inevitabilmente allo scontro.

42. È del tutto comprensibile che i contendenti che si affrontano nella guerra per l’identità preferiscano concepire le identità individuali come recipienti vuoti da riempire e non si curino di indagare cosa davvero avvenga nel processo di costruzione dell’identità personale. Il risultato, com’è stato mostrato, non può che essere la cancellazione di ogni autonomia individuale in nome di ipotesi alquanto semplificate come la distruzione dell’io da un lato o dell’onnipotenza della cultura dall’altro. Abbiamo anche cercato di chiarire quali siano le radici teoriche di queste tendenze: nel nostro paese (e non solo) tutto quanto è connesso all’autonomia individuale è tacciato di occidentalismo, quando non di positivismo e di illuminismo (termini denotativi che sono sempre più spesso usati come insulti).

43. Se gli individui altro non fossero che appendici di una sovrastruttura culturale che li modella, dovremmo indubbiamente dare ragione a Huntington. Per fortuna non è così. Gli esseri umani hanno un corpo, un cervello, una mente che – per quanto culturalmente marcati – funzionano secondo meccanismi molto simili. L’identità individuale non è solo un vaso vuoto da riempire, ma una struttura complessa – per quanto precaria e virtuale – che ciascuno provvede in certa misura a costruire, una struttura che corrisponde al bisogno evolutivo di regolare vantaggiosamente i rapporti con l’ambiente naturale e sociale. L’identità personale è un costrutto unico, originale, e ciascun individuo ha non solo la possibilità, ma anche il diritto di realizzarlo. In un mondo in continua trasformazione, la solidarietà meccanica è destinata a tramontare per sempre e con essa tutte le ipotesi che non tengono in conto l’individualità. I multiculturalisti, nostalgici dell’omogeneità culturale, sono obiettivamente destinati a condurre una battaglia di retroguardia, mentre i nichilisti sono fermi alla loro propaganda luddistica. L’unico futuro possibile per l’identità sta nel prendere sul serio l’autonomia individuale, dando agli individui lo spazio per costruirsi, in un regime di relativa libertà, attingendo a tutte le fonti della cultura, andando oltre i confini culturali storicamente costituiti, diffondendo l’istruzione e la conoscenza scientifica, combattendo i progetti identitari perversi (e i loro rispettivi modelli culturali), ridimensionando le agenzie monopolistiche che, con la promessa della liberazione, finiscono per usare gli individui per i loro scopi.

44. Si tratta, in altri termini, di puntare su quella tradizione, oggi bistrattata, che conosciamo bene ma che non abbiamo mai preso davvero sul serio, la tradizione della valorizzazione dell’individualità, una tradizione che non ha nulla di particolarmente occidentale, che non è necessariamente legata allo sfruttamento economico, ma è piuttosto la condizione fondamentale dello sviluppo, del dialogo e dell’emancipazione. Non abbiamo bisogno di meno identità, abbiamo bisogno di più identità, ma di identità fatte bene. 


Giuseppe Rinaldi (Rev. 3.2 del 15/09/2025)

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2000  Sparti, Davide, Identità e coscienza, Il Mulino, Bologna.

1974 Sperber, Dan, Le symbolisme en général, Hermann, Paris. Tr. it.: Per una teoria del simbolismo, Einaudi, Torino, 1981.

1992 Tullio - Altan, Carlo, Soggetto, simbolo e valore. Per un’ermeneutica antropologica, Feltrinelli, Milano.

 


NOTE

[1] Una prima versione di questo saggio è stata pubblicata in M. Cellerino (a cura di), Usi e abusi delle identità, Guerini e Associati, Milano, 2007. La presente versione, rivista nel settembre 2025, pur essendo sostanzialmente analoga alla precedente, contiene diverse correzioni e modifiche rispetto all’originale.

[2] Damasio chiama immagini i prodotti elaborati da tutti i moduli sensoriali e non solo quelli elaborati nell’ambito della visione.

[3] Per questo motivo i supporti di memorizzazione del linguaggio (in particolare la scrittura e la stampa) sono così importanti nello sviluppo ontogenetico e in quello filogenetico.

[4] Naturalmente gli stili sarebbero diversi da individuo a individuo. Ma le specifiche culture di appartenenza potrebbero favorire determinati stili piuttosto che altri, frutto delle relazioni sociali, delle credenze, dell’educazione, dell’apparato concettuale e linguistico disponibile.

[5] Spesso è stato giustamente osservato che quanto viene considerato patologico sia semplicemente diverso. In effetti la patologizzazione del diverso ha giocato un ruolo importante nei rapporti di potere tra gli individui, le generazioni, i sessi, le classi, le etnie, ecc. Non altrettanta attenzione è stata posta al fenomeno opposto che – con un neologismo – potremmo chiamare l’alterizzazione del patologico. Le manifestazioni d’immaturità, le carenze, le deficienze di qualsiasi tipo vengono considerate e giustificate come una scelta, come un’adesione cosciente a una qualche specifica cultura.

[6] Questa distinzione è stata classicamente tracciata da Durkheim: la solidarietà meccanica è quella tipica delle tribù primitive, dove gli individui sono “tutti uguali” perché rigidamente inculturati, la solidarietà organica è quella tipica delle moderne società differenziate che valorizzano l’individualità.

[7] L’onnipotenza della cultura (a discapito dell’individuo) ricorda tanto l’onnipotenza dello Spirito universale, a discapito del singolo individuo nella cultura romantica: i romantici sono stati i primi tra i contemporanei a celebrare lo smarrimento individuale e a consegnare la storia e la società nelle mani di forze sovra individuali.

[8] Non mi riferisco alla flessibilità oggi di moda che consiste nello zapping, nel saltare da un contenuto all’altro, quanto alla capacità di costruire autonomamente la propria identità personale.

[9] Si vedano Dennett, Minsky, Gazzaniga.

 

 

 

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