mercoledì 12 marzo 2025

Pulcini aritmetici e pollastri filosofici. Noterelle su Kant, gli “a priori” e l’evoluzione darwiniana








1. Non è chiaro[1] perché ci siano in giro così numerose false credenze che hanno una notevole forza di penetrazione e che, dopo un po’, le condividono tutti. Forse perché sono soltanto verosimili. O forse anche perché sono diffuse da fonti a torto ritenute autorevoli. Qualcuno le chiama memi. Dan Sperber si è addirittura lanciato – meritoriamente – a ragionare intorno a una epidemiologia delle credenze.[2] In effetti, certe credenze si diffondono in modo irresistibile, quasi come per contagio. La credenza di cui mi vorrei occupare è quella per cui i notevoli progressi della scienza e della tecnologia dei nostri tempi starebbero riabilitando numerose vecchie idee che a torto erano state considerate ormai sorpassate. Si tende a ritenere, in altri termini, che i nuovi risultati delle più recenti ricerche scientifiche non siano poi così tanto nuovi, e che studiosi e filosofi del passato, oggi ingiustamente trascurati, li avessero già preceduti o anticipati. Costoro avevano in realtà visto giusto e, finalmente, le nuove acquisizioni li stanno riabilitando. Come vedremo, in realtà spesso non è così. Spesso accade che la somiglianza tra le vecchie idee e le nuove acquisizioni sia più apparente che reale.

2. È il caso di precisare che condivido pienamente l’epistemologia fallibilista di Popper, dalla quale deriva che nessuna teoria può essere rigettata definitivamente. Una teoria può essere rigettata solo fino a prova contraria. Per cui può benissimo accadere che idee cadute nel discredito per lungo tempo possano essere riabilitate. In linea puramente di principio, è possibile dunque che l’astrologia possa un giorno essere riabilitata. Potremmo magari anche riabilitare la frenologia, magari quando la nostra conoscenza del funzionamento del cervello sarà più avanzata. Così ci sono buone speranze anche per l’argomento ontologico di Anselmo d’Aosta, oppure per l’eterno ritorno dell’identico di Nietzsche. Aspettiamo fiduciosi. Dopo Popper, a niente e a nessuno si può negare la possibilità teorica di una riabilitazione.

3. Oggi vorrei trattare in particolare dell’idea diffusa secondo cui la teoria evoluzionistica darwiniana, la biologia e le neuroscienze starebbero confermando la tesi di fondo contenuta nella Critica della ragion pura di Immanuel Kant, cioè la tesi per cui le forme a priori contenute nella nostra mente costituirebbero[3] la nostra esperienza del mondo. Kant stesso ha definito questa tesi come idealismo trascendentale. Oggi dell’idealismo trascendentale non se ne parla più di tanto, ma tanti sembrano morire dalla voglia di riabilitare gli a priori e gli schemi della CRP.

4. L’idea generica che sta dietro alla tesi di Kant è che il nostro Mondo non sia qualcosa di oggettivo, ben distinto e indipendente da noi, ma che in realtà sia costruito da noi (= costituito), dalla nostra mente, attraverso le varie forme a priori o schemi, di cui essa è dotata. Questa tesi, più in generale, può essere anche definita come costruttivismo. Essa intenderebbe andare oltre il senso comune, secondo il quale noi vivremmo invece in un mondo di cose che sono del tutto indipendenti da noi e dalla nostra mente. Insomma, la realtà sarebbe in parte o completamente una costruzione del soggetto, e magari tutto ciò potrebbe avvenire anche inconsapevolmente. Questa tesi ha avuto una enorme fortuna, fino a tutto il Novecento, soprattutto nella filosofia continentale.[4] Ne consegue che le teorie costruttiviste siano oggi piuttosto familiari a chiunque si sia interessato appena un po’ di divulgazione scientifica e di filosofia.

5. È però il caso di osservare subito che il costruttivismo si presenta (semplificando un poco la questione) in due versioni opposte che chiamerò costruttivismo forte e costruttivismo debole. Secondo il costruttivismo forte (quello che può essere attribuito a Kant e a molti filosofi continentali dopo di lui), tutta la nostra esperienza (= il fenomeno) è costruita da noi grazie ai nostri schemi e a priori. Secondo il costruttivismo debole, invece, soltanto alcuni aspetti, peraltro piuttosto circoscritti, della nostra realtà sono effettivamente costruiti da noi. In quest’ultimo caso si tratta allora di entrare nel merito e specificare cosa sia effettivamente costruito da noi e cosa invece sia indipendente da noi. Sono queste questioni che oggi attengono alla ontologia, quella disciplina filosofica che, secondo W. V. O. Quine, è impegnata a rispondere alla domanda «Che cosa c’è?».

6. Non dovrebbe sfuggire la rilevanza della distinzione qui proposta. Il costruttivismo forte si spinge a sostenere che tutto è in qualche modo costruito da noi (= dal soggetto o eventualmente da un soggetto analogo più grande di noi che ci comprende). Il che significa, come conseguenza minima, che tutto quel che c’è sarebbe soltanto una mera nostra rappresentazione. Quella che chiamiamo realtà sarebbe più che altro una nostra illusione. Siamo proprio noi a produrre, magari inconsapevolmente, questa illusione e poi ce la ritroviamo di fronte come se fosse un Mondo vero. Questa natura illusoria della nostra realtà sarebbe inevitabile e ad essa di norma non possiamo sfuggire. In questa situazione, è chiaro che la verità (=l’obiettivo della conoscenza) diventa pressoché solo una riflessione del soggetto. La conseguenza più ovvia di una simile situazione è il relativismo. Ci sono solo punti di vista che, come tante monadi, si equivalgono. Qualora il soggetto sia considerato come sovra individuale, avremo il suo opposto, e cioè l’assolutismo.

7. Il costruttivismo debole ha invece una prospettiva ontologica diametralmente opposta. Pur ammettendo che qualcosa è costruito dal soggetto, esso ritiene che il soggetto sia comunque posto di fronte a una oggettività che lo limita. La realtà in cui il soggetto è immerso non sarebbe affatto una rappresentazione. Il costruttivismo debole è dunque del tutto compatibile con una qualche prospettiva realistica e con una qualche teoria della verità come corrispondenza. Siccome ci sono dei fatti collocati in un mondo esterno, vero è ciò che corrisponde ai fatti.

8. La pretesa riabilitazione della tesi di Kant contenuta nella CRP, di cui mi occuperò in questo saggio si basa su un argomento decisamente farlocco che a questo punto, spero, sia divenuto ben chiaro e comprensibile: siccome le scienze ci stanno mostrando, in alcuni ambiti piuttosto circoscritti, il costruttivismo debole all’opera, allora ci sentiamo autorizzati a vedere costruzioni ovunque e ad avallare così il costruttivismo forte. Oppure possiamo sentirci spinti a considerare il costruttivismo forte come fosse un costruttivismo debole. In entrambi i casi tendiamo a riesumare Kant e ad adottare la CRP come la nostra divisa d’ordinanza.[5]

9. Il costruttivismo debole si basa senz’altro su svariati risultati delle scienze guadagnati in diversi ambiti. Anzitutto, abbiamo la realtà sociale. Tutti o quasi gli aspetti del mondo sociale sono altamente costruiti da noi. Si vedano su questo punto i lavori di John Searle. In particolare Searle 1995. Ma la cosa qui è abbastanza ovvia. Un altro ambito rilevante è quello della genetica. Il codice genetico evoca l’idea di uno schema innato che viene trasmesso e che ci costituisce da capo a piedi e determina anche come vediamo il mondo. Ciò che consideriamo realtà è ciò che il nostro codice genetico ci fa vedere. Le neuroscienze mostrano ogni giorno i correlati neurali di funzioni che invece tradizionalmente erano attribuite alla libertà dello Spirito.[6] L’ipotesi è che i processi neurali finiscano per determinare molti dei nostri comportamenti. Lo studio del comportamento e delle funzioni cerebrali dei neonati della nostra specie, e di altre specie animali, mostra sempre più marcatamente come il cervello appaia del tutto predisposto, fin dalla nascita, a rispondere con intelligenza all’ambiente, come sia dotato cioè di schemi cognitivi innati. La teoria della evoluzione stessa mostra come le diverse specie ereditino dai predecessori i loro pacchetti di schemi selezionati, con i quali possono adattarsi all’ambiente.

10. La conclusione piuttosto confusa che si può trarre da questa marea di dati è che, in generale, la nostra esperienza del mondo (= il fenomeno) sia resa possibile (o addirittura sia interamente governata) dagli schemi ereditati. Dunque si è spinti a concludere che in fondo Kant aveva visto giusto. Kant non poteva conoscere nulla di genetica ed evoluzione ma aveva intuito la verità. Egli viene dunque come minimo considerato come un precursore di tutti questi sviluppi. In realtà, come vedremo, tutte queste evidenze rientrano ancora nell’ambito di un costruttivismo debole. E hanno con la tesi dell’a priori di Kant solo una vaga analogia.

11. Il problema allora è quello di distinguere accuratamente cosa è costruito da noi e invece cosa non è affatto costruito da noi. E decidere se per caso non riteniamo, come Kant, che tutto sia costruito. Il che peraltro rinvia a una questione davvero complessa e controversa su quanto vi sia di innato od acquisito nella natura umana. Ad esempio, il linguista e filosofo Noam Chomsky ritiene, e io sono pressoché sicuro che abbia ragione, che noi umani ereditiamo una predisposizione ad apprendere le grammatiche, senza la quale non avremmo linguaggio e non avremmo cultura umana. D’altro canto sono altrettanto sicuro che, come sostengono i genetisti, noi non ereditiamo la razza, poiché le razze umane oggi non esistono più. Possiamo ereditare certi tratti somatici, la propensione a sviluppare certe malattie, alcune specifiche abilità e così via. Tutta questa problematica rientra comunque sempre in quello che ho definito costruttivismo debole. Che non va assolutamente confuso con il costruttivismo forte. Il costruttivismo debole generalmente si mantiene nell’ambito delle evidenze scientifiche. Il costruttivismo forte implica invece una posizione metafisica.

12. L’argomento, come ognun vede, è di amplissima portata è ovviamente non posso sperare di esaurirlo nel breve contesto di questo scritto. Mi terrò anche lontano dal costruire una qualsiasi teoria generale. In pratica, mi limiterò invece ad esaminare le questioni che ci interessano attraverso la lettura analitica di un paio di testi che, in un modo o nell’altro, avallano la confusione tra i due tipi di costruttivismo di cui s’è detto. Cercherò di far emergere come si giunga in pratica allo uno stiramento illecito della posizione di Kant, che poi è una banalizzazione bella e buona, tanto da trasformare la sua figura di metafisico in quella di un biologo evoluzionista, oppure di uno scienziato cognitivo. La scelta che ho fatto dei due testi da esaminare è abbastanza casuale e non corrisponde ad alcuna rassegna sistematica della letteratura esistente in proposito. La scelta del primo testo è dovuta alla mia delusione in seguito all’acquisto e alla lettura de Il pulcino di Kant di Giorgio Vallortigara.[7] La scelta del secondo testo, il Ritrattino di Kant a uso di mio figlio di Massimo Piattelli Palmarini,[8] è stata dovuta alla esemplarità dello stravolgimento di Kant in direzione cognitivista operata dal suo Autore.

13. Qualche tempo fa, l’ottimo Giorgio Vallortigara, scienziato di chiara fama e piacevole divulgatore scientifico, ha prodotto un saggio, per l’appunto divulgativo, nel quale egli riporta una serie di risultati sperimentali condotti per lo più su piccoli animali, pulcini e polli in particolare, dai quali risulta in maniera straordinaria la presenza rilevante di conoscenze innate trasmesse geneticamente. Si tratta ovviamente di predisposizioni, conoscenze implicite, genetiche o epigenetiche, che possiedono tutti coloro che appartengono alla medesima specie. Il libro è interessantissimo e oltremodo divertente. E, senz’altro, è atto, se ce ne fosse bisogno, a sostenere la tesi secondo cui i viventi vengono al mondo già con una serie ragguardevole di predisposizioni (chiamiamoli pure schemi, se vogliamo). Ciò tende ovviamente a smentire le classiche teorie della tabula rasa, suggerendo che, nelle prime fasi della vita, noi assistiamo più che altro a un processo di interazione efficace e proficua tra un ambiente interno ereditato e un ambiente esterno in cui siamo collocati dalla sorte. Non si tratta neanche di cose nuove. I meccanismi della ereditarietà sono noti, in maniera più o meno vaga, fin dalla notte dei tempi, da quando abbiamo cominciato a selezionare vegetali e animali.

14. Ma torniamo a Vallortigara. L’unica cosa che non va di questo libro è il titolo. Il volume si intitola “Il pulcino di Kant” e il titolo stesso spinge il lettore proprio nella direzione del meme di cui si diceva in apertura. E cioè che, sulla questione degli a priori o degli schemi mentali, la biologia contemporanea, la teoria della evoluzione e le neuroscienze oggi darebbero ragione a Kant.

In realtà – e qui sta una certa sorpresa – il libro di Vallortigara non parla affatto di Kant. Me ne ero ben accorto leggendolo. Così ho fatto una ricerca sul testo digitale del libro dalla quale è risultato che – tralasciando il titolo e l’indice dei nomi – il nome di Kant viene citato appena due volte. Una volta per confutare lo stesso Kant e una volta per travisarlo. Vediamo.

15. La prima volta Kant è nominato nell’introduzione, dove Vallortigara, cercando di spiegare perché, nella sua gioventù, aveva deciso di dedicarsi alla biologia, afferma quanto segue: «A farmi decidere alla fine fu L’altra faccia dello specchio di Konrad Lorenz, la cui tesi di fondo, che l’«a priori» kantiano fosse un «a posteriori» filogenetico, faceva intravedere la possibilità di studiare il tema che mi stava a cuore con i metodi delle scienze naturali». Ora, se il punto di partenza del giovane Vallortigara, su impulso di Lorenz, è stata la convinzione che l’a priori kantiano fosse in realtà un a posteriori filogenetico, allora il pulcino non è proprio di Kant ma dell’evoluzione, la quale “ragiona” in modo completamente diverso da Kant. Insomma, nella sua introduzione Vallortigara distrugge il suo stesso titolo. Si è dedicato alla biologia in un certo senso proprio perché questa smentiva l’a priori di Kant. Il pulcino di Vallortigara dunque non c’entra proprio con Kant. Chi ha scelto il titolo? Perché il costruttivismo forte di Kant è ridotto al costruttivismo debole del pulcino? Kant neuroscienziato ante litteram? Una furberia per andare incontro alla domanda di rivalutazione di Kant da parte di tutti i frustrati intellettuali continentali? Sfruttamento del nome di Kant per vendere qualche copia in più?

16. L’altra citazione del nome di Kant presente nel libro – nel contesto di un resoconto sperimentale che non sto qui a riportare – è la seguente: «Come per il senso del numero, ci sono prove che anche questo elementare senso euclideo della geometria faccia parte dell’equipaggiamento di base del cervello degli animali. Un’idea che probabilmente sarebbe piaciuta a Immanuel Kant, secondo il quale spazio, tempo e numero sono intuizioni a priori, che precedono e strutturano il modo in cui sperimentiamo l’ambiente».[9] Qui, palesemente, il costruttivismo assai debole del pulcino euclideo viene accostato al costruttivismo forte di Kant. Possiamo noi osservare che, in realtà, la notizia a Kant non sarebbe piaciuta più di tanto, l’avrebbe considerata una forma di psicologismo. Oltretutto, il riferimento in questi termini a Kant è fuorviante poiché, per Kant, l’a priori assolutamente non fa parte dell’equipaggiamento di base della mente degli animali. Per Kant gli animali non pensano, non hanno un Intelletto. Non hanno una esperienza. Non sono dei soggetti. Non hanno uno spirito come gli umani. [10]

Giustamente Vallortigara riporta che per Kant «spazio, tempo e numero sono intuizioni a priori» le quali “precedono” e “strutturano”, ma il precedere e strutturare di Kant è metafisico e non evoluzionistico e/o cognitivistico. Sarà un dettaglio, ma a noi pare piuttosto rilevante. Se il giovane Vallortigara era interessato al problema metafisico dell’a priori avrebbe dovuto studiare metafisica e non biologia. La metafisica sarà anche discutibile, ma si confuta, se si vuole, sul suo terreno.

17. Così accade in definitiva che l’intero libro di Vallortigara, pieno di ingegnosi risultati sperimentali che testimoniano la presenza negli animali di un notevole patrimonio cognitivo innato viene – a partire dal titolo equivoco – associato, senza spiegazione alcuna, agli a priori kantiani facendo senz’altro opera di mistificazione e di stravolgimento delle effettive posizioni kantiane. Il costruttivismo debole viene usato per suggerire un costruttivismo forte che negli animali di Vallortigara proprio non c’è. E, kantianamente, non ci potrebbe neanche essere.

18. Ma proviamo, per puro divertimento, a fare qualche ragionamento proprio su un ipotetico pulcino kantiano. Magari potremmo imparare qualcosa. Sorvoliamo sul fatto – come ho già spiegato – che Kant non riteneva che gli animali avessero una mente.[11] Da buon leibniziano, Kant riteneva che i viventi fossero solo degli aggregati, dei composti. Gli esseri umani invece erano, a tutti gli effetti, delle monadi spirituali dotate di sensibilità e Intelletto. Per avere un pulcino kantiano dobbiamo allora mettere uno spirito[12] umano dentro al pulcino. Questo dovrebbe allora avere, per intanto, una appercezione umana con dentro gli a priori di spazio, tempo e le altre categorie trascendentali, e dovrebbe produrre la sua stessa esperienza attraverso una sintesi a priori. Il pulcino sarebbe così come una monade auto cosciente (= dotata di appercezione) che al proprio interno rappresenta se stesso e tutta la sua esperienza grazie ai suoi stessi a priori. Gli altri pulcini, altrettante monadi spirituali, faranno la stessa cosa e le loro rappresentazioni si intrecceranno grazie al fatto che condividono gli stessi a priori (= potranno così conoscere e ragionare nel loro comune Mondo pulcinesco). In altri termini, la condivisione degli stessi a priori è il modo in cui Kant assicurava la sua armonia prestabilita tra gli spiriti. Le cose spazial-temporali che il pulcino aritmetico conta (= il fenomeno) sono cose generate entro lo spazio e il tempo locati nello spirito del pulcino stesso! Sono queste delle rappresentazioni che avvengono nella monade pulcinesca. Si noti che, per la parte empirica, il pulcino rappresenta anche se stesso come parte della rappresentazione. Si tratta di una condizione ontologica dalla quale il pulcino non può uscire.[13] Una situazione della quale la bestiola neanche si accorge. Questo è il costruttivismo forte. Questo è il pulcino impossibile che sarebbe piaciuto a Kant.

19. Proviamo a confrontare il nostro pulcino kantiano con un pulcino non kantiano, che dispone soltanto dei suoi schemi evoluzionistici da prosaico costruttivismo debole. Il pulcino come specie gallinacea è diventato aritmetico, o euclideo, per il fatto che, per non so quanto tempo, i suoi progenitori genetici si sono riprodotti, con relativo successo, in un ambiente naturale sufficientemente stabile. La selezione darwiniana ha fatto il suo lavoro e ha generato nel suo cervello degli schemi biologici che, in un certo senso, hanno delle aspettative verso il mondo esterno, che c’è (= esiste), che non è un semplice rappresentato, una produzione/ creazione dello spirito del pulcino. Così, quando esce dall’uovo, il pulcino si aspetta di trovare, nello spazio e nel tempo fisico, delle cose da contare. Si aspetta di trovare una chioccia con cui interagire, e così via. Magari banalmente anche dell’aria da respirare, visto che nasce già dotato di polmoni.

20. Finché l’ambiente è stabile il gioco interattivo dell’evoluzione funziona e il pulcino sarà ben adattato al mondo esterno. Poniamo però che l’ambiente esterno, per qualche causa lontana, si modifichi radicalmente: quel cervello pulcinesco, accuratamente prodotto dall’evoluzione, con tutti i suoi schemi, non troverà più niente da contare, oppure quel suo saper contare non basterà più comunque a farlo sopravvivere. Così il pulcino come specie, se non saprà adattarsi rapidamente, sparirà. Sarà cioè confutato da qualcosa di ignoto che esiste fuori di lui. L’evoluzione, come lo ha lentamente costruito, può ben distruggere il cervello aritmetico del pulcino. È esattamente quel che è successo ai dinosauri e a tutti gli altri animali estinti.

La ragione ontologica ultima è che l’evoluzione presuppone che ciò che evolve sia messo in relazione con un mondo esterno, e che questo sussista indipendentemente. Che sia mind-independent. Quello dell’evoluzione è sempre un costruttivismo debole. Da ciò si ricava che l’evoluzione implica dunque necessariamente un qualche tipo di realismo. L’evoluzione, con il suo cieco operare, non può che essere la confutazione degli a priori kantiani. Chi crede all’evidenza scientifica dell’evoluzione darwiniana non può sostenere il costruttivismo forte kantiano.

21. Se invece il pulcino fosse davvero kantiano, incorrerebbe in quello che ho chiamato il circolo vizioso dell’a priori.[14] Continuerebbe a vivere in un ambiente che è una rappresentazione prodotta totalmente dai suoi stessi a priori e non sarebbe mai confutato, almeno come specie. Non sarebbe neanche confutabile. Se con un esperimento mentale lo forzassimo a evolvere darwinianamente, avremmo il paradosso di un pulcino fenomenico che sta evolvendo nel suo stesso spazio tempo, generato dal suo stesso spirito, mentre però le sue forme a priori (= sensibilità, Intelletto e appercezione pulcineschi) dovrebbero per definizione restare fuori da ogni evoluzione. Avremmo un gallinaceo metà metafisico e metà fenomenico! Sarebbe una sintesi a priori piuttosto farlocca. Gli a priori non evolvono. Sennò sarebbero degli a posteriori. Si conferma che il circolo vizioso dell’a priori è un pastrocchio metafisico, un misleading intrinseco al sistema kantiano, che è incompatibile con l’evoluzione darwiniana.

22. Piuttosto delusi dal pulcino kantiano di Vallortigara, possiamo ora permetterci una nostra seconda scorribanda testuale.[15] Massimo Piattelli Palmarini – d’ora in poi PP – noto studioso nel campo delle scienze cognitive e anche dell’evoluzione, è autore di un simpatico librettino intitolato Ritrattino di Kant a uso di mio figlio. Il suo proposito è del tutto divulgativo: si tratta di riassumere Kant in poche decine di pagine, ad usum delphini. Preciso che ai divulgatori – mestiere difficilissimo – va tutta la mia sincera simpatia. Del resto, nei miei scritti, mi capita spesso di fare della divulgazione, bene o mal riuscita che sia. Del librettino di PP prenderò in esame solo la parte relativa ai temi di cui ci stiamo occupando e cioè quanto riguarda la CRP. Il divulgatore PP è costretto purtroppo a risolvere la questione in una decina di paginette (da p. 49 a p. 58), ma la brevità non costituisce un limite, poiché a noi interessa soprattutto esaminare come viene impostata la questione. Lo seguiremo passo a passo nella sua esposizione. Anche in questo caso andremo alla ricerca di eventuali confusioni tra costruttivismo debole e costruttivismo forte.

23. PP si presenta fin dall’inizio come un fervente kantiano e non risparmia a Kant una marea di apprezzamenti, considerandolo quanto mai attuale. Così esordisce con la sua trattazione dei temi della CRP: «Il problema di Kant è quello dei rapporti tra conoscenze a priori e conoscenze a posteriori. Il suo grande successo ancor oggi, consiste nell’aver rivoluzionato il rapporto tra queste due forme di conoscenza».[16] Da queste prime parole si evince però subito purtroppo che, per il nostro, la CRP sia fondamentalmente un testo che si occupa di teoria della conoscenza. A PP sembra sfuggire completamente il fatto che, invece, ha in mano un’opera di metafisica. Più precisamente, di ontologia. Certo, la mascheratura della ontologia da epistemologia è stata in parte opera intenzionale di Kant, ma non è detto che uno ci debba proprio cascare.[17]

24. Incentrando la sua argomentazione intorno alla questione della conoscenza, PP espone al suo lettore i limiti del metodo deduttivo, metodo che tuttavia, ahimè, confonde con l’a priori. Non è proprio la stessa cosa. Mi spiego: dovrebbe esser chiaro che gli assiomi di Euclide, che pure usa il metodo deduttivo, non sono a priori kantiani, cioè non sono trascendentali. Anche il principio di non contraddizione di Aristotele non è un a priori kantiano. La storia dei limiti del metodo deduttivo comunque è vecchia come il cucco e noi la condividiamo perfettamente: il metodo deduttivo è formidabile, ma abbisogna, in ultima analisi, sempre, dell’assunzione arbitraria di qualche principio dato per scontato, da cui fare derivare tutto il resto. Ma – sostiene ancora PP proseguendo – anche le conoscenze a posteriori, quelle che corrispondono cioè al metodo induttivo, hanno i loro limiti. E fin qui ancora ci siamo. Bisogna allora riconoscere che, secondo una convinzione diffusa, entrambi i procedimenti hanno i loro pregi e i loro difetti. Del resto, comunemente si ritiene che non si possa essere contemporaneamente deduttivi e induttivi. Basterebbe accettare i nostri limiti, come creature finite, e il caso sarebbe chiuso. Faccio finta, qui, di non sapere che W. V. O. Quine ha messo in discussione la distinzione tra analitico e sintetico comunemente data per scontata. Si veda il saggio Due dogmi dell’empirismo, contenuto in Quine 1953.

25. Ma c’è sempre, ahimè, qualcuno che non si rassegna ai propri limiti. A partire dai limiti della deduzione e dell’induzione, PP individua quello che sarebbe, secondo lui, lo scopo precipuo della CRP: «Kant capì che l’empirismo aveva dei punti deboli, anzi debolissimi. […] Né il lavoro a priori da solo, né il lavoro a posteriori da solo erano in grado di spiegare come mai possiamo conoscere il mondo e fabbricare delle certezze razionali. […] occorre qualcosa di intermedio, di diverso, qualcosa che prenda il meglio di tutti e due».[18] PP non si interroga granché circa la fattibilità di una simile ambiziosa impresa, anche se a noi fa sorgere spontanea una domanda: come mai nessuno ci aveva pensato prima? PP non si interroga neanche sul prezzo che Kant dovrà pagare per realizzare l’impresa. Prezzo che, come vedremo, sarà necessariamente costituito dalla adesione a quello che abbiamo chiamato costruttivismo forte.

26. A questo punto PP sembra però avere qualche scrupolo di coscienza, qualche esitazione. Infatti, secondo lui, a partire da questa esigenza di fondere induzione e deduzione: «Kant mette insieme una specie di “mostro” filosofico, una chimera, un pasticcio geniale. L’idea era inaudita e quasi scandalosa. Ancora oggi, a due secoli di distanza, c’è chi storce il naso davanti a questo brutto “pasticciaccio” Kantiano».[19] Si tratta, ovviamente della sintesi a priori.

Conveniamo perfettamente con la drammatizzazione di PP, il quale sembra, per un attimo, prendere le distanze dall’operazione kantiana. Noi, per quel che conta il nostro modesto parere, siamo senz’altro tra coloro che continuano a storcere il naso. Nel proseguimento del discorso però PP supera invece ogni dubbio e la sintesi a priori kantiana sembra andargli benissimo. Il problema è che non s’accorge che, così facendo, dovrebbe aderire, come Kant, al costruttivismo forte, con tutte le sue conseguenze. PP lascia così il proprio figliolo del tutto ignaro della cosa e indifeso di fronte a una eventuale adesione all’idealismo.

27. Si tratta ora, finalmente, di spiegare cosa sia questa mirabile sintesi a priori. Questa consisterebbe in: «Un processo di conoscenza che ha lo stesso a priori della matematica e lo stesso a posteriori delle scienze».[20] Profondamente vero, almeno in teoria e stando a Kant, ma anche qui, per poter dire di avere realizzato la cosa, si deve purtroppo passare al costruttivismo forte e si deve fare della metafisica. Bisognerà mescolare insieme a priori e a posteriori, matematica e scienza e, per di più, bisognerà ficcare il tutto dentro la mente umana. La conseguenza inevitabile sarà che Tutto, o quasi, dovrà necessariamente diventare mind-dependent.

28. Ma vediamo in dettaglio le strategie argomentative di PP. La prima strategia di spiegazione è quella della forma, quale che sia, che conferisce una forma al suo contenuto. Il caso trattato a mo’ di esempio è quello del liquido che prende la forma del recipiente nel quale è stato versato. Il recipiente è l’a priori, il liquido è l’elemento sintetico a posteriori, la materia della conoscenza. Come nel caso del recipiente, osserva PP che: «Le esperienze sono, diciamo oggi una parola di moda, “strutturate” secondo le strutture della conoscenza umana».[21] Peccato che questa argomentazione sia solo analogica e del tutto insufficiente, un mero esempio per principianti. Qui siamo ancora nel campo del costruttivismo debole, anzi, debolissimo. È una ovvietà che il liquido prenda la forma del recipiente. Ugualmente, quel che passa per una lente viene deformato dalla lente. La lente conferisce cioè una forma. Il daltonico, visto il disturbo percettivo che ha, vede verde dove tutti gli altri vedono rosso. Il disturbo percettivo conferisce una forma al colore percepito. Diremo allora che il daltonismo è la prova della sintesi a priori? I cani ascoltano dei suoni per noi non udibili. Evidentemente le nostre strutture cognitive/ percettive di umani non riescono a “strutturare” certe frequenze. Le “strutture” dei cani lo fanno. Metteremo i fischietti come prova a supporto della CRP? E che dire delle allucinazioni, dei sogni e delle illusioni ottiche?

29. È chiaro che le facili analogie non bastano. Se non introduciamo a questo punto la necessaria rivoluzione copernicana non avremo alcuna sintesi a priori. Ciò è a dire che, se non ficchiamo Tutto (= tutta la Natura) nella mente, la sintesi a priori non può funzionare. La nostra mente continuerà invano a girare intorno agli oggetti. Occorre invece che siano gli oggetti ad adattarsi alle forme a priori della nostra mente. Proprio per questo gli oggetti stessi vanno messi dentro la mente. A questo punto PP deve introdurre necessariamente lo spazio e il tempo come a priori della mente. Si noti che Kant, tanto per chiarire cosa stava facendo, nella Estetica, dove si tratta dello spazio e del tempo, aveva utilizzato una esposizione metafisica e una esposizione trascendentale. Tanto per segnalare ai perplessi che ormai (e siamo appena all’inizio della CRP) non si tratta più di teoria della conoscenza, si tratta di ontologia generale.

30. Ma vediamo l’argomentazione base di PP: «Io non “imparo” lo spazio e il tempo ricavandolo dalle cose, io possiedo già, fin dalla nascita, le dimensioni spazio e tempo. Io “impongo” queste dimensioni al mondo sensibile, ce le proietto sopra, non le “bevo” dal mondo. […] Queste forme sono a priori, cioè precedono l’esperienza. Però l’esperienza occorre, altrimenti resto con dei recipienti vuoti, inutili».[22] Segnalo anzitutto che questa formulazione implica una strana cosa: che il Mondo, di suo, sia senza spazio e senza tempo. Si tratta di una tesi impegnativa che produrrà l’impiccio del noumeno.

Andrebbe poi osservato che a priori non vuol dire proprio la stessa cosa di innato. Il cane ha uno schema innato nel suo cervello che lo abilita ad ascoltare ultrasuoni, ma questo schema è evolutivo, non è a priori. PP non coglie che spazio e tempo kantiani non sono proprio come i fiaschi che danno forma al vino, come la lente che deforma la luce e simili. Il lettore attento avrà notato che, nel testo, compare al più il costruttivismo debole, tipo pulcino aritmetico. Qui spazio e tempo sono trattati come banali schemi cognitivi, come mettersi e togliersi gli occhiali. In Kant invece, è bene ricordarlo, spazio e tempo sono degli a priori del soggetto trascendentale, posti a livello della sensibilità e non dell’Intelletto. Il soggetto trascendentale è metafisico, lavora dentro di me senza che io lo sappia o lo possa controllare.[23] Questo perché io stesso sono uno spirito, una sostanza metafisica. Spazio e tempo comprendono in sé stessi tutta la Natura (= il fenomeno dal punto di vista della mia appercezione). Spazio e tempo per Newton erano il sensorium Dei. Il luogo infinito dove Dio collocava la sua creazione. In Kant diventano il sensorium hominis, ma funzionano proprio nello stesso modo. Mettendo spazio e tempo nella “mente” o spirito, il costruttivismo kantiano diventa costruttivismo forte. Diventa cioè idealismo trascendentale.

31. Ma il nostro PP aggiunge un ulteriore argomento, sempre per spiegare la sintesi a priori: «Lo stesso vale, per Kant, a proposito della nozione di causa. Le spiegazioni scientifiche sono sempre fatte in termini di cause […]. Il concetto che qualcosa sia la causa di un’altra cosa io ce l’ho dentro a priori, non lo derivo da quanto osservo intorno a me».[24] A questo punto, PP introduce l’esempio del “daltonico della causalità”: se non fossimo in grado di avere cognizioni intorno a cause ed effetti non riusciremmo a sopravvivere. Questo è davvero un caso esemplare di degrado cognitivista della metafisica kantiana. Siamo nuovamente d’accapo: nell’esempio, le forme a priori kantiane sono ridotte a strutture cognitive di un soggetto umano empirico.

32. Aggiunge poi PP, chiarendo definitivamente quel che ha in mente circa la sintesi a priori: «L’esperienza non può insegnarci né il tempo, né lo spazio, né la causa. Assai più recentemente, quando gli psicologi hanno cominciato a osservare sistematicamente come il bambino piccolissimo, perfino il lattante, conosce il mondo, hanno potuto verificare quanto Kant affermava: il bambino viene al mondo sapendo già come trattare il tempo, lo spazio e la causalità».[25]

Il lettore riconoscerà perfettamente, anche in questo caso, l’argomento del pulcino. Ancora una volta il costruttivismo debole scambiato con quello forte. Occorre allora ribadire che le strutture cognitive di cui l’evoluzione ha dotato pulcini e bambini nulla hanno a che fare con gli a priori kantiani. Siamo in presenza di vaghe analogie e anche forse di scarso studio sul testo della CRP. Lo psicologo e filosofo strutturalista Jean Piaget – che pure era stato notevolmente influenzato da Kant – non ha mai preteso che le strutture mentali del bambino – che pure si accrescono progressivamente in interazione con l’ambiente – fossero degli a priori metafisici. Anche se era uno strutturalista e qualche tentazione deve averla avuta. Comunque, a questo punto, dopo avere esposto i suoi argomenti ritenuti più forti, PP conclude: «Kant aveva visto giusto».[26]

33. Resta, a onor del vero, da commentare un passo dove PP sembra invece avvicinarsi alla verità della questione, pur senza trarre tuttavia le dovute conseguenze. «La sintesi a priori è un mettere contenuti esterni […] dentro forme interne proprie alla nostra specie per sua natura. (Oggi diremmo “innate”, ma si noti che per Kant queste erano necessarie e universali, quindi non soggette a “evoluzione”, così come la si intende da Darwin in poi; per alcuni scienziati cognitivi non strettamente “darwiniani” – tra i quali io sono – è tuttora assai problematico combinare felicemente questa inneità e questa necessità con la zigzagante storia evolutiva della nostra specie)».[27] La parte interessante è quella tra parentesi. Qui PP precipita dalle stelle della metafisica kantiana nelle stalle della specie. E per giunta getta anche un’ombra sul perfezionismo della evoluzione. Meno male. Nessuno ha mai giurato sul perfezionismo della evoluzione. Abbiamo già visto abbondantemente che se si è evoluzionisti non si può ammettere l’a priori kantiano. Eppure l’evoluzionista PP sposa integralmente il progetto della CRP.

34. Esaurita la questione della sintesi a priori, evidentemente PP pensa che Kant abbia finalmente raggiunto il suo scopo, abbia compiuto il miracolo di mettere insieme matematica e scienza, deduzione e induzione. Di avere finalmente realizzato, direi io, la metafisica come scienza. PP può permettersi a questo punto di polemizzare contro i razionalisti[28] e gli empiristi: «Kant […] con la sua sintesi a priori, cioè con l’idea di una forma innata (tempo, spazio, numero, causa, scopo e poche altre cose fondamentali) e di contenuti a posteriori, riuscì a liberarci sia dal dogmatismo che dallo scetticismo. L’invenzione, o piuttosto la scoperta, della sintesi a priori segnò una rivoluzione in filosofia».[29] Qui non ci siamo proprio. A parte un a priori denominato “scopo”, di cui nessuno ha mai sentito parlare (a meno che non si tratti di uno scivolamento sulla terza critica, sulla teleologia), Kant, a conti fatti, non ci ha affatto liberati dallo scetticismo e dal dogmatismo. I contributi dati dal kantismo alla metodologia delle scienze e alla epistemologia sono sempre stati limitatissimi. Per il fatto che nella CRP (prima parte) è contenuta una metafisica (= ontologia) scomoda e alquanto invasiva. Basta vedere quello che hanno fatto i successori di Kant. Ma qui debbo rinviare ancora al mio saggio precedente.[30]

35. Dopo avere intonato taluni peana alla “rivoluzione copernicana”, PP osserva che: «Kant non nega affatto che le cose esistano, non dice che ci inventiamo il mondo (questo lo diranno alcuni suoi continuatori, poi divenuti avversari […]. Dice che noi lo organizziamo secondo le forme a priori del nostro percepire e del nostro intendere)».[31] Questa a noi pare una colossale banalità. Organizzare non è costituire, in senso kantiano. Ancora, abbiamo il costruttivismo debole per sostenere il costruttivismo forte. Anche le termiti organizzano i loro termitai seguendo le loro strutture “mentali” innate. Ma questa non è una prova a sostegno della sintesi a priori. PP non ha proprio capito che la CRP nella sua prima parte è un trattato di ontologia e non una guida metodologica per scienziati cognitivisti.

36. Peccato per PP che resti fuori il fastidioso noumeno, che è definito come ciò che cade fuori dalla nostra organizzazione. È interessante il fatto che PP solo sul noumeno trovi un moto di indignazione critica: «Qui si entra nella “metafisica”, un terreno cioè ingombrato dai carrozzoni degli imbroglioni. Kant ha invece voluto ben delimitare il campo della metafisica, additando a tutti gli imbrogli e le magie dei filosofi poco scrupolosi».[32]

Purtroppo PP non si è accorto che ha parlato di metafisica per tutto questo tempo (di ontologia per la precisione) e si accorge della metafisica solo quando picchia il naso contro il noumeno. Non si è accorto, ahimè, di star facendo parte egli stesso del “carrozzone degli imbroglioni”. Non si accorge, o fa finta di non accorgersi, che nel sistema di Kant il noumeno è fondamentale. Infatti chi lo ha tolto ha combinato guai ancor più grossi. Il noumeno è proprio la conseguenza necessaria della sintesi a priori, tanto ricercata e osannata. Se vuoi la sintesi a priori, cioè se vuoi una conoscenza che sia nello stesso tempo analitica e sintetica, ti devi beccare il noumeno. Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca.

37. Da quel che abbiamo letto, si evince che PP non ha capito proprio la struttura della CRP. Chiama metafisica solo la Dialettica trascendentale (della quale si occupa il “carrozzone degli imbroglioni”). In effetti, Kant, nella CRP, ha combattuto una parte della vecchia metafisica, ma ha inteso anche realizzare, lo afferma egli stesso, una metafisica come scienza. La metafisica combattuta da Kant nella CRP è la metaphysica specialis dei suoi tempi, quella che trattava di Anima, Dio e Mondo. Nella CRP, nella Estetica e nella Analitica trascendentali è invece contenuta la ontologia di Kant, cioè la metaphysica generalis.[33] Quella che anticamente Aristotele chiamava scienza dell’ente in quanto ente. Quella che gli scolastici chiamavano scientia tanscendens. Si tratta di una ontologia camuffata magari un po’ da teoria della conoscenza, che mette insieme materiali eterogenei, ricavati da Newton, dagli empiristi inglesi, dagli scolastici tardi e dai leibniziani. Dice in altri termini Kant: se vuoi conoscere il Mondo con i vantaggi della sintesi a priori, devi modificare la natura stessa del mondo e devi convertirti all’idealismo trascendentale. Cioè, nel linguaggio colorito di PP, devi salire sul “carrozzone degli imbroglioni”.

38. Kant dunque, se abbiamo capito bene la versione di PP, con la sua sintesi a priori sarebbe l’anticipatore della scienza cognitiva e l’inventore di una metodologia scientifica razionale, capace di fondare la conoscenza, e capace di superare i limiti del dogmatismo e dell’empirismo. A noi sembra abbia invece – contro le sue stesse intenzioni – aperto la stura a una reazione anti scientifica (Romanticismo, idealismo tedesco, vitalismo, esistenzialismo, ermeneutica e tutte le altre filosofie trascendentali) e a quella cosa che oggi chiamiamo nichilismo. Per tutto questo rinvio sempre al mio saggio precedente.[34]

39. In conclusione, la nostra modestissima indagine sui due testi campione, scelti a caso, nella pletora del misleading di Kant, sembra sia andata oltre ogni nostra migliore aspettativa. Intanto è stata messa in luce una certa ignoranza diffusa circa il Kant testuale. Per lo meno, è emersa una vulgata pervasiva e fuorviante che ormai si è instaurata ovunque come versione ufficiale. Secondariamente è stato mostrato il funzionamento pervasivo del meme di un Kant precursore del cognitivismo, dell’evoluzionismo e delle neuroscienze. Un meme che impedisce anche soltanto una corretta interpretazione del Kant storico, e che, soprattutto, impedisce di cogliere gli attuali bachi della filosofia continentale, la quale, notoriamente, da Kant fondamentalmente proviene.

40. Non vorrei, con tutto ciò, avere dato l’impressione di voler fare dell’anti kantismo gratuito o di maniera. Vorrei precisare che considero Kant un grandissimo filosofo che bisogna necessariamente studiare, conoscere e meditare. Soprattutto, un filosofo senz’altro difficile che va compreso e non stravolto o banalizzato. Kant lascia un’immensa eredità e noi oggi siamo fortunati, perché possiamo continuare a ragionare sul suo lavoro e perché possiamo apprendere qualcosa anche e soprattutto dai suoi errori. Come si dice: «On the shoulders of Giants».

 

Giuseppe Rinaldi (11/03/2025)

 

ABBREVIAZIONI

CRP = Critica della ragion pura

PP = Massimo Piattelli Palmarini

 

OPERE CITATE

2001 Ferraris, Maurizio, Il mondo esterno, Bompiani, Milano.

2004 Ferraris, Maurizio, Goodbye Kant! Cosa resta oggi della Critica della ragion pura, Bompiani, Milano.

2008 Ferraris, Maurizio (a cura di), Storia dell’ontologia, Bompiani, Milano.

1994 Piattelli Palmarini, Massimo, Ritrattino di Kant a uso di mio figlio, Mondadori, Milano.

1953 Quine, Willard van Orman, From a Logical Point of View. Nine logico-Philosophical Essays, Harvard University Press, Cambridge. Tr. it.: Da un punto di vista logico. Saggi logico-filosofici, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2004.

1995 Searle, John R., The Construction of Social Reality, Free Press, Chicago. Tr. it.: La costruzione della realtà sociale, Einaudi, Torino, 2006.

1994 Sperber, Dan, “The Epidemiology of Beliefs”, in Fraser, C. & Gaskell, G. (a cura di), The Social Psychological Study of Widespread Beliefs, Clarendon Press, Oxford. Tr. it.: L’epidemiologia delle credenze, Anabasi, Milano, 1994.

1996 Sperber, Dan, Explaining Culture. A Naturalistic Approach, Blackwell Publishing Ltd, Oxford, UK. Tr. it.: Il contagio delle idee. Teoria naturalistica della cultura, Feltrinelli, Milano, 1999.

2023 Vallortigara, Giorgio, Il pulcino di Kant, Adelphi, Milano. [2021]

 

 

NOTE

[1] Onde evitare elucubrazioni circa eventuali rapporti tra Kant e i peanut, specifico che le noccioline contenute nell’illustrazione alludono soltanto al carattere occasionale e divulgativo di questo scritto. Nella redazione di questo saggio non sono stati usati strumenti di intelligenza artificiale.

[2] Cfr. Sperber 1994 e Sperber 1996.

[3] “Costituire” fa parte della terminologia Kantiana. Il termine ha valore ontologico e sta a indicare che gli a priori trascendentali entrano direttamente nella costituzione del fenomeno. Ciascun fenomeno sarà sintesi a priori di due elementi: [a priori + materia della conoscenza]. L’a priori è di natura “mentale” ed è universale e necessario. La materia della conoscenza è l’elemento accidentale, sintetico, sempre nuovo. Ne deriva che ogni specifico fenomeno possiede intrinsecamente una doppia natura: una parte del tutto ideale (“mentale”) che è la parte principale e una parte accessoria, di oscura provenienza (come le monadi opache di Leibniz) che viene resa accessibile proprio dall’a priori.

[4] Cfr. il mio recente saggio Finestre rotte: Finestre rotte: Esiste la filosofia continentale?

[5] Si veda in proposito Ferraris 2004.

[6] Si badi bene che prima di Darwin e Mendel, prima di Watson & Crick, l’innatismo e/o l’a priorismo erano generalmente basati su considerazioni di tipo metafisico e/o religioso. In passato si è ritenuto (e c’è chi ci crede ancora) che ciascuno di noi avesse ricevuto l’anima tramite il seme del genitore. Ovviamente, con l’anima si ereditava anche il peccato originale. Questa teoria, che risale ad Agostino di Ippona, è nota come traducianismo.

[7] Cfr. Vallortigara 2023.

[8] Cfr. Piattelli Palmarini 1994.

[9] Cfr. Vallortigara 2023: Capitolo 27.

[10] Su questa questione c’è una semplice spiegazione. Kant, pur non essendo definibile come un seguace di Leibniz, ne aveva condiviso molte idee. Soprattutto nella fase precritica. Per Leibniz le uniche sostanze davvero esistenti sono gli spiriti, che egli chiamava monadi. I corpi dei viventi sono invece dei composti di monadi opache, prive di appercezione, che si aggregano e si disgregano. L’Intelletto kantiano – che per una tradizione fuorviante noi continuiamo a chiamare mente – ha molte caratteristiche di una monade leibniziana autocosciente. Non a caso, per indicare il soggetto, Kant usa il termine appercezione che è tratto da Leibniz. Queste caratteristiche “leibniziane” del soggetto kantiano diventano più evidenti nella seconda Critica.

[11] A rigor di logica, l’uso del termine mente, a proposito di Kant, risulta alquanto fuorviante, anche se ormai questo uso è piuttosto generalizzato. La problematica è assai complessa. Come minimo occorre distinguere in Kant due elementi. Da un lato abbiamo il soggetto empirico, cioè il nostro Io disteso nel tempo, come voleva Agostino, con tutte le facoltà che sono sotto la nostra consapevolezza e il nostro controllo, come l’immaginazione, la memoria e quant’altro. D’altro canto abbiamo il soggetto trascendentale (definito leibnizianamente come appercezione) che è una specie di intelletto agente sul modello degli antichi o sul modello della monade leibniziana, che governa l’intuizione spaziotemporale e le categorie e rende possibile l’autocoscienza. Kant non sempre è chiaro in proposito e molti aspetti di questa “mente” suscitano ancora perplessità e dibattiti tra gli studiosi. Kant usa il termine Gemüt che viene reso con spirito, animo, mente. Il termine “mente” oggi suscita in noi un’immediata connotazione psicologica che è decisamente fuorviante, in quanto oblitera completamente l’elemento trascendentale.

[12] Uso qui, e in tutta la discussione che segue, il termine “spirito”, secondo la traduzione gentiliana di Gemüt. Questo perché il termine “mente” darebbe alla mia argomentazione una torsione cognitiva che non dovrebbe proprio avere.

[13] Solo se il pulcino diventasse un filosofo trascendentale potrebbe accorgersi che le cose stanno in questo modo. Per farlo dovrebbe però studiare la CRP.

[14] Sul circolo vizioso dell’a priori vedi il mio articolo precedente, già segnalato alla nota 4.

[15] Ringrazio sentitamente l’amico Nicola Parodi per avere riportato alla mia attenzione il libretto di Piattelli Palmarini.

[16] Cfr. Piattelli Palmarini 1994: 49.

[17] Che la CRP nella sua prima parte sia un’opera di metafisica e non di epistemologia è stato ormai ben chiarito. Si veda Ferraris 2004 e Ferraris 2008.

[18] Cfr. Piattelli Palmarini 1994: 51.

[19] Cfr. Piattelli Palmarini 1994: 51.

[20] Cfr. Piattelli Palmarini 1994: 52.

[21] Cfr. Piattelli Palmarini 1994: 52.

[22] Cfr. Piattelli Palmarini 1994: 52-53.

[23] Se spazio e tempo fossero banali strutture cognitive, come l’aritmetica del pulcino, quando per qualche motivo le mie strutture cognitive non fossero in funzione (sonno senza sogni, uno svenimento) allora dovrei uscire dallo spazio e dal tempo. Fantascientifico, ma poco pregnante sul piano filosofico.

[24] Cfr. Piattelli Palmarini 1994: 53.

[25] Cfr. Piattelli Palmarini 1994: 54.

[26] Cfr. Piattelli Palmarini 1994: 55.

[27] Cfr. Piattelli Palmarini 1994: 53.

[28] Anche Kant era un razionalista, sebbene di tipo particolare.

[29] Cfr. Piattelli Palmarini 1994: 55.

[30] Vedi nota 4.

[31] Cfr. Piattelli Palmarini 1994: 56.

[32] Cfr. Piattelli Palmarini 1994: 56.

[33] Cfr. Ferraris 2001 e Ferraris 2004.

[34] Cfr. il riferimento riportato alla nota 4.





.

  







martedì 11 febbraio 2025

Esiste la filosofia continentale?


 

 

 




 

1. Nel 1997[1] (ormai quasi trent’anni fa) Franca D’Agostini pubblicava un noto volume intitolato Analitici e continentali,[2] volto a fare il punto sullo stato globale della filosofia occidentale. Il titolo del volume evocava una costatazione: l’emersione di una spaccatura irriducibile tra due correnti filosofiche collocate approssimativamente sulle due sponde dell’Atlantico. Nella presentazione, l’Autrice preannunciava di voler spaziare nella sua ricerca più o meno a partire dal 1960, risalendo così a una quarantina di anni prima. Nel 1997 dunque, dopo la sbronza marxista e quella postmodernista, grazie alla D’Agostini la cultura italiana era invitata a prendere pubblicamente atto di un divide nella cultura filosofica, una spaccatura che altrove era già ben nota da un pezzo. Dal 1960 ad oggi son passati la bellezza di 65 anni. Un bilancio non guasterebbe.

2. Naturalmente chi si fosse allora appena interessato di filosofia conosceva benissimo l’esistenza degli analitici. La scuola analitica per giunta era nata proprio sul continente. Spesso tra i padri fondatori si indicano personaggi come Friedrich Ludwig Gottlob Frege (1848-1925), Bertrand Russell (1872-1970), George Edward Moore (1873-1958), Ludwig Wittgenstein (1889-1951) e Paul Rudolf Carnap (1891-1970). Alcuni analitici furono conosciuti anche come Circolo di Vienna o neopositivisti. Talvolta anche sono qualificati come neoempiristi (termine quest’ultimo più preciso di neopositivisti ma di minore fortuna). Anche in Italia si sviluppò una corrente analitica, che tuttavia rimase minoritaria, attorno al filosofo Ludovico Geymonat (1908-1991) e ad alcuni suoi numerosi allievi. A partire dalle sue origini continentali, l’orientamento analitico tese a diffondersi con successo nel mondo anglosassone, in America e in Australia. A lungo gli analitici furono considerati come un movimento tra gli altri, in un panorama punteggiato da orientamenti che erano considerati diversi, quando non antitetici tra loro: idealisti tedeschi, crociani, esistenzialisti, fenomenologi, marxisti, ermeneuti, nicciani, neokantiani, freudiani, francofortesi, neohegeliani vitalisti, strutturalisti e così via.

3. Come si è arrivati allora al divide? La colpa, in un certo senso, è degli storici della filosofia i quali, sul tipo della D’Agostini, ogni tanto vorrebbero fare delle sintesi. Vorrebbero individuare correnti e movimenti e dare loro un nome. Col passar del tempo, con l’invecchiare delle “novità” filosofiche che si erano susseguite a ritmo incessante, e anche con l’acume di rigorose indagini storiografiche, ci si è accorti che molte delle correnti che avevano albergato sul vecchio continente (e che peraltro si combattevano aspramente tra loro) avevano molto più in comune di quanto non sembrasse. O di quanto non volessero far sembrare. In sostanza, potevano facilmente essere ricondotte a uno o pochi progenitori. Insomma, il pentolone in cui si rimestavano le novità era sempre lo stesso. Le differenze tanto sbandierate ed esaltate apparivano sempre più dei dettagli, mentre le somiglianze diventavano sempre più evidenti. E così accadde che quelli che restarono maggiormente fuori dal pentolone erano proprio gli analitici, che intanto avevano colonizzato l’oltre Atlantico. Entrerò più avanti nel merito delle caratteristiche comuni del pentolone. Così avvenne che numerosi screzi, incidenti, incomprensioni che erano avvenuti da sempre tra gli esponenti delle due correnti[3] divennero non più solo curiosi aneddoti ma indicatori di una faglia che si stava sempre più allargando tra due antitetici modi di vedere il mondo.

4. Il volume della D’Agostini nel nostro Paese rimase tuttavia un unicum. Praticamente, tranne rare eccezioni, non diede seguito a ulteriori sviluppi e approfondimenti. Se si fa a tutt’oggi una ricerca su Google Libri si resterà sorpresi del fatto che la coppia di termini “analitici, continentali” non ricorra in alcun titolo rilevante nella pubblicistica filosofica nostrana. Vengono ritornate solo per lo più citazioni occasionali in volumi o articoli di terza categoria. Insomma, la ormai lontana provocazione della D’Agostini da noi non ha mosso i cuori e non ha scatenato alcuna presa di coscienza. I masticatori di filosofia nel nostro Paese si sono tenuti ben al di qua della questione. L’ipotesi cattiva è che complessivamente ognuno abbia continuato a fare quel che faceva prima, anche perché nel nostro Paese gli analitici sono sempre stati una minoranza del tutto trascurabile e ovunque si volga lo sguardo ci sono solo continentali.

5. Se si fa invece una simile ricerca usando come criterio la voce “continental philosophy” si otterranno decine e decine di riferimenti a titoli di buona o anche ottima qualità. Siamo così messi di fronte a un paradosso evidente. I continental ancora oggi non si riconoscono granché come tali, mentre ormai sono così riconosciuti e studiati, proprio con tale denominazione, dagli analitici. Mentre i continentali nostrani hanno proseguito imperterriti come se nulla fosse, in campo analitico si è invece sviluppato, ed è accresciuto negli ultimi decenni, un notevole interesse per la filosofia continentale. Oltretutto ciò ha dato vita a una storiografia filosofica, assolutamente degna di nota, che sta ribaltando alcune delle più diffuse mitologie continentali. Certo, come conseguenza concomitante nefasta di questo interesse c’è stata senz’altro anche l’esportazione oltre Atlantico della nostra peggiore merce filosofica scaduta. Mi riferisco ovviamente al post strutturalismo e al postmoderno. Non posso entrare qui nel merito di questi fenomeni.[4] Sulla paccottiglia continentale esportata oltre Atlantico, si può vedere il saggio di Sokal e Bricmont.[5]

I continentali, invece, a leggere e a studiare i materiali degli analitici non ci hanno provato nemmeno. Evidentemente il tutto è dovuto a un certo provincialismo, soprattutto da noi, e a residui di nazionalismo culturale assai diffusi nell’area franco-tedesca. E poi continua a persistere, nel DNA del pubblico continentale nostrano, l’aura del pensatore. I continentali credono fermamente di avere a che fare con dei pensatori. Gli analitici non sono considerati dei pensatori, bensì soltanto dei vili meccanici. Gli analitici, grazie ai loro esagerato commercio con la logica, avrebbero irrimediabilmente perduto l’aura del pensiero.

6. Non ho lo scopo qui di caratterizzare in dettaglio le due parti del divide. Ci vorrebbe uno studio approfondito. Tuttavia val la pena di fare ugualmente qualche considerazione, se non altro impressiva, circa le principali differenze. Spesso si cerca di render ragione del divide affermando che gli analitici sono più vicini alle istanze di tipo scientifico. Mentre i continentali sarebbero spesso più vicini alla letteratura. Avvicinare la filosofia alla letteratura per i primi sarebbe un degrado, mentre per i secondi sarebbe motivo di apprezzamento. C’è senz’altro del vero in questo ritratto. Ma non c’è solo l’antagonismo tra scienza e letteratura, c’è una divisione assai più marcata proprio sul rapporto da intrattenere con la scienza e con la tecnologia. Si tratta qui di una vera discriminante. Gli analitici tendono a convivere con la scienza senza alcuna difficoltà, mentre i continentali tendono ad opporvisi, tendono cioè a demonizzare la scienza e la tecnica.

Oppure si afferma che gli analitici sono abituati a lavorare per problemi, discutendoli in dettaglio, scrivendo e confrontandosi tra loro soprattutto attraverso articoli e saggi brevi. In tal modo possono facilmente cumulare i risultati. Mentre i continentali lavorano soprattutto sui “nomi”, cioè lavorano su singoli autori (definiti, appunto, pensatori) e sulle loro opere, che spesso hanno dimensioni voluminose e tendono a essere onnicomprensive (anche quando sono di fatto frammentarie). In tal modo non si cumula un gran ché e si assiste, più che altro, a una successione di autori e di mode. L’ultimo grido sopravanza sempre i precedenti. Un po’ come tra i romanzi.

Un’altra distinzione, spesso avanzata, è che i continentali, poco sensibili al rigore concettuale, tendano a usare un linguaggio contorto e involuto, sino ai limiti della comprensibilità, mentre gli analitici tenderebbero a un linguaggio chiaro e privo di ambiguità, fino alla riduzione elementare. In effetti, tra i continentali la illeggibilità è ammessa, quando non addirittura ricercata. Se si vuol fare un test di illeggibilità dei continentali, si provi con qualcosa a caso di Deleuze, oppure, avendo poco tempo a disposizione, ci si cimenti con un libretto che è proprio adatto al caso, come Sproni. Gli stili di Nietzsche[6] un celebre piccolo saggio di Derrida. Sarò grato a chi mi saprà fare un riassunto. La questione del linguaggio oscuro è vecchia quanto la filosofia. A proposito di chiarezza del linguaggio, si può vedere Massimo Baldini e il suo Contro il filosofese.[7]

7. Come ulteriore criterio di distinzione, direi di tipo caratteriale, ho già accennato alla presunzione del pensatore che spesso caratterizza i filosofi continentali e alla questione dell’aura, cioè di quel patrimonio immateriale del filosofo pensatore che si presume comunemente si mescoli ai suoi scritti e magicamente li accompagni. E si mescoli anche alla sua biografia nei minimi particolari, fino alle liste della spesa e alle ricevute della lavandaia. Norberto Bobbio, razionalizzando la questione, ha sottolineato la differenza tra i filosofi profeti e i filosofi sentinelle. Negli ultimi due secoli, poiché la filosofia ha anche delle conseguenze nell’al di qua, purtroppo certe profezie filosofiche hanno contribuito a realizzare degli effetti disastrosi. E le sentinelle, dal canto loro, non sempre hanno fatto bene il loro mestiere. Qui si potrebbe aprire un interessante dibattito sulla “utilità e il danno per la vita” delle due specie di filosofi sopra citati, ma la cosa esula dai nostri scopi immediati.

Basterebbero queste caratteristiche distintive, ancora assai impressive, per qualificare una situazione di contrapposizione, con orientamenti piuttosto diversi e difficilmente componibili. Evidentemente nella comunità filosofica un divide c’è e si tratta di prenderne atto. È stato osservato che la dicotomia analitici-continentali non reggerebbe perché uno dei due termini designa una corrente filosofica abbastanza precisa, mentre l’altro termine indica una designazione territoriale. Possiamo anche chiamarli Giacomo, Antonio o Maria Giovanna, ma la sostanza della classificazione resta. Gli scarsamente collocabili in questo panorama sono pochissimi. O forse non ce n’è neanche uno.

8. Ho affermato prima che i continentali, ben al di là delle loro risse e delle loro frammentazioni, provengono pressoché tutti dallo stesso calderone. E ora mi corre l’onere della prova. Il calderone di comune provenienza, a mio modesto avviso, è costituito dalla filosofia trascendentale kantiana o, se si preferisce, dall’idealismo trascendentale. Chi scrive sa benissimo che taluni aspetti di Kant possono anche essere tranquillamente posti alla base della corrente analitica. Oltretutto, negli ultimi trent’anni abbiamo assistito a un acceso dibattito intorno alla filosofia kantiana da parte di molti studiosi analitici nordamericani.[8] Tuttavia Kant ha fondamentalmente influito sui filosofi continentali. Il marchio di fabbrica è il suo. L’argomento è complesso e qui posso solo accennare. Se mai interesserà a qualcuno, potrei produrre un’analisi più articolata.

9. Kant, fondamentalmente, rompendo con le metafisiche del Seicento e del Settecento, ha messo l’a priori[9] dentro il soggetto e ha convinto un vasto pubblico che quella fosse una mossa geniale, un nuovo inizio della filosofia. Ancor peggio, ha creduto egli stesso di avere così realizzato per la prima volta una metafisica come scienza. Con questa sua astuta mossa, però, l’esperienza fenomenica è diventata mind-dependent, cioè dipendente dagli a priori del soggetto. Accade così che gli a priori del soggetto costituiscano l’esperienza, per cui, puntualmente, ritroviamo nell’esperienza esattamente quello che ci abbiamo appena messo come soggetti. Si tratta di un processo circolare per cui la realtà diventa per lo più soltanto una riflessione del soggetto o una sua rappresentazione. Propongo di chiamare questo tratto fondamentale del kantismo continentale il circolo vizioso dell’a priori.[10] In seguito a questo fallace escamotage, si sono avute nella filosofia successiva due principali disdicevoli e inopportune conseguenze, peraltro strettamente interconnesse tra loro.

In primis, si è aperto dopo Kant un dibattito, ormai plurisecolare, su quali fossero realmente gli a priori del soggetto. Poiché gli a priori kantiani erano evidentemente arbitrari,[11] ogni pensatore successivo si è così inventato i suoi e li ha contrapposti a quelli inventati dagli altri. Dando così peraltro l’impressione di una creatività filosofica da fare invidia. Tanto per capirci, ecco un elenco, puramente esemplificativo, di tentativi più o meno plausibili di porre degli a priori cui sottomettersi: l’Io, l’Idea, lo Spirito, l’Essere, l’atto puro, la volontà, la vita o vitalità, la libertà, la razza, la volontà di potenza, la storia, la dialettica materialistica della storia, la struttura, la materia economico sociale, l’evoluzione,[12] il progresso, l’alienazione, la merce, l’ego trascendentale, il testo o la testualità, il potere, il linguaggio, l’interpretazione o ermeneutica, l’esistenza o gli esistenziali, il nulla, la tecnica, il desiderio, la differenza, la libido, l’inconscio, la ragione strumentale. Come ognun vede, ci sta dentro praticamente tutta la filosofia continentale. Una domanda davvero seria è quanto a lungo potrà continuare questo gioco, nella ricerca di a priori sempre nuovi e nel loro repentino “superamento” e abbandono. L’opinione di chi scrive è che il cosiddetto pensiero postmoderno prefiguri di fatto ormai la rottura imminente del giocattolo.

Secondariamente, dall’idealismo trascendentale kantiano è derivata la perpetuazione di una vera e propria ossessione fondazionale, ovviamente un sottoprodotto legato alla necessaria collocazione degli a priori entro il soggetto. I quali a priori così diventano universali e necessari. Di qui derivano gli atteggiamenti opposti del dogmatismo (l’imposizione dell’a priori del momento al Mondo) e del nichilismo (la perdita luttuosa dell’a priori, il suo allontanamento dal soggetto e/o dal Mondo). Si tratta di due atteggiamenti perfettamente speculari che accompagnano da sempre il valoroso pensiero continentale. Evito di entrare nel dettaglio per spirito di carità.

10. Si può anche non condividere l’analisi qui succintamente presentata. Bisognerebbe però averne un’altra migliore. Comunque sul fatto che il continentalismo filosofico sia fatto decorrere a partire da Kant vi è un accordo ormai ampio tra gli studiosi. Almeno di quelli che hanno avuto la bontà di occuparsi della faccenda. La filosofia continentale è comunemente fatta decorrere dalla filosofia trascendentale kantiana e post-kantiana. L’ambito è quello della filosofia tedesca a partire dal Settecento. Questa cronologia è comunemente adottata nelle opere di documentazione e riferimento che sono state man mano realizzate, soprattutto nel mondo analitico. La grande opera The History of Continental Philosophy[13] in ben 8 volumi, uscita nel 2010, comincia appunto con la tradizione kantiana. Lo stesso criterio, seppure l’opera sia strutturata per problemi, è stato adottato dall’Oxford Handbook della filosofia continentale,[14] uscito nel 2007. La guida alla filosofia continentale di Continuum[15] comincia proprio con Kant. La guida di Blackwell[16] comincia con Hegel, ma la sostanza non è molto diversa. È anche il caso di segnalare la The Edinburg Encyclopedia of Continental Philosophy curata da Simon Glendinning, che segue lo stesso criterio cronologico.[17] La stessa redazione ha curato anche un Dictionary della filosofia continentale.

Evidentemente, magari anche per motivi diversi, uno stuolo consistente di filosofi e storici della filosofia, ritiene che, sul continente, dalle parti di Kant, debba esser successo qualcosa di abbastanza preciso e di abbastanza determinante, tale da caratterizzare i due secoli successivi e passa della filosofia europea. Qualcosa tale da influenzare profondamente la filosofia tedesca e poi quella francese. Anche se i due Paesi sono quasi sempre stati politicamente avversari. I tedeschi alla fine sono stati militarmente sconfitti, ma poi hanno esportato ai vincitori la loro filosofia, con i bachi annessi e connessi. Anche la filosofia italiana, pur nella sua miseria periferica, è vissuta di questi aurei riflessi.

11. Si può pensare che il divide non c’è mai stato. Oppure che c’era ed è stato ormai superato, o che ormai è in fase di superamento. A mio modesto avviso il divide resta ben saldo e sembra purtroppo destinato a essere superato solo con la sparizione di una delle due fazioni in lotta. Dico questo non certo per disfattismo o vandalismo. Il fatto è che le ipotesi di fondo intorno a cui hanno lavorato e lavorano le due correnti sembrano essere alquanto inconciliabili. E poi, come s’è visto, le ipotesi di fondo della filosofia continentale sono semplicemente sbagliate. Non basterà un gentlemen’s agreement.

D’altronde il degrado progressivo della filosofia continentale non va considerato necessariamente come una catastrofe. Semplicemente occorre prendere atto del fatto che la loro ipotesi di fondo è arrivata alla frutta. C’è un filosofo francese, François Laruelle, attivo nel giro dei decostruzionisti, che ha dato vita a una corrente filosofica che si chiama «Non-philosophie». È senz’altro uno che ha capito tutto. Chapeau! La filosofia di Kant, e tutto quel che ne è venuto dopo, a mio modesto avviso è un enorme monumento culturale, sebbene oggi un poco in rovina.[18] Posto che ormai la sua utilità diretta sta venendo meno, potrà servire come ottimo materiale da costruzione per portare avanti il discorso filosofico fuori dal circolo vizioso dell’a priori. Esattamente come stanno facendo gli analitici nord americani. E ciò comporterà, finalmente, anche la perdita dell’aura del pensatore. Benjamin e Adorno non ne saranno contenti. Ma forse è meglio così.

12. Se questa è la situazione, s’impone allora l’interrogativo circa il «Che fare?». In una simile situazione di trapasso continentale, ci sono due atteggiamenti estremi che andrebbero evitati: il feyerabendiano «Tutto va bene» da una parte e il fondamentalismo dall’altra. Sono tuttavia senz’altro i due atteggiamenti oggi in gran parte prevalenti nel nostro Paese. In mezzo, su una posizione dialogico – critica, restano ben pochi. Il fatto è che fare i fondamentalisti è molto facile. Chi non si è sentito dire: «Ah, questo <… titolo, autore, …> non me lo devi toccare!». Come pure è facile darsi al relativismo, per cui si suggerisce che ciascuno, a modo suo, ha ragione, che si può imparare da tutti, che non ci sono dunque cattivi maestri. Così il minimo è che si evita ogni confronto, si fa al più del sincretismo di bassa lega e ciascuno rimane della sua. Filosofia sì, ma possibilmente non disturbare.

13. L’alternativa positiva sarebbe gettare un ponte tra le due sponde del divide facendo in modo che si generi un interscambio produttivo. Facendo in modo che la nuova sintesi che si otterrà sia più della somma delle parti. Chi scrive si riconosce perfettamente in un simile progetto. Anche se chi scrive ha la sensazione che si tratti di un progetto che non interessa proprio a nessuno. Almeno dalle nostre parti. Il fatto è che assumere una posizione dialogico – critica in questa situazione è un compito davvero difficile. Anzitutto bisogna studiare. Chi è stato formato principalmente in una tradizione di solito non ha voglia di uscire dal guscio e investire tempo e denaro per studiare quello che hanno detto e pensato gli «altri». È disturbante prendere atto che ci sono mondi diversi dai nostri che funzionano con concetti e logiche diverse. È faticoso adeguarsi a stili che sono lontani dai nostri. Fare propri vocabolari astrusi e cervellotici. Se si comincia davvero a studiare, si può andare incontro a esperienze intellettualmente dolorose. Le nostre concezioni più beneamate possono sciogliersi come neve al sole, può accadere di dover smentire le proprie convinzioni. Certo può anche accadere, ogni tanto, di scoprire nuovi mondi.

Personalmente, in un passato ormai relativamente lontano, ho seguito con molta attenzione e cognizione di causa quello che mi sembra, a tutt’oggi, essere stato uno dei migliori tentativi di fondere metodi e concetti di entrambe le tradizioni. Si tratta del cosiddetto marxismo analitico. Ho avuto modo di imparare molto da Jon Elster. Il lodevole tentativo dei marxisti analitici sembra essersi tuttavia a tutt’oggi arenato, nonostante la pubblicazione di alcuni saggi decisamente interessanti. Chi scrive purtroppo non conosce una sola opera filosofica originale recente che sia stata prodotta utilizzando con successo metodi e concetti di entrambe le tradizioni. Se qualcuno vorrà segnalarmene una o qualcuna, lo ringrazierò sentitamente.

14. Non vorrei avere dato l’impressione che, secondo me, si debba fare la lista dei buoni e dei cattivi e stare ad aspettare, sulla riva del fiume, il tracollo della filosofia continentale. Le mie valutazioni pessimistiche circa la filosofia continentale si basano su questioni di teoria e su questioni di storiografia filosofica. Su tendenze oggettive che a mio modesto avviso sono ben visibili.

In generale, tutti i filosofi andranno sempre studiati, anche e soprattutto quelli più distanti dal nostro punto di vista. La storia della filosofia – come ho già suggerito – è un immenso deposito di splendidi materiali da costruzione, grazie ai quali potremo ancora fare molta strada. Purché lo vogliamo. Ma non si potrà sospendere il giudizio e restare in un empireo di anime salve dove tutti hanno ragione. Gli errori sono errori. E, peraltro, non si può far filosofia senza errori. Identificare gli errori fa progredire la filosofia stessa. Dobbiamo ben conoscere tutta la storia della filosofia ma non è vero che si possa utilmente e ugualmente imparare da tutti.

Giuseppe Rinaldi (10/02/2025)

 

OPERE CITATE

2004 Allison, Henry E., Kant’s Transcendental Idealism. An Interpretation and Defense, Yale University Press, New Haven and London.

2006 Allison, Henry E., “Kant’s Transcendental Idealism”, in Bird, Graham (a cura di), A Companion to Kant, Blackwell Publishing Ltd, Oxford.

1991 Baldini, Massimo, Contro il filosofese, Laterza, Bari.

1932 Carnap, Rudolf, “Überwindung der Metaphysik durch logische Analyse der Sprache”, in Erkenntnis, 1932, II pp.219-241. Tr. it.: “Il superamento della metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio”, in Pasquinelli, Alberto (a cura di), Il neoempirismo, UTET, Torino, 1969.

1997 D’Agostini, Franca, Analitici e continentali. Guida alla filosofia degli ultimi trent’anni, Raffaello Cortina, Milano.

1978 Derrida, Jacques, Éperons. Les styles de Nietzsche, Flammarion, Paris. Tr. it.: Sproni. Gli stili di Nietzsche, Adelphi, Milano, 1991.

2004 Ferraris, Maurizio, Goodbye Kant! Cosa resta oggi della Critica della ragion pura, Bompiani, Milano.

2008 Ferraris, Maurizio (a cura di), Storia dell’ontologia, Bompiani, Milano.

1999 Glendinning, Simon (a cura di), The Edinburg Encyclopedia of Continental Philosophy, Fitzroy Dearborn Publishers, Chicago - London.

2017 Guyer, Paul, “Transcendental Idealism. What and Why”, in Altman, Mattew C. (a cura di), The Palgrave Kant Handbook, Palgrave Macmillan, New York.

2007 Leiter, Brian & Rosen, Michael, The Oxford Handbook of Continental Philosophy, Oxford University Press.

2009 Mullarkey, John & Lord, Beth, The Continuum Companion to Continental Philosophy, Continuum International Publishing Group Ltd.

2010 Schrift, Alan D., The History of Continental Philosophy (8 voll.), University of Chicago Press, Chicago.

1997 Sokal, Alan & Bricmont, Jean, Impostures intellectuelles, Odile Jacob, Paris. Tr. it.: Imposture intellettuali, Garzanti, Milano, 1999.

2003 Solomon, Robert C. & Sherman, David, The Blackwell Guide to Continental Philosophy, Blackwell Publishing Ltd, Oxford.

 

 

NOTE

[1] Nella scrittura di questo saggio non ho utilizzato alcuno strumento di intelligenza artificiale. Onde evitare elucubrazioni circa eventuali rapporti tra Kant e i peanut, specifico che la nocciolina contenuta nella illustrazione allude soltanto al carattere occasionale e divulgativo di questo scritto.

[2] Cfr. D’Agostini 1997.

[3] Celebre, ad esempio, fu la controversia che oppose Rudolf Carnap a Martin Heidegger, nei primi anni Trenta. Cfr. Carnap 1932. Sulle origini della conflittualità tra le due correnti, riporta la D’agostini: «Kevin Mulligan ha sostenuto che il primo documento dell’inimicizia tra analitici e continentali può essere considerata la stroncatura all’Introduzione alle scienze dello spirito di Dilthey scritta da un discepolo di Franz Brentano (o forse dallo stesso Brentano) dove viene rilevata l’oscurità dell’argomentazione diltheyana, e se ne condanna la mancanza di rigore, la pretesa di parlare della “vita” nella sua “totalità”». Cfr. D’Agostini 1997: 60. Per la cronaca il volume di Dilthey era uscito nel 1883.

[4] Sul postmoderno sono già intervenuto in più occasioni. I contributi si trovano sul mio sito.

[5] Cfr. Sokal & Bricmont 1997.

[6] Cfr. Derrida 1978.

[7] Cfr. Baldini 1991.

[8] Cfr. La questione è stata aperta da un noto saggio di Allison dal titolo indicativo: Kant’s Transcendental Idealism. An Interpretation and Defense (Allison 2004). Allison cerca di scagionare Kant dall’accusa di avere prefigurato due mondi (quello fenomenico e quello noumenico). Per far questo deve però adottare una teoria cosiddetta aspettuale che, a parer mio, è un po’ arzigogolata: noumeno e fenomeno sarebbero solo due aspetti della stessa cosa. Insomma, la distinzione tra i due mondi sarebbe solo epistemica e non ontologica). Non tutti gli studiosi hanno accolto la tesi di Allison. Chi voglia rendersi conto in breve della problematica, a parte l’ampia bibliografia disponibile ovunque, può ricorrere a due saggi introduttivi comparsi in altrettanti companion a Kant: uno è Allison 2006, l’altro è Guyer 2017.

[9] Gli a priori domiciliati nel soggetto da Kant sono anzitutto lo spazio e il tempo. Abbiamo poi le 12 categorie dell’Intelletto, di cui per comodità fornisco l’elenco qui di seguito. Le categorie sono raggruppate in quattro gruppi di tre ciascuno. Abbiamo il gruppo della quantità che contiene Unità, Pluralità e Totalità. Il gruppo della qualità che contiene Realtà, Negazione, Limitazione. Il gruppo della relazione che contiene Inerenza e sussistenza (substantia et accidens), Causalità e dipendenza (causa e effetto), Comunanza (azione reciproca fra agente e paziente). Infine, il gruppo della modalità che contiene Possibilità – impossibilità, Esistenza – inesistenza, Necessità – contingenza. Abbiamo poi ancora l’appercezione trascendentale, conosciuta anche come io penso. Son questi gli a priori che poi si troveranno fondazionalmente nella natura (=fenomeno) a garanzia della sua universalità e necessità (= conoscibilità). Come ognun vede, si tratta di un perfetto circolo vizioso. Nello stesso modo, il grande pensatore Heidegger pone l’Essere come un a priori e poi “scopre” che, anche se ci siamo dimenticati dell’Essere, dipendiamo proprio dall’Essere. Per cui non resterà che aspettare l’Essere.

[10] Anche se nessuno se ne rende conto, questo circolo vizioso è esattamente analogo al processo della alienazione religiosa denunciato da Fuerbach. Di solito Feuerbach è fatto valere contro Hegel, ma a maggior ragione dovrebbe essere fatto valere contro Kant. La vera fonte di Hegel in fondo era proprio Kant. La storia è sempre la stessa. Il soggetto crea un fantasma (= una rappresentazione) che considera come vero, al quale poi, bontà sua, si sottomette. Nella sintesi a priori kantiana c’è un residuo teologico essenzialistico che ha segnato una volta per tutte il destino del pensiero continentale. E che determinerà il suo decadimento.

[11] La Deduzione trascendentale, intorno alla quale sono stati versati fiumi di inchiostro, è unanimemente considerata dagli studiosi come scarsamente attendibile. Eppure su di essa si basa tutto l’impianto della Critica della Ragion pura.

[12] Non quella darwiniana, ovviamente.

[13] Cfr. Schrift 2010.

[14] Cfr. Leiter & Rosen 2007.

[15] Cfr. Mullarkey & Lord 2009.

[16] Cfr. Solomon 2003.

[17] Cfr. Glendinning 1999.

[18] Si veda, ovviamente, Ferraris 2004 e Ferraris 2008.





.