1. Noi credevamo. Credevamo[1]
che il XX secolo fosse finito. Certi intellettuali avevano cominciato a usare
il termine novecentesco come sinonimo
di vecchio e superato, di arcaico e trapassato. Ecco che invece ci sta
precipitando sulla testa un enorme pezzo
di Novecento che avevamo voluto non vedere, dimenticare, che ci eravamo
illusi non potesse più dare fastidio. Un pezzo di Novecento che purtroppo ci
appartiene e che conosciamo fin troppo bene. Con il quale non abbiamo mai
seriamente fatto i conti. Il Novecento ci sta rincorrendo e ci sta presentando
il suo conto. E che conto.
L’attacco militare all’Ucraina
da parte della Russia ha colto di sorpresa il grande pubblico, ma anche molti
politici e addetti ai lavori. Solo l’intelligence
americana aveva insistito, nell’incredulità generale, e aveva rivelato alla
opinione pubblica quanto si stava preparando. Per quanto la Russia si fosse di
fatto impadronita della Crimea fin dal 2014, violando pesantemente il diritto
internazionale e guadagnando così una serie di sanzioni, nessuno avrebbe potuto
presumere uno sviluppo del genere. Perché si tratta di un esito che danneggia
tutti i contendenti e che apparentemente va contro ogni logica. L’attacco all’Ucraina
è stata una decisione assai rischiosa e dalle conseguenze imprevedibili, capace
perfino di condurre alla comune rovina
dei contendenti in lotta. E forse anche alla rovina di tutto il resto.
È opinione comune che lo
scopo della Russia fosse quello di fare un blitz
di pochi giorni, di far cadere il governo ucraino e di instaurare al suo
posto un governo fantoccio col quale provvedere alla spartizione dei territori
contesi. La resistenza[2] degli
ucraini, insieme alle reazioni internazionali, ha portato all’attuale
situazione di stallo sul campo che con ogni probabilità è destinata a durare a
lungo. Si chiede ora a gran voce che i contendenti, l’aggressore in primo luogo
e l’aggredito, cessino il fuoco e si siedano al tavolo delle trattative. La
cosa per ora sembra alquanto improbabile. Nel linguaggio politologico, in caso
di conflitto si è soliti invocare una
terza parte che funga da mediatore, per riportare le parti alla ragione. In
questo caso, tuttavia, per definizione il terzo non ci può proprio essere. Ci
troviamo cioè nel caso, di cui ha parlato Norberto Bobbio, del Terzo assente.[3] Questa situazione è
dovuta al fatto che uno dei due contendenti, l’aggressore, siede come membro permanente nel Consiglio di sicurezza dell’ONU e
possiede la più grande dotazione di bombe atomiche reperibili sul pianeta.
2. Due righe di teoria.
Ho già spiegato, qua e là in altri miei scritti, quale debba essere, secondo il
mio punto di vista, la chiave per un’interpretazione generale di quanto è
avvenuto e sta avvenendo nel mondo post comunista. Ne riprenderò in maniera
ordinata i punti salienti. All’inizio degli anni Novanta, sull’onda della
caduta del Muro, si era diffuso un grande ottimismo e la facile illusione che,
messa fuori gioco l’opzione comunista, sarebbe avvenuta una generale
transizione verso la liberal democrazia (e
verso il suo corrispettivo della economia
di mercato). La sensazione era quella di una grande svolta, addirittura della fine della storia, come è stato detto,[4] cioè la storia di una
contrapposizione politico sociale tra capitalismo e comunismo che era durata un
paio di secoli. Solo a fatica tuttavia abbiamo capito che nei paesi ex
comunisti la democrazia e il mercato erano difficilmente implementabili.
Abbiamo capito che il comunismo reale aveva, per intanto, prodotto un grave deficit proprio nel tipo di cultura civica necessaria al
funzionamento della democrazia. È così accaduto che, nel mondo post comunista,
si siano ovunque diffusi sistemi formalmente
democratici ma sostanzialmente incapaci
di funzionare in modo democratico.
3. Cosa caratterizza ovunque i Paesi post-comunisti? Possiamo
facilmente costatare come nei Paesi post comunisti si siano ampiamente diffuse,
con una rapidità impressionante, e con una grande omogeneità, tre
manifestazioni tipiche: 1) Lo sviluppo di nazionalismi
spesso a sfondo etnico o anche religioso, magari in conflitto tra loro e con la
presenza talvolta di relativi indipendentismi.
2) Lo sviluppo di blocchi imperialistici che vedono un paese egemone e vari paesi
satelliti subordinati. 3) Lo sviluppo all’interno di ciascun Paese di varie
forme di potere oligarchico.
Per quanto riguarda i
nazionalismi, la cosa si spiega facilmente, poiché il comunismo reale ha di
fatto sempre soffocato le nazionalità
e ha impedito il normale sviluppo storico degli Stati nazionali. Venuta meno la
sovrastruttura comunista, agli individui altro non è rimasto se non la
riscoperta delle identità etnico
nazionali, con tutto quel che di solito ne consegue. Così le identità sono
venute in primo piano anche e soprattutto nella lotta politica, fino a
degenerare nella violenza e nella guerra. La nazionalità è stata usata in
maniera subdola e spregiudicata dalle oligarchie per i loro scopi.
La deriva imperialistica
è dovuta al fatto che due delle componenti che abbiamo citato, quella dei
nazionalismi e quella del potere oligarchico, hanno dato luogo talora alla
formazione di blocchi di carattere politico militare,[5] in diretta
derivazione dallo sfaldamento degli apparati militari, burocratici e repressivi
del comunismo reale. Si sono così creati dei sistemi comprendenti paesi egemoni
e paesi satelliti in un rapporto di forte subordinazione. Ciò ha portato alla
riproposizione, anche nel cuore dell’Europa, dello stretto binomio tra politica e guerra, un rapporto che si
credeva ormai tramontato con la fine della seconda Guerra mondiale o, a maggior
ragione, con la fine della Guerra fredda. Un caso tipico di questa situazione
si è osservato con chiarezza nell’ambito della dissoluzione della ex-Jugoslavia,
tra il 1991 e il 1999. Ciò naturalmente vale anche per la Russia e per la Cina.
Il deragliamento
oligarchico si spiega invece sostanzialmente con l’ascesa e il successivo
degrado dell’onnipervasiva burocrazia,
sia civile sia militare, tipica del mondo comunista. Era questa la classe sociale autenticamente detentrice
del potere nei paesi real-comunisti, una classe sociale inetta, parassitaria e
corrotta, abituata a esercitare un potere
estrattivo sulle risorse del proprio Paese, a proprio esclusivo beneficio.
L’affermazione generalizzata dei poteri oligarchici, in un contesto di
debolezza istituzionale statuale, ha finito anche e soprattutto per stabilire
strette connessioni tra il mondo della politica e degli affari con la criminalità organizzata. Questo fenomeno
ha interessato sia piccoli Stati (ad esempio Montenegro o Albania) ma anche
Stati di ragguardevoli dimensioni. È il caso di ricordare che sia nella Russia
sia nella stessa Ucraina sono tuttora presenti organizzazioni mafiose assai
intrecciate con il mondo della politica e degli affari. Roberto Saviano ha
scritto ampiamente e documentatamente intorno a questi fenomeni.
4. È il caso di aggiungere che il carattere di rapida implosione del mondo comunista,
realizzatosi nei primi anni Novanta, ha fatto sì che le istituzioni della democrazia formale e le istituzioni del libero mercato siano state paracadutate dall’alto e non abbiano potuto
beneficiare di un processo di crescita dal
basso. La situazione che è venuta a determinarsi ha costituito piuttosto un
ostacolo generalizzato all’avanzamento di processi autentici e efficaci di
democratizzazione e di liberalizzazione. In molti di questi Paesi, sotto il
formalismo democratico, si nascondono tuttora regimi autoritari, scarsamente distinguibili da vere e proprie
dittature. Un esempio tipico è quello della Bielorussia di Lukašėnka.
Oltre a varie forme di esercizio
dell’autoritarismo all’interno, il tipo di politica
estera che questi regimi tendono a praticare è quello caratteristico di
tutti i nazionalismi autoritari: la demarcazione dei confini, spesso su base
etnica, lo spostamento forzato dei popoli, la persecuzione o l’annientamento di
intere popolazioni, il mantenimento dell’imperio del paese egemone sui paesi satelliti, l’uso della forza militare
nelle sue diverse forme, soprattutto contro i Paesi confinanti, senza escludere
le operazioni coperte, il terrorismo e l’omicidio politico.
5. Stati canaglia.
Questo panorama ha decisamente qualcosa a che fare con il concetto dello Stato canaglia (traduzione italiana di rogue state). Si badi bene tuttavia che
questa è una categoria nella quale non rientrano soltanto Stati ex comunisti.
La nozione dello Stato canaglia è stata sviluppata soprattutto nell’ambiente
politologico anglosassone. Serve a designare Stati che possiedono alcuni
criteri distintivi, come il fatto di essere dominati da oligarchie di potere
spesso in combutta con organizzazioni mafiose, il fatto di avere una forma di
governo autoritaria che intraprenda azioni in aperta violazione dei diritti
umani, il fatto di sponsorizzare il terrorismo e la tendenza alla
proliferazione delle armi di distruzione di massa, la predisposizione alla
violazione dei diritti internazionali e all’uso della guerra nella regolazione
delle controversie. Gli Stati canaglia, insomma, sono propriamente quelli che minacciano la pace nel mondo.
Si tratta senz’altro di una categoria politologica controversa, ma può
risultare utile in termini comparativi. Gli Stati Uniti hanno definito e
mantengono una loro lista degli Stati canaglia, nei confronti dei quali sono
riservate particolari attenzioni nel campo di politica estera.[6] Ebbene, molti
Stati post comunisti possono essere considerati come Stati canaglia, o hanno
svolto questo ruolo in una parte della loro storia. Purtroppo una certa
faciloneria ci ha spesso condotti a trascurare la presenza degli indicatori di Stato canaglia e a trattare con questi
Stati come se fossero Stati normali: li abbiamo riforniti di armi (anche
atomiche), abbiamo loro distribuito tecnologia avanzata, abbiamo firmato con
loro trattati che alla prima occasione sono stati violati, abbiamo fatto di
loro i nostri primi fornitori di materie prime o i principali acquirenti dei
nostri prodotti. Ci piace proprio scherzare col fuoco.
6. Lo spettro di
Milošević. La teoria che abbiamo esposto succintamente a nostro avviso è
utile per dar conto, in prospettiva storica e geopolitica, delle origini di questa
guerra che oggi così tanto ci sorprende. La prima indicazione che emerge è come
l’attuale aggressione della Russia all’Ucraina non costituisca un fatto nuovo e
come, anzi, si tratti solo dell’ultimo capitolo di una ormai nota storia. Processi
del tutto simili erano già avvenuti su scala ridotta nella ex Jugoslavia, in
seguito alla dissoluzione del mondo comunista. L’implosione dello Stato federale
multinazionale e multietnico jugoslavo è avvenuta drammaticamente tra il 1991 e
il 2001 attraverso le sanguinose guerre
jugoslave. Sembra però che ormai tutti abbiamo dimenticato quelle stagioni.
Anche in quel caso, l’opinione pubblica non riusciva a darsi ragione dell’apparente
follia delle scelte politiche, della ferocia delle azioni militari. Anche il
quel frangente, popoli che avevano vissuto gli uni accanto agli altri per
decenni sotto la casa comune comunista, si sono massacrati violentemente, senza
una logica apparente. Anche in quel caso la logica del tracciamento dei confini
divenne maniacale, fino alle pulizie
etniche, fino alle vere e proprie forme di genocidio che sono state
perpetrate. Abbiamo dimenticato troppo facilmente l’assedio di Sarajevo, dal
1992 al 1996. Oppure il massacro di Srebrenica, nel luglio del 1995, a opera
del generale serbo bosniaco Ratko Mladić.
Anche nelle guerre
jugoslave si ebbe un paese egemone
che tentò di mantenere in piedi, con la pura forza militare,[7] una realtà
politica che aveva perso la propria intrinseca ragion d’essere. Il ruolo del
paese egemone in quel frangente fu impersonato dalla Serbia che ha tentato, nei
lunghi dieci anni di guerra, di costringere insieme, spesso con la violenza, le
varie aree territoriali che tendevano a rendersi autonome. E questo fine fu
perseguito oltre ogni apparente ragionevolezza, fino all’autodistruzione dello
stesso progetto della Grande Serbia. Oggi
assistiamo alla messa in campo del progetto della Grande Russia che stava covando sotto la cenere fin dagli anni
Novanta. Per capire quello che ci possiamo aspettare dagli attuali eventi può
essere dunque assai utile considerare attentamente il caso della ex Jugoslavia.
La sindrome autolesionista di Slobodan Milošević ci può permettere di
comprendere esattamente quel che ci possiamo aspettare. Nei prossimi giorni ma
anche in un futuro più lontano, poiché non finirà presto.
7. Oligarchie, nazionalismi
e testate atomiche. La Russia (più precisamente, la Federazione Russa) è il paese post comunista dotato di maggiore
estensione territoriale, collocato tra Europa e Asia, sebbene sia relativamente
poco popolato (145 milioni di abitanti in tutto). È anche quello che ha
maggiormente conservato certe eredità della vecchia Unione Sovietica. Tra cui
una burocrazia asfissiante, un pesante autoritarismo e la violazione
sistematica dei diritti umani, un regime di mercato fasullo dove la mancanza di
competizione autentica impedisce l’innovazione, gli scarsi risultati nel campo
della ricerca scientifica e tecnologica. Tra tutte queste eredità del passato sono
comprese le sue testate atomiche, il
cui uso effettivo è stato esplicitamente minacciato proprio dal Presidente
russo Putin.
L’Ucraina invece non ha
più l’arsenale atomico di epoca sovietica. E su questo punto dobbiamo
soffermarci, se vogliamo capire qualcosa della crisi attuale. La denuclearizzazione dell’Ucraina fu
codificata nel Memorandum di Budapest
del 5 dicembre 1994, con cui Russia, Stati Uniti e Regno Unito (successivamente
si aggiunsero anche Cina e Francia) si
impegnarono a proteggere la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina
in cambio della consegna delle testate.[8] Il Memorandum del 1994, nessuno se lo ricorda, fu violato pesantemente
nel 2014, con l’annessione della Crimea, proprio da parte della Russia, cioè da parte di uno degli stessi garanti.
Gli altri garanti intervennero in modo piuttosto blando con una serie di incerte
sanzioni, senza ottenere tuttavia alcun risultato definitivo. Per risolvere la
questione fu firmato un Protocollo di
Minsk il 5 settembre 2014. Successivamente si ebbe la firma di un Protocollo di Minsk II l’11 febbraio
2015. La questione tuttavia rimase irrisolta.
Col senno di poi, il
fatto di avere consentito alla Russia il mantenimento delle sue testate
atomiche fu un errore clamoroso. Un pazzesco autogoal. A quel tempo gli occidentali,
appena usciti dalla Guerra fredda, avevano maturato l’illusione di controllare El’cin.
Si dice che nell’entourage di El’cin ci fossero diversi consiglieri della CIA.
Così la Russia ha continuato a svolgere, in modo controverso, il ruolo del paese egemone sul piano militare, avendo
tuttavia perso qualsiasi ruolo di Paese avanzato dal punto di vista economico. Il
motore della sua politica estera, a partire fin dai tempi di El’cin
(1991-1999), è sempre stato il nazionalismo
oligarchico, declinato in forma imperialistica.
Poco importa se con la nostalgia dell’Unione Sovietica o addirittura con una
nuova nostalgia dell’epoca zarista. La Russia appare sempre più un residuo del
passato, tenuto insieme dal volontarismo della forza. Un Paese corrotto, dalla
burocrazia autoritaria e repressiva, inefficiente, dove l’economia segna il
passo. Le scadenti prestazioni delle sue forze armate che abbiamo ora sotto gli
occhi sono del tutto coerenti con questo quadro.
Di fronte all’imperialismo
Russo - che oggi si rivela pienamente per quello che è - dotato di un arsenale
di bombe atomiche e deciso a darsi un assetto
territoriale di suo gradimento attraverso la forza militare, l’Occidente si
sta amaramente accorgendo come l’unica politica possibile torni ad essere
quella già sperimentata con la vecchia Unione Sovietica, e cioè la politica del
containment, esattamente come ai
tempi della Guerra fredda. Questo significa evitare lo scontro e cercare di
contrastare indirettamente le violazioni internazionali che si susseguono. Si
ricorderà che ai tempi della Guerra fredda gli interventi militari dell’Unione Sovietica nei confronti dei paesi
satelliti furono piuttosto frequenti.[9] Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia
ne hanno fatto le spese. L’ultima impresa militare dell’Unione Sovietica in
campo internazionale era stata l’aggressione all’Afghanistan (1979-1989), le
cui lontane conseguenze giungono ancora fino a noi oggi. La politica del containment è tuttavia assai onerosa e
può eventualmente produrre risultati solo nel lungo periodo, compresi anche
molti effetti non voluti (il containment
della espansione sovietica in Afghanistan ha avuto Bin Laden come
sottoprodotto).
Tutto ciò significa che
una nuova Guerra fredda (questa volta
in un mondo multilaterale) è già
cominciata. Come con la vecchia Guerra
fredda, la parabola della Russia (e i suoi satelliti) è già tracciata. Tenuta
insieme solo ormai dalla forza bruta all’esterno
e dall’autoritarismo all’interno, la
Russia è destinata prima o poi a sfasciarsi,[10] più o meno come la Jugoslavia,
portando però con sé una quantità imprevedibile di disastri. Nel caso
Jugoslavo, almeno ci furono l’ONU e la NATO che intervennero dall’esterno per
impedire le degenerazioni più gravi. Nel caso del conflitto Russia-Ucraina non
ci sarà alcun Terzo capace di
intervenire. Ancor più se il conflitto si estendesse, ad esempio, ai Paesi
baltici o alla Georgia. Se saremo davvero fortunati, potremo solo stare a
guardare.
8. Le mani dell’Impero
russo sul resto del mondo. La sua posizione di paese egemone e di gigante
militare ha fatto sì che la Russia ex-comunista sia stata spesso coinvolta, fin
dalla prima metà degli anni Novanta, in numerose questioni di sistemazione dei
suoi confini e di influenza e/o ingerenza nei confronti di Paesi terzi. Le zone
di maggiore instabilità si sono collocate a ridosso del Caucaso, a ridosso del
Mar Nero e a ridosso del Baltico. Si tratta di un confine di enormi dimensioni,
lungo il quale è oggi purtroppo in gioco il tracciamento della nuova Cortina di ferro, secondo il
disegno di Putin. Dato che abbiamo tutti la memoria corta, compreso anche chi
scrive, è forse il caso di ripercorrere, seppure brevemente, le vicende delle
principali contese confinarie della Russia, allo scopo di scorgervi qualche filo
conduttore. Per brevità non prenderemo qui in esame i confini più lontani e gli
interventi della Russia nel resto del mondo, ad esempio come quello in Siria,
che comunque rientra perfettamente nella nostra interpretazione.
9. Le problematiche dei confini caucasici hanno visto in
scena, in primo luogo, le Guerre cecene.
Ancora in epoca El’cin, a partire dal 1994, c’era stata la Prima guerra cecena, terminata nel 1996 con la conquista della
Cecenia da parte della Russia ai danni degli indipendentisti. Tra il 1999 e il
2009, ora già in epoca Putin, si ebbe poi ancora il riacutizzarsi dell’indipendentismo
ceceno, anche con l’impiego del terrorismo, che diede luogo a un violento
intervento russo, la Seconda guerra
cecena, che culminò con un massacro spietato. La città di Grozny fu rasa al
suolo a cannonate dai Russi. Molti interpreti asseriscono che le due Guerre
siano anche e soprattutto state utilizzate dalla nomenclatura di Mosca per
assestare il suo potere interno.
Nell’area caucasica
abbiamo avuto, in secondo luogo, una lunga situazione di instabilità nella
Georgia, che permane ancora tuttora. Si tratta di un territorio caratterizzato
da diverse divisioni etniche e da diversi afflati indipendentisti. Fin dall’indipendenza
della Georgia, nel 1991, la Russia appoggiò i nazionalisti separatisti di due
regioni georgiane, la Abcasia e la Ossezia del Sud. Fino alla pesante ingerenza
militare russa in Ossezia del Sud nel 2008, ai danni della Georgia. Oggi le due
regioni georgiane separatiste si sono rese indipendenti e politicamente si
collocano nell’orbita russa. Non è un mistero che la Russia aspiri a
egemonizzare l’intera Georgia. La Georgia dal canto suo tende a sottrarsi all’influenza
russa ed è attualmente candidata per l’adesione alla NATO. A due passi dalla
Georgia c’è la Turchia.
10. Nell’area del Mar Nero, fin dalla caduta dell’Unione
Sovietica, si è manifestato l’indipendentismo
della Crimea nei confronti dell’Ucraina. Il progetto indipendentista è
sempre stato fortemente appoggiato se non addirittura originato e pompato dalla
stessa Russia, anche a causa della presenza della flotta russa nel porto di Sebastopoli
(che precedentemente era in affitto). Le ragioni della separazione affondano
nella storia. La Crimea storicamente era territorio tataro, dove i tatari erano
in grande maggioranza. I tatari furono però deportati da Stalin nel 1944 e sostituiti con una popolazione russofona.
Gli attuali crimeani hanno questa ascendenza. Va anche osservato che, nella
storia dell’Unione Sovietica, la Crimea in origine apparteneva effettivamente
alla Russia. Il 19 febbraio 1954 venne donata dal leader sovietico Nikita
Chruščёv alla Ucraina. In epoca post comunista, il progetto separatista della
Crimea fu sempre ovviamente contestato dall’Ucraina, alla quale comunque era
stata garantita la integrità territoriale col citato Memorandum di Budapest. La
questione della separazione si acutizzò tuttavia nel 2014, quando in Ucraina,
con la cacciata di Janukovyč, si configurò la formazione di un governo filo
occidentale. In quel frangente la Crimea decise unilateralmente di abbandonare
l’Ucraina e, contestualmente, la Russia, violando così il Memorandum di
Budapest, decise di prendersi la Crimea tramite un’occupazione militare
(febbraio-marzo 2014).
In concomitanza con la
secessione della Crimea, due province interne all’Ucraina, Donetsk e Lugansk,
collocate nell’area del Donbass, sono insorte con l’appoggio esterno della
Russia, hanno proclamato la loro indipendenza e hanno cercato di allargare
ulteriormente il loro territorio. Com’è noto l’Ucraina ha risposto alla
secessione con una azione militare
interna volta a ricondurre sotto la sua sovranità le province ribelli.
Questa lunga guerra interna ha portato praticamente alla distruzione materiale delle
due province e a più di una decina di migliaia di morti. La situazione
notoriamente era in stallo dal 2014. Va detto che l’area del Donbass è a
maggioranza russofona. Tuttavia è chiaro che il movimento indipendentista su
base etnica è stato incentivato dall’esterno (il paragone con i fatti relativi
alla ex Jugoslavia è palese). In concomitanza con lo scoppio, il 24 febbraio
2022, dell’attuale Guerra russo-ucraina, la Russia ha riconosciuto l’indipendenza
delle due province, nella prospettiva di una annessione alla Russia stessa.
11. Altri problemi di instabilità riguardano il confine della
Ucraina con la Moldavia (anch’essa paese ex comunista, indipendente dal 1991).
Una piccola parte della Moldavia, la Transnistria (territorio a est del fiume
Dnestr, poco più di 500 000 abitanti), ha operato una secessione unilaterale
dalla stessa Moldavia. Sempre nel 2014 la Transnistria, nonostante essa confini
solo con la Moldavia e con l’Ucraina, ha chiesto l’adesione alla Russia, proprio
in concomitanza con i fatti di Crimea. La Transnistria, la cui popolazione
è composta in uguali proporzioni di russi, moldavi e ucraini, è uno dei paesi
più nostalgici della vecchia Unione Sovietica. La Transnistria ovviamente teme
e osteggia la politica filo occidentale inauguratasi nel 2014 nella confinante
Ucraina.
12. Un altro problema ancora, potenzialmente esplosivo,
riguarda il confine della Russia con gli altri Paesi nell’area del Baltico.
Sembra questa apparentemente l’area più stabile. La costituzione autonoma delle
tre repubbliche baltiche ex comuniste è stata realizzata secondo il principio
della auto determinazione con la trattativa. Con la trattativa è stata risolta
anche la complessa situazione confinaria di Kaliningrad (ex Königsberg),
che è ora una exclave della Russia,
collocata tra Polonia e Lituania con sbocco al mare. La situazione baltica
tuttavia ha generato in passato tensioni, soprattutto in relazione all’ingresso
nella NATO della Polonia e delle tre repubbliche baltiche. È comunque da notare
che, lungo la linea del Baltico, la Russia è già da tempo confinante con Paesi
aderenti alla NATO. Con la nuova fase, iniziata ora con la guerra tra Russia e
Ucraina del 24 febbraio 2022, non è detto che anche l’attuale sistemazione non
possa essere rimessa in discussione da Mosca.
L’unica entità post
comunista che non aveva finora generato tensioni confinarie particolari era la
Bielorussia, la quale si era resa indipendente nei suoi tradizionali confini,
si era denuclearizzata e si era tuttavia collocata stabilmente nell’orbita
russa come tipico paese satellite. Nel
1996 è stata fondata l’Unione Russia-Bielorussia, un’entità sovranazionale che connette
i due Paesi. Tuttavia recenti dichiarazioni hanno reso noto che la Bielorussia
aspirerebbe ad avere un accesso al mar
Baltico. La qual cosa, se perseguita effettivamente, magari con l’appoggio
russo, porterebbe a uno scontro gravissimo con i Paesi baltici. Con lo scoppio
della Guerra del 24 febbraio, la Bielorussia ha fornito il proprio territorio e
le proprie attrezzature alla Russia per facilitare l’invasione, diventando complice dell’aggressione e creando una
spaccatura con l’Ucraina senz’altro destinata a durare nel tempo.
13. Come si vede da questa rapida rassegna, la politica estera della
Russia è stata in continuo subbuglio lungo tutti i suoi confini. In Occidente
ci siamo distratti e abbiamo sempre evitato di mettere in fila e di considerare
in senso strategico tutta questa frenetica attività. L’analogia con la
situazione della ex Jugoslavia è impressionante. Prima se ne è andata la
Slovenia. Poi la Croazia, con una lunga guerra civile interna. Poi la lunga guerra
interna nella Bosnia Erzegovina. Poi la Serbia che ha cercato di assoggettare
violentemente la regione ribelle del Kosovo. Gli ingredienti jugoslavi ci sono
tutti. Compresa la folle disponibilità del paese egemone a rischiare una
catastrofe pur di portare avanti il proprio intento di ridisegno confinario,
considerato come condizione vitale
per la propria sopravvivenza.[11] La differenza fondamentale è che, a
differenza della Serbia, quello che oggi impersona il ruolo del paese egemone
aggressore ha le armi atomiche. Questa volta l’ONU e la NATO invece di scendere
sul campo per tacitare i conflitti e i massacri saranno costretti a stare a
guardare.
14. Il progetto russo.
A osservare la carta geografica – esercizio sempre utile – emerge con una certa
chiarezza la presenza di un costante e complessivo progetto di consolidamento
della Russia, ai danni dei Paesi confinanti, destinati a essere inglobati o al
ruolo di paesi satelliti. Ed
eventualmente anche ai danni della UE, accusata dalla Russia di espansionismo
militare tramite la NATO. Poiché l’Ucraina, a partire dal 2014, ha rifiutato il ruolo di paese satellite
della Russia, il progetto strategico russo tende oggi a sfasciare
territorialmente l’Ucraina stessa. Il tentativo piuttosto evidente, da parte
della Russia e dei suoi Paesi satelliti, è quello di demarcare una nuova linea di frontiera con la UE (e
con la NATO). Verrebbe così a determinarsi un confine che dovrebbe andare dal
mar d’Azov e dalla Crimea, passando attraverso il dimezzamento, o la conquista
totale, dell’Ucraina, per proseguire con la Bielorussia (ormai del tutto
asservita e dotata magari di sbocco al mare attraverso un qualche colpo di
mano), per arrivare fino a Kaliningrad. In questo caso – in prospettiva – anche
il destino delle tre repubbliche baltiche (Lettonia, Lituania ed Estonia)
potrebbe essere messo in serio pericolo. Sul fronte sud, nel Caucaso, tra il
mar Nero e il mar Caspio, questa strategia di ridefinizione confinaria potrebbe
essere completata con l’assorbimento totale, o con la riduzione a paese
satellite, della Georgia (processo già iniziato con l’Abcasia e l’Ossezia del
Sud). A seconda del livello di disfacimento conseguito in Ucraina, lungo le
coste del Mar Nero, si potrebbe prospettare anche la aggregazione della
Transnistria alla Russia.
Dopo una guerra come
quella che si prospetta oggi in Ucraina, questa nuova linea di frontiera, più
che una sistemazione ordinata e consensuale, costituirebbe una nuova frontiera di Guerra fredda. La
Russia comunque non ha fatto mistero (attraverso varie dichiarazioni) di
aspirare vagamente anche ai territori un tempo collocati al di là della vecchia
Cortina di ferro, fino alla Germania orientale (dove Putin ha iniziato la sua
luminosa carriera). È il caso di segnalare che nei Balcani ci sono alcune
realtà politiche ancora altamente instabili che vedrebbero volentieri qualche
tipo di connessione con la Russia. Mi riferisco alla Serbia e, soprattutto,
alla Repubblica Srpska che attualmente è federata alla Bosnia-Erzegovina. Di
fronte a queste nostalgie ex sovietiche dovrebbe essere abbastanza chiaro come
oggi l’unico elemento dissuasore sia costituito proprio dalla NATO.
15. La bufala dell’accerchiamento
da parte della NATO. La motivazione addotta dalla Russia per lo
scatenamento della guerra del 24 febbraio è un conclamato pericolo, costituito
dall’espansione della NATO in Ucraina.
Questa tesi è stata prontamente accolta in Europa dalla miriade di antiamericani e filorussi, latenti o manifesti, di cui siamo abbondantemente
circondati. In realtà, è il caso anzitutto di notare che la Russia è già
confinante da tempo con Paesi NATO (gli Stati baltici – e poi ha la Turchia a
due passi). Il problema dunque non è certo la NATO, bensì proprio l’Ucraina. Secondariamente,
va ricordato che l’adesione dell’Ucraina alla NATO non era assolutamente all’ordine del giorno, poiché banalmente un
Paese che abbia conflitti confinari con altri Paesi non può proprio entrare nella NATO. Quello della possibile adesione
della Ucraina alla NATO è soltanto un pretesto da parte della Russia per poter
procedere ad ampliare e ridefinire la propria area di influenza. In questa
strategia è chiaro invece che il controllo dell’Ucraina rappresenta il tassello
fondamentale. È senz’altro vero che l’Ucraina, a partire dalla svolta politica
filo occidentale del 2014, aveva ripreso a organizzare il proprio esercito,
anche con il supporto di specialisti occidentali,[12] ma questo è accaduto dopo l’aggressione subita in Crimea e dopo lo scoppio della guerra del
Donbass, in smaccata violazione del Memorandum di Budapest, di cui Mosca doveva
essere uno dei garanti.
La decisione politica
dell’Ucraina di volgersi a occidente, nel 2014, ha fatto precipitare la
situazione.[13] Questo perché la Russia considera la Bielorussia e l’Ucraina
come territori sottoposti al proprio imperio. Quando i bielorussi decideranno
di liberarsi di Lukašėnka (il che potrebbe avvenire abbastanza presto) faranno
la stessa fine dell’Ucraina. La Russia, in altri termini, sta portando la
guerra nel cuore dell’Europa, nel nome della ricostituzione della tradizione
imperiale zarista e/o sovietica, con la conseguenza implicita di ostacolare e ridimensionare il progetto europeo stesso.
La Russia odierna ha ben chiaro che il pericolo non è costituito dalla NATO
quanto dal modello sociale, culturale e
politico europeo che, se si diffondesse a est, la priverebbe, uno dopo l’altro,
dei suoi paesi satelliti. E poi questo modello potrebbe penetrare anche nella
stessa Russia. Basta osservare con quanta cura la Russia perseguiti i propri
oppositori interni. Il Patriarca moscovita si è recentemente pronunciato a
favore della guerra contro l’Ucraina, considerata come guerra giusta, contro i costumi immorali occidentali.
La diffusione del modello sociale, culturale e politico europeo distruggerebbe
proprio il nazionalismo e il potere oligarchico che oggi reggono la
Russia. La Russia odierna, per la propria struttura intrinseca non può
tollerare lo sviluppo di una società
aperta. Ne va della propria sopravvivenza.
Se l’Europa può sperare
di avere ancora un futuro, occorre che questo piano della Grande Russia sia contenuto con decisione. La guerra della Russia
all’Ucraina, lungi dall’essere occasionale, rappresenta
dunque solo l’inizio dell’assalto della Russia all’Europa. L’inizio della
ridiscussione complessiva dei confini del 1991. Una ridiscussione che la Russia
considera vitale (gli “spazi vitali”
hanno una funesta ascendenza) e che non si sa fin dove potrebbe arrivare.
Quelli che, implicitamente o esplicitamente, fanno sapere paternalisticamente agli Ucraini che sarebbe meglio che si
arrendessero, per il loro bene, non hanno proprio capito quale sia la posta in
gioco.
Tutto ciò è potuto avvenire,
ovviamente, solo ed esclusivamente nell’ambito della mancanza totale di una visione di politica estera europea. Quella
stessa mancanza di visione che ci ha
consentito di fare della Russia la nostra principale fornitrice energetica. O
ha consentito ad alcuni nostri partiti nazionali (FI, M5S, Lega) e ai loro
relativi esponenti di esaltare la Russia di Putin. È lecito chiedersi cosa
Putin abbia dato loro in cambio. Finora l’espansione a est della UE è avvenuta
in maniera del tutto occasionale ed erratica, secondo la logica della libertà di adesione e del possesso dei
requisiti. Si tratta di una logica che ormai la Russia è ben decisa a
contestare. Mancanza totale di visione da parte nostra, altro che complotto
della NATO! Ma di ciò si dirà oltre.
16. Le mani imperiali
sull’Ucraina. Passiamo ora a esaminare con qualche dettaglio in più le vicende
specifiche relative all’Ucraina – alcune delle quali abbiamo già anticipato.
Resasi indipendente nel 1991, l’Ucraina si è data una costituzione solo nel
1996. Tra il 1994 e il 2005 il presidente fu Leonid Danylovyč Kučma, accusato da più parti
di autoritarismo e corruzione. Si trattava di un Paese collocato nell’orbita russa, esattamente come la vicina
Bielorussia. L’Ucraina ha sviluppato nel 1994, in occasione delle elezioni
presidenziali, un primo moto di ribellione contro
l’oligarchia locale corrotta e la politica di subordinazione filorussa. Ciò è avvenuto con la
cosiddetta Rivoluzione arancione. In
occasione delle elezioni presidenziali fu contestata dalla Piazza la vittoria
del filorusso Viktor Fedorovyč Janukovyč, accusato comprovatamente di brogli elettorali. In seguito a un moto
popolare (tredici giorni di proteste popolari a Kiev e in altre città ucraine)
e in seguito a una sentenza della Corte
costituzionale, l’elezione fu rifatta e questa volta portò all’elezione
regolare del primo presidente filo
occidentale, Viktor Juščenko. Juščenko peraltro, proprio nel 2004, subì un avvelenamento in un contesto altamente
sospetto. Tanto per capire chi è che fa complotti. Il team progressista tra Juščenko e il suo primo ministro Julija
Tymošenko non riuscì tuttavia a consolidarsi e a mantenersi a lungo al potere.
17. Si ebbe così, in breve tempo, una crisi che consentì il
ritorno alla presidenza del filorusso Janukovyč, tra il 2010 e il 2014. Gli
eventi della presidenza di Janukovyč sono assai controversi e porteranno a una
serie di intensi moti di piazza a Kiev e in molte città dell’Ucraina, durati
dal novembre 2013 al febbraio 2014. Trascrivo per brevità la descrizione
sintetica che ne fa Wikipedia: «A novembre 2013 si verificano una serie di
proteste popolari contro il Presidente Janukovyč sfociate nella occupazione di
Piazza Indipendenza a Kiev […] da parte di giovani pro-Europa dopo che il
Presidente, data la critica situazione delle finanze pubbliche, aveva rifiutato
di firmare un accordo di associazione dell’Ucraina all’Unione europea, in
favore di un prestito russo (acquisto di titoli di stato per circa 15 miliardi
di dollari) concesso dal Presidente Putin, che legava ancora di più il Paese
alla Russia. Ulteriore motivo di protesta per la popolazione è stato il rapido
accrescimento di ricchezze che ha visto i figli e i parenti prossimi di
Janukovyč diventare miliardari, mentre l’economia del Paese si indeboliva.
Inoltre, alcuni comparti industriali ucraini sono stati delocalizzati in Russia
e vasti territori agricoli venduti alla Cina, Paese che invia in Ucraina la
propria manodopera, a discapito di quella locale, creando ampie sacche di
disoccupazione e malcontento in aree rurali dell’Ucraina».[14]
Il complesso dei fatti accaduti
in quel frangente sono noti come la rivoluzione di Euromaidan. Una serie di moti di piazza di intensità crescente sfociarono
nell’assalto, da parte della folla, ai palazzi governativi e con scontri
violenti tra la piazza e le forze dell’ordine che alimentarono così la tipica spirale
tra rivolta e repressione. Forze dell’ordine e cecchini appostati spararono
sulla folla dei manifestanti, producendo una strage. Il 22 febbraio si ebbe l’epilogo della
protesta: i manifestanti chiesero le dimissioni di Janukovyč che, ormai
circondato e in pericolo, fu costretto a fuggire dalla capitale Kiev, insieme
agli altri stretti collaboratori. Il parlamento chiese a questo punto l’impeachement del Presidente. Il 24
febbraio, il Ministro dell’interno annunciò che Janukovyč era ricercato,
assieme ad altre persone ritenute responsabili della strage, e che era stato
emesso un mandato di arresto nei suoi confronti con l’accusa di uccisione di
massa. Il 24 gennaio 2019 Janukovyč è stato condannato dal Tribunale di Kiev a
13 anni di carcere per alto tradimento.
Dalla parte filorussa,
la rivolta di Euromaidan e l’estromissione di Janukovyč è stata considerata come un vero e proprio colpo di stato, un complotto che si
ritiene sia stato organizzato dalle potenze straniere (USA e NATO) e dalla
destra filonazista ucraina. Qui ha radice la narrazione, da parte della Russia,
secondo cui gli ucraini sarebbero tutti nazisti. Mentre al centro del Paese si
stava consumando la rivoluzione di Maidan filo occidentale, lo abbiamo già in
parte anticipato, le regioni a più marcata densità russa deliberarono – con la
spinta e l’appoggio nascosto di Mosca - la secessione dall’Ucraina. Si ebbe
così l’occupazione russa della Crimea ed ebbe inizio la guerra separatista
delle due province del Donbass. Nel mentre, non a caso, la Transnistria, in
perfetto stile ex jugoslavo, ne approfittò per chiedere l’adesione alla Russia.
Come si vede si tratta di un calco, su scala enormemente più grande e
pericolosa, di quanto avvenuto in Cecenia, nella Ossezia del Sud e nella
Abcasia. Il paese egemone interviene
entro i confini di un altro Paese sovrano per appoggiare e proteggere quelle
che sono ritenute minoranze perseguitate,
fino a determinare un intervento militare e una conseguente secessione. Chissà
dove eravamo con la testa, quando compravamo il gas da questa bella gente.
18. Al posto di Janukovyč, costretto alla fuga, fu eletto il progressista Porošenko (presidente dal 2014 al 2019), che sviluppò
un orientamento politico filo occidentale, fortemente osteggiato dalla Russia.
Per questo si trovò subito a dover gestire la secessione contestata della
Crimea e la lunga guerra separatista del Donbass. Va detto che, nonostante le
sue posizioni progressiste e filo occidentali, anche Porošenko fu accusato di corruzione e la
sua popolarità diminuì progressivamente. L’elezione nel 2019 alla presidenza dell’Ucraina
di Volodymyr Zelens’kyj, dichiaratamente europeista, di origine ebraica (lo
segnalo perché è invece considerato dai Russi alla stregua di un nazista), ha
indubbiamente contribuito a far precipitare le cose, almeno dal punto di vista
russo. Zelens’kyj rappresenta il caso singolare di un attore televisivo
popolare che ha fondato un partito politico che si chiama Servitore del Popolo e che ha vinto le elezioni sull’onda di un
programma anti corruzione. Per certi aspetti, con i nostri standard, potremmo
definire come populista l’orientamento
di questo partito. Zelens’kyj ha ereditato dal suo predecessore un’annessione
(non riconosciuta da alcuno) della Crimea alla Russia e una guerra interna da
parte dei separatisti (fomentata dalla Russia). In più ha ereditato le
questioni scottanti dello sviluppo dei rapporti con la UE e la NATO. Più una
serie di complesse questioni legate alla fornitura del gas dalla Russia e all’utilizzo
dei gasdotti transitanti sull’Ucraina.
19. L’Ucraina dunque non
poteva proprio entrare nella UE e nella NATO. Sono dunque chiari i motivi
per cui Zelens’kyj avrebbe voluto entrare rapidamente nella UE e nella NATO e
magari anche perché stava giustamente cercando di mettere in piedi un esercito ucraino
con l’aiuto di esperti consiglieri internazionali. Si trattava tuttavia, nel
breve o medio periodo, di richieste
irricevibili. La situazione dell’Ucraina è del tutto analoga alla
situazione di alcuni Paesi balcanici ex comunisti che sono tuttora in attesa di
maturare i requisiti per l’ingresso nella UE e nella NATO. L’adesione alla UE
di un Paese che ha un conflitto secessionista interno (magari indotto dall’esterno)
è davvero poco sensato. Prima si risolve il conflitto, poi si discute l’adesione.
Lo stesso vale per la questione della secessione della Crimea. Poiché la Crimea
fa, sul piano del diritto internazionale, ancora parte dell’Ucraina, non si
capisce neanche quale sarebbe il territorio da annettere alla UE. Quelli della
Crimea voterebbero o no per il Parlamento europeo? E quelli del Donbass? Prima di
entrare si devono risolvere le questioni in sospeso. A maggior ragione, vale lo
stesso discorso per l’ingresso dell’Ucraina nella NATO. Fare entrare nella NATO
chi ha già un conflitto in corso, sia
interno sia internazionale, è come fare alla NATO una richiesta di intervento militare in un conflitto da parte di un
Paese esterno.
Purtroppo Zelens’kyj,
dato il suo programma e l’orientamento dei suoi elettori, non poteva fare altro
che premere per mettersi sotto l’ombrello di UE e NATO. A quanto pare la NATO e
la UE non hanno chiarito abbastanza che l’Ucraina dovesse risolvere i suoi
problemi prima di entrare. È
possibile che abbiano giocato sull’ambiguità. Anche le dichiarazioni che si
sentono spesso oggi (tipicamente da parte di von der Leyen), di offerta di ingresso nella UE, suonano
come affermazioni puramente retoriche e comunque irresponsabili. Nonostante
tutta la solidarietà che possiamo avere con la Ucraina aggredita, l’Europa deve
guardarsi bene dal fare entrare l’Ucraina prima che questa abbia risolto tutti
i suoi problemi interni e internazionali. Sarebbe una mina vagante.
20. L’Europa e la guerra.
Credo sia il caso a questo punto di entrare un poco più nel merito della
questione della NATO, visto che questo argomento continua a turbare molte anime
belle. I Paesi dell’Europa politica sono ormai paesi prosperi e si sa che i
paesi prosperi non amano fare la guerra. Questo lo abbiamo ampiamente imparato.
Questo è il motivo fondamentale per cui i Paesi della UE hanno progressivamente
diminuito il loro apparato militare e si sono posti sempre più sotto l’ombrello difensivo della NATO. Questi
due fattori combinati, la delega della
difesa europea alla NATO unita alla mancanza
di una politica estera, costituiscono oggi un enorme pericolo per l’Europa,
un cocktail davvero esplosivo. Questi
sono i limiti davvero pesanti della UE e in questo stanno le nostre vere
responsabilità. La NATO oggi supplisce semplicemente ai nostri limiti,
altrimenti Putin si sarebbe già preso un bel pezzo di Europa, dalla Polonia ai
Balcani.
La NATO, fondata nel
1949, è un tipico prodotto della Guerra fredda. Dopo la fine della Guerra
fredda è stata riciclata, non senza grandi ambiguità. La sua espansione è stata
dovuta al servizio fornito di cui sopra, più che a una volontà di aggressione
contro la Russia. Senza voler entrare nei dettagli di un compiuto giudizio
storico, possiamo dire che la NATO, nonostante molti limiti, ha svolto una
funzione di contrasto al mondo comunista, fino alla caduta del Muro di Berlino.
Il progressivo disarmo atomico e la dissoluzione del Patto di Varsavia hanno
ricondotto la NATO alla sua natura di servizio tipicamente difensivo nei confronti dei diversi Paesi aderenti. L’adesione è su base volontaria e richiede una
procedura complessa. Secondo autorevoli commentatori conoscitori della materia,
negli ultimi tempi la NATO era piuttosto in crisi. L’aggressione della Russia
all’Ucraina paradossalmente sta ridando senso alla esistenza stessa della NATO.
Se non ci fosse bisognerebbe inventarla.
21. Poiché nel nostro Paese – e soprattutto nella sinistra pacifista
– si sta manifestando una forte tendenza all’equidistanza nei confronti della NATO e della Russia (come nel noto
slogan «Né con Putin, né con la NATO»), è il caso di considerare e analizzare
alcuni dati di fatto. Allo scopo di chiarire quale sia stato il ruolo della
NATO dopo la fine della Guerra fredda, può essere utile esaminare quali sono
stati i suoi principali interventi militari effettivi. Le missioni più
impegnative che hanno visto partecipe la NATO sono state in tutto cinque. Si
possono ripartire in due principali blocchi d’intervento, quello nei Balcani e
quello in Afghanistan. E qui, per intanto, si trova subito una bella sorpresa.
Questi due blocchi d’intervento sono tra loro legati da un filo indissolubile, che è sempre quello dell’implosione del mondo comunista. Questo è ovvio per i Balcani, ma
vale anche per l’Afghanistan. L’instabilità dell’Afghanistan ha avuto la sua
lontana origine dall’invasione russa
(ultima impresa aggressiva dell’Unione Sovietica[15]) e dalla successiva
mobilitazione dei mujaheddin contro i
sovietici da parte degli americani.[16] Dall’appoggio occidentale ai mujaheddin si è sviluppato il terrorismo
di Bin Laden. Come è noto, è questa la fonte che ha portato all’11 Settembre e
ai successivi interventi afghani.
22. Vediamo allora questi interventi con qualche dettaglio in
più. Abbiamo anzitutto[17] l’intervento Implementation
Force (IFOR) in Bosnia ed Erzegovina dal 20 dicembre 1995 al 20 dicembre
1996. Si trattava di una forza multinazionale con compiti di peacekeeping, al fine di garantire il
rispetto degli accordi di Dayton, appena siglati, che stabilizzavano la regione.
L’intervento è avvenuto in seguito alla risoluzione 1031 del Consiglio di
Sicurezza. La NATO qui è subentrata alla missione ONU detta UNPROFOR,[18]
presente nei Balcani fin dal 1992. Come proseguimento di questo primo
intervento, abbiamo avuto poi Stabilisation
Force (SFOR) in Bosnia ed Erzegovina dal 21 dicembre 1996 al 1 dicembre
2004 (Risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1088). Si trattava di una missione
di Peace-enforcement, sempre in
relazione agli accordi di Dayton.
In terzo luogo abbiamo
avuto poi la Kosovo Force (KFOR) in
Kosovo, che era una provincia secessionista della Serbia, a partire dal 12
giugno 1999. L’intervento è avvenuto in seguito alla risoluzione dell’ONU
(Risoluzione 1044 del Consiglio di Sicurezza) per porre fine al sanguinoso
conflitto tra la Serbia e la guerriglia albanese dell’UCK che stava degenerando
in pulizia etnica. In questo quadro avvenne il bombardamento di infrastrutture
a Belgrado nel 1999, per costringere la Serbia a desistere dal suo intervento
in Kosovo. L’area del Kosovo è ancora assai instabile e la missione è tuttora attiva.
Abbiamo poi i due
interventi in Afghanistan, in seguito all’aggressione terroristica dell’11
Settembre agli USA. Il primo è stato denominato International Security Assistance Force (ISAF) in Afghanistan dal
20 dicembre 2001 al 28 dicembre 2014 (Risoluzione del Consiglio di Sicurezza
1386). Il secondo successivo intervento è stato Sostegno Risoluto (RS) in Afghanistan dal 1 gennaio 2015 al 12
luglio 2021 (Risoluzione del Consiglio di Sicurezza 2189).
Oltre ai sopra citati
cinque, che sono gli interventi più rilevanti, è forse il caso di segnalare
anche l’intervento in Libia. Nel corso delle primavere arabe (tra il 2010 e
2011), si ebbe l’intervento nella Prima
guerra civile libica. In seguito alla Risoluzione 1973 del Consiglio di
Sicurezza, lo scopo era di realizzare un blocco navale e una no-fly zone. L’intervento avvenne dal 19
marzo al 31 ottobre 2011. L’intervento di no-fly
zone si trasformò de facto in un
sostegno per i ribelli e culminò nella deposizione di Gheddafi. Il Paese
tuttavia non fu affatto stabilizzato a causa delle profonde spaccature tra gli
insorti e a causa poi di vari successivi interventi da parte di forze esterne.
Come si vede, la
dinamica è sempre la stessa. Si determina una situazione di grave emergenza che
non trova né intermediari né soluzioni e che porta a drammatiche situazioni
umanitarie. Il Consiglio di Sicurezza, spesso con grave ritardo, decide di
intervenire con una Risoluzione e a questo punto la NATO esegue l’intervento
militare secondo regole di ingaggio previste ad hoc. La forza militare dispiegata di solito ha un successo
momentaneo e l’emergenza è risolta. Quello che di solito difetta è l’intervento
dopo l’emergenza, quello che dovrebbe
essere solitamente un intervento di carattere più politico. Qui di solito i
fili si ingarbugliano, per cui le diverse situazioni di crisi possono nuovamente
degenerare o protrarsi all’infinito. Tuttavia si può anche sostenere che non
sia certo compito della NATO trovare soluzioni politiche di ampio respiro alle
crisi, che siano capaci di essere solide e durature. È chiaro che al di là
della Risoluzione ONU e dell’intervento militare della NATO quel che di solito
viene a mancare è proprio la dimensione della politica. Viene a mancare la
ricostituzione del tessuto economico, sociale e politico delle aree interessate.
Come esempio, si possono citare i due interventi in Afghanistan. La vicenda
afghana rappresenta, in effetti, il fallimento più vistoso della NATO ed è
davvero significativo che la Russia abbia deciso di prendere l’iniziativa della
guerra in Ucraina pochi mesi dopo la evacuazione di Kabul determinata dalla
decisione unilaterale degli USA, praticamente imposta agli alleati obbedienti.[19]
23. I limiti della NATO.
Nel panorama dell’attuale dibattito politico, semplicemente la questione della
NATO non compare quasi mai. Eppure la NATO, nell’attuale situazione
internazionale, mostra una serie di limiti piuttosto clamorosi che
evidentemente nessuno vuol vedere. Secondo noi, detto in breve, questi sono i
limiti principali cui occorrerebbe porre rimedio urgentemente. Li elenchiamo
brevemente. 1) Limiti organizzativi sul
campo derivanti dal rassemblement
occasionale di Paesi grandi e piccoli, di truppe
composite e di comandi a rotazione
che ne minano pesantemente l’unità operativa. Questo si è visto con chiarezza
nel caso dell’Afghanistan. Abbiamo già sottolineato poi il difetto di regia politica che di solito hanno avuto gli interventi
militari. Questo è un problema non solo della NATO ma anche e soprattutto dell’ONU,
nel cui quadro spesso si svolgono gli interventi. 2) Sebbene sia difficile
ammetterlo, il carattere solo difensivo
costituisce oggi un grave limite. Il carattere difensivo poteva avere senso
nell’ambito della Guerra fredda, dove l’offesa poteva venire solo da una parte.
Ora, nel nuovo panorama internazionale, con la diffusione degli Stati canaglia,
con la diffusione di potenze regionali imprevedibili e talvolta minacciose, con
la complicazione dei conflitti e delle alleanze, è abbastanza chiaro che la
funzione della sola difesa non basta più. Del resto la NATO è quasi sempre
intervenuta, sotto l’egida dell’ONU, con missioni di peace-enforcement e di peacekeeping.
Ora che assistiamo al fallimento totale dell’ONU (vedi oltre) bisognerà che
questi compiti di “polizia internazionale” siano assolti da qualcuno. 3) Negli
ultimi decenni si è avuta poi la rottura
dell’unità politica dei paesi atlantici. È chiaro che con una Europa priva
di una sua politica estera, con la Brexit e l’autonomizzazione della Gran
Bretagna dall’Europa, con l’imprevedibilità della politica estera americana (si
veda Trump) e con l’isolazionismo americano sempre più marcato, l’unità
politica dei paesi atlantici è sempre più destinata a venir meno. Si pensi all’ambiguo
ruolo nella NATO giocato da un paese come la Turchia. Tutto ciò non potrà che
inficiare sempre più le garanzie che la NATO potrà offrire ai suoi membri. 4)
In ultimo, il problema ben noto costituito dalla prevalenza, in ambito NATO,
degli USA che tendono spesso e volentieri a usare l’alleanza militare atlantica
per i loro scopi, o a piegarla alla loro visione del mondo. Anche la Turchia
non è da meno. Per tutti questi motivi la NATO appare sempre più inadeguata. In
questo attuale frangente sta svolgendo un ruolo indispensabile di difesa dei
confini europei e di dissuasione nei confronti della Russia. E comunque gli
attuali eventi dovranno inevitabilmente condurre al più presto a una riforma complessiva della NATO.
24. L’assenza di una
difesa europea. La UE in prospettiva sta diventando uno dei tanti poli del mondo multipolare. In questo senso è
ovvio che la UE dovrebbe sciogliere o per lo meno allentare la propria
dipendenza dagli USA e guadagnare al più presto una sua autonomia nel campo della politica
estera e nel campo della difesa.
In particolare, per quel che riguarda la UE, è sempre più necessaria e urgente
la costituzione di una forza armata
europea che sia in grado eventualmente di assolvere anche a compiti offensivi e che soprattutto sia
in grado di essere un valido strumento di
politica estera. È chiaro che per mettere una forza armata al servizio di
una politica estera, una politica estera
bisognerebbe avercela. Questo perché le situazioni di instabilità sono
destinate ad aumentare. Basta uno sguardo al Sud del Mediterraneo, e quel che
accade ora ai confini a Est dell’Europa. Il multipolarismo
purtroppo ha aumentato i rischi e non
li ha affatto diminuiti. Attualmente non riusciamo neanche a farci dare dall’Egitto
gli indirizzi degli imputati per l’assassinio
di Regeni.
Al progetto ormai
improcrastinabile di una forza armata europea si oppongono oggi: 1) una serie
di interessi gretti e meschini dei
singoli Stati della UE stessa, nessuno dei quali è disposto a cedere poteri per
una politica militare comune. 2) Gli interessi
geopolitici degli USA che, attraverso la NATO, tendono a esercitare la loro
egemonia nel campo atlantico. 3)La miope
ideologia pacifista che non vuole né la NATO né una forza armata europea,
avendo così l’esito inevitabile di disarmare l’Europa e di consegnarla nelle
mani del primo prepotente che passa. 4) L’assenza già citata di una politica
estera europea.
I molti limiti della
NATO suggeriscono dunque l’esigenza di una sua riforma. La NATO avrà molti
limiti, ma chi non vuole stare dentro la NATO dovrebbe per intanto dire con
chiarezza come si dovrebbe provvedere
alla difesa europea. Visto che ormai è divenuta una questione ineludibile.
Costruire un esercito europeo non è fatto che si possa improvvisare, per cui
occorrerà pensare a una lunga fase di compresenza tra la NATO e il costruendo
esercito europeo (ammesso che si voglia costruirlo). Coloro che gridano nei
loro slogan «Né con la NATO, né con Putin» sono oggettivamente i migliori
alleati dell’evidentissimo progetto neo imperiale della Russia. Per intanto,
dopo il 24 febbraio hanno cominciato a suonare i campanelli di allarme. La
Germania ha annunciato l’aumento delle spese militari. Lo stesso faranno altri
Paesi. Si spera che tutto ciò conduca a una sempre maggior integrazione delle
forze armate europee.
25. L’ONU, cioè il Terzo
assente. Nell’attuale conflitto tra Russia e Ucraina, tranne la risoluzione
di condanna dell’Assemblea generale che non può avere alcun effetto pratico, l’ONU
è assolutamente impossibilitato a intervenire. La Russia in quanto erede della
Unione Sovietica è infatti membro
permanente nel Consiglio di sicurezza e dispone dunque del diritto di veto. Si ha dunque il caso
singolare per cui un Paese aggressore,
cioè un Paese che di fatto si è comportato come uno Stato canaglia, avendo il diritto di veto nel Consiglio di
sicurezza, può vietare tutte le risoluzioni che lo riguardino. Forse non ci si
rende ben conto di quel che significhi. Siamo di fronte al fallimento dell’ONU,
alla sua bancarotta definitiva. Si
tratta di una situazione decisamente paradossale, di cui però pare nessuno si
stia scandalizzando. È chiaro che tra le istituzioni internazionali che
dovrebbero essere profondamente riformate c’è anzitutto l’ONU. I limiti dell’ONU
sono noti da decenni ma la questione non sembra appassionare il mondo della
politica (sia la nostra politica interna, sia la politica internazionale). Non
sembra entusiasmare neanche i pacifisti, nonostante il kantiano progetto di una
pace perpetua. Nei momenti di scoppio
delle crisi internazionali, i prezzi da pagare poi sono enormi. Tamponate le
crisi, però si ritorna da capo, nel disinteresse generale.
Per intanto, venuto meno
l’ONU, tutti sembrano a caccia di un mediatore. La Russia, dalla sua
inattaccabile posizione, sta intanto cercando di ottenere la resa militare dell’Ucraina
e la caduta di Zelens’kyj e non ha alcuna intenzione di trattare alcunché. Voci
insistenti asseriscono che siano in circolazione mercenari con il compito di assassinare
proprio Zelens’kyj. Da più parti – finora a quanto pare inutilmente - si sta
cercando di individuare un mediatore.
Siamo esattamente nella situazione del Terzo
assente di cui ha parlato Bobbio. Così scriveva Bobbio nel 1983: «Esiste
allo stato attuale delle parti in campo dei rapporti internazionali un Terzo?
No, non esiste. Per questo, illuderci su una pace possibile, è stolto.;
illudere, è una consapevole menzogna. Questo Terzo avrebbe dovuto essere, in
quanto terzo al di sopra delle parti, le Nazioni Unite, nate con lo scopo
principale di dirimere i conflitti internazionali prima che degenerino in
guerra. […] Ma le Nazioni Unite sono impotenti […]».[20]
C’è un fatto poi che
lascia davvero di stucco. Nella pubblica opinione quando si pensa al mediatore,
il Terzo tra Russia e Ucraina, si
pensa di solito alla Cina. Ma la Cina sta facendo – o si appresta a fare a
Taiwan (e forse in altre sue regioni interne) più o meno quello che la Russia
sta facendo alla Ucraina. La Cina è anch’essa un paese ex – comunista e ha esattamente tutte quelle caratteristiche
tipiche dei Paesi ex-comunisti di cui abbiamo ampiamente discusso nella
prima parte. I tifosi della Cina di Xi vadano pure a rileggere. Due Paesi ex comunisti con diritto di veto nel
Consiglio di sicurezza dell’ONU sono oggettivamente una minaccia per il Mondo.
Abbiamo ormai capito tutti che dipendere dalla Russia per le forniture del gas
è stata una solenne stupidaggine. E dipendere dalla Cina per tutto il resto? I
più speranzosi dicono che la Cina “Non avrebbe convenienza, …”. Anche la Russia,
in teoria, il 24 febbraio scorsi non avrebbe avuto alcuna convenienza.
26. Per chiudere con un’amara riflessione, visto che una
soluzione proprio non c’è, val la pena di riandare ad alcuni aspetti di quel
che accadde a Srebrenica tra il 6 e il 25 luglio 1995. Siamo in
Bosnia-Erzegovina, pochi mesi prima della firma dell’accordo di Dayton sulla
spartizione interna del Paese tra la Repubblica serba (Republika Srpska) e quella croato bosniaca. Srebrenica era una
delle tre enclave bosniache in
territorio serbo (Srebrenica, Žepa e Goražde). Di qui la forte pressione dell’esercito
serbo nei confronti delle poche enclave
rimaste. L’intento era quello di effettuare una pulizia etnica dell’enclave che sarebbe in prospettiva
divenuta territorio serbo. Srebrenica era presidiata da un contingente di
alcune centinaia di caschi blu olandesi dell’UNPROFOR, cioè dell’ONU. Avrebbero
dovuto difendere gli abitanti locali da eventuali aggressioni dei serbi. Tra il
6 e il 25 luglio le forze soverchianti dei serbi, comandati dal generale
Mladich, circondarono l’enclave, la
conquistarono senza difficoltà e, sotto la minaccia delle armi, ridussero all’impotenza
il contingente dei caschi blu olandesi. Nei giorni successivi perpetrarono
sistematicamente il massacro di più di 8000 civili bosniaci. La Corte
internazionale di giustizia ha successivamente definito il massacro come genocidio.
Nonostante vari processi
e inchieste, la posizione del battaglione olandese dell’UNPROFOR non è stata
ancora del tutto chiarita. Gli olandesi avevano solo armi leggere ed erano
sicuramente inferiori di forze rispetto ai serbi. Per cui non furono in grado
di intervenire e di assolvere al loro compito di proteggere la popolazione.[21]
In un quadro di disorganizzazione della catena di comando, non ci fu alcun
significativo aiuto o intervento aereo dall’esterno in difesa dall’enclave, nonostante fosse stato più
volte richiesto dal comandante del contingente, questo perché a quanto si disse
non sarebbe stato conforme alle regole di ingaggio della missione. Ai caschi
blu non restò che riparare nella loro base e cercare di intavolare qualche timida
trattativa con Mladich. Una moltitudine di bosniaci sfollati si radunò nei pressi
della base ma gli olandesi non furono in grado né di ospitarli né di
difenderli. Gli uomini di Mladich li prelevarono con il pretesto della
identificazione, separarono gli uomini, li caricarono su mezzi e li portarono
via e procedettero al massacro che infuriò nei giorni successivi.
Quando si resero conto
di quel che stava accadendo, gli olandesi non furono comunque in grado di
intervenire. Le inchieste e i processi che ci furono, a vari livelli, non hanno
portato a nulla di definitivo. Circolano diverse versioni interpretative, da
chi dice che, praticamente abbandonati dal Comando centrale della missione, i
caschi blu non abbiano potuto fare altro che stare a guardare. Qualcuno li
accusa addirittura di avere anche, per certi aspetti, collaborato con i serbi,
avendo consentito il prelevamento di coloro che si erano rifugiati nei pressi o
addirittura dentro alla base. È stato accertato che, in alcuni specifici casi, i
caschi blu non abbiano dato rifugio ad alcuni bosniaci che lo richiedevano
espressamente e che poi sono stati massacrati. Per alcune specifiche omissioni processualmente accertate alcuni
ufficiali sono stati condannati. Comunque, nonostante la situazione
imbarazzante della loro posizione, forse per una sorta di riparazione, i
soldati del contingente hanno anche ricevuto un’onorificenza dal governo
olandese.
Il caso dei caschi blu olandesi nella sua complessità resta insoluto. A parte la responsabilità penale, gli olandesi del contingente UNPROFOR restano a tutt’oggi nel limbo indistinto di una non accertata responsabilità morale. In una posizione che può essere definita come «al di là del bene e del male». In quello stesso limbo oggi, nei confronti di quel che avviene in Ucraina, ci troviamo tutti noi, ma proprio tutti. Facciamo quel che possiamo, accogliamo i profughi, mandiamo aiuti umanitari, andiamo in piazza con le bandiere, sopportiamo il rialzo dei prezzi ma abbiamo le mani legate. I nostri attuali Comandi centrali sono come sempre disorganizzati e le forze del nemico sono soverchianti. Stiamo assistendo a un massacro generalizzato ma siamo costretti a stare a guardare. Abbiamo le mani legate perché, come s’è visto abbondantemente, ce le siamo legate da noi stessi, ormai da lunghi anni, con la nostra disattenzione, con la nostra dabbenaggine, con i nostri comodi, con il nostro buonismo e con la nostra stupidità.
Giuseppe Rinaldi (21/03/2022)
OPERE CITATE
1989 Bobbio, Norberto, Il terzo assente. Saggi e discorsi sulla pace e sulla guerra, Edizioni Sonda, Torino.
2001
Pirjevec, Jože, Le guerre jugoslave 1991-1999, Einaudi, Torino.
NOTE
[1] Questo saggio riprende alcune mie teorie
sull’evoluzione dei Paesi post comunisti, applicate alla nuova situazione
dell’aggressione della Russia all’Ucraina. Per il resto non presenta dati nuovi
o analisi che non siano già comparse altrove su fonti specializzate. Se ha
qualche pregio, questo è il fatto di proporre una visione d’insieme della
questione, allo scopo intanto di comprendere la situazione attuale, come ci
siamo arrivati e cosa ci possiamo aspettare. Ho fatto il massimo sforzo per
controllare le fonti dei dati citati. Le mie osservazioni critiche e le mie
valutazioni personali, ove compaiano, dovrebbero risultare sempre chiaramente
distinguibili dai dati citati.
[2] Secondo il mio modesto parere, quella che
gli ucraini stanno combattendo è una vera e propria resistenza, del tutto assimilabile alla Resistenza al nazifascismo. Ciò nonostante il discutibile parere
contrario di taluni politici e intellettuali. Carlo Smuraglia, Presidente
emerito dell’ANPI, ha dichiarato con chiarezza che quella degli ucraini è una resistenza e che va aiutata anche con le armi. Questo in aperto
contrasto con la linea dell’attuale presidente dell’ANPI Gianfranco Pagliarulo.
Se l’ANPI non è più in grado di identificare con chiarezza cosa è resistenza da cosa non
lo è, allora l’ANPI dovrebbe proprio fare una seria riflessione.
[3] Cfr. Bobbio 1989.
[4] Mi riferisco alle tesi del politologo e
filosofo Francis Fukuyama.
[5] Si ricordi che nei Paesi del comunismo reale
la componente militare non era semplicemente al servizio del potere politico,
ma era essa stessa una componente politica.
[6] Ciò non toglie, ovviamente, che gli stati
Uniti talvolta abbiano esibito essi stessi taluni comportamenti tipici degli
Stati canaglia.
[7] Si ebbe in quel contesto la degenerazione
della Armata Popolare Jugoslava (JNA), che aveva avuto una storia gloriosa di resistenza al nazismo, in una serie di
piccoli eserciti etnicamente caratterizzati e scagliati gli uni contro gli
altri.
[8] Cfr. Limes 2/2022: 17. Nel 1991 l’Ucraina si
ritrovò a controllare circa 5.000 testate nucleari tra armi strategiche e
tattiche, il terzo arsenale nucleare mondiale dopo Russia e Stati Uniti […]. Il
Paese scelse la denuclearizzazione ed
entro il giugno del 1996 tutte le armi nucleari (e i loro vettori) furono
smantellate o trasferite in Russia. In cambio l’Ucraina avrebbe aderito al
trattato di non proliferazione delle armi nucleari (TNP). Durante la crisi di
Crimea del 2014, l’Ucraina ha fatto riferimento al Memorandum per ricordare
alla Russia che si era impegnata a rispettare e a garantire i confini ucraini.
Lo stesso vale per gli altri firmatari che ne dovevano essere i garanti.
[Fonte: Wikipedia].
[9] Capita piuttosto spesso, nel dibattito
recente sulla guerra russo-ucraina, che solerti politologi da salotto
asseriscano che sia del tutto normale che una grande potenza pretenda di avere
attorno a sé uno sciame di paesi satelliti, a garanzia della propria sicurezza.
Di solito si porta l’esempio dei missili di Cuba. Questa “normalità” è appunto
la normalità della Guerra fredda.
[10] Questa previsione non è del tutto
arbitraria. Qualora questa situazione interna della Russia vada avanti ancora a
lungo (Putin si è dichiarato rieleggibile fino al 2036) potrebbe facilmente
manifestarsi nella società russa una spaccatura come quella di Piazza Maidan
nella Ucraina del 2014. Una simile instabilità potrebbe presto verificarsi in
Bielorussia nel caso di proteste popolari nei confronti di Lukašėnka.
[11] I soliti politologi da salotto argomentano
spesso che bisogna mettersi nella mentalità dei Russi, mettersi nella testa di
Putin, comprendere il loro punto di vista e andar loro incontro. In che sarebbe
equivalso a mettersi dal punto di vista di Milošević nella sistemazione della
ex-Jugoslavia.
[12] La presenza di qualche centinaio di
istruttori militari occidentali sul suolo ucraino non poteva certo costituire
una seria minaccia per la Russia. Comunque non una minaccia che non si potesse
risolvere con una trattativa. Tu prendi alla Ucraina la Crimea, in barba al
diritto e ai trattati e poi non vuoi che l’Ucraina metta in piedi un suo
esercito? Questa è davvero la storia del Lupo e dell’Agnello.
[13] La propaganda filorussa ritiene che gli
eventi del 2014 a Kiev rappresentino un colpo
di stato ordito dagli USA, dalla NATO e dalla destra filonazista ucraina
contro il legittimo presidente eletto, che era filorusso.
[14] Cfr. Wikipedia in italiano.
[15] Sarebbe il caso di ricordare i carristi della nostra sinistra estrema i
quali plaudivano alla esportazione del
comunismo in Afghanistan con l’ausilio dei carri armati. Sottolineo questo
fatto perché anche oggi nel nostro Paese abbiamo molti ammiratori di Putin,
oppure suoi alleati oggettivi, un po’ da tutte le parti.
[16] Chissà perché si ricorda sempre
l’esecrabile e discutibile appoggio fornito dalla CIA ai combattenti islamici
contro i Sovietici e non si ricorda mai l’invasione dell’Afghanistan da parte
dell’Unione Sovietica. Come dire che una volta preso l’Afghanistan, questo doveva
tranquillamente essere lasciato ai Sovietici. Come dire che, una volta presa la
Crimea, questa deve essere lasciata a Putin, e così via. Cosa fatta, capo ha.
[17] Fonte Wikipedia.
[18] Nell’ambito della UNPROFOR, in riferimento
alla risoluzione 836 del Consiglio di Sicurezza, si ebbe l’operazione Deliberate Force, dal 30 agosto al 20 settembre 1995, che provvide,
attraverso bombardamenti aerei, a rompere l’assedio di Sarajevo condotto dai
Serbi.
[19] Su questo punto il mio saggio Il ritorno dei Talebani. Finestre rotte: Il
ritorno dei Talebani
[20] Cfr. Bobbio 1989: 217. L’articolo è del
1983.
[21] Cfr. Pirjevec 2001: 469 e segg..
.