1. Stiamo assistendo (*) in questi giorni al ritorno dei Talebani.[1] Il fatto più
sorprendente, agli occhi degli analisti militari, dei politici, della stampa e
dell’opinione pubblica, è stato, a quanto pare, il dissolvimento dell’esercito afghano, forte di 180.000 effettivi
(almeno sulla carta), ben armato e lungamente addestrato (anche se divorato
dalla corruzione e – si dice - non pagato da mesi). Accanto al dissolvimento
dell’esercito, abbiamo assistito al tracollo dello stesso Stato afghano,
simboleggiato, come meglio non si poteva, dalla fuga all’estero del Presidente Ashraf
Ghali. La ragione più immediata di tutto ciò – come si vedrà - furono gli
accordi di Doha (Doha Agreement) tra
gli USA e i Talebani, voluti dal Presidente americano Trump e siglati il 29
febbraio 2020. La ragione di fondo, a nostro giudizio, è invece il fatto che dietro
a quell’esercito c’era solo un simulacro
di Stato. Si trattava dunque di poco più di un esercito mercenario, costruito volontaristicamente con le risorse
messe a disposizione dai Paesi intervenuti. Dietro a quell’esercito c’era il
vuoto, perché in vent’anni di occupazione non si era voluto procedere, o peggio
non si era riusciti, a costruire uno
Stato nel senso proprio del termine.
2. Non si trattava dunque principalmente di «esportare la
democrazia», come stanno cincischiando più o meno tutti i commentatori,
ripiegati sulla facile propaganda che ha a lungo tenuto banco, bensì di
procedere alla costruzione di uno Stato.
È evidente – l’ha ammesso con una certa chiarezza anche il Presidente americano
– che gli USA fin dall’inizio non avessero minimamente neanche il sospetto che
in Afghanistan si dovesse, in primo luogo, prima di qualunque altra cosa, procedere
alla costruzione di uno Stato. Per fare uno Stato ci vogliono tre cose: un territorio delimitato, una popolazione e un potere sovrano. Come si vede, tra i requisiti fondamentali, proprio
non c’è la democrazia. Quello che è venuto meno in Afghanistan, o che forse non
si è mai affermato, manco a dirlo, è proprio il potere sovrano. Solo un potere sovrano può permettere la
costruzione di uno Stato sovrano. Ed
eventualmente, poi, questo può anche consentire l’implementazione della
democrazia. Credere che, per fare uno Stato, basti mandare la gente a votare è
di un’ingenuità sconfortante.
3. Qualche nozione in più è a questo punto indispensabile,
altrimenti si rischia di non capire. Lo Stato
moderno si è sviluppato in un rapporto problematico con un’altra entità che
comunemente viene chiamata nazione.
Talvolta in concomitanza e talvolta in opposizione. La nazione non è un
fatto istituzionale, bensì un fatto
culturale, un prodotto storico
che s’incorpora nella popolazione. Gli Stati che conosciamo oggi sono per lo
più Stati nazionali, cioè entità che
sono allo stesso tempo istituzionali e culturali. Gli Stati nazionali sono
costituiti essenzialmente da un potere sovrano che si esercita nell’ambito di
una nazione e che trae la propria legittimità dalla nazione stessa.
Nel processo storico è
avvenuto, talvolta, che il potere sovrano si sia impiantato senza lo sviluppo
della nazione. Il tal caso, un potere sovrano esercitato a lungo su una
popolazione e su un territorio ha, a lungo andare, determinato la formazione di
una coscienza nazionale. Abbiamo cioè
la situazione in cui lo Stato crea la
nazione. In altri casi è avvenuto che una coscienza nazionale si sia sviluppata nella popolazione prima di
qualunque istituzione statale o contro un’istituzione esistente. In tal caso la
nazione (talora spontaneamente, talora con la forza) ha provveduto a dare vita
a un potere sovrano dal quale sarebbe stata governata. Abbiamo dunque una
situazione nella quale la nazione crea lo
Stato. Lasciamo al lettore volenteroso trovare gli esempi storici di questi
due processi.
4. Nell’Afghanistan successivo all’occupazione russa (1979-1989), non c’era più né lo Stato né la nazione. I sovietici avevano tentato piuttosto maldestramente di modernizzare il Paese ma si erano scontrati con fortissime resistenze. Quelle stesse resistenze che furono usate strumentalmente dall’Occidente proprio in funzione antisovietica.[2] Furono gli USA a finanziare i mujaheddin (“combattenti della jihad”) contro i sovietici. I sovietici tentavano di modernizzare il Paese e gli USA usarono le forze antimoderne contro i sovietici. Gli USA ebbero la vittoria, ma poi si troveranno a fare i conti con quelle stesse forze arcaiche e retrive che avevano suscitato e alimentato. L’11 settembre 2001 fu il risultato.
Prima dello Stato e
prima della nazione ci sono infatti le variegate forme pre-statuali e pre-nazionali.
Si tratta di forme che noi occidentali collochiamo volentieri nel Medio Evo. Possiamo genericamente parlare di imperi e di etnie. Gli imperi sono poteri sovrani caratterizzati soprattutto
dall’uso arbitrario della forza a prescindere dalle caratteristiche delle
popolazioni dominate. Le etnie, d’altro canto, hanno alcune caratteristiche
della nazione ma spesso riescono a dar vita a poteri sovrani interni assai
deboli, localizzati e instabili. La storia dell’Afghanistan è una lunga storia
– che per brevità non possiamo stare qui a ripercorrere – di etnie che sono state sottoposte a varie
forme di conquista e a vari tentativi di sottomissione a un qualche tipo di imperio, senza che si procedesse mai
alla costruzione effettiva di uno Stato e/o alla amalgamazione delle etnie nel
contesto di una nazione. In altri termini, dopo la fine dell’occupazione
sovietica, dopo l’avvento dei Talebani e di Al-Quaida e dopo l’intervento
ventennale della coalizione occidentale, la condizione attuale dell’Afghanistan
è ancora quella di un Paese in gran parte pre-moderno, con molti tratti di Medio Evo. È
un dato di fatto e di ciò si doveva tener conto e si dovrebbe tener conto in
futuro.
5. L’Afghanistan ha tuttora – soprattutto al di fuori delle
poche grandi città – una struttura
tribale dove il controllo del territorio, l’amministrazione della giustizia
e le attività economiche (spesso illegali) sono nelle mani dei notabili delle diverse
tribù distribuite sul territorio. I rapporti tra le diverse tribù possono anche
essere di tipo conflittuale, oppure di tipo cooperativo, a seconda degli
interessi del momento. Esiste nella tradizione afghana la jirga, ovvero la assemblea dei notabili, la quale si riunisce per
la deliberazione su questioni comuni a ciascuna tribù o a tutte le tribù
insieme (ad esempio nel caso di una invasione del territorio). Si tratta
ovviamente di una forma di potere cui hanno accesso solo gli uomini, intesi
come maschi.
Non a caso, in
Afghanistan è diffuso – come in molti altri casi di forme pre statuali – un codice di comportamento tribale. Si tratta
di un codice non scritto, condiviso per tradizione, che serve a regolare la
maggior parte dei rapporti tra le persone. È ancora oggi assai diffuso – tranne
che nelle grandi città. Si tratta del pashtunwali,
il codice d’onore dei pashtun, che sono l’etnia più diffusa. Si tratta di un
codice prestatuale e perfino preislamico, del tutto analogo ad esempio al kanun albanese, al codice cavalleresco medievale, o – tanto per capirci – analogo al
codice mafioso degli “uomini d’onore” che ben conosciamo in Italia e che è ben
capace di dare vita a un potere alternativo a quello statuale.
6. Naturalmente, il codice d’onore arcaico dei pashtun è stato
recepito e integrato nell’Islam, qui prevalentemente nella varietà sunnita. La
cultura tribale odierna è un impasto di islam e di pashtunwali. Questa realtà è perfettamente rispecchiata nel gruppo
politico/religioso che aveva preso il sopravvento dopo l’abbandono dell’occupazione
sovietica e cioè quello dei Talebani, quelli che avevano occupato Kabul nel
1996. I Talebani, sul piano religioso, sono un gruppo sunnita che appartiene
alla scuola di Deoband.[3] La scuola di Deoband ha prodotto un’interpretazione
della shari’a particolarmente
rigorista e – per quanto riguarda la politica – marcatamente anti statalista e
anarchica. Le dottrine deobandite sono state diffuse nelle madrasse[4] pakistane, che sono il luogo dove vengono per lo più
reclutati e formati i Talebani, fin dalla più giovane età. Al posto dello Stato
organizzato, come accade invece nella tradizione sciita, il potere talebano
tende a strutturarsi intorno ai pochi e semplici nuclei funzionali della morale (la shari’a), del commercio e
della guerra.
È da notare che i Talebani
s’identificano soprattutto con l’etnia pashtun e quindi l’orizzonte della loro
azione è delimitata all’ambito etnico.
Potremmo dire che si tratta di una prospettiva a sfondo etnico pre-nazionale.
La definizione della forma di governo da loro proposta è l’emirato.[5] A differenza dei Talebani, gli esponenti dell’ISIS
mirano alla costruzione del califfato
universale. Questo è il motivo fondamentale dell’attuale aspro conflitto tra le
due formazioni.
7. Se le cose stanno così, l’obiettivo che, a partire dal
2001, si erano poste le forze di intervento in Afghanistan contro i Talebani (prima
ISAF e poi RSM) era dunque fondamentalmente sbagliato.[6] Occorreva prima di
tutto costruire lo Stato, solo
secondariamente, qualora fosse stato possibile, portare la democrazia. In
mancanza di una nazione che fosse in grado di costruire lo Stato dal basso,
cosa del tutto evidente fin dalla dismissione dell’occupazione sovietica,
occorreva mettere in opera un’occupazione
dura, sebbene non arbitraria, che mirasse a costituire dall’alto un potere statuale centrale, capace di fornire
alla popolazione tutti i principali servizi che uno Stato moderno è in grado di
fornire. In primo luogo, la sicurezza.
Si doveva cioè fare finalmente quello che anche i sovietici non erano stati
capaci di fare. Più o meno – tanto per fare un esempio noto - come era stato
fatto in Giappone, dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Poteva andare
bene anche un governo militare provvisorio.
Perché non si è scelta una simile strada? Il fatto è che un governo militare
provvisorio sarebbe stato impossibile, dato il carattere raccogliticcio delle
forze militari degli intervenuti, appartenenti a 40/50 Paesi.[7] Si pensi che il
comando delle forze di intervento, per vent’anni, è stato costantemente
mantenuto a rotazione. Condizione
sufficiente ad assicurare una presenza
militare ma non certo a sviluppare una politica
di costruzione dello Stato dall’alto. Secondariamente, un simile indirizzo
politico militare culturalmente non sarebbe stato più di moda, sarebbe stato
male accolto e interpretato dalle anime belle occidentali, piene della retorica
del pacifismo, della libertà, della democrazia e quant’altro. Secondo la nostra
retorica, gli afghani, appena liberati dalle mele marce talebane, dovevano
necessariamente auto determinarsi attraverso un governo democratico.
Così, sull’onda del mito
della democrazia dal basso si è preferito dar vita a un regime – la Repubblica Islamica dell’Afghanistan – che
è risultato, alla prova dei fatti, debole, corrotto - immerso per di più in
quel misto di cultura islamica e pasthunwali
di cui s’è detto - e incapace di assolvere alle minime funzioni di uno Stato
moderno. Per questo in vent’anni si è messo in piedi solo un simulacro di esercito. Fatte le debite
proporzioni, si tratta dello stesso problema che incontriamo noi italiani in
certi comuni o regioni che tendono a scivolare in mano alle organizzazioni
mafiose. Alla fine bisogna, quando però ormai le situazioni sono compromesse,
ricorrere al commissariamento. E
talvolta non basta. Quel che noi si è fatto in Afghanistan è l’equivalente di
qualcosa come l’arruolamento dei mafiosi per far loro comandare le stazioni di
polizia.
8. Lasciato da parte ogni serio e realistico progetto di
costruzione dello Stato, le forze d’intervento hanno dovuto dunque scegliere la
via del compromesso. Hanno così consentito la costituzione della Repubblica Islamica dell’Afghanistan,
che è stata presieduta dall’ambiguo Hamid Karzai,[8] dal 2001 fino al 2014.
Poi da Ashraf Ghani, fino al presente 2021. Di formalmente democratico, oltre
all’elezione del Presidente, la Repubblica Islamica aveva il fatto che vi si
sono tenute le elezioni per un parlamento bicamerale, costituito di due jirga, una camera legislativa di 249 membri (di cui 64 donne) con il potere
legislativo e una camera degli anziani
con poteri per lo più di tipo consultivo. È stata così architettata una forma
democratica che tuttavia è stata riempita con la vecchia sostanza. Una sostanza
nella quale le forze retrive della società afghana hanno potuto essere tutte
ben rappresentate. Tant’è vero che il sistema della shari’a unitamente al sistema pashtunwali
hanno continuato a essere applicati, soprattutto fuori dalle grandi città.
Tanto che l’Afghanistan degli ultimi vent’anni figura, anche su Wikipedia, tra
i «Paesi dove la sharia è applicata in pieno sia per questioni private sia per
le procedure penali». La shari’a c’è
sempre stata in Afghanistan, col beneplacito occidentale. I Talebani sono soltanto
i portatori di una sua interpretazione piuttosto brutale.
Insomma, vent’anni e un
prezzo incredibile in vite umane e in denari per tenere in piedi una Repubblica
islamica con tanto di shari’a. Certo,
sotto Karzai questa era applicata con una certa moderazione, tanto per non
scandalizzare troppo. Del resto la shari’a
c’è anche in Arabia Saudita, uno dei più preziosi alleati dell’Occidente. In
Occidente, nonostante Me Too e Stay Woke, nessuno si scandalizza per la
condizione delle donne saudite. È significativo poi il fatto che, nel lungo
periodo dell’intervento occidentale, la produzione di droga è ripresa su vasta
scala, raggiungendo livelli mai visti prima. In altri termini, estromessi i
Talebani, le forze retrive della società afghana hanno avuto tutte le
possibilità per essere ben rappresentate e per pesare nella nuova Repubblica
islamica. Ora sembra, mi rifaccio a fonti giornalistiche, che i nuovi Talebani si
siano anche loro ben finanziati tassando il commercio della droga.
9. Vediamo ora una breve sintesi dell’apparato militare messo in piedi in questi vent’anni dalla quale emergono debolezze
strutturali e notevoli limiti politici. Dal 2001 al 2014 l’intervento militare
è stato realizzato sotto l’egida dell’ISFIL (International Security Assistance Force), forza della NATO,
autorizzata dall’ONU. Il più noto Enduring
Freedom è il nome dell’intervento da parte americana. Questa forza d’intervento
nei periodi più critici giunse a contare 130/140.000 effettivi, provenienti da
ben 51 Paesi, anche non appartenenti alla NATO. A questi vanno aggiunti circa
100.000 contractors, in carico
soprattutto agli USA. La cattura e l’esecuzione di Bin-Laden il 2 maggio 2011 e
il conseguente smantellamento di Al-Quaida consentirono poi una netta diminuzione
dell’impegno militare.
Dal 2015 al 2021
l’intervento è stato realizzato dalla RSM (Resolute
Support Mission) tradotto come “Sostegno Risoluto”. Questo intervento non
prevedeva più l’ingaggio diretto nei combattimenti ma, per lo più, compiti di
addestramento e supporto. Esso ebbe l’approvazione esplicita da parte del
governo afghano. Assai meno numeroso del precedente, il contingente comprendeva,
nel 2015, circa 13.600 effettivi, metà americani e metà alleati (provenienti da
41 Paesi). Si ebbe un lieve incremento negli anni successivi, ma nel 2019 gli
effettivi erano ridiscesi a 16.600, ancora suddivisi tra metà americani e metà
alleati. Nell’accordo di Doha (febbraio 2020) si parla della riduzione delle
truppe da 13.000 a 8.600 effettivi e poi dell’evacuazione completa entro 14
mesi. Nella prima metà del 2021, fonti giornalistiche riportano la presenza di
9500 effettivi, di cui solo 2500 americani. L’evacuazione completa – avvenuta
il 31/08/2021 - fu compiuta con quattro mesi di ritardo rispetto agli accordi
di Doha. Biden avrebbe voluto come data conclusiva l’11/09/2021, per il suo
valore simbolico. Si noti che i dati sopra riportati sono stati ripresi da
diverse fonti giornalistiche e, per quanto siano stati controllati, vanno presi
con cautela.
È importante ricordare
che sul piano strutturale sia ISFIL sia RSM prevedevano un comando a rotazione tra i principali Paesi contributori. Ciò, unito
al gran numero di Paesi contributori, costituì senz’altro un grave limite alle
operazioni, poiché impedì l’elaborazione decisa di una politica unitaria di
costruzione dello Stato in Afghanistan. Un comando a intensa rotazione può
consentire al più di svolgere una funzione
tecnica, non certo una funzione
politica (com’era invece negli auspici della propaganda e dell’opinione
pubblica). Dai dati presentati emerge con chiarezza come la decisione del
ritiro della forza di supporto, che era ormai tutto sommato di piccola entità, è stata una decisione totalmente di tipo politico, dettata da una sorta di nuovo isolazionismo americano e
occidentale.
10. Abbiamo affermato che gli Accordi di Doha sono stati la causa prossima del tracollo dello
Stato Afghano. Ci siamo premurati di leggerne il testo, almeno nella parte resa
pubblica. Gli accordi di Doha (29/2/2020) sono stati sottoscritti tra gli Stati
Uniti e i Talebani, i quali tuttavia - si specifica continuamente - non sono riconosciuti come Stato.[9] Ogni
qualvolta sono citati, i Talebani sono qualificati con un giro di parole come:
«… the Islamic Emirate of Afghanistan which is not recognized by the United
States as a state and is known as the Taliban». Incredibilmente, poi, gli
accordi sono stati stipulati senza la
partecipazione del governo afghano ufficiale, la cui presenza alle
trattative era stata rifiutata dai Talebani.
Ha anche dell’incredibile
il fatto che nell’Accordo si ribadisca costantemente che i Talebani non sono
riconosciuti dagli USA come Stato, ma poi nello stesso accordo i Talebani
sottoscrivano impegni (come ad esempio la lotta al terrorismo) come se fossero
un quasi Stato, come se avessero di fatto il controllo di parte del territorio
e di parte della amministrazione. Nel nostro linguaggio, questo pare proprio l’equivalente
di un accordo tra uno Stato e una organizzazione mafiosa. Nel testo si accenna poi
a un nuovo governo afghano futuro, il ché suona come una sconfessione del
governo legittimo afghano, o comunque come un suo indebolimento. La circonlocuzione usata suona così: «[…] the new post-settlement Afghan
Islamic government as determined by the intra-Afghan dialogue and
negotiations». Come
dire: noi ce ne andiamo, ve la vedrete tra di voi e farete un nuovo governo
insieme. Non stupisce che l’esercito si sia disfatto e che Ashraf Ghani se ne
sia andato. Gli accordi di Doha, di
fatto, hanno preventivamente consegnato l’Afghanistan ai Talebani.
Tra le cose notevoli, nelle
carte di Doha, gli USA s’impegnavano a che avvenisse il rilascio, da parte del
legittimo governo afghano, di ben 5000 prigionieri Talebani detenuti, alcuni
dei quali macchiatisi di colpe gravissime. Una sorta di amnistia che completava
il tacito riconoscimento del potere talebano. Infatti, proprio Ghani e il suo ministro
Abdullah fecero molte opposizioni su questo punto ma poi furono costretti a
cedere.
11. Gli alleati degli USA sono stati consultati e in che forma?
La cosa non è affatto chiara e per avere dettagli in merito occorrerà qualche
studio più specializzato del nostro. Dalle carte di Doha risulta, ambiguamente,
che furono gli USA a trattare anche per conto degli alleati. È assai probabile
che questi ultimi siano stati per lo più messi di fronte al fatto compiuto e
cioè informati e basta. Va osservato
che, in seguito al ritiro unilaterale
americano, le forze degli altri Paesi – che erano tuttavia in maggioranza nel
contingente RSM (7.000 contro 2500) – avrebbero potuto essere aumentate con
poco sforzo, in modo da dare ossigeno al governo afghano ufficiale e garantire così
una transizione più lenta e ordinata. Nell’ultima fase, gli americani avevano
solo 2500 effettivi. Non sarebbe stato difficile sostituirli. Invece, con
l’annuncio degli accordi di Doha e con l’avvio della loro applicazione si ebbe
anche lo sfaldamento dei volenterosi peacekeeper
alleati. Anche il nostro Paese non fu da meno nel plaudire immediatamente per
il ritiro. Non entrerò qui nel merito della politica estera italiana, ma è abbastanza
chiaro che gli obiettivi della nostra presenza in Afghanistan non fossero meno
oscuri e vaghi di quelli del resto della coalizione.
Di qui emerge, se ce ne
fosse ancora stato bisogno, l’ambiguità dell’ombra americana sulla NATO e sulle
altre forze alleate. Accade da sempre che l’Europa rinunci a fare una sua
autonoma politica estera e metta le proprie forze sotto l’ombrello NATO. Ma poi
le decisioni che contano, di fatto, le prendono gli americani. In altri
termini, ciò che compare nel testo di Goha è prima di tutto una resa e poi una
fuga da parte degli americani. E ciò ha comportato anche uno schiaffo agli
alleati della NATO e al loro impegno in Afghanistan. Gli accordi hanno
comportato uno schiaffo ancor più forte nei confronti del legittimo governo
afghano. Va ricordato in questo contesto che, appena dopo la firma degli
accordi di Doha, nel febbraio 2020, i Talebani avevano subito cominciato ad
attaccare le truppe regolari afghane e le forze dell’ordine in tutto il Paese. Ci
fu un aumento enorme della conflittualità e degli attentati. Ciò nonostante, la
smobilitazione delle truppe d’intervento, prevista dagli accordi, è continuata,
come pure si è dato seguito alla liberazione concordata dei Talebani
prigionieri. L’astuto Trump ha passato a Biden un bel boccone avvelenato e
Biden c’è cascato in pieno. Col tacito consenso alleato.
12. Va riconosciuto che l’opinione pubblica occidentale, a
partire dal 2020, è senz’altro stata distratta dalla pandemia del Covid-19. Del
resto la politica estera non aveva mai appassionato gran che gli europei, e gli
italiani in particolare. Trump ha messo in campo l’amo del disimpegno e i
politici dei governi alleati, messi di fronte al fatto compiuto, hanno finito
per abboccare, non avendo neppure essi chiaro il senso complessivo della loro presenza
ventennale in Afghanistan.
Svegliatasi dal coma
profondo nel quale era caduta, l’opinione pubblica occidentale, sempre più
piagnona e oramai completamente prigioniera dello stile stay woke, sembra oggi particolarmente colpita dalle questioni
umanitarie, dal pericolo di nuove ondate migratorie e dalle prevedibili
condizioni delle donne afghane sotto un ipotetico emirato talebano. Si suggerisce, con debolissime argomentazioni, che
i Talebani siano cambiati, si rispolvera il mito (o la speranza) dell’islam
moderato, dei Talebani disposti a fare un’ampia coalizione con le altre forze
locali, di una shari’a presentabile,
magari come quella saudita. Si chiede a viva voce di mantenere aperti i canali
umanitari e gli aeroporti e si discute animatamente se si debba trattare o meno con i Talebani,.
Andrebbe per lo meno
ricordato alla nostra solerte opinione pubblica che – stando alle carte di Doha
– con i Talebani abbiamo già trattato
(se non noi, gli USA di Trump per noi)
e abbiamo addirittura firmato con loro un corposo agreement. Sostanzialmente abbiamo concesso loro tutto quel che
hanno voluto, in cambio del permesso di
andarcene. Quel che succederà in Afghanistan sarà in parte anche nostra
responsabilità. La tragica realtà è che con gli accordi di Doha, di cui il
grande pubblico non si è neppure accorto, di fatto abbiamo dato il via alla
costituzione prossima ventura di un prevedibilissimo stato canaglia[10] di marca islamista che sarà governato da una
versione particolarmente rigida della shari’a,
unita alla legge tribale pashtun. Uno stato canaglia che continuerà con ogni
probabilità a essere il principale produttore mondiale di droga. E che non sarà
neppure in grado di fornire alcuna effettiva garanzia di messa al bando delle
organizzazioni terroristiche. Uno stato canaglia magari del tutto disponibile a
essere manovrato da interessi geopolitici spregiudicati.
13. Il disastro che è stato compiuto è ormai irrimediabile,
anche se le premesse c’erano già tutte, fin dall’inizio, nei limiti del tipo d’intervento
messo in opera. Il pallino della storia è ora tornato tragicamente nelle mani
degli afghani stessi, ai quali potranno capitare diverse sorti, decisamente
poco invidiabili. Potranno essere nuovamente colonizzati da qualche imperio, che sarà senz’altro più accorto
nell’imporre loro un qualche potere
sovrano esterno (i nomi possibili si sanno già: Cina, Russia, Turchia,
Pakistan, oppure i trafficanti di droga). Oppure si dissangueranno in una lunga
lotta interna tra città e campagna, tra religione e laicità, tra teocrazia e
democrazia, tra emirato e califfato: una guerra
civile in piena regola. Oppure, ancora, staranno semplicemente sottomessi
all’emirato talebano, con tutto quel
che comporta in termini di regressione economica, civile e culturale. Un’alternativa
non esclude l’altra. Nella peggiore delle ipotesi le vedremo all’opera tutte e
tre, bene intrecciate fra loro.
Così, anche gli afghani saranno
costretti a percorrere, senza alcuna scorciatoia, il faticoso cammino verso la
modernità che abbiamo percorso noi occidentali, attraverso secoli di conflitti,
lutti e sofferenze. A noi resterà la consolazione di stare a guardare, finalmente senza essere più per ora direttamente coinvolti.
Anche se non potremo fare a meno di litigare tra di noi sul destino dei
profughi che con ogni probabilità arriveranno. Ci resterà l’occasione di fare i buoni e di mandare gli aiuti, di
fare i “canali umanitari”. Ma ci resterà anche di dover contare i morti, di indignarci
per le pratiche barbare dell’islam radicale, di piangere sulla condizione dei
bambini e delle donne afghane, sulla restrizione dei diritti umani e sulla
privazione delle libertà. In altre parole, nonostante la nostra buona volontà, abbiamo
perso.
(*) Nel gennaio 2002, a ridosso del primo intervento occidentale in Afghanistan, ebbi modo di partecipare alla redazione, da parte dell’allora Istituto per la Cooperazione allo Sviluppo di Alessandria (ICS), di una pubblicazione divulgativa e formativa dal titolo Afghanistan. Inneschiamo i diritti. A quell’epoca l’ICS stava conducendo proprio in Afghanistan una serie d’interventi di tipo umanitario che furono interrotti a causa dell’azione militare. Nella sezione da me curata della pubblicazione ebbi modo di condurre una trattazione articolata di temi quali i Talebani, il fondamentalismo islamico, Al-Quaida e il terrorismo. Si trattava allora di temi poco noti all’opinione pubblica e meritevoli di approfondimento. Questo mio saggio odierno, dopo due decenni, riprende alcune di quelle tematiche per trarne, purtroppo, le più amare conclusioni, alla luce dell’attualità.
Giuseppe Rinaldi (30/08/2021)
NOTE
[1] Il termine, plurale di talib, in lingua pashtun significa “studenti”.
[2] In Afghanistan fu combattuta una guerra differita tra quel che restava
delle Unione Sovietica e il mondo occidentale, capeggiato dagli USA. Furono gli
americani a finanziare il mondo tribale (compresi i Talebani e Bin-Laden) e a
sollevarlo contro i sovietici.
[3] Si tratta di una piccola città dell’India,
poco a nord di Delhi. La scuola di Deoband è nata in un contesto ben preciso,
verso la metà dell’Ottocento, quando in India l’islam era in minoranza nei
confronti dell’induismo, che era più favorito dal potere coloniale. Di qui la
scuola si caratterizzò in termini prettamente antistatuali.
[4] Si tratta di scuole coraniche.
[5] L’emiro
è un comandante territoriale e non ha una particolare dignità religiosa, come
accade invece al califfo, considerato
come successore del Profeta. Ci sono attualmente tre emirati stabili e
internazionalmente riconosciuti: il Kuwait, gli Emirati Arabi Uniti e il Qatar.
Quella di Emirato Islamico
dell’Afghanistan fu la designazione ufficiale (e la forma di governo)
assunta dal nuovo regime politico a seguito della presa di Kabul da parte dei
Talebani, nel 1996, dissoltosi dopo l’intervento del 2001 da parte degli USA e
dei loro alleati.
[6] Il Presidente Biden ha dichiarato che la
presenza americana (dimenticandosi della NATO) aveva il solo scopo di
combattere ed eliminare Al-Quaida.
[7] Vale qui la pena di ricordare la questione
del tutto insoluta – di cui più ormai nessuno parla - di dotare l’ONU di una forza armata propria.
[8] Hamid Karzai, di orientamento moderato, è un
tipico esponente del potere tribale locale. In contatto con la CIA nel periodo
della resistenza anti sovietica, ha dapprima simpatizzato con i Talebani e poi
rotto nei loro confronti. Dopo la sconfitta dei Talebani ha retto il governo
provvisorio prima delle elezioni, da lui vinte nel 2004. È stato rieletto nel
2009. Taluni lo ritengono vicino agli ambienti del traffico di droga.
Recentemente sta tentando di giocare un ruolo di mediatore nella formazione del
prossimo nuovo governo talebano.
[9] C’è un’analogia davvero curiosa con la
questione dibattuta, nel caso Moro, circa le trattative tra il Governo italiano
e le Brigate Rosse e con la questione delle ipotetiche trattative tra lo Stato
italiano e la mafia.
[10] La dizione rogue state (“stato canaglia”) appartiene al linguaggio geopolitico
americano.