mercoledì 1 settembre 2021

Il ritorno dei Talebani











1. Stiamo assistendo (*) in questi giorni al ritorno dei Talebani.[1] Il fatto più sorprendente, agli occhi degli analisti militari, dei politici, della stampa e dell’opinione pubblica, è stato, a quanto pare, il dissolvimento dell’esercito afghano, forte di 180.000 effettivi (almeno sulla carta), ben armato e lungamente addestrato (anche se divorato dalla corruzione e – si dice - non pagato da mesi). Accanto al dissolvimento dell’esercito, abbiamo assistito al tracollo dello stesso Stato afghano, simboleggiato, come meglio non si poteva, dalla fuga all’estero del Presidente Ashraf Ghali. La ragione più immediata di tutto ciò – come si vedrà - furono gli accordi di Doha (Doha Agreement) tra gli USA e i Talebani, voluti dal Presidente americano Trump e siglati il 29 febbraio 2020. La ragione di fondo, a nostro giudizio, è invece il fatto che dietro a quell’esercito c’era solo un simulacro di Stato. Si trattava dunque di poco più di un esercito mercenario, costruito volontaristicamente con le risorse messe a disposizione dai Paesi intervenuti. Dietro a quell’esercito c’era il vuoto, perché in vent’anni di occupazione non si era voluto procedere, o peggio non si era riusciti, a costruire uno Stato nel senso proprio del termine.

2. Non si trattava dunque principalmente di «esportare la democrazia», come stanno cincischiando più o meno tutti i commentatori, ripiegati sulla facile propaganda che ha a lungo tenuto banco, bensì di procedere alla costruzione di uno Stato. È evidente – l’ha ammesso con una certa chiarezza anche il Presidente americano – che gli USA fin dall’inizio non avessero minimamente neanche il sospetto che in Afghanistan si dovesse, in primo luogo, prima di qualunque altra cosa, procedere alla costruzione di uno Stato. Per fare uno Stato ci vogliono tre cose: un territorio delimitato, una popolazione e un potere sovrano. Come si vede, tra i requisiti fondamentali, proprio non c’è la democrazia. Quello che è venuto meno in Afghanistan, o che forse non si è mai affermato, manco a dirlo, è proprio il potere sovrano. Solo un potere sovrano può permettere la costruzione di uno Stato sovrano. Ed eventualmente, poi, questo può anche consentire l’implementazione della democrazia. Credere che, per fare uno Stato, basti mandare la gente a votare è di un’ingenuità sconfortante.

3. Qualche nozione in più è a questo punto indispensabile, altrimenti si rischia di non capire. Lo Stato moderno si è sviluppato in un rapporto problematico con un’altra entità che comunemente viene chiamata nazione. Talvolta in concomitanza e talvolta in opposizione. La nazione non è un fatto istituzionale, bensì un fatto culturale, un prodotto storico che s’incorpora nella popolazione. Gli Stati che conosciamo oggi sono per lo più Stati nazionali, cioè entità che sono allo stesso tempo istituzionali e culturali. Gli Stati nazionali sono costituiti essenzialmente da un potere sovrano che si esercita nell’ambito di una nazione e che trae la propria legittimità dalla nazione stessa.

Nel processo storico è avvenuto, talvolta, che il potere sovrano si sia impiantato senza lo sviluppo della nazione. Il tal caso, un potere sovrano esercitato a lungo su una popolazione e su un territorio ha, a lungo andare, determinato la formazione di una coscienza nazionale. Abbiamo cioè la situazione in cui lo Stato crea la nazione. In altri casi è avvenuto che una coscienza nazionale si sia sviluppata nella popolazione prima di qualunque istituzione statale o contro un’istituzione esistente. In tal caso la nazione (talora spontaneamente, talora con la forza) ha provveduto a dare vita a un potere sovrano dal quale sarebbe stata governata. Abbiamo dunque una situazione nella quale la nazione crea lo Stato. Lasciamo al lettore volenteroso trovare gli esempi storici di questi due processi.

4. Nell’Afghanistan successivo all’occupazione russa (1979-1989), non c’era più né lo Stato né la nazione. I sovietici avevano tentato piuttosto maldestramente di modernizzare il Paese ma si erano scontrati con fortissime resistenze. Quelle stesse resistenze che furono usate strumentalmente dall’Occidente proprio in funzione antisovietica.[2] Furono gli USA a finanziare i mujaheddin (combattenti della jihad) contro i sovietici. I sovietici tentavano di modernizzare il Paese e gli USA usarono le forze antimoderne contro i sovietici. Gli USA ebbero la vittoria, ma poi si troveranno a fare i conti con quelle stesse forze arcaiche e retrive che avevano suscitato e alimentato. L’11 settembre 2001 fu il risultato.

Prima dello Stato e prima della nazione ci sono infatti le variegate forme pre-statuali e pre-nazionali. Si tratta di forme che noi occidentali collochiamo volentieri nel Medio Evo.  Possiamo genericamente parlare di imperi e di etnie. Gli imperi sono poteri sovrani caratterizzati soprattutto dall’uso arbitrario della forza a prescindere dalle caratteristiche delle popolazioni dominate. Le etnie, d’altro canto, hanno alcune caratteristiche della nazione ma spesso riescono a dar vita a poteri sovrani interni assai deboli, localizzati e instabili. La storia dell’Afghanistan è una lunga storia – che per brevità non possiamo stare qui a ripercorrere – di etnie che sono state sottoposte a varie forme di conquista e a vari tentativi di sottomissione a un qualche tipo di imperio, senza che si procedesse mai alla costruzione effettiva di uno Stato e/o alla amalgamazione delle etnie nel contesto di una nazione. In altri termini, dopo la fine dell’occupazione sovietica, dopo l’avvento dei Talebani e di Al-Quaida e dopo l’intervento ventennale della coalizione occidentale, la condizione attuale dell’Afghanistan è ancora quella di un Paese in gran parte  pre-moderno, con molti tratti di Medio Evo. È un dato di fatto e di ciò si doveva tener conto e si dovrebbe tener conto in futuro.

5. L’Afghanistan ha tuttora – soprattutto al di fuori delle poche grandi città – una struttura tribale dove il controllo del territorio, l’amministrazione della giustizia e le attività economiche (spesso illegali) sono nelle mani dei notabili delle diverse tribù distribuite sul territorio. I rapporti tra le diverse tribù possono anche essere di tipo conflittuale, oppure di tipo cooperativo, a seconda degli interessi del momento. Esiste nella tradizione afghana la jirga, ovvero la assemblea dei notabili, la quale si riunisce per la deliberazione su questioni comuni a ciascuna tribù o a tutte le tribù insieme (ad esempio nel caso di una invasione del territorio). Si tratta ovviamente di una forma di potere cui hanno accesso solo gli uomini, intesi come maschi.

Non a caso, in Afghanistan è diffuso – come in molti altri casi di forme pre statuali – un codice di comportamento tribale. Si tratta di un codice non scritto, condiviso per tradizione, che serve a regolare la maggior parte dei rapporti tra le persone. È ancora oggi assai diffuso – tranne che nelle grandi città. Si tratta del pashtunwali, il codice d’onore dei pashtun, che sono l’etnia più diffusa. Si tratta di un codice prestatuale e perfino preislamico, del tutto analogo ad esempio al kanun albanese, al codice cavalleresco medievale, o – tanto per capirci – analogo al codice mafioso degli “uomini d’onore” che ben conosciamo in Italia e che è ben capace di dare vita a un potere alternativo a quello statuale.

6. Naturalmente, il codice d’onore arcaico dei pashtun è stato recepito e integrato nell’Islam, qui prevalentemente nella varietà sunnita. La cultura tribale odierna è un impasto di islam e di pashtunwali. Questa realtà è perfettamente rispecchiata nel gruppo politico/religioso che aveva preso il sopravvento dopo l’abbandono dell’occupazione sovietica e cioè quello dei Talebani, quelli che avevano occupato Kabul nel 1996. I Talebani, sul piano religioso, sono un gruppo sunnita che appartiene alla scuola di Deoband.[3] La scuola di Deoband ha prodotto un’interpretazione della shari’a particolarmente rigorista e – per quanto riguarda la politica – marcatamente anti statalista e anarchica. Le dottrine deobandite sono state diffuse nelle madrasse[4] pakistane, che sono il luogo dove vengono per lo più reclutati e formati i Talebani, fin dalla più giovane età. Al posto dello Stato organizzato, come accade invece nella tradizione sciita, il potere talebano tende a strutturarsi intorno ai pochi e semplici nuclei funzionali della morale (la shari’a), del commercio e della guerra.

È da notare che i Talebani s’identificano soprattutto con l’etnia pashtun e quindi l’orizzonte della loro azione è delimitata all’ambito etnico. Potremmo dire che si tratta di una prospettiva a sfondo etnico pre-nazionale. La definizione della forma di governo da loro proposta è l’emirato.[5] A differenza dei Talebani, gli esponenti dell’ISIS mirano alla costruzione del califfato universale. Questo è il motivo fondamentale dell’attuale aspro conflitto tra le due formazioni.

7. Se le cose stanno così, l’obiettivo che, a partire dal 2001, si erano poste le forze di intervento in Afghanistan contro i Talebani (prima ISAF e poi RSM) era dunque fondamentalmente sbagliato.[6] Occorreva prima di tutto costruire lo Stato, solo secondariamente, qualora fosse stato possibile, portare la democrazia. In mancanza di una nazione che fosse in grado di costruire lo Stato dal basso, cosa del tutto evidente fin dalla dismissione dell’occupazione sovietica, occorreva mettere in opera un’occupazione dura, sebbene non arbitraria, che mirasse a costituire dall’alto un potere statuale centrale, capace di fornire alla popolazione tutti i principali servizi che uno Stato moderno è in grado di fornire. In primo luogo, la sicurezza. Si doveva cioè fare finalmente quello che anche i sovietici non erano stati capaci di fare. Più o meno – tanto per fare un esempio noto - come era stato fatto in Giappone, dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Poteva andare bene anche un governo militare provvisorio. Perché non si è scelta una simile strada? Il fatto è che un governo militare provvisorio sarebbe stato impossibile, dato il carattere raccogliticcio delle forze militari degli intervenuti, appartenenti a 40/50 Paesi.[7] Si pensi che il comando delle forze di intervento, per vent’anni, è stato costantemente mantenuto a rotazione. Condizione sufficiente ad assicurare una presenza militare ma non certo a sviluppare una politica di costruzione dello Stato dall’alto. Secondariamente, un simile indirizzo politico militare culturalmente non sarebbe stato più di moda, sarebbe stato male accolto e interpretato dalle anime belle occidentali, piene della retorica del pacifismo, della libertà, della democrazia e quant’altro. Secondo la nostra retorica, gli afghani, appena liberati dalle mele marce talebane, dovevano necessariamente auto determinarsi attraverso un governo democratico.

Così, sull’onda del mito della democrazia dal basso si è preferito dar vita a un regime – la Repubblica Islamica dell’Afghanistan – che è risultato, alla prova dei fatti, debole, corrotto - immerso per di più in quel misto di cultura islamica e pasthunwali di cui s’è detto - e incapace di assolvere alle minime funzioni di uno Stato moderno. Per questo in vent’anni si è messo in piedi solo un simulacro di esercito. Fatte le debite proporzioni, si tratta dello stesso problema che incontriamo noi italiani in certi comuni o regioni che tendono a scivolare in mano alle organizzazioni mafiose. Alla fine bisogna, quando però ormai le situazioni sono compromesse, ricorrere al commissariamento. E talvolta non basta. Quel che noi si è fatto in Afghanistan è l’equivalente di qualcosa come l’arruolamento dei mafiosi per far loro comandare le stazioni di polizia.

8. Lasciato da parte ogni serio e realistico progetto di costruzione dello Stato, le forze d’intervento hanno dovuto dunque scegliere la via del compromesso. Hanno così consentito la costituzione della Repubblica Islamica dell’Afghanistan, che è stata presieduta dall’ambiguo Hamid Karzai,[8] dal 2001 fino al 2014. Poi da Ashraf Ghani, fino al presente 2021. Di formalmente democratico, oltre all’elezione del Presidente, la Repubblica Islamica aveva il fatto che vi si sono tenute le elezioni per un parlamento bicamerale, costituito di due jirga, una camera legislativa di 249 membri (di cui 64 donne) con il potere legislativo e una camera degli anziani con poteri per lo più di tipo consultivo. È stata così architettata una forma democratica che tuttavia è stata riempita con la vecchia sostanza. Una sostanza nella quale le forze retrive della società afghana hanno potuto essere tutte ben rappresentate. Tant’è vero che il sistema della shari’a unitamente al sistema pashtunwali hanno continuato a essere applicati, soprattutto fuori dalle grandi città. Tanto che l’Afghanistan degli ultimi vent’anni figura, anche su Wikipedia, tra i «Paesi dove la sharia è applicata in pieno sia per questioni private sia per le procedure penali». La shari’a c’è sempre stata in Afghanistan, col beneplacito occidentale. I Talebani sono soltanto i portatori di una sua interpretazione piuttosto brutale.

Insomma, vent’anni e un prezzo incredibile in vite umane e in denari per tenere in piedi una Repubblica islamica con tanto di shari’a. Certo, sotto Karzai questa era applicata con una certa moderazione, tanto per non scandalizzare troppo. Del resto la shari’a c’è anche in Arabia Saudita, uno dei più preziosi alleati dell’Occidente. In Occidente, nonostante Me Too e Stay Woke, nessuno si scandalizza per la condizione delle donne saudite. È significativo poi il fatto che, nel lungo periodo dell’intervento occidentale, la produzione di droga è ripresa su vasta scala, raggiungendo livelli mai visti prima. In altri termini, estromessi i Talebani, le forze retrive della società afghana hanno avuto tutte le possibilità per essere ben rappresentate e per pesare nella nuova Repubblica islamica. Ora sembra, mi rifaccio a fonti giornalistiche, che i nuovi Talebani si siano anche loro ben finanziati tassando il commercio della droga.

9. Vediamo ora una breve sintesi dell’apparato militare messo in piedi in questi vent’anni dalla quale emergono debolezze strutturali e notevoli limiti politici. Dal 2001 al 2014 l’intervento militare è stato realizzato sotto l’egida dell’ISFIL (International Security Assistance Force), forza della NATO, autorizzata dall’ONU. Il più noto Enduring Freedom è il nome dell’intervento da parte americana. Questa forza d’intervento nei periodi più critici giunse a contare 130/140.000 effettivi, provenienti da ben 51 Paesi, anche non appartenenti alla NATO. A questi vanno aggiunti circa 100.000 contractors, in carico soprattutto agli USA. La cattura e l’esecuzione di Bin-Laden il 2 maggio 2011 e il conseguente smantellamento di Al-Quaida consentirono poi una netta diminuzione dell’impegno militare.

Dal 2015 al 2021 l’intervento è stato realizzato dalla RSM (Resolute Support Mission) tradotto come “Sostegno Risoluto”. Questo intervento non prevedeva più l’ingaggio diretto nei combattimenti ma, per lo più, compiti di addestramento e supporto. Esso ebbe l’approvazione esplicita da parte del governo afghano. Assai meno numeroso del precedente, il contingente comprendeva, nel 2015, circa 13.600 effettivi, metà americani e metà alleati (provenienti da 41 Paesi). Si ebbe un lieve incremento negli anni successivi, ma nel 2019 gli effettivi erano ridiscesi a 16.600, ancora suddivisi tra metà americani e metà alleati. Nell’accordo di Doha (febbraio 2020) si parla della riduzione delle truppe da 13.000 a 8.600 effettivi e poi dell’evacuazione completa entro 14 mesi. Nella prima metà del 2021, fonti giornalistiche riportano la presenza di 9500 effettivi, di cui solo 2500 americani. L’evacuazione completa – avvenuta il 31/08/2021 - fu compiuta con quattro mesi di ritardo rispetto agli accordi di Doha. Biden avrebbe voluto come data conclusiva l’11/09/2021, per il suo valore simbolico. Si noti che i dati sopra riportati sono stati ripresi da diverse fonti giornalistiche e, per quanto siano stati controllati, vanno presi con cautela.

È importante ricordare che sul piano strutturale sia ISFIL sia RSM prevedevano un comando a rotazione tra i principali Paesi contributori. Ciò, unito al gran numero di Paesi contributori, costituì senz’altro un grave limite alle operazioni, poiché impedì l’elaborazione decisa di una politica unitaria di costruzione dello Stato in Afghanistan. Un comando a intensa rotazione può consentire al più di svolgere una funzione tecnica, non certo una funzione politica (com’era invece negli auspici della propaganda e dell’opinione pubblica). Dai dati presentati emerge con chiarezza come la decisione del ritiro della forza di supporto, che era ormai tutto sommato di piccola entità,  è stata una decisione totalmente di tipo politico, dettata da una sorta di nuovo isolazionismo americano e occidentale.

10. Abbiamo affermato che gli Accordi di Doha sono stati la causa prossima del tracollo dello Stato Afghano. Ci siamo premurati di leggerne il testo, almeno nella parte resa pubblica. Gli accordi di Doha (29/2/2020) sono stati sottoscritti tra gli Stati Uniti e i Talebani, i quali tuttavia - si specifica continuamente - non sono riconosciuti come Stato.[9] Ogni qualvolta sono citati, i Talebani sono qualificati con un giro di parole come: «… the Islamic Emirate of Afghanistan which is not recognized by the United States as a state and is known as the Taliban». Incredibilmente, poi, gli accordi sono stati stipulati senza la partecipazione del governo afghano ufficiale, la cui presenza alle trattative era stata rifiutata dai Talebani.

Ha anche dell’incredibile il fatto che nell’Accordo si ribadisca costantemente che i Talebani non sono riconosciuti dagli USA come Stato, ma poi nello stesso accordo i Talebani sottoscrivano impegni (come ad esempio la lotta al terrorismo) come se fossero un quasi Stato, come se avessero di fatto il controllo di parte del territorio e di parte della amministrazione. Nel nostro linguaggio, questo pare proprio l’equivalente di un accordo tra uno Stato e una organizzazione mafiosa. Nel testo si accenna poi a un nuovo governo afghano futuro, il ché suona come una sconfessione del governo legittimo afghano, o comunque come un suo indebolimento. La circonlocuzione usata suona così: «[…] the new post-settlement Afghan Islamic government as determined by the intra-Afghan dialogue and negotiations». Come dire: noi ce ne andiamo, ve la vedrete tra di voi e farete un nuovo governo insieme. Non stupisce che l’esercito si sia disfatto e che Ashraf Ghani se ne sia andato.  Gli accordi di Doha, di fatto, hanno preventivamente consegnato l’Afghanistan ai Talebani.

Tra le cose notevoli, nelle carte di Doha, gli USA s’impegnavano a che avvenisse il rilascio, da parte del legittimo governo afghano, di ben 5000 prigionieri Talebani detenuti, alcuni dei quali macchiatisi di colpe gravissime. Una sorta di amnistia che completava il tacito riconoscimento del potere talebano. Infatti, proprio Ghani e il suo ministro Abdullah fecero molte opposizioni su questo punto ma poi furono costretti a cedere.

11. Gli alleati degli USA sono stati consultati e in che forma? La cosa non è affatto chiara e per avere dettagli in merito occorrerà qualche studio più specializzato del nostro. Dalle carte di Doha risulta, ambiguamente, che furono gli USA a trattare anche per conto degli alleati. È assai probabile che questi ultimi siano stati per lo più messi di fronte al fatto compiuto e cioè informati e basta. Va osservato che, in seguito al ritiro unilaterale americano, le forze degli altri Paesi – che erano tuttavia in maggioranza nel contingente RSM (7.000 contro 2500) – avrebbero potuto essere aumentate con poco sforzo, in modo da dare ossigeno al governo afghano ufficiale e garantire così una transizione più lenta e ordinata. Nell’ultima fase, gli americani avevano solo 2500 effettivi. Non sarebbe stato difficile sostituirli. Invece, con l’annuncio degli accordi di Doha e con l’avvio della loro applicazione si ebbe anche lo sfaldamento dei volenterosi peacekeeper alleati. Anche il nostro Paese non fu da meno nel plaudire immediatamente per il ritiro. Non entrerò qui nel merito della politica estera italiana, ma è abbastanza chiaro che gli obiettivi della nostra presenza in Afghanistan non fossero meno oscuri e vaghi di quelli del resto della coalizione.

Di qui emerge, se ce ne fosse ancora stato bisogno, l’ambiguità dell’ombra americana sulla NATO e sulle altre forze alleate. Accade da sempre che l’Europa rinunci a fare una sua autonoma politica estera e metta le proprie forze sotto l’ombrello NATO. Ma poi le decisioni che contano, di fatto, le prendono gli americani. In altri termini, ciò che compare nel testo di Goha è prima di tutto una resa e poi una fuga da parte degli americani. E ciò ha comportato anche uno schiaffo agli alleati della NATO e al loro impegno in Afghanistan. Gli accordi hanno comportato uno schiaffo ancor più forte nei confronti del legittimo governo afghano. Va ricordato in questo contesto che, appena dopo la firma degli accordi di Doha, nel febbraio 2020, i Talebani avevano subito cominciato ad attaccare le truppe regolari afghane e le forze dell’ordine in tutto il Paese. Ci fu un aumento enorme della conflittualità e degli attentati. Ciò nonostante, la smobilitazione delle truppe d’intervento, prevista dagli accordi, è continuata, come pure si è dato seguito alla liberazione concordata dei Talebani prigionieri. L’astuto Trump ha passato a Biden un bel boccone avvelenato e Biden c’è cascato in pieno. Col tacito consenso alleato.

12. Va riconosciuto che l’opinione pubblica occidentale, a partire dal 2020, è senz’altro stata distratta dalla pandemia del Covid-19. Del resto la politica estera non aveva mai appassionato gran che gli europei, e gli italiani in particolare. Trump ha messo in campo l’amo del disimpegno e i politici dei governi alleati, messi di fronte al fatto compiuto, hanno finito per abboccare, non avendo neppure essi chiaro il senso complessivo della loro presenza ventennale in Afghanistan.

Svegliatasi dal coma profondo nel quale era caduta, l’opinione pubblica occidentale, sempre più piagnona e oramai completamente prigioniera dello stile stay woke, sembra oggi particolarmente colpita dalle questioni umanitarie, dal pericolo di nuove ondate migratorie e dalle prevedibili condizioni delle donne afghane sotto un ipotetico emirato talebano. Si suggerisce, con debolissime argomentazioni, che i Talebani siano cambiati, si rispolvera il mito (o la speranza) dell’islam moderato, dei Talebani disposti a fare un’ampia coalizione con le altre forze locali, di una shari’a presentabile, magari come quella saudita. Si chiede a viva voce di mantenere aperti i canali umanitari e gli aeroporti e si discute animatamente se si debba trattare o meno con i Talebani,.

Andrebbe per lo meno ricordato alla nostra solerte opinione pubblica che – stando alle carte di Doha – con i Talebani abbiamo già trattato (se non noi, gli USA di Trump per noi) e abbiamo addirittura firmato con loro un corposo agreement. Sostanzialmente abbiamo concesso loro tutto quel che hanno voluto, in cambio del permesso di andarcene. Quel che succederà in Afghanistan sarà in parte anche nostra responsabilità. La tragica realtà è che con gli accordi di Doha, di cui il grande pubblico non si è neppure accorto, di fatto abbiamo dato il via alla costituzione prossima ventura di un prevedibilissimo stato canaglia[10] di marca islamista che sarà governato da una versione particolarmente rigida della shari’a, unita alla legge tribale pashtun. Uno stato canaglia che continuerà con ogni probabilità a essere il principale produttore mondiale di droga. E che non sarà neppure in grado di fornire alcuna effettiva garanzia di messa al bando delle organizzazioni terroristiche. Uno stato canaglia magari del tutto disponibile a essere manovrato da interessi geopolitici spregiudicati.

13. Il disastro che è stato compiuto è ormai irrimediabile, anche se le premesse c’erano già tutte, fin dall’inizio, nei limiti del tipo d’intervento messo in opera. Il pallino della storia è ora tornato tragicamente nelle mani degli afghani stessi, ai quali potranno capitare diverse sorti, decisamente poco invidiabili. Potranno essere nuovamente colonizzati da qualche imperio, che sarà senz’altro più accorto nell’imporre loro un qualche potere sovrano esterno (i nomi possibili si sanno già: Cina, Russia, Turchia, Pakistan, oppure i trafficanti di droga). Oppure si dissangueranno in una lunga lotta interna tra città e campagna, tra religione e laicità, tra teocrazia e democrazia, tra emirato e califfato: una guerra civile in piena regola. Oppure, ancora, staranno semplicemente sottomessi all’emirato talebano, con tutto quel che comporta in termini di regressione economica, civile e culturale. Un’alternativa non esclude l’altra. Nella peggiore delle ipotesi le vedremo all’opera tutte e tre, bene intrecciate fra loro.

Così, anche gli afghani saranno costretti a percorrere, senza alcuna scorciatoia, il faticoso cammino verso la modernità che abbiamo percorso noi occidentali, attraverso secoli di conflitti, lutti e sofferenze. A noi resterà la consolazione di stare a guardare, finalmente senza essere più per ora direttamente coinvolti. Anche se non potremo fare a meno di litigare tra di noi sul destino dei profughi che con ogni probabilità arriveranno. Ci resterà l’occasione di fare i buoni e di mandare gli aiuti, di fare i “canali umanitari”. Ma ci resterà anche di dover contare i morti, di indignarci per le pratiche barbare dell’islam radicale, di piangere sulla condizione dei bambini e delle donne afghane, sulla restrizione dei diritti umani e sulla privazione delle libertà. In altre parole, nonostante la nostra buona volontà, abbiamo perso.

 

(*) Nel gennaio 2002, a ridosso del primo intervento occidentale in Afghanistan, ebbi modo di partecipare alla redazione, da parte dell’allora Istituto per la Cooperazione allo Sviluppo di Alessandria (ICS), di una pubblicazione divulgativa e formativa dal titolo Afghanistan. Inneschiamo i diritti. A quell’epoca l’ICS stava conducendo proprio in Afghanistan una serie d’interventi di tipo umanitario che furono interrotti a causa dell’azione militare. Nella sezione da me curata della pubblicazione ebbi modo di condurre una trattazione articolata di temi quali i Talebani, il fondamentalismo islamico, Al-Quaida e il terrorismo. Si trattava allora di temi poco noti all’opinione pubblica e meritevoli di approfondimento. Questo mio saggio odierno, dopo due decenni, riprende alcune di quelle tematiche per trarne, purtroppo, le più amare conclusioni, alla luce dell’attualità.

Giuseppe Rinaldi (30/08/2021)

 

NOTE

[1] Il termine, plurale di talib, in lingua pashtun significa “studenti”.

[2] In Afghanistan fu combattuta una guerra differita tra quel che restava delle Unione Sovietica e il mondo occidentale, capeggiato dagli USA. Furono gli americani a finanziare il mondo tribale (compresi i Talebani e Bin-Laden) e a sollevarlo contro i sovietici.

[3] Si tratta di una piccola città dell’India, poco a nord di Delhi. La scuola di Deoband è nata in un contesto ben preciso, verso la metà dell’Ottocento, quando in India l’islam era in minoranza nei confronti dell’induismo, che era più favorito dal potere coloniale. Di qui la scuola si caratterizzò in termini prettamente antistatuali.

[4] Si tratta di scuole coraniche.

[5] L’emiro è un comandante territoriale e non ha una particolare dignità religiosa, come accade invece al califfo, considerato come successore del Profeta. Ci sono attualmente tre emirati stabili e internazionalmente riconosciuti: il Kuwait, gli Emirati Arabi Uniti e il Qatar. Quella di Emirato Islamico dell’Afghanistan fu la designazione ufficiale (e la forma di governo) assunta dal nuovo regime politico a seguito della presa di Kabul da parte dei Talebani, nel 1996, dissoltosi dopo l’intervento del 2001 da parte degli USA e dei loro alleati.

[6] Il Presidente Biden ha dichiarato che la presenza americana (dimenticandosi della NATO) aveva il solo scopo di combattere ed eliminare Al-Quaida.

[7] Vale qui la pena di ricordare la questione del tutto insoluta – di cui più ormai nessuno parla - di dotare l’ONU di una forza armata propria.

[8] Hamid Karzai, di orientamento moderato, è un tipico esponente del potere tribale locale. In contatto con la CIA nel periodo della resistenza anti sovietica, ha dapprima simpatizzato con i Talebani e poi rotto nei loro confronti. Dopo la sconfitta dei Talebani ha retto il governo provvisorio prima delle elezioni, da lui vinte nel 2004. È stato rieletto nel 2009. Taluni lo ritengono vicino agli ambienti del traffico di droga. Recentemente sta tentando di giocare un ruolo di mediatore nella formazione del prossimo nuovo governo talebano.

[9] C’è un’analogia davvero curiosa con la questione dibattuta, nel caso Moro, circa le trattative tra il Governo italiano e le Brigate Rosse e con la questione delle ipotetiche trattative tra lo Stato italiano e la mafia.

[10] La dizione rogue state (“stato canaglia”) appartiene al linguaggio geopolitico americano.