1. Introduzione
Da qualche tempo,[1] nel
linguaggio aziendalese – pedagoghese che va per la maggiore ha fatto comparsa una
magica triade: “conoscenze”, “capacità”, “competenze”. La triade si presenta
talvolta camuffata sotto altre sembianze. La più nota è: “sapere”, “saper fare”
e “saper essere”. Non manca neppure la variante “conoscenze”, “capacità”, “atteggiamenti”.
Ma si possono anche trovare altre combinazioni. Spesso e volentieri la triade
viene anche divinamente rappresentata mediante un triangolo con uno degli
elementi per ciascun vertice. Talvolta, in aggiunta alla triade, si fa anche
accenno alla “padronanza”, che dovrebbe, secondo taluni, corrispondere a una “competenza
eccezionale”. In ogni caso, pur con le sue numerose varianti, la triade
imperversa in tutte le sedi dove si affrontino questioni di progettazione educativa e viene
considerata come una soluzione definitiva al problema dell’ingegneria curricolare.
Se s’interpellano gli
appassionati cultori della triade per avere una definizione chiara e distinta
di ciascun elemento della triade stessa, e quali siano le relazioni che
intercorrono tra gli elementi, si otterranno tuttavia quasi sempre risposte
vaghe, definizioni complesse e confuse,[2] e comunque contrastanti tra loro.
Forti della loro ormai diffusa popolarità di massa, i seguaci della triade vi
guarderanno tuttavia con compassione, come se foste ormai uno degli ultimi
esemplari di una strana fauna che non crede all’evidenza e che passa la vita a
cercare il significato delle parole. Purtroppo, nei dizionari specializzati e
nella letteratura scientifica nazionale non si riuscirà facilmente a trovare
traccia della triade, e men che mai si riuscirà a trovarne una definizione
consolidata. Ugualmente, nei dizionari e nella letteratura scientifica
internazionale (marcatamente quella anglosassone, da cui deriva gran parte
della nostra psicologia dell’apprendimento e della nostra ingegneria curricolare)
non si riuscirà facilmente a trovare i corrispettivi della triade. Viene il
sospetto che si tratti di un linguaggio
per intimi, il linguaggio di una setta
nostrana cui si aderisce adattandosi alla regola del silenzio. A uso dei
pochi che credono che valga ancora la pena di impegnarsi per chiarire il
significato delle parole, tenteremo in questo saggio di fare qualche
distinzione utile, se non per noi, almeno per i posteri, quando si accingeranno
a studiare il nostro attuale stato di degrado delle scienze dell’educazione.
2. Le conoscenze
Il termine
apparentemente meno problematico della triade è senz’altro “conoscenze”. Tuttavia
occorre precisare che anche questo termine viene spesso impiegato dai laudatori
della triade in maniera alquanto disinvolta. Conoscenza viene da loro spesso usato – lo si capisce dal contesto
– nell’accezione stretta di “conoscenze contenutistiche”, intendendo con ciò
riferirsi ai contenuti della conoscenza.[3]
Nel Novecento in realtà sono state elaborate concezioni piuttosto diverse
intorno alla “conoscenza” e il significato di questo termine non può essere
dato per scontato. Piaget, ad esempio, rabbrividirebbe se sapesse che oggi,
dalle nostre parti, la “conoscenza” è venuta a coincidere, senza alcun
problema, con i contenuti della conoscenza. Egli, infatti, ha sostenuto che
ogni conoscenza corrisponde a uno schema
operativo, in altre parole – volgarmente – a ciò che siamo in grado di
fare, vuoi con oggetti materiali, vuoi con oggetti simbolici. Una “conoscenza”
rappresenta quindi, per Piaget, una sintesi
a priori tra un elemento formale
(uno schema operativo) e un elemento
materiale (oggetti o simboli che vengono manipolati grazie allo schema
operativo). Quindi, saper limare un pezzo di ferro, oppure saper danzare, oppure
“sapere” la meccanica quantistica, saper recitare in teatro, sarebbero tutte “conoscenze”.
La terminologia piagetiana non ha avuto alcuna fortuna nel nostro Paese,
soprattutto nel campo della pedagogia, e chi oggi la volesse introdurre andrebbe
incontro a serie difficoltà.
Val la pena tuttavia di
esaminare meglio la questione, poiché il fatto di identificare i “contenuti
della conoscenza” con la “conoscenza” tout
court può creare diversi infortuni
teorici. Ad esempio nell’ingegneria curricolare è spesso indispensabile
distinguere tra i contenuti della conoscenza nella loro formulazione astratta, enciclopedica
se si vuole, e i contenuti come effettivamente posseduti da un singolo
individuo, in quanto memorizzati e eventualmente richiamabili per un qualche
utilizzo. È chiaro che non è la stessa cosa “il teorema di Pitagora” come
elemento generico della universale cultura geometrica e il “teorema di Pitagora”
come è stato appreso e come viene in pratica utilizzato dall’allievo del
secondo banco, della terza fila, di una certa classe. Nel primo caso abbiamo a
che fare con un problema di catalogazione
dei contenuti della conoscenza, nel secondo caso abbiamo a che fare con un apprendimento individuale com’è concretamente
posseduto da un singolo allievo. Se non si vuol adottare un’immagine della
mente come mero magazzino di contenuti,[4] occorre ammettere che, ad esempio,
il fatto di avere compreso il teorema di Pitagora, di averlo elaborato e
memorizzato, di saperlo richiamare alla mente, di saperlo spiegare a voce e di
saperlo applicare in un contesto di problem
solving rappresenti non solo l’acquisizione di un contenuto, bensì il
possesso di una vera e propria abilità.
Sotto questo profilo non c’è contenuto
appreso che non sottenda anche qualche tipo di abilità. Possedere un
contenuto implica sempre essere in grado di farci qualcosa. Come del resto si
può anche sostenere che non esista abilità appresa che non sottenda qualche
tipo di conoscenza contenutistica. Ecco che Piaget si prende la sua rivincita.
Tuttavia, come già osservato, l’introduzione nel nostro paese della terminologia
piagetiana sembra andare incontro a ostacoli insormontabili, per cui non resta
che mantenere la distinzione tra “contenuti della conoscenza” e “abilità”,[5]
dando per inteso che la “conoscenza” in senso piagetiano consisterebbe nell’applicazione
di determinate abilità a determinati contenuti.
Stabiliamo allora, andando
incontro ai seguaci della triade, la seguente convenzione. Intenderemo con i
termini “contenuti”, o “contenuti culturali” quel complesso di informazioni che
si ritiene debbano essere possedute da qualcuno in un certo momento del suo
percorso formativo. Ciò può andar bene quando si compilano elenchi di contenuti che gli allievi dovrebbero imparare, o quando
si progettano delle prove di controllo. Intenderemo con “abilità” le sole capacità operative (solo artificialmente
separate dai loro oggetti) che possono anch’esse essere utilizzate per
costituire elenchi. Tuttavia, com’è già stato ampiamente notato, non è
possibile che si esercitino delle capacità operative senza gli oggetti
rispettivi (materiali o simbolici che siano) o, se si preferisce, senza un contesto
di esperienza.[6]
Per rispondere in
qualche modo al problema che stiamo segnalando è entrata recentemente nell’uso
(non si sa quanto durerà) una distinzione, che a nostro giudizio non risolve comunque
il problema, tra “conoscenze dichiarative” e “conoscenze procedurali”, che si
limita tuttavia a consacrare la fossilizzazione separata dei contenuti e delle
abilità, giocando le une contro gli altri. Si veda l’uso che ne fa Maragliano.
3. Competenze
Gli altri due termini
della triade (capacità e competenze), nelle varie definizioni che sono solitamente
fornite, ahimè, si scambiano, continuamente tra loro e si confondono. Siccome
però le definizioni fornite sono furbescamente vaghe,[7] spesso i fedeli della
triade riescono a farla franca, a mantenersi solidi nelle loro convinzioni e ad
allargare il novero degli adepti, grazie anche a numerosi corsi di
aggiornamento ministeriali. Purtroppo negli aggiornamenti cosiddetti “a cascata”
accade quello che capita nel gioco del telefono silenzioso: quella che all’inizio
è una formulazione che possiede magari anche un minimo di chiarezza, passando
di relatore in relatore, finisce per diventare un coacervo retorico, adottato
poi di fatto dalla maggioranza in nome del principio di autorità.[8]
Nel tentativo di fare un
po’ di chiarezza, cominciamo pure dalle competenze.
La parola deriva dal latino compĕtere (da
cŭm e pĕtere, con il significato originario di “dirigersi verso qc.,
cercare). I primi significati storicamente accertati sono quello di “gareggiare,
misurarsi con qualcuno” e quello di “possesso di un’autorità riconosciuta per
capacità, cultura, ecc., di parlare e giudicare su determinati argomenti”.
Questi sono anche i principali significati rimasti a tutt’oggi. È appena il
caso di ricordare anche il significato giuridico di “misura della potestà d’azione
spettante per legge a ciascun organo giurisdizionale o amministrativo”. Secondo
lo Zingarelli, è competente chi “ha la capacità, la preparazione e l’esperienza
per compiere una data attività, svolgere un dato compito”. L’elemento comune a
tutti questi percorsi di significato è quello dell’accertamento del possesso di un qualche elemento ritenuto utile.
In sostanza, la competenza implica il possesso di un complesso di conoscenze
contenutistiche e abilità, ma queste devono essere in qualche modo accertate e autorevolmente riconosciute. Va notata la stretta parentela della
competenza con la competizione,
ovvero una situazione di confronto, di concorrenza per distinguere i migliori
dai peggiori, e con la competitività,
ovvero la caratteristica di essere all’altezza di gareggiare con altri (chi non
è competitivo, è fuori gara, ha già perso in partenza!).
Invano si cercherà il
termine “competenza” nei dizionari più diffusi di psicologia.[9] Il glorioso
Dalla Volta non lo riporta neppure, mentre l’Harrè (Harrè, Lamb, Mecacci 1986)
lo riporta, ma solo esclusivamente riferito alla “competenza linguistica”. Esattamente
lo stesso accade nel dizionario di Arnold, Eysench e Meili (1980), che
rispecchia, più che altro, la cultura psicologica tedesca. Non c’è neppure nel
recente Galimberti (1999).
Sulla questione dell’uso di “competenza” nelle
discipline linguistiche occorre un chiarimento. In inglese c’è effettivamente
una distinzione interessante (che è stata recentemente importata nell’italiano
aziendalese e pedagoghese creando un po’ di confusione) tra competence e performance.[10] Responsabili di questo uso sono i linguisti, i
quali hanno inteso distinguere tra il possesso
potenziale di una abilità linguistica e il suo esercizio effettivo (il parlante deve avere una competence linguistica potenziale, per
eseguire poi le varie performance).
Il Collins, l’autorevole dizionario della lingua inglese, esplicita, dal canto
suo, che competence vuol dire “the condition of being capable; ability”.
Evidentemente dalla linguistica anglosassone il termine competence è entrato nel pedagoghese italiano e ha rivaleggiato con
il termine “abilità” precedentemente in uso. Spesso oggi, in italo – pedagoghese,
si usa “competenza” perché è di moda, ma si vuol dire “abilità” (le competenze
nella scrittura, le competenze relazionali…). Dunque – tolto lo specifico uso
in linguistica – competenza, abilità e capacità sarebbero più o meno sinonimi.
Più chiaro di così! La competenza così intesa non aggiunge o toglie
assolutamente nulla a quanto già si significava con gli altri termini. Siccome “entia non sunt multiplicanda praeter
necessitatem” sarebbe consigliabile piantarla con la retorica vuota e concentrarsi
sulle questioni autentiche!
4. Capacità
Capacità deriva invece
dal latino cǎpere con il significato di prendere o comprendere. Capace in
senso lato è dunque ciò che può contenere molte persone o cose (noi, del resto,
abbiamo le “misure di capacità”). Di qui, il significato di essere abile,
bravo, o di bravura. Secondo lo Zingarelli, sarebbe “l’abilità, idoneità a
fare, ad agire, a comportarsi in un dato modo”. Insomma, capace è chi è abile,
ovvero, sa fare qualcosa. In questo senso il “saper fare” qui funziona
perfettamente, se il fare è riferito a comportamenti pratici, ma anche a
operazioni intellettuali!). Secondo il Collins, capability significa “the quality of being capable; ability”.
Nello Arnold, Eysench e
Meili 1980 si trova il termine “capacità”, ma dalla definizione si capisce
chiaramente che si riferisce all’equivalente inglese di ability. Sfortunatamente, nell’Harrè la parola capacità non si
trova proprio (in altri termini, la capacità non apparterrebbe al linguaggio specifico
della psicologia anglosassone di cui l’Harrè è ottima espressione). Si trova
però la sua consorella “abilità” (ability).
Dall’Harrè, desumiamo tuttavia che l’abilità è la “capacità di eseguire un dato
compito o di raggiungere un dato obiettivo”. Dunque si torna inequivocabilmente
al fatto che l’abilità è né più né meno che una capacità!
Il vecchio seppur
autorevole dizionario di psicologia del Dalla Volta (la prima edizione è del
1961) riporta entrambi i termini, ma con una differenza notevole di
significato: abilità coincide in senso limitativo con “destrezza”, mentre
capacità sarebbe “l’effettiva possibilità di svolgere un’attività o di condurre
a termine un assunto, idoneità per un lavoro. Riguarda compiti motori e
processi di pensiero, può esprimere tendenze innate o può essere prevalente
frutto di apprendimento”. È chiaro che il Dalla Volta con il termine capacità
intende quel che oggi intendiamo comunemente con abilità. In sostanza,
probabilmente a causa dell’influsso della letteratura psicologica inglese, in
italiano il termine abilità (che negli anni Sessanta era legato alla mera
destrezza) è scivolato al posto del termine “capacità” (che è praticamente
sparito dal linguaggio psicologico italiano). Oggi dunque in Italia siamo
autorizzati a usare “abilità” intendendo con ciò quanto si intendeva quarant’anni
fa con “capacità”. Si può tranquillamente usare “destrezza” volendo evocare
quanto prima s’intendeva con la vecchia “abilità”.
5. Abilità
Per non lasciare nulla d’intentato,
possiamo anche ricostruire il significato di “abilità”. L’aggettivo “abile”
significa “capace, idoneo”, ovvero, quando usato come sostantivo, “capacità e
idoneità a compiere qualche cosa in modo soddisfacente”. La parola deriva dal
latino habēre, con il significato di “avere,
tenere, possedere”. Abbiamo già ricostruito le vicende del significato di “abilità”
nella psicologia italiana. Anche in inglese il termine viene comunemente e
genericamente usato. Secondo il Collins, ability significa “possession of the qualities required to do something”. In inglese,
come è noto, viene anche usato il termine similare skill, ma con il significato di “special
ability in a task, esp. ability acquired by training”; ma anche “something, esp. a trade or tecnique, requiring
special training or manual proficiency”. I sinonimi di skill sono proficiency, adeptness, expertness. In altri termini skill
equivale a una specializzazione. Il termine italiano abilità possiede anche una
connotazione di riconoscimento (quando
si parla di “abilitazione”) che tuttavia sembra avere sempre avuto un peso
secondario. Il termine “abilità”, tra quelli usati in italiano, è quello
certamente oggi più neutro e generico, che esprime una constatazione di fatto;
ce ne accorgiamo se consideriamo il suo contrario che è “inabile”. Noi ci
spingeremmo magari a dire che un handicappato è “inabile” o “disabile”, ma non
diremmo mai che è “incapace” o “incompetente”. Questo perché nel significato di
“competenza” è molto più forte l’elemento valutativo e competitivo.
Per tutti i motivi
precedentemente esposti, l’unica soluzione ragionevole – in italiano – sta nell’abbandonare
al suo destino il termine “capacità”, usare sempre, in senso generico, “abilità”
e riservare il termine “competenza” al significato di “abilità certificata” o,
al più, certificabile, come è giusto che sia (a meno che non si stia operando
nel campo specifico della linguistica). Naturalmente la scelta del termine non
esime dal chiarire sempre bene qual è l’estensione semantica: in particolare,
per quello che riguarda l’ingegneria curricolare, occorre sempre chiarire di
che tipo di abilità si tratti.
6. Atteggiamenti
Un altro elemento spesso
citato nelle triadi e nell’ingegneria curricolare nostrana è l’”atteggiamento”.
La nozione di atteggiamento è estremamente complessa e ha sollevato innumerevoli
dibattiti e obiezioni. Si tratta in realtà di una nozione elaborata nel campo
della psicologia sociale e della sociologia, in seguito a innumerevoli
discussioni, per cui è piuttosto rischioso utilizzarla senza le dovute cautele.
Le definizioni che sono
state date di “atteggiamento” sono moltissime. Secondo uno dei manuali più noti
e più tradizionali (Krech, Crutchfield e Ballachey 1970) un atteggiamento
sarebbe una disposizione, “un sistema permanente di valutazioni positive,
sentimenti, emozioni e tendenze all’azione pro o contro l’oggetto”. Perché si
abbia un atteggiamento occorre almeno – secondo gli autori – una componente conoscitiva (un complesso di credenze e
valutazioni), una componente affettiva
e una disposizione all’azione. Per di
più gli atteggiamenti, che hanno sempre un oggetto ben preciso, tendono a
aggregarsi in orientamenti di più ampia portata che costituiscono poi i tratti di personalità più stabili.
Sul piano metodologico,
l’atteggiamento è un costrutto non
rilevabile direttamente (come accade invece di solito per i comportamenti),
ma viene inferito proprio a partire da comportamenti espliciti che vengono
considerati come indicatori dell’atteggiamento
stesso: se un cittadino viene colto a versare oboli per i diseredati, se dedica
una parte del suo tempo al volontariato, se si informa sulle condizioni dei
popoli del terzo mondo, e simili, potremo inferire, da tutti questi indicatori,
che possiede, ad esempio, un atteggiamento solidale. Ci aspetteremo allora che
questo solidarismo si riveli anche in occasioni future, del tutto nuove. In
altri termini l’atteggiamento consiste in una disponibilità o predisposizione
a comportarsi in un certo modo piuttosto che in un altro. Uno dei problemi
più difficili da risolvere, nella rilevazione degli atteggiamenti, sta nella
corrispondenza tra gli indicatori e il costrutto (come sa qualunque studente
abbia dato almeno un esame di psicologia o di statistica per le scienze
sociali). Il fatto di essere portatore di
atteggiamenti rende un individuo più prevedibile nei suoi comportamenti,
per coloro che lo osservano, e permette all’individuo di avere già a
disposizione una serie di risposte più o meno preconfezionate (risparmiandosi
così la fatica di dover ogni volta porsi da capo tutti i problemi di scelta).
L’uso del termine “atteggiamento”
in educazione pone però una marea di problemi che vengono sottovalutati
sistematicamente. L’individuo è consapevole di tutti i suoi atteggiamenti,
oppure gli atteggiamenti sono fondamentalmente inconsapevoli? Gli atteggiamenti
che abbiamo appreso nella primissima infanzia sono in grado di strutturare tuttora
il nostro comportamento, come ha sostenuto, ad esempio, con fondate
argomentazioni, M. Rockeach? Si può cambiare atteggiamento? Se si può cambiare,
come si fa? Un atteggiamento forse si può rendere cosciente, forse si può correggere.
Si parla spesso di “maturare un atteggiamento”, ma cosa vuol dire? Un
atteggiamento può essere esplicitamente
insegnato, oppure è il risultato complessivo – indiretto – di molteplici
esperienze?
In campo educativo, la
nozione di atteggiamento può essere utilizzata descrittivamente per operare rilevazioni
(attraverso gli opportuni indicatori, con tutte le cautele metodologiche del
caso) sugli atteggiamenti diffusi (per conoscere la “situazione” degli allievi)
oppure per tentare di insegnare nuovi atteggiamenti (sempre che ciò sia
possibile!). Piuttosto curiosamente i pedagogisti non si sono quasi mai
occupati del problema dell’insegnabilità
degli atteggiamenti. In effetti spesso gli atteggiamenti, più che essere
stati appresi in un frangente esplicito e specifico, risultano essere l’esito
di processi non espliciti, di cui l’individuo
non è spesso neppure cosciente. Come si diventa razzisti? Probabilmente ci si
trova a essere razzisti come esito della propria socializzazione complessiva.
Gli atteggiamenti, infatti, sono spesso appresi e interiorizzati attraverso
forme di curricolo latente. Al più si
può ammettere che una scuola che sia in grado di fornire una quotidiana
esperienza complessiva (ad esempio una scuola ispirata al pluralismo e alla
democrazia) possa sviluppare negli allievi atteggiamenti che vanno in quella
direzione.
La psicologia sociale ha
costruito varie teorie sulla formazione
degli atteggiamenti e sul cambiamento
degli atteggiamenti. Si è visto che se si può intervenire abbastanza facilmente
sulla componente cognitiva dell’atteggiamento,
ciò non è altrettanto vero per la componente affettiva e per la disposizione ad
agire. Spesso sono i processi di identificazione con gruppi di riferimento che
rendono più facile o ostacolano il cambiamento di atteggiamento.
Che differenza c’è tra
atteggiamenti e abilità? Abbiamo visto che gli atteggiamenti sono dei costrutti
interni complessi che predispongono a
determinati tipi di comportamenti piuttosto che verso altri. Mentre un’abilità
può essere posseduta, ma restare inoperosa, un atteggiamento (ad esempio, il
razzismo) tenderà a influenzare una gran quantità di espressioni
comportamentali. Un “atteggiamento critico” è la predisposizione che un
individuo può avere verso tutte le cose con cui avrà a che fare (che si
risolverà nel criticare spesso e volentieri), mentre la “capacità critica” è l’abilità
di criticare, che non è detto che sia applicata. L’atteggiamento è più legato a
un nucleo di preferenze (non necessariamente consapevole), mentre l’abilità –
ancora una volta – ha una connotazione più neutra.
Chi scrive è convinto
che sarebbe un bene che la scuola si occupasse anche degli atteggiamenti degli
allievi e della formazione della personalità. Tuttavia è un dato di fatto che
oggi la scuola non riesce neppure a prendere in considerazione e a trattare gli
“atteggiamenti verso la scuola” che gli allievi sono indotti a sviluppare,
proprio in relazione all’istituzione scuola stessa. Tradizionalmente la teoria
degli atteggiamenti è legata non alla psicologia dell’apprendimento, ma alla psicologia della personalità. Ci sono
comunque atteggiamenti più o meno radicati nella personalità, più o meno ampi
(ricoprenti cioè ampia aree della personalità). Quando si pretende di mettere
nel curricolo l’obiettivo di produrre negli allievi degli “atteggiamenti”, si
vuole andare a modificare, orientare la
personalità degli allievi. Come si vede, siamo molto lontani dalle “competenze
certificabili”, ma anche dalle semplici “abilità”! L’unico modo di perseguire
un simile obiettivo è comunque quello della scuola
attiva di ispirazione deweyana, quella scuola che permettendo agli allievi
di fare molteplici esperienze (spesso di problem
solving autentico) favorisce poi – in un modo che non è controllabile a
priori – di accumulare in ciascuno un deposito
personale di quelle esperienze che a lungo andare può strutturarsi come complesso di atteggiamenti o come tipo specifico di personalità. Oggi nel
nostro paese questo modello educativo, mai compiutamente realizzato,[11] sta
per essere distrutto – come è noto – proprio dalla “scuola delle competenze”.
7. La padronanza
Concediamoci tuttavia un’ultima
passeggiata nei boschi della triade. Un’ultima breve discussione circa la
padronanza, termine assai poco usato in italiano, che presumiamo si riferisca,
in inglese, al noto termine mastery
(in italiano si potrebbe usare maestria, dominio, possesso, ecc.). Recita il Collins che mastery significa “outstanding skill; expertise”. Si sostiene, da parte dei fedeli
della triade, che la padronanza sia legata a “competenze eccezionali”: tutti
sanno guidare, ma solo Schumacher avrebbe la vera “padronanza”.[12] Dovrebbe
essere sufficiente ricordare a costoro che uno dei movimenti (ormai storici)
per insegnare tutto a tutti, nel mondo anglosassone, fu il mastery learning con cui si formulava proprio l’obiettivo, forse un
po’ utopistico ma civilmente condivisibile, di dare a tutti proprio la padronanza. È abbastanza chiaro allora che
padronanza generalmente non significa rara eccellenza! Ma allora perché – per
definizione – solo pochissimi dovrebbero vedersi riconosciuta la padronanza
nelle “competenze”?
8. Una prima sintesi
Dall’esame complessivo
consegue una prima conclusione: che al posto del generico “conoscenze” sarebbe
meglio – a meno che non si voglia evocare il significato piagetiano – parlare
di “contenuti della conoscenza”; che siamo autorizzati a usare il termine “abilità”
come termine di significato generico, e completamente avalutativo; che possiamo
poi (oggi) usare “abilità” e “capacità” in modo assolutamente intercambiabile
(anche se tra i due termini, abilità sembra tuttavia più preciso e coerente con
la psicologia scientifica odierna); che l’uso di “atteggiamento” è
sconsigliabile, a meno che non si vogliano affrontare tutti i complessi problemi
che l’uso del termine comporta e a meno che non si rifiuti comunque la “scuola
delle competenze” (è difficile sostenere che gli atteggiamenti siano
competenze); che inoltre siamo autorizzati a parlare di “competenza” solo e
soltanto tutte le volte che vogliamo sottolineare una connotazione valutativa e
certificativa, quando intendiamo discriminare ufficialmente chi possiede una
competenza da chi non la possiede.
9. Ma allora, perché la
triade?
Ma allora, se il termine
“abilità” bastava e avanzava, perché si sono rispolverate le capacità? Se le
competenze non sono altro, secondo una certa lettura, che capacità (o abilità),
perché riesumare un termine diverso e pretendere che significhi qualcosa di
diverso? Se i due termini (capacità e competenze) non possiedono un uso
sostanziale nella psicologia dell’apprendimento perché sono stati imposti ai
danni di altri termini sicuramente più diffusi, consolidati e meno equivoci?
Poiché la triade è ormai considerata come indiscutibile, i suoi sostenitori
hanno qua e là avanzato varie giustificazioni a posteriori. Esaminiamole.
C’è in molti sostenitori
della triade un tentativo maldestro di spiegare che tra capacità e competenze
ci sarebbe una gradazione di complessità:
le capacità sarebbero piuttosto elementari e di tipo piuttosto manuale
(avvitare, limare, scorrere un elenco telefonico in ordine alfabetico, …),[13]
mentre le competenze sarebbero piuttosto complesse (di ordine più generale e
intellettuale),[14] come ad esempio giocare a tennis o guidare una barca
(peccato che, per Harrè, giocare a tennis sia un’abilità!). Una convenzione del
genere potrebbe anche andar bene, ma chi vuol proporre al mondo scientifico una
simile distinzione, deve fornire anche una norma: dove finiscono le capacità e
dove cominciano le competenze? Nessuno ha mai provato seriamente a battere
questa strada, anche perché quelli che ne parlano preferiscono rimanere nel
vago. Per sostenere la legittimità di una differenza in base al criterio della
complessità non vale neppure rifarsi all’inglesismo competence: in linguistica la competenza linguistica è considerata
tale sia al livello più elementare, che al livello più complesso: sarà una competence semplice o complessa, ma sarà
pur sempre una competence.
Un secondo tentativo di
distinzione pretende che le capacità siano piuttosto elementari e che le
competenze siano invece non ben definite caratteristiche
di fondo della personalità, tentando forse in tal modo di rendere così l’inglese
attitude, solitamente tradotto
proprio con il nostro termine “atteggiamento”. In tal caso viene a generarsi
una ovvia sovrapposizione con gli atteggiamenti. Questa tendenza raggiunge il
patetico quando si sostiene che le competenze siano il “saper essere”,
inaugurando una psico–metafisica del
tutto nuova!
Una terza scappatoia
consiste nel sostenere che le competenze sarebbero l’unione di specifiche
conoscenze e di specifiche capacità per risolvere problemi specifici.[15] Nulla
di male a sostenere una simile tesi (non fosse per l’appesantimento
terminologico), ma questa è la performance!
Se le competenze coincidono con la performance,
allora le competenze non avrebbero nulla di generale, consisterebbero solo in
una serie, appunto, di performance!
10. La prospettiva della
formazione professionale
C’è un’unica situazione
nella quale il processo di apprendimento assomiglia allo schema della triade: è
l’addestramento professionale. Il
termine “competenza” è, infatti, legato (e questa è la sua vera origine nel
nostro Paese) al mondo delle professioni e del lavoro. Si cercano lavoratori
che siano competenti, sul mercato del lavoro si fanno valere le proprie
competenze (ovvero il bagaglio acquisito delle varie abilità). Certo, le
competenze si acquisiscono anche. Ma “acquisire una competenza” significa avere
già in mente un uso professionale, avere già in mente di chiedere un riconoscimento. Mi posso preparare in inglese, nell’uso
del computer e alla fine sarò riconosciuto competente attraverso una qualche
patente o qualifica. È difficile, in questa logica, sostenere, ad esempio, che
scrivere con ortografia corretta sia una competenza (può essere un’abilità
necessaria, tra tante altre, per una persona che voglia fare la segretaria o la
traduttrice, ed essere così riconosciuta come una segretaria competente).
Nell’addestramento
professionale s’insegnano diverse capacità (o abilità) specifiche (si insegna a
limare, a fare un circuito elettrico...). Di capacità in capacità si arriva
alla fine che l’apprendista può essere definito (secondo un progetto
esplicitato di formazione professionale) competente in un determinato settore.[16]
Diventerà elettricista competente, oppure operatore competente di computer o di
macchine utensili, e come tale andrà a cercare un adeguato riconoscimento alla
sua competenza raggiunta e certificata. Dietro la triade intravediamo allora il
mito dell’ingegnerizzazione dell’educazione,
della riduzione dell’educazione ad
addestramento, sia nella versione laica (“conoscenze”, “capacità”, “competenze”)
che nella versione mistica (“sapere”, “saper fare”, “saper essere”). Un mito
volontaristico che nel suo vago farfuglìo ha già compiuto molti danni e tutto
ha combinato meno che raggiungere l’agognata efficacia nell’ingegneria
curricolare e, per noi poveri mortali, un po’ di chiarezza!
11. Come si descrive o si
prescrive quello che facciamo
Dopo esserci concentrati
sulla pars destruens, qualche lettore
potrebbe essere desideroso di avere a disposizione un apparato di concetti chiari e distinti che possano permettere
una progettazione curricolare rigorosa ed efficace. Non mi sottrarrò all’incombenza
con le solite scuse che si adoperano a questo punto,[17] anche se la
ricostruzione concettuale dovrà partire un po’ da lontano, anche se dovrò
ribadire concetti tutto sommato decisamente non nuovi.
Tutto quello che
comunemente gli esseri umani fanno
viene solitamente colto attraverso due prospettive
fondamentali: azioni e comportamenti. Com’è noto, grossomodo
utilizziamo “azione” quando vogliamo mettere in rilievo l’intenzionalità del
soggetto, usiamo invece “comportamento” quando vogliamo oggettivare quanto stiamo
prendendo in considerazione. Questa distinzione è stata assai poco evidenziata
nelle attuali scienze dell’educazione, con esiti spesso disastrosi. Tuttavia è
innegabile che, nel mentre intendiamo riferirci a attività osservate dall’esterno,
oggettivate, possiamo essere autorizzati a utilizzare il termine “comportamento”.
Comportarsi deriva dal
latino cŭm e portăre, e assume il significato – per quel che ci riguarda – di “procedere
in un certo modo”; il comportamento è dunque il modo di procedere. Indubbiamente
i comportamenti possono essere descritti dall’esterno
e identificati più o meno concretamente (“Tizio ha mangiato un panino”; “Caio
ha letto un giornale”, oppure, più astrattamente, “mangiare un panino”, “leggere
un giornale”).
I comportamenti dopo
essere stati identificati, possono essere classificati in vari gruppi. Talora
una classificazione di massima può essere d’aiuto per identificare i comportamenti
stessi. Siamo in grado di costruire classi
di comportamenti (comportamenti criminali, comportamenti civici,
comportamenti pericolosi, ...). È chiaro che il criterio di classificazione dei
comportamenti non è indifferente (potrei ad esempio essere interessato a tutti
i comportamenti che, in italiano, iniziano con la lettera “c”, ma la cosa
sarebbe da tutti definita come bizzarra). In campo educativo, i comportamenti
verranno classificati in base a criteri utili per scopi educativi. Ad esempio
si possono elencare i comportamenti desiderati e quelli indesiderati, i
comportamenti per i quali occorre una lunga esercitazione, oppure quelli per i
quali l’esercitazione è poco rilevante.
Cosa significa genericamente
che un comportamento (“leggere”, “danzare la samba”, “fare una divisione”) è
stato appreso? Significa che l’individuo in un certo senso lo ha fatto proprio,
ovvero si è costruito al proprio interno uno “schema” (una impronta
comportamentale) grazie al quale egli è diventato in grado di riprodurre a
piacere il comportamento (più volte, e adattandosi alla situazione specifica).
In alcuni casi lo schema interno può necessitare di essere “allenato”. Lo
schema interno (comunque sia generato o memorizzato, qui non ci interessa) che
ci permette di riprodurre un determinato comportamento è – per tornare alla
triade - la “abilità”, o se si vuole la “capacità”. È chiaro che noi non siamo
in grado di rilevare direttamente lo schema interno. Dobbiamo passare per l’osservazione esterna. Dall’esterno, se
noi osserviamo una determinata occorrenza di un comportamento da parte di un
soggetto, concluderemo che quel soggetto è capace di quel comportamento. Osserviamo
Pippo che legge una lettera e concluderemo che Pippo “è capace di leggere”, sa
leggere. Facile ed elementare, no? Eppure questi principi elementari sembrano
del tutto ignorati nell’attuale dibattito sulle competenze.
Finora non ci siamo
pronunciati intorno al valore o all’utilità delle abilità: si pensa che una “abilità
sia di per sé buona poiché è appresa, ma ci si dimentica che anche, ad esempio,
il condurre una rapina può essere un’abilità. È chiaro che in campo educativo
si tenderà a perseguire la formazione di quelle abilità che siano ritenute
positive e a scoraggiare quelle ritenute negative. Sebbene sia strano, ci sono
apprendimenti che hanno un valore negativo![18] Le abilità ritenute utili o
valide saranno prescritte, le altre saranno scoraggiate o addirittura
contrastate.
12. Costrutti,
valutazioni e certificazioni
È chiaro anzitutto che
tutto ciò che in qualche modo viene posseduto in termini potenziali (si tratti di abilità, capacità, competenze o qualunque
altra cosa) non verrà direttamente osservato, ma verrà inferito a partire dal
comportamento (probabilmente in base alle performances
o prestazioni).[19] Sono, infatti, le effettive prestazioni che permettono di
inferire che l’individuo in questione ha la possibilità presunta di ripetere
quelle stesse prestazioni più volte, nei più vari contesti. Spesso non basta
una singola prestazione, ma occorrono più prestazioni (a seconda del livello di
complessità di quanto viene inferito). In sostanza abilità, capacità,
competenze, o qualunque altra cosa, sono praticamente delle ipotesi che noi facciamo sugli individui
che esibiscono determinate prestazioni (un certo numero di volte o almeno una
volta). Se uno mi dimostra in più occasioni di avere una certa dimestichezza
con l’inglese, allora concluderò che “è capace di parlare l’inglese”, oppure
che “è competente nella lingua inglese”; se questa ipotesi viene registrata ufficialmente
da qualche istituzione, allora l’individuo potrà ricevere una certificazione di competenza. Per
procedere a una certificazione tuttavia occorre che siano definiti da qualche
autorità degli “standard di prestazioni” dai quali poter inferire determinati livelli di competenza da certificare.
13. Cosa non sono e cosa effettivamente
sono le competenze
Il pasticcio delle
competenze deriva dalla sovrapposizione arbitraria (si potrebbe dire dalla
confusione) di vari ordini di questioni o di significati.
Anzitutto occorre
definire a quale livello ci si pone. Abbiamo anzitutto il livello della classificazione astratta di qualsivoglia elemento
(siano abilità, capacità o competenze...). Qui il risultato sarà un catalogo,
una classificazione logica, un complesso di elenchi, come quelli cui ci ha
abituato Bloom con le sue tassonomie. Sono questi elenchi che possono essere
utilizzati per produrre i curricoli nell’ingegneria curricolare. Abbiamo poi il
livello della produzione o esternazione
individuale di qualsivoglia elemento (siano abilità, capacità o
competenze...); ma questa esternazione individuale sarà in ogni caso sempre una
prestazione o un complesso di
prestazioni. Abbiamo poi, in ultimo, il livello dell’attribuzione del possesso di un determinato elemento (in
termini di costrutto) da parte di un determinato individuo (inferito dalle
prestazioni). A questo livello si tratta in ogni caso di attribuzione di costrutti!
Occorre in secondo luogo
definire quale tipo di scopo descrittivo
o prescrittivo ci si pone. È chiaro
che se ci si limita a descrivere si evita di valutare e di preferire; se invece
si prescrive, si sta istituendo una norma (va da sé che per istituire una norma
occorre avere l’autorità per farlo).
Dall’incrocio tra i livelli e gli scopi possiamo ottenere la seguente tipologia che ci sarà d’aiuto nel dirimere le questioni fondamentali.
|
SCOPO PREVALENTE |
|
DESCRITTIVO (da parte di un osservatore) |
PRESCRITTIVO (da parte di un’autorità riconosciuta) |
|
LIVELLO LOGICO |
A. DEFINIZIONE DI TASSONOMIE Tassonomie di abilità, (di capacità), di conoscenze. Tassonomie
descrittive di obiettivi |
D. DEFINIZIONE
DI STANDARD Standard
di abilità, di conoscenze (o di competenze) prescritti da un’autorità |
LIVELLO DELLA
PRESTAZIONE INDIVIDUALE OSSERVABILE |
B. RILEVAZIONI DI PRESTAZIONI Osservazione della prestazione del singolo individuo (si parla di
rilevazione, talvolta anche di misurazione ). |
E. VALUTAZIONE
DI PRESTAZIONI Valutazione
della prestazione del singolo individuo (alla luce degli standard di
prestazione attesi, da parte di un’autorità riconosciuta, mediante prove,
esami…) |
LIVELLO
DI COSTRUTTI NON DIRETTAMENTE OSSERVABILI |
C. ATTRIBUZIONE DI ABILITA’ Abilità, (o capacità), conoscenze attribuite a un individuo in base
alle osservazioni del punto B |
F. ATTRIBUZIONE
DI COMPETENZE Competenze
certificate e riconosciute attribuite da parte di un’autorità riconosciuta,
dopo le valutazioni del punto E (prove, esami ufficiali, ecc…) |
Caso A. Tassonomie di abilità o capacità. Qui il problema è quello di classificare in astratto i comportamenti degli allievi rilevanti per fini educativi. Si cerca di descrivere il complesso delle prestazioni, in altre parole ciò che ciascuno può essere in grado di fare. Per questo compito va benissimo il termine abilità; se si vuole lo si può sostituire con capacità, a patto di chiarire che si tratta esattamente della stessa cosa. Si tratta allora di identificare in astratto (identificare, classificare, catalogare) quali sono queste unità elementari, queste prestazioni (leggere, riassumere, limare, scrivere a macchina, tenere una conferenza, e simili). Risultato sono le note tassonomie, come quella di Bloom, o i vari elenchi di abilità (ad esempio come si faceva nel Mastery Learning). Questi cataloghi non sono né negativi né positivi: possiamo fare, infatti, anche un catalogo dei comportamenti devianti degli studenti. Il fatto che un comportamento entri in una tassonomia non significa che debba essere insegnato. La decisione di cosa insegnare o cosa non insegnare si fa solo in termini prescrittivi (vedi punto D.)
Caso B. Osservazione della prestazione del singolo
individuo.
È chiaro che, poiché nessuno è in grado di mettersi esattamente nei panni dell’allievo,
sarà solo possibile rilevare dall’esterno le sue prestazioni (possiamo
chiamarle anche performance). La
rilevazione delle prestazioni può essere fatta attraverso tutti i metodi
tradizionali che si trovano nei manuali su osservazione, rilevazione,
misurazione delle prestazioni. Questa fase può essere più o meno occasionale,
più o meno tecnicizzata. Queste rilevazioni servono a descrivere “oggettivamente”
le conoscenze e le capacità degli allievi.
Caso C. Attribuzione a un individuo del possesso di abilità,
capacità o conoscenze non direttamente osservabili. È chiaro che alcune
caratteristiche rilevate (fase B) potranno essere considerate come indicatori di altre caratteristiche
importanti ma non direttamente osservabili. Si tratta dei famosi costrutti. Sulla base degli indicatori
rilevati nella fase B si potrà inferire (in base a definizioni operative precise) il possesso di determinate
caratteristiche non direttamente osservabili. Alla fine della rilevazione degli
indicatori (più o meno sistematica), si dirà che Pierino “sa leggere”, che “non
sa autocontrollarsi”, che “è intelligente”, che “nel gruppo si comporta da
gregario”, che “non conosce la lingua italiana”, che “è creativo”, etc... Qui
abbiamo un significato attributivo o qualificativo nei confronti dell’individuo.
Più in generale, dopo aver osservato in diverse occasioni le performance di un determinato individuo,
si può presumere che egli possieda (più o meno sempre) la possibilità di mettere
in atto quelle performance (più o
meno simili, pur con qualche errore o variazione); in tal caso si attribuisce a
quell’individuo il possesso della abilità, o conoscenza caratteristica.
È chiaro che l’attribuzione
all’allievo di talune abilità e conoscenze non direttamente osservabili è l’anticamera
della possibilità di attribuirgli il possesso della competenza, nei termini di
una certificazione ufficiale (vedi fase F). Ma non è la stessa cosa! Se abbiamo
rilevato male gli indicatori (fase B), possiamo essere indotti a ritenere che l’allievo
possieda certe proprietà non osservabili (fase C), per cui in base al nostro
potere gli certificheremo una competenza (fase F) che magari non ha. D’altro
canto alcuni possono avere tutte le conoscenze e le capacità necessarie, ma
possono non avere mai ottenuto il riconoscimento formale (ad esempio perché
sono stranieri, perché non hanno più l’età per avere il riconoscimento
ufficiale, perché erano assenti all’esame, ecc...). In tal caso non arriveranno
mai alla fase F.
Caso D. Prescrizione di obiettivi, standard, ecc... Se le tassonomie ci
offrono descrittivamente elenchi di abilità o conoscenze, in termini prescrittivi possiamo scegliere quelle
che sono rilevanti (per ciascuna età dell’allievo, per ciascun indirizzo di
studio, per ciascuna unità di lavoro
scolastico...) e le possiamo imporre istituzionalmente. Nascono così gli standard prescrittivi. La presenza di
standard prescrittivi è un passo essenziale per poter procedere poi alla valutazione
degli allievi e al rilascio delle certificazioni.
Qui si prescrive cosa si deve essere in grado di fare; in questo caso il termine da usare
è effettivamente “competenza”. Le competenze in altri termini sono insiemi di
abilità (o di capacità) o conoscenze che sono relativamente ben individuati e
codificati (da qualche contratto di lavoro, convenzione, standard
internazionale, ecc..) e che sono dunque prescritti.
Diremo delle competenze del medico, dell’impiegato. Quindi si può usare il
termine competenza solo quando ci si riferisce a un insieme di abilità che sono
ben definite, convenute. Ad esempio si possono definire con precisione quali
sono le competenze che deve avere un metalmeccanico di 5° livello, tanto che
lui potrebbe dire che “certe cose non sono di mia competenza” (ovvero “non ci
si può attendere che uno del mio livello faccia queste cose”). Nell’industria
ci sono le “declaratorie”, veri e propri elenchi di abilità o capacità che il
lavoratore deve avere per ricoprire un determinato livello. Le competenze
quindi riguardano non l’individuo singolo, ma la posizione che l’individuo
occupa. Un individuo, per essere riconosciuto competente, deve semplicemente
essere in grado di ricoprire quella posizione.
Può essere interessante
porsi il problema di come possano essere espressi gli standard. Gli standard di
competenze si possono metter per iscritto in vario modo. Tradizionalmente ci
sono tre modi: a) cataloghi di contenuti conoscitivi prescritti; b) cataloghi
di abilità prescritte; c) cataloghi di problemi (pratici, teorici o teorico –
pratici) che occorre prescrittivamente dimostrare di saper risolvere per essere
dichiarati e certificati competenti. Forse a questa modalità appartengono le
famose “abilità in contesto” di cui spesso si straparla; una abilità in
contesto non è nient’altro che il vecchio problem
solving della tradizione attivistica deweyana.
Può anche essere
interessante domandarsi se ci sia una qualche differenza tra gli standard e gli obiettivi. La differenza c’è e deriva dal fatto che lo standard ha
una connotazione prescrittiva molto più forte dell’obiettivo: mentre nella
pedagogia attivistica un obiettivo può essere costantemente riformulato,
adattato alla situazione, addirittura adattato alle esigenze di crescita di un
singolo individuo, lo standard è una prescrizione politico burocratica che
serva a discriminare coloro che hanno raggiunto lo standard da coloro che non
lo hanno raggiunto. Lo standard detta una norma permanente. Da questa
distinzione deriva che ci sono tantissime abilità o capacità che gli individui
possiedono (che è altamente auspicabile che possiedano) che possono sviluppare
e che non faranno mai parte di un quadro ufficializzato/ standardizzato di
competenze!
Caso E. Valutazione della prestazione del singolo individuo (alla luce degli standard di prestazione attesi). Questo aspetto si identifica con la tradizionale valutazione sommativa delle prestazioni degli allievi. La valutazione naturalmente deve seguire all’osservazione o alla rilevazione (punto B), come hanno bene puntualizzato Gattullo e Giovannini 1989.
Caso F. Attribuzione all’individuo della certificazione di
competenza
(dopo una valutazione condotta in base agli standard). Dopo aver superato
ufficialmente le prove previste (aver svolto cioè una o più volte complessi di
performance in modo atteso, come definito dagli standard) chi ha l’autorità per
farlo potrà rilasciare all’interessato certificati, patenti, titoli, o quant’altro.
Nell’attuale dibattito italico sulle “competenze” traspare la clamorosa
ingenuità di pensare che le abilità e le conoscenze di cui un allievo è capace (o
incapace) si traducano completamente, sempre e obiettivamente in un riconoscimento
di competenza. Ciò significa dare per scontato (e dunque trascurare) la fase
della valutazione. In realtà l’esistenza di un mercato delle certificazioni di
competenze (e addirittura di un mercato illegale
delle certificazioni di competenza) pone serissimi dubbi sul funzionamento di
un simile sistema. Se il sistema di certificazione non funziona, potrà accadere
che sia dichiarato competente chi in realtà non lo è: ciò vorrà dire che le sue
conoscenze e le sue abilità effettive non corrispondono a quello che gli è
stato riconosciuto in termine di competenza. Accade assai spesso.
14. Cosa produce la
scuola
L’analisi fin qui
condotta ci riporta a un tema piuttosto centrale nell’attuale dibattito circa
il destino del sistema scolastico italiano: in cosa consiste il prodotto del
sistema scolastico? In cosa consiste cioè il “valore aggiunto” che l’allievo
deve conseguire al termine del percorso scolastico.
Secondo una prima (e più
vecchia tesi), il prodotto del sistema scolastico sarebbe prima di tutto l’educazione generale della persona. Quella
che i greci chiamavano paideia. L’istruzione, cui mira fondamentalmente la
logica della triade, è solo una parte dell’educazione (anche se ultimamente è
assai forte la tendenza a ridurre l’educazione a mera istruzione). Tuttavia, a
quanto pare, come crediamo di avere mostrato, neanche il campo della mera
istruzione è completamente ingegnerizzabile, come vorrebbero i nostri sostenitori
della triade. È un dato di fatto che solo in particolari momenti il sistema
scolastico si occupa di rilasciare delle certificazioni,
di riprodurre cioè anche delle competenze specialistiche certificate. Come
quando si rilascia un attestato in inglese C1. È chiaro che una scuola che
fondamentalmente abbia come fine l’educazione deve essere una scuola lunga, una
scuola costosa, una scuola dove la dimensione comunitaria sia fondamentale (se
vogliamo, possiamo citare il modello deweyano o il modello delle “scuole attive”).
E dove le triadi contino il meno possibile.
Dal punto di vista di
una seconda (e più recente tesi), il prodotto del sistema scolastico
consisterebbe nella distribuzione di una serie di certificazioni di competenza (le competenze vengono in tal caso suddivise
in unità, cumulabili e certificabili) che ciascuno può anche acquisire per
proprio conto, indipendentemente da percorsi comuni. Un caso tipico è quello
della università, dove il voto finale di laurea è computato sulla base di un
certo numero di esami, i quali a loro volta sono computati in base allo studio
di un certo numero di manuali, ciascuno dei quali con un determinato numero di
pagine. Oppure in base a un certo numero di esercitazioni. Assistiamo qui, come
già rilevato, al tentativo di estendere all’educazione nel suo complesso il
linguaggio della formazione tecnico – professionale, tentativo che è la logica
conseguenza del fatto di considerare la scuola come un’industria.
15. In conclusione
Sembra ovvio concludere
che le “competenze” non possono di solito essere standard educativi perché ciò significherebbe degradare l’educazione alla certificazione. L’educazione mira allo
sviluppo (libero) delle abilità e delle conoscenze di ciascuno, a partire dal
livello in cui ciascuno si trova. Le competenze oggetto di certificazione
rappresentano una presa d’atto ufficiale del fatto che certe abilità e
conoscenze, ritenute buona cosa dai legislatori del momento, si possiedono o non
si possiedono. Invece del libero sviluppo di ciascuno avremo l’adeguamento
pedissequo a quanto definito importante da un gruppo di burocrati dell’educazione.
Giova ricordare che negli USA vige da decenni un sistema di certificazione
basato sui test. Ebbene, è stato
denunciato che gli studenti ormai sono ridotti a studiare solo quello che serve
per passare i test (si vedano le critiche di Gardner). Vogliamo ridurci in
questo modo? Non impariamo proprio nulla?
Paradossalmente il
discorso potrebbe valere se – al posto di un uso specifico in qualche settore
specializzato – noi pensassimo alle competenze che devono avere tutti, le “competenze
dell’uomo”. A parte il fatto che la frase suona male e fa sorridere, se ci
fossero le competenze dell’uomo saremmo alla fine tutti competenti in quanto umani
e allora non ci potremmo più dividere in competenti e incompetenti. Sarebbe
comunque interessante individuare quale autorità potrebbe rilasciare un
certificato di competenza “umana”. Mentre l’idea di uno sviluppo delle capacità
o abilità dell’uomo suona molto meglio, implica – come deve essere in
educazione – la connotazione di “libero sviluppo”. Molte capacità o abilità prettamente umane non saranno mai tradotte in
competenze certificate, ciò non toglie che debbano essere perseguite in
educazione. Si conferma ancora una volta che l’educazione in quanto tale è
fortemente a–specifica, è gratuita, disinteressata. L’educazione non è formazione
professionale. Ci si educa per crescere in quanto uomini, non per diventare competenti certificati in qualche settore o
settorucolo. Dunque, prima e fondamentalmente si svilupperanno le capacità e le
abilità dell’uomo. Ciò che gli ateniesi definivano con il loro termine paideia. Poi e solo secondariamente
questo uomo, divenuto tale, potrà specializzarsi
in qualche campo del sapere e diventerà allora (poiché riconosciuto,
certificato, patentato) competente in qualche settore o professione, nella
lingua inglese, nel diritto civile, nell’assistenza agli anziani, nella
ristorazione, nella matematica pura, nell’arte medica, nella fisica teorica, o
in qualsiasi altra cosa. Tutta la somma delle patenti possibili e immaginabili
non riuscirà mai a definire quello che noi possiamo e dobbiamo liberamente
realizzare di noi stessi, attraverso l’educazione. Una scuola che abbia
smarrito questi principi ha smarrito se stessa.
BIBLIOGRAFIA
1980 Arnold, W. & Eysench, H. J. & Meili, R. (a cura di), Lexikon der Pychologie, Verlag Herder KG, Freiburg. Tr. it.: Dizionario di psicologia, Edizioni Paoline, Roma, 1982.
1974 Dalla Volta, A., Dizionario di psicologia, Giunti - Barbèra, Firenze.
1999 Galimberti, U., Enciclopedia di Psicologia, Garzanti, Milano.
1983 Gardner, H., Frames of Mind. The Theory of Multiple Intelligences, Basic Books, New York. Tr. it.: Formae Mentis. Saggio sulla pluralità dell’intelligenza, Feltrinelli, Milano, 1995.
1989 Gattullo, Mario & Giovannini, Maria Lucia (a cura di), Misurare e valutare l’apprendimento nella scuola media, Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, Milano.
1986 Harré, R. & Lamb, R. & Mecacci, L., Psicologia. Dizionario enciclopedico, Laterza, Bari.
1970 Krech, D. & Crutchfield, R. S. & Ballachey, E., Individual in Society. A Textbook of Social Psychology, Mc Graw Hill, New York. Tr. it.: Individuo e società. Manuale di psicologia sociale, Giunti - Barbèra, Firenze, 1970.
NOTE
[1] Questo saggio ha ormai una lunga gestazione, a partire da una prima bozza del 2001.
La sua prima pubblicazione è avvenuta nel 2007 (versione 2.3 del 29/6/2007).
Era nato da una reazione critica da parte mia nei confronti dell’andazzo che
stava prendendo la scuola italiana e ancor più la pedagogia italiana (in
seguito ai provvedimenti dei ministri Luigi Berlinguer e di Letizia Moratti).
Da allora nulla è cambiato e le cose sono soltanto peggiorate. Lo ripubblico, in versione appena riveduta,
all’inizio di un nuovo anno scolastico, con la speranza che possa essere di
qualche utilità a chi abbia ancora il desiderio di domandarsi quale sia il
senso dell’educazione e a che cosa serva la scuola. Versione 3.0 del
18/08/2021 (rev.).
[2] Ad esempio questa definizione è tratta da un
corso di Rai educational, per conto
del Ministero della Pubblica istruzione: “Le competenze costituiscono il
fattore “terminale” di un comportamento professionale, quello dell’impatto con
i compiti da eseguire, qualunque sia il livello di complessità, il fattore,
cioè, che “si vede e si tocca con mano”. Ma, a monte delle competenze vi sono
le “cose che non si vedono”, che costituiscono il patrimonio cognitivo della
persona, le conoscenze, quindi il corredo teorico e tecnico-procedurale che
sostiene ed esprimono le competenze, e le capacità, cioè l’attenzione continua
e vigile della persona su ciò che è opportuno modificare, sui nuovi
comportamenti da acquisire. In effetti, si sviluppa una continua e progressiva
circolarità tra conoscenze, competenze e capacità. Si acquisiscono
comportamenti (conoscenze più competenze), si mettono in discussione (capacità)
e se ne acquisiscono di nuovi”.
[3] Questo uso è indubbiamente legato alla
scuola della nozione e dell’esercitazione.
[4] Nonostante la ormai lunga storia della
psicologia cognitivista, questa continua a essere l’immagine della mente della
maggior parte dei nostri esperti di curricoli.
[5] La giustificazione della scelta del termine
“abilità” al posto dei suoi termini concorrenti (capacità, competenze,..) verrà
esplicitata più avanti.
[6] È nota la polemica di Piaget contro Bruner
circa la possibilità di insegnare direttamente gli schemi operativi in modo
avulso dall’esperienza autentica.
[7] È in forte sviluppo il “pensiero vago”, così
come lo ha acutamente definito C. A. Viano.
[8] Tanto per aumentare la confusione, cito
selvaggiamente da Internet: “nell’ambito di un testo dedicato alla formazione
professionale, Pellerey ha definito competenza «l’insieme strutturato di
conoscenze, capacità e atteggiamenti necessari per l’efficace svolgimento di un
compito». Quaglino nell’ambito di un contributo che si riferisce in particolare
alla formazione manageriale definisce invece competenza «la qualità
professionale di un individuo in termini di conoscenze, capacità e abilità, doti
professionali e personali»”.
[9] È davvero strabiliante la presunzione di
coloro che si occupano di ingegneria curricolare nel nostro paese di poter fare
a meno delle scienze, di quelle che una volta si chiamavano “scienze
dell’educazione”. Il discorso intorno ai curricoli oggi viene condotto da conventicole
che elaborano un loro linguaggio privato, gelosamente creduto e difeso come una
fede o come una ideologia politica (o come una moda).
[10] Letteralmente performance significa
“prestazione”. Nell’ambito delle teorie dell’apprendimento indica il
comportamento manifesto, e dunque osservabile e misurabile, emesso dal soggetto
in una situazione di apprendimento o di verifica dell’apprendimento.
[11] Si veda ad esempio l’analisi che fa Gardner
del “Modello di Reggio Emilia” della scuola dell’infanzia, modello che poteva
essere esteso all’intera scuola dell’obbligo attraverso il Tempo Pieno. Oggi il
Tempo Pieno è diventata una scuola marginalizzata, in via di progressiva
eliminazione, a causa degli alti costi e del veto posto ad opera dei sostenitori
dei “curricoli identitari” di natura confessionale o ideologica, dei “difensori
della famiglia” e dei difensori del libero mercato dell’istruzione.
[12] Un esempio autentico, tra i tanti che
circolano sul Web, suona così: “Una competenza eccezionale dà luogo ad una
padronanza. Un conto è veleggiare, ma altro conto è essere lo skipper di Luna
Rossa!”.
[13] Ad esempio: “Le abilità sono esecuzioni
semplici, applicazioni di istruzioni afferenti a contenuti dati (principi,
ecc.), conseguite anche in seguito ad addestramenti mirati; non sono
necessariamente coniugate con altre”.
[14] Ad esempio: “Le competenze sono insiemi
coordinati e mirati di abilità intelligentemente coniugate e concluse; sono
comportamenti esecutivi, osservabili e misurabili, prodotti dal soggetto, resi
possibili dalle conoscenze e dalle abilità acquisite. Un elevato livello di
competenza dà luogo alla padronanza. Le competenze implicano l’uso di strumenti
naturali e/o artificiali, semplici e/o complessi, in certi casi anche l’interazione
con altri soggetti, a seconda della tipologia della esecuzione”.
[15] Ecco un esempio, sempre dalla stessa fonte:
“La competenza si può definire come un comportamento mirato all’esecuzione di
un compito, comportamento che è la risultante di un insieme di conoscenze
teoriche e di abilità tecnico-pratiche. Il livello dell’esecuzione può essere
più o meno alto, più o meno semplice o complesso, a seconda della preparazione
del soggetto in merito.” Qui, in più, apprendiamo anche una novità, che la
competenza sarebbe “un comportamento”!
[16] Forse il disvelamento del mistero delle
competenze sta in questo (sempre dalla stessa fonte): L’ISFOL, in ordine
all’attuazione del DM 12 marzo 1996, concernente l’”adozione degli indicatori
minimi da riportare negli attestati di qualifica professionali rilasciati dalle
regioni e province autonome, con allegato modello di attestato”, individua tre
tipi di competenze: di base, quali, ad esempio, in informatica, lingue,
economia, sicurezza, organizzazione, diritto e legislazione, che sono
fondamentali per il cittadino lavoratore; tecnico-professionali,
costituite dai saperi e dalle tecniche che vengono ricavate dall’analisi delle
attività operative che caratterizzano i processi cui ci si riferisce; trasversali, quali, ad esempio,
diagnosi, comunicazione, decisione, problem solving, che sono essenziali al
fine di produrre un comportamento professionale in grado di trasformare un
sapere tecnico in una prestazione lavorativa efficace”. [La sottolineatura è
nostra].
[17] Oggi si ama dire che la complessità dei
problemi impone costrutti fluidi, dinamici, non definitivi, “approssimazioni
verso...”, per cui è meglio “fornire solo alcuni spunti di riflessione...” e
altre simili scempiaggini che si possono attribuire da un lato al “pensiero
vago” e dall’altro all’improntitudine di certi relatori dei corsi di formazione
che nei titoli dei loro interventi promettono, ma poi non mantengono.
[18] Secondo Twersky e Kahneman molti degli
“errori” che facciamo comunemente sono frutto di apprendimenti.
[19] Ecco una pretesa chiarificazione che
dovrebbe spiegare cosa s’intende per valutazione: “In linea di massima, si può
dire che: le conoscenze si rilevano e si accertano con quesiti mirati orali e/o
scritti; le competenze si rilevano e si accertano con sollecitazioni mirate
alla soluzione di situazioni problematiche concrete, anche con l’eventuale
utilizzazione di una strumentazione ad hoc; le capacità si rilevano e si
accertano con sollecitazioni mirate alla soluzione di situazioni problematiche
chiaramente definite in ordine alle opportunità e ai limiti (fattori,
condizioni, tempi, ambiti organizzativi, risorse umane, et al.)”.