domenica 4 luglio 2021

Si può fare. Why not?








L’articolo che viene qui riprodotto è stato pubblicato, 13 anni orsono, sul giornale online Città Futura il 6/04/2008. Di lì a poco (13/14 aprile 2008) si sarebbero tenute le elezioni politiche nelle quali si presentava, per la prima volta, il neonato Partito Democratico. Le elezioni rappresentarono una sconfitta per la coalizione di centro-sinistra, formata dal PD e da Italia dei valori. A parte il Partito socialista, che si presentò da solo, le restanti forze della sinistra si coalizzarono in una diversa formazione denominata La Sinistra l’Arcobaleno. Di essa facevano parte il Partito della Rifondazione Comunista (PRC), il Partito dei Comunisti Italiani (PdCI), la Federazione dei Verdi (FdV) e Sinistra Democratica (SD).

L’articolo appartiene al genere letterario, invero poco pregevole, delle dichiarazioni pubbliche di voto alla vigilia delle elezioni. Dunque avrebbe ben meritato di finire nel dimenticatoio. Tuttavia esso ha una ragione di odierno interesse, poiché vi è sviluppata un’analisi dettagliata della situazione politica dell’epoca, del precedente governo Prodi e, soprattutto, dell’esperimento del Partito Democratico, che muoveva allora i primi passi. Le analisi contenute sono, a nostro modesto avviso, del tutto corrette e ancora sorprendentemente attuali. Può essere utilmente letto, come integrazione e documentazione storica, insieme ai due recenti saggi dell’Autore: “PD. Il partito che non c’è” e “Le primarie tra mito e realtà”, pubblicati sempre su Città Futura. I due saggi sono riportati anche in questo blog. L’articolo non ha subito alcun cambiamento contenutistico. Ha subito solo alcune correzioni nella forma, allo scopo di migliorarne la leggibilità. (04/07/2021)

 

1. Mi capita sempre più frequentemente di discutere con vari amici intorno alla fatidica domanda: “Tu cosa voti?”. Forse sarà per via delle mie frequentazioni, ma non mi capita quasi mai di dovermi confrontare con smaniosi elettori di Storace, di Berlusconi o di Casini. Mi capita invece spesso di confrontarmi con gente che dice “Cosa vado a votare?” per dire che non ha nessuna voglia di andare a votare, oppure con  gente che “si sente costretta” a votare per il PD, oppure che “si sente costretta” a votare per l’Arcobaleno. Purtroppo capita spesso che queste conversazioni, pur ricche e interessanti, non abbiano mai una conclusione certa. Dopo un po’ finisce che si cambia discorso. L’impressione è che nessuno voglia davvero andare al fondo della questione. Mi rimane sempre l’amaro in bocca di un confronto iniziato e non portato a termine. Perché oggi, a sinistra, sembrano tutti zombie: incavolati, volubili, ultrasicuri, pieni di delusioni, pieni di rancori, profeti, nervosi, frustrati, e così via. E le dinamiche emotive finiscono quasi sempre per avere il sopravvento. Così ho pensato di raccogliere una silloge delle mie modeste argomentazioni sulla questione “Tu cosa voti?”, anche per avere l’occasione di esporre i miei pensieri con ordine, in modo chiaro e distinto, in modo da riuscire eventualmente a persuadere qualcuno, oppure in modo da permettere ad altri, magari più scafati, di argomentare meglio contro le mie posizioni.

2. Mi è stato d’aiuto il contributo di Patrizia Nosengo – anche se non lo condivido per diversi aspetti – se non altro per la sincerità delle sue posizioni e per la capacità che mostra di portarle fino al limite estremo (giungendo talvolta a conseguenze forse non del tutto volute). Mi pare che Patrizia (sintetizzo indegnamente) ammetta che Veltroni ha avuto successo, anche se poi lo trova irritante e avvilente. Il successo di Veltroni è spiegato in base a tre fattori: che il partito di Veltroni sia espressione della fine della lotta di classe, della ormai avvenuta massificazione universale e della onnipresenza della piccola borghesia; che sia effetto di una mediazione necessaria tra laici e cattolici in un paese come il nostro nel quale la separazione della Chiesa dallo Stato deve ancora maturare e che, infine, sia un effetto tangibile del generale imbarbarimento culturale, della rifascistizzazione delle classi dirigenti e di una tendenza alla semplificazione di qualsiasi contenuto culturale. In una parola, come ha recentemente argomentato Raffaele Simone, Veltroni esiste perchè il mondo sta andando a destra. Patrizia non dice però chiaramente se Veltroni deve essere votato o no. Personalmente diffido delle filosofie della storia[1] (spero non sia già effetto dell’imbarbarimento testé denunciato) e, siccome frustra fit per plura quod potest fieri per pauciora, mi pare importante, prima di procedere a qualsiasi conclusione su “Tu cosa voti?”, vedere se e fino a qual punto si può elaborare un’analisi condivisa su quel che è accaduto in questi ultimi mesi o, se si preferisce, in questi ultimi due anni.

3. La prima cosa da definire è se il governo Prodi abbia fallito o no. Se ha fallito,[2] occorrerebbe spiegare come questo fallimento sia stato possibile. Veltroni ha il merito di avere fornito una chiara spiegazione in proposito, semplice e inconfutabile. Quell’insieme di forze che avevano costituito la coalizione di Prodi ha mostrato di essere incapace di governare, non tanto per la durezza dell’opposizione, non tanto per catastrofi o eventi straordinari (l’economia non è andata poi così male nel periodo considerato), non tanto per il margine risicato al Senato (che pure ha pesato), quanto per una questione intrinsecamente politica. Prodi ha fallito perché politicamente la sua coalizione non ha voluto  mettere in pratica alcune semplici regole che conoscono tutti, anche i bambini.

4. Il primo imperativo di qualsiasi esecutivo di coalizione (soprattutto se ha una maggioranza risicatissima), anziché  suicidarsi cercando di realizzare un programma impossibile, è quello di realizzare bene quello che è possibile. Cioè quello che è compatibile con tutti i componenti della coalizione, secondo la nota “legge delle doghe”: il livello dell’acqua nel mastello si ferma all’altezza della doga più corta. E poi presentarsi agli elettori con qualche successo all’attivo, in modo da sperare di essere rieletti e di poter così continuare a realizzare quello che eventualmente non fosse stato realizzato. Questa non è la teoria del tirare a campare, è l’unico principio che assicura il funzionamento di una coalizione: se questo principio non andava bene, allora il governo Prodi non si doveva fare.

5. In secondo luogo, quando si fa una coalizione, bisognerebbe essere in grado di distinguere accuratamente tra il governo di coalizione stesso e le posizioni dei singoli partiti della coalizione - che non possono mai coincidere con la coalizione - che sono proprio un’altra cosa. I singoli partiti possono avere le loro opinioni e comunicarle al pubblico quando e come credono, ma quelli che stanno nel governo devono agire come un corpo unico. Devono prima concordare quello che è fattibile, secondo la legge delle doghe citata in precedenza, stando zitti, e poi devono fare. Un governo di coalizione non è un condominio dove ciascuno occupa un pezzo e poi lo usa come palcoscenico per rilanciare, tutte le sere, le proprie rivendicazioni, i propri slogan, rivolgendosi in modo esclusivo al proprio immaginario elettorato. Quella che doveva essere una politica (di coalizione) è risultata una frattaglia di veti, insulti e rivendicazioni. La casa comune della coalizione non è mai nata. Prodi non ha mai “governato” effettivamente nulla. Gli italiani (quelli non avvezzi ai riti della politica) hanno avuto la netta impressione di una nave alla deriva. Due anni di propaganda buona per la Destra.

6. Se siamo d’accordo su questi punti, per cercare di capire com’è stato possibile un simile sfascio, dovremmo esaminare le culture politiche dei vari suddetti partiti. E le culture politiche hanno una storia, non sono epifanie dell’Essere. È abbastanza chiaro che la spinta alla lottizzazione delle poltrone di governo (e all’uso del governo come cassa di risonanza politica) è principalmente dovuto al fatto che i partiti italiani, soprattutto a sinistra, agiscono ancora come i vecchi partiti di massa ideologici e dottrinari. Alla forte identità ideologica di ciascun gruppetto corrisponde immediatamente la pratica lottizzatoria: tutti devono essere rappresentati, tutti devono dire la loro, tutti devono distinguersi sulla base di sottigliezze che solo pochi sono in grado di capire. È indiscutibile poi che questa situazione sia stata materialmente resa possibile – sarà una questione terra terra – dal “porcellum”, dalla legge elettorale in vigore. La miriade di sottosegretari del governo Prodi è stata una conseguenza, oltre che di certe culture politiche, del porcellum.

7. Si può convenire che – con la situazione degenerata che si era determinata - se non provvedeva Mastella a far cadere il governo avrebbe provveduto qualcun altro. Quando Prodi è caduto, molti elettori che lo avevano sostenuto hanno tirato un sospiro di sollievo (non se ne poteva più!). Ma la sconfitta di Prodi ha segnato, nel contempo, la fine politica dei DS e della Margherita (entrambi già avventurosamente pilotati verso il PD), ma anche e soprattutto, il tracollo politico di tutte le piccole formazioni porcellum - dipendenti. Ritengo che non sia stata la Destra a far cadere Prodi. La coalizione è implosa per le sue dinamiche interne, per virtù propria. Mi ha ricordato – fatte le debite proporzioni - l’implosione dell’Unione Sovietica e – sempre fatte le debite proporzioni – l’implosione della precedente Amministrazione comunale di Alessandria. Alla caduta di Prodi si ricorderà che i sondaggi (con tutti i loro limiti) davano uno stacco insuperabile tra il centro destra e il centro sinistra (qui dò sempre per scontato il  presupposto, che forse non tutti sottoscriverebbero, che lo scopo di una formazione politica debba essere quello di vincere le elezioni). Se tutto fosse rimasto immutato, non saremmo qui a discutere. Perdere per perdere, ciascuno avrebbe potuto anche non andare a votare o avrebbe potuto dare il voto alle proprie perverse formazioni preferite.

8. Bisogna dare atto che Veltroni è stato abile (assai più abile della media dei politici cui eravamo abituati). Veltroni aveva dietro di sé il nulla. Un partito in via di scioglimento, litigioso come non mai; un partito “nuovo”, anche se molto vago, anch’esso litigioso, privo di sedi, di soldi, di Statuti, di regolamenti, di linea politica e di quant’altro serve a un partito per dirsi tale. Veltroni non poteva ovviamente costruire un partito nuovo in pochi mesi. Veltroni si è così limitato a costruire l’immagine di un partito, il partito virtuale, che proprio perché virtuale, non ancora sovraccaricato dalla burocrazia e dall’ideologia, ha potuto diventare in pochi giorni il partito dei desideri degli elettori di centro sinistra. Se mi permettete la battuta, si tratta di un partito che non c’è (che però, in poco tempo, è riuscito a far dimenticare Prodi, e questo è stato un successo, magari illusionistico, ma un successo). Il PD ha successo perché, in quanto partito virtuale, non assomiglia a nulla di tangibile e concreto (se andate a veder cosa c’è davvero dietro, troverete tutti i vecchi catafalchi della vecchia politica - non tutti i De Mita sono stati fatti fuori – ma in questa fase sono stati neutralizzati dalla nuova immagine di cui è depositario il leader – vedremo finché potrà durare e vedremo poi gli sviluppi…). Ha successo perché abita nel mondo della comunicazione (nel mondo delle idee, se preferite) e perché viene impersonato immediatamente dalle parole del suo leader (il PD è impensabile senza Veltroni).[3]

9. Questo nuovo tipo di partito pretende di definire, confrontandosi direttamente con i propri elettori attraverso manifestazioni di piazza, nello stesso tempo il candidato alla guida del governo e il programma (che coincide con la linea politica), certo, una linea semplice, chiara, fattibile, capace di durare al più una legislatura.[4] La linea politica vale fino alla prova elettorale. Poi se si vince, si governa, se si perde, si cerca un altro candidato e si cercherà di costruirgli intorno un altro programma, un’altra linea politica. Una conseguenza è che in questo modo si riduce al minimo la burocrazia di partito (congressi, correnti, mozioni, …). Un partito di questo tipo era comunque l’unico partito che si poteva fare in un paio di mesi. O questo, o niente.

10. Tutto ciò fa sì che il PD non possa più essere un “partito di massa” ideologico (tratto sicuramente rimpianto dai vecchi militanti old style che non hanno ancora capito in cosa si sono imbarcati), ma un autentico partito di opinione, certo, secondo il modello americano (qualcuno usa ancora “americano” come fosse un insulto, dimenticando che i primi profeti del partito immagine, quelli che hanno smantellato il vecchio PCI, li abbiamo prodotti in proprio, sono nostri DOC). L’ipotesi di trapiantare nella sinistra italiana, sul corpo esangue dei due vecchi partiti di massa, un vero partito di opinione (un partito che non c’è) non è un’ipotesi peregrina (non è neppure un effetto della massificazione o dell’“ospite inquietante” che si aggira per la terra del tramonto): è un esperimento, certamente, ma andrebbe guardato con la massima attenzione.

11. È chiaro che questo partito non può avere, non vuole avere, non deve avere nessun riferimento sociale predefinito: non si rivolge particolarmente ai lavoratori, alla classe operaia, ecc… . È un tipico catch all party. È inutile accusarlo di non essere un partito della classe operaia (secondo la massima per cui “nello stesso partito non ci possono stare operai e imprenditori”), oppure di essere un partito della piccola borghesia.[5] Bisognerebbe poi anche ricordare, a tutti quelli che non possono stare senza i riferimenti di classe, che le classi non esistono più. Non esiste più nemmeno la borghesia, non esiste più la classe operaia, non esiste più neanche la piccola borghesia. La stratificazione della nostra società attuale è una cosa diversa, non è inquadrabile nelle vecchie categorie della classe e della coscienza di classe.

12. È un dato di fatto che l’operazione – a grandi linee - ha funzionato, fino a scompigliare pesantemente – questo è stato riconosciuto da tutti – il sistema politico nazionale. Per la prima volta il nuovo PD riusciva a dettare l’agenda politica alla Destra. E riusciva a risalire miracolosamente nei sondaggi, fino a rischiare – vedremo come andrà – il pareggio. Evidentemente l’elettorato aveva bisogno di quell’immagine (solo un sociologismo un po’ retrò tenta sempre di scovare una struttura dietro a una sovrastruttura!). I cittadini (a cui il PD si rivolge) con la loro maturità media (non bisogna avere la laurea per votare) hanno risposto positivamente. Questo basta. È tipico di certi militanti radical chic, o di certi desperate movements, sentirsi sempre più furbi delle masse, osannare le masse solo quando seguono le loro idee, disprezzare le masse quando “le masse” fanno di testa loro. In politica, un voto vale l’altro. Questo lo ha capito anche la  Destra. Altrimenti possiamo iscriverci tutti al partito di De Maistre.

13. Se il nuovo PD è riuscito a imparare qualcosa dall’esperienza del governo Prodi (o dall’esperienza di questi ultimi 15 anni, come suggerisce lo stesso Veltroni), e ha per lo meno fatto una ipotesi di cambiamento e l’ha messa in pratica, nell’area dell’altra sinistra non è successo nulla (la loro diagnosi del fallimento di Prodi è stata sconfortante: il governo andava bene, noi siamo stati fedeli, è tutta colpa di Mastella). L’unico cambiamento effettivo (l’Arcobaleno) è stato un chiaro effetto del porcellum: hanno dovuto mettersi sotto uno stesso simbolo elettorale per non rischiare di sparire del tutto. Non riesco a intravedere in queste formazioni sparse nessuna reale volontà di cambiamento, di costruzione di una nuova cultura politica che sia capace di diventare maggioranza di governo e di essere alternativa al progetto di Veltroni. La causa di ciò è che queste formazioni “vengono da lontano” e ritengono che davvero non serva una nuova cultura politica, perché ciascuno la sua piccola verità la possiede già e la custodisce con ossessione maniacale. Va anche detto che, se le culture politiche di queste schegge sono culture forti ma cristallizzate, è anche vero che le rendite individuali di posizione che derivano dalla frammentazione sono assai più potenti (quante poltrone garantite nei consigli comunali, negli enti, nei sindacati,…) e contrastano decisamente con la loro supponenza etica.

14. Tuttavia queste forze, questi partiti che si dicono orgogliosamente “di parte”, rappresentano una possibile opzione elettorale, del tutto legittima. Sarebbe allora interessante tentare di capire cosa hanno da offrire. Alcuni partitini sono i tipici single issue (i Verdi, ad esempio), altri sono caricature dei vecchi partiti di massa stalinisti (Diliberto), oppure movimentisti (RC, Caruso). Non dimentichiamo poi, al di fuori dell’Arcobaleno gli ultimi infelici discendenti di blasoni sbiaditi (Boselli), cui si sarebbe dovuto aggiungere i Radicali e Di Pietro, se non fosse intervenuto il patto con il PD (questa è l’unica mossa che mi è piaciuta poco, ma evidentemente anche nel partito immagine, un po’ di realismo non guasta).

È chiaro le forze dell’Arcobaleno non hanno alcuna compattezza sia nei termini del modello di partito, sia nei termini della loro ideologia. Perciò litigano su quasi tutto. Neanche loro hanno riferimento sociale preciso, un riferimento di classe (s’invocano di volta in volta, i precari, i no global, gli operai della Tyssen, gli immigrati, ma si tratta spesso di forze anche in conflitto d’interessi tra di loro, si tratta di forze che neanche sul vecchio movimento operaio sono d’accordo). Alcuni movimenti poi (ad esempio quello contro la base di Vicenza e quello contro l’alta velocità) sono fondamentalmente di tipo reattivo, difendono interessi circoscritti, spesso di tipo locale, per quanto talvolta legittimi (quando avremo il coraggio di chiamarli lobby?). Se questi riferimenti sociali dovessero essere la “classe generale”, se da questi riferimenti dovesse derivare una indicazione per il governo del paese, staremmo freschi. A partire da questo “essere di parte” comunque non sarà mai possibile costruire un programma di governo, perché per governare bisogna avere la maggioranza (chi vorrebbe governare senza avere la maggioranza lo dovrebbe dire chiaro, prima, così sapremmo regolarci).

15. All’inconsistenza sociale dei riferimenti dell’Arcobaleno va aggiunta una considerazione riguardante la domanda politica cui l’Arcobaleno pretenderebbe di dare una risposta. Non credo che il mondo stia andando a Destra. Ma ormai anche la gente vocazionalmente “di sinistra” è stanca dei valori, delle testimonianze, stanca delle promesse del radioso futuro che non arriva mai. Si ricordi la marcia dei quarantamila dei primi anni Ottanta.  Si ricordi che la recente riforma delle pensioni (buona o cattiva che sia) è stata votata da milioni di lavoratori. Sono tutti dei coglioni?[6] O è tutta colpa dei brogli nella consultazione (che pure, ammetto, ci sono anche stati)? Insegnava Max Weber che non si può vivere continuamente allo statu nascenti, che l’effervescenza della creazione del valore e dei movimenti è destinata prima o poi a lasciare il posto al principio di realtà. I leader che testardamente non si adeguano al principio di  realtà possono continuare nel loro sogno intransigente, ma diventano ben presto ritualisti, dogmatici, schematici, poco intelligenti, e progressivamente vengono abbandonati. Talvolta, prima di uscire dalla scena, fanno moltissimi danni a se stessi e agli altri perché rifiutano di entrare nell’orizzonte della responsabilità.

16. È chiaro che la scelta di Veltroni ha confinato l’Arcobaleno nell’isolamento e l’ha messo di fronte alle proprie responsabilità politiche. A questo punto, l’unica cosa furba che avrebbero potuto fare gli Arcobaleni (per un attimo ho sperato, ho creduto che l’avrebbero fatta - e confesso che personalmente avrei anche potuto aderire con un certo entusiasmo a un progetto del genere) sarebbe stato di costituire un “partito socialista” di tipo nuovo (zapaterista, se si vuole) ispirato al partito socialista europeo, con un programma autenticamente riformista in senso socialdemocratico.[7] In questo modo avrebbero dato la prova di aver capito la condotta demenziale da loro tenuta nel governo Prodi, di aver capito i limiti profondi delle vecchie culture politiche e dei vecchi schemi organizzativi; avrebbero oltre tutto aperto la possibilità di una alleanza di governo, su basi programmatiche da socialismo europeo, con il PD. Certo, ciò avrebbe comportato fare i conti con Boselli e la perdita di qualche Caruso, di qualche trotzkista… .  Purtroppo per i Diliberti e i Bertinotti la parola “socialdemocrazia” è una bestemmia. Ironia della sorte, ora per difendere le loro vecchie culture politiche sono ridotti a sperare nel “porcellum” per continuare ad avere qualche seggio.

17. Veniamo ora a una riflessione conclusiva sul “Tu cosa voti?” di ordine sia metodologico sia contenutistico. Quando votiamo come cittadini qualunque, possiamo adottare diverse logiche, diversi principi etici. Le strade sono principalmente due. Possiamo adottare un’etica dei valori, e allora pretenderemo che il partito per cui votiamo ci assomigli in tutto e per tutto. Questo è il voto identitario, il voto grazie al quale produciamo un effetto di tipo simbolico su noi stessi e sul nostro entourage. Anche scegliere un comportamento espressivo, fare un gesto, magari anche nichilistico, lasciare un segno (annullare, scrivere slogan, andare al mare …), ricade sotto l’etichetta dell’etica dei valori, della ricerca identitaria, dove il valore diventa appunto quello di fare un segno, mandare un messaggio, magari anche un messaggio di autodistruzione. Questo tipo di comportamento si espone – com’è stato ampiamente dimostrato – alla delusione perpetua, perché l’ansia della realizzazione del valore porterà al perfezionismo, al profetismo, al conflitto permanente, alla continua suddivisione dei puri dagli impuri, alla frammentazione politica, alle condanne dei traditori. E si espone così anche alla più totale inefficacia di ordine pratico, all’impossibilità di concretizzare un qualsiasi programma politico che funzioni, che possa cioè sperare di fare coalizione e di diventare maggioranza (del resto chi ragiona così, rifiuta la ratio calcolatrice, la ratio dell’utilità, la ratio della tecnica – anche se spesso l’etica dei valori si presta poi a coprire rendite di posizione assai poco nobili).

18. Oppure possiamo adottare un’etica della responsabilità. Possiamo cercare di depotenziare il valore identitario del nostro gesto elettorale, possiamo mettere da parte le velleità espressive e possiamo calcolare ragionevolmente quali potranno essere le conseguenze della nostra azione e quindi preferire quell’azione che potrà portare, a quelli come noi, una maggiore utilità. Certo, dovremmo ancora metterci d’accordo su cosa sia utile o inutile.[8] Una regola buona potrebbe essere quella di tenere lontani dalla valutazione di utilità i grandi valori (altrimenti siamo da capo) e concentrarsi sulle conseguenze pratiche del nostro voto. È meglio un governo che combatta l’evasione fiscale, o un governo che la tolleri? È meglio un governo che vuole “prendere a calci” gli immigrati o un governo che bene o male sarà più sensibile alla loro integrazione? E poi bisogna stare attenti che la valutazione di utilità è complessiva: possiamo anche accettare, tra i candidati, un ex esponente della Federmeccanica pur di non avere un Presidente del consiglio dentro fino al collo nell’economia illegale, oppure possiamo anche accettare dei candidati che portano il cilicio pur di non avere un Presidente che sia un ateo devoto, ecc… . Occorre dunque guardarsi dall’atteggiamento pericoloso di mettere – a piacimento, a seconda delle proprie personali perversioni etiche - la fatidica soglia: “Ah, questo per me è troppo, è intollerabile!”. Non ci sono mai singole cose che siano tollerabili o intollerabili in sé. È sempre il caso di vedere con che cosa le si raffronta. Questo orientamento significa che dobbiamo imparare ad accontentarci del meno peggio, non perché ormai sia compiuto il destino dell’Occidente, o perché nichilisticamente vogliamo abbracciare il mostro della razionalità strumentale, ma perché la perfezione non è mai stata di questo mondo e perché la Repubblica perfetta sta giustamente solo nel mondo delle idee (e così pure la giustizia perfetta, l’uguaglianza perfetta, la pace perfetta, la felicità perfetta, come pure la classe generale che dovrebbe emanciparci dalle deiezioni della particolarità).

19. Ammetto che essere responsabili, a sinistra, non è mai stato tanto di moda. La “fine delle grandi narrazioni” (diamo per scontato per un attimo che i postmoderni abbiano ragione – in realtà continuo a vedere in giro un sacco di gente impegnatissima nel fare un mucchio di grandi narrazioni, postmoderni compresi) non ci deve coprire di mestizia, è l’occasione per liberarci di alcune delle nostre malattie infantili e per provare a diventare un po’ più responsabili. È chiaro che se scegliamo il voto identitario possiamo ignorare ogni appello alla responsabilità, non curarci delle conseguenze e seguire la nostra “coscienza”: dummodo fiat iustitia, pereat mundus! Alimenteremo uno dei tanti partitini, oppure non andremo a votare, o scriveremo qualche insulto sulla scheda. Se faremo invece una scelta di responsabilità, mi pare che la scelta non possa essere altra oggi che quella di votare per il PD. Ma si ribadisce: “Veltroni ormai è di centro. Non posso tradire me stesso, voglio un partito più a sinistra”. Il problema è che un partito più a sinistra che possa vincere queste elezioni (e salvarci da cinque anni di Berlusconi), ora come ora, non c’è. In questo paese non possiamo più permetterci certi lussi. Abbiamo bisogno di un paese che non sperperi soldi, che paghi i debiti, che non perda sistematicamente tutte le occasioni di sviluppo economico, che tolga la spazzatura dalle strade, che sbatta in galera i criminali e renda più sicure le nostre strade. Che faccia pagare le tasse agli evasori. Che faccia una legge elettorale decente. Tutto questo non è, per definizione, di destra, di centro o di sinistra. Non interessa sapere se il PD è di centro o di centro sinistra, se il PDL è di destra o di centro. Se nel programma ci sono obiettivi che vanno bene ai borghesi, a quelli grandi o a quelli piccoli. Si tratta solo di chiedersi se tutte le cose che ci interessano le farà meglio Veltroni o le farà meglio Berlusconi.[9] Su questo punto non ho dubbi. E perciò non sono da disprezzare quelle persone comuni (tra cui mi colloco) che potrebbero scegliere Veltroni per i bassi motivi di cui sopra. Certo, qui scatta l’orgoglio degli aristocratici di sinistra, di quelli che devono sempre sentirsi più avanti delle amate, e nel contempo disprezzate, masse. Nei loro confronti questa volta mi sento davvero di dire che “con questi non vinceremo mai”.

Giuseppe Rinaldi (6/04/2008 – 03/07/2021 rev.)


NOTE

[1] Tipico delle filosofie della storia è che alcuni fatti sono invocati per sostenere una certa tesi (ad es.: “Tutto il mondo sta andando a destra”); a sua volta la tesi, una volta data per comprovata, è invocata per spiegare quegli stessi fatti. Si tratta di ragionamenti, ahimè, tipicamente circolari.

[2] Tralascio quelli che sono rimasti contenti del governo Prodi. So che qualcuno c’è. Confesso però che ho difficoltà a capire questo tipo di valutazione. Ho sentito anche dei difensori del governo Prodi che sono però fortemente anti veltroniani. Non ci arrivo.

[3] Anche se ho usato lo slogan di Veltroni come titolo di questo articolo, mi permetto di sottolinearne la pessima traduzione dall’americano “yes, we can”. Com’è noto, can esprime, certo, la possibilità, ma esprime anche abilità, conoscenza, capacità. Tradurre “yes, we can” con “si può fare” è una burinata romanesca, un po’ furbesca, un’espressione prudenziale da parte di chi non sa ancora bene come andrà a finire, da chi sembra pieno di dubbi ed esitazioni. Bisognava inventarsi qualcosa come “noi siamo in grado” di vincere, “noi abbiamo il potere di” vincere, ovvero “abbiamo tutto quel che ci serve” per vincere. Questo sicuramente è il senso con cui viene usato da Obama. Ma la sottolineatura di questo senso, dopo il governo Prodi, deve essere sembrata un po’ esagerata.

[4] È ora di finirla con partiti le cui linee politiche sono durate per generazioni e generazioni, promettendo sempre senza realizzare nulla.

[5] Non condivido assolutamente la teoria della massificazione, della “piccola borghesia che avanza”, del fatto che “il mondo sta andando a destra” di Raffaele Simone (e, forse, di Patrizia Nosengo). Mi spiace. È una vecchia storia. Prima decidiamo che ci va bene il principio “una testa un voto”, poi però cominciamo a sostenere che c’è qualcuno che è più scemo di qualcun altro, qualcuno che si fa condizionare dalla TV, qualcuno che vede troppa pubblicità, qualcuno che non capisce quali siano davvero i suoi veri interessi, ecc… . Dovremmo allora esser conseguenti: proponiamo di dare il diritto di voto in base al titolo di studio, al QI, oppure a un qualsiasi altro criterio che selezioni i veri cittadini dagli altri. Altrimenti dobbiamo rispettare tutti i cittadini elettori come dei soggetti che - in base alla loro razionalità limitata - cercano di fare la scelta meno peggiore (io mi colloco tra questi).

[6] Il linguaggio è dell’On. Berlusconi.

[7] Qui uso “socialdemocratico” in senso buono, nel senso della grande tradizione della socialdemocrazia europea.

[8] Non sto discutendo, come si sta facendo, del “voto utile”, bensì del voto responsabile.

[9] La popolare interpretazione secondo cui i programmi dei due sarebbero uguali mi pare solo demenziale. Come pure la tesi che ormai sull’attività di governo ci siano vincoli tali che, comunque, chiunque sia al governo farà, per necessità, esattamente le stesse cose di qualsiasi altro.