L’articolo che viene qui riprodotto è stato pubblicato, 13
anni orsono, sul giornale online Città Futura il 6/04/2008. Di lì a poco (13/14
aprile 2008) si sarebbero tenute le elezioni politiche nelle quali si presentava,
per la prima volta, il neonato Partito Democratico. Le elezioni rappresentarono
una sconfitta per la coalizione di centro-sinistra, formata dal PD e da Italia
dei valori. A parte il Partito socialista, che si presentò da solo, le restanti
forze della sinistra si coalizzarono in una diversa formazione denominata La
Sinistra l’Arcobaleno. Di essa facevano parte il Partito della Rifondazione
Comunista (PRC), il Partito dei Comunisti Italiani (PdCI), la Federazione dei
Verdi (FdV) e Sinistra Democratica (SD).
L’articolo appartiene al genere letterario, invero poco
pregevole, delle dichiarazioni pubbliche di voto alla vigilia delle elezioni. Dunque
avrebbe ben meritato di finire nel dimenticatoio. Tuttavia esso ha una ragione
di odierno interesse, poiché vi è sviluppata un’analisi dettagliata della
situazione politica dell’epoca, del precedente governo Prodi e, soprattutto,
dell’esperimento del Partito Democratico, che muoveva allora i primi passi. Le
analisi contenute sono, a nostro modesto avviso, del tutto corrette e ancora sorprendentemente
attuali. Può essere utilmente letto, come integrazione e documentazione
storica, insieme ai due recenti saggi dell’Autore: “PD. Il partito che non c’è”
e “Le primarie tra mito e realtà”, pubblicati sempre su Città Futura. I due saggi sono riportati anche in questo blog. L’articolo
non ha subito alcun cambiamento contenutistico. Ha subito solo alcune
correzioni nella forma, allo scopo di migliorarne la leggibilità. (04/07/2021)
1. Mi capita sempre più frequentemente di discutere con vari amici
intorno alla fatidica domanda: “Tu cosa voti?”. Forse sarà per via delle mie
frequentazioni, ma non mi capita quasi mai di dovermi confrontare con smaniosi
elettori di Storace, di Berlusconi o di Casini. Mi capita invece spesso di confrontarmi
con gente che dice “Cosa vado a votare?” per dire che non ha nessuna voglia di
andare a votare, oppure con gente che
“si sente costretta” a votare per il PD, oppure che “si sente costretta” a
votare per l’Arcobaleno. Purtroppo capita spesso che queste conversazioni, pur
ricche e interessanti, non abbiano mai una conclusione certa. Dopo un po’
finisce che si cambia discorso. L’impressione è che nessuno voglia davvero
andare al fondo della questione. Mi rimane sempre l’amaro in bocca di un
confronto iniziato e non portato a termine. Perché oggi, a sinistra, sembrano
tutti zombie: incavolati, volubili,
ultrasicuri, pieni di delusioni, pieni di rancori, profeti, nervosi, frustrati,
e così via. E le dinamiche emotive finiscono quasi sempre per avere il
sopravvento. Così ho pensato di raccogliere una silloge delle mie modeste
argomentazioni sulla questione “Tu cosa voti?”, anche per avere l’occasione di
esporre i miei pensieri con ordine, in modo chiaro e distinto, in modo da
riuscire eventualmente a persuadere qualcuno, oppure in modo da permettere ad
altri, magari più scafati, di argomentare meglio contro le mie posizioni.
2. Mi è stato d’aiuto il contributo di Patrizia Nosengo –
anche se non lo condivido per diversi aspetti – se non altro per la sincerità delle
sue posizioni e per la capacità che mostra di portarle fino al limite estremo (giungendo
talvolta a conseguenze forse non del tutto volute). Mi pare che Patrizia (sintetizzo
indegnamente) ammetta che Veltroni ha avuto successo, anche se poi lo trova irritante e avvilente. Il
successo di Veltroni è spiegato in base a tre fattori: che il partito di
Veltroni sia espressione della fine della lotta di classe, della ormai avvenuta
massificazione universale e della onnipresenza della piccola borghesia; che sia
effetto di una mediazione necessaria tra laici e cattolici in un paese come il
nostro nel quale la separazione della Chiesa dallo Stato deve ancora maturare e
che, infine, sia un effetto tangibile del generale imbarbarimento culturale,
della rifascistizzazione delle classi dirigenti e di una tendenza alla
semplificazione di qualsiasi contenuto culturale. In una parola, come ha
recentemente argomentato Raffaele Simone, Veltroni esiste perchè il mondo sta andando a destra. Patrizia
non dice però chiaramente se Veltroni deve essere votato o no. Personalmente
diffido delle filosofie della storia[1] (spero non sia già effetto
dell’imbarbarimento testé denunciato) e, siccome frustra fit per plura quod potest fieri per pauciora, mi pare
importante, prima di procedere a qualsiasi conclusione su “Tu cosa voti?”,
vedere se e fino a qual punto si può elaborare un’analisi condivisa su quel che
è accaduto in questi ultimi mesi o, se si preferisce, in questi ultimi due
anni.
3. La prima cosa da definire è se il governo Prodi abbia
fallito o no. Se ha fallito,[2] occorrerebbe spiegare come questo fallimento
sia stato possibile. Veltroni ha il merito di avere fornito una chiara
spiegazione in proposito, semplice e inconfutabile. Quell’insieme di forze che
avevano costituito la coalizione di Prodi ha mostrato di essere incapace di governare, non tanto per la
durezza dell’opposizione, non tanto per catastrofi o eventi straordinari
(l’economia non è andata poi così male nel periodo considerato), non tanto per
il margine risicato al Senato (che pure ha pesato), quanto per una questione
intrinsecamente politica. Prodi ha
fallito perché politicamente la sua
coalizione non ha voluto mettere in
pratica alcune semplici regole che conoscono tutti, anche i bambini.
4. Il primo imperativo di qualsiasi esecutivo di coalizione
(soprattutto se ha una maggioranza risicatissima), anziché suicidarsi cercando di realizzare un
programma impossibile, è quello di realizzare
bene quello che è possibile. Cioè quello che è compatibile con tutti i componenti della coalizione,
secondo la nota “legge delle doghe”: il livello dell’acqua nel mastello si
ferma all’altezza della doga più corta. E poi presentarsi agli elettori con qualche successo all’attivo, in modo
da sperare di essere rieletti e di
poter così continuare a realizzare quello che eventualmente non fosse stato
realizzato. Questa non è la teoria del tirare a campare, è l’unico principio
che assicura il funzionamento di una coalizione: se questo principio non andava
bene, allora il governo Prodi non si
doveva fare.
5. In secondo luogo, quando si fa una coalizione, bisognerebbe
essere in grado di distinguere accuratamente tra il governo di coalizione stesso e le posizioni dei singoli partiti della coalizione - che non possono
mai coincidere con la coalizione - che sono proprio un’altra cosa. I singoli
partiti possono avere le loro opinioni e comunicarle al pubblico quando e come
credono, ma quelli che stanno nel governo devono agire come un corpo unico. Devono prima concordare quello che è fattibile, secondo la legge delle
doghe citata in precedenza, stando zitti,
e poi devono fare. Un governo di
coalizione non è un condominio dove ciascuno occupa un pezzo e poi lo usa come
palcoscenico per rilanciare, tutte le sere, le proprie rivendicazioni, i propri
slogan, rivolgendosi in modo esclusivo al proprio immaginario elettorato.
Quella che doveva essere una politica
(di coalizione) è risultata una
frattaglia di veti, insulti e rivendicazioni. La casa comune della
coalizione non è mai nata. Prodi non ha mai “governato” effettivamente nulla.
Gli italiani (quelli non avvezzi ai riti della politica) hanno avuto la netta
impressione di una nave alla deriva.
Due anni di propaganda buona per la Destra.
6. Se siamo d’accordo su questi punti, per cercare di capire com’è
stato possibile un simile sfascio, dovremmo esaminare le culture politiche dei vari suddetti partiti. E le culture politiche
hanno una storia, non sono epifanie dell’Essere. È abbastanza chiaro che la
spinta alla lottizzazione delle poltrone di governo (e all’uso del governo come
cassa di risonanza politica) è principalmente dovuto al fatto che i partiti
italiani, soprattutto a sinistra, agiscono ancora come i vecchi partiti di
massa ideologici e dottrinari. Alla forte
identità ideologica di ciascun gruppetto corrisponde immediatamente la pratica
lottizzatoria: tutti devono essere rappresentati, tutti devono dire la loro,
tutti devono distinguersi sulla base di sottigliezze che solo pochi sono in
grado di capire. È indiscutibile poi che questa situazione sia stata
materialmente resa possibile – sarà una questione terra terra – dal
“porcellum”, dalla legge elettorale in vigore. La miriade di sottosegretari del
governo Prodi è stata una conseguenza, oltre che di certe culture politiche,
del porcellum.
7. Si può convenire che – con la situazione degenerata che si
era determinata - se non provvedeva Mastella a far cadere il governo avrebbe
provveduto qualcun altro. Quando Prodi è caduto, molti elettori che lo avevano
sostenuto hanno tirato un sospiro di sollievo (non se ne poteva più!). Ma la
sconfitta di Prodi ha segnato, nel contempo, la fine politica dei DS e della
Margherita (entrambi già avventurosamente pilotati verso il PD), ma anche e
soprattutto, il tracollo politico di
tutte le piccole formazioni porcellum -
dipendenti. Ritengo che non sia stata la Destra a far cadere Prodi. La
coalizione è implosa per le sue dinamiche interne, per virtù propria. Mi ha
ricordato – fatte le debite proporzioni - l’implosione dell’Unione Sovietica e
– sempre fatte le debite proporzioni – l’implosione della precedente Amministrazione
comunale di Alessandria. Alla caduta di Prodi si ricorderà che i sondaggi (con
tutti i loro limiti) davano uno stacco insuperabile tra il centro destra e il
centro sinistra (qui dò sempre per scontato il
presupposto, che forse non tutti sottoscriverebbero, che lo scopo di una formazione politica debba
essere quello di vincere le elezioni). Se tutto fosse rimasto immutato, non
saremmo qui a discutere. Perdere per perdere, ciascuno avrebbe potuto anche non
andare a votare o avrebbe potuto dare il voto alle proprie perverse formazioni
preferite.
8. Bisogna dare atto che Veltroni è stato abile (assai più
abile della media dei politici cui eravamo abituati). Veltroni aveva dietro di
sé il nulla. Un partito in via di scioglimento, litigioso come non mai; un
partito “nuovo”, anche se molto vago, anch’esso litigioso, privo di sedi, di
soldi, di Statuti, di regolamenti, di linea politica e di quant’altro serve a
un partito per dirsi tale. Veltroni non poteva ovviamente costruire un partito
nuovo in pochi mesi. Veltroni si è così limitato a costruire l’immagine di un partito, il partito virtuale, che proprio perché
virtuale, non ancora sovraccaricato dalla burocrazia e dall’ideologia, ha
potuto diventare in pochi giorni il partito dei desideri degli elettori di
centro sinistra. Se mi permettete la battuta, si tratta di un partito che non c’è (che però, in poco
tempo, è riuscito a far dimenticare Prodi, e questo è stato un successo, magari
illusionistico, ma un successo). Il PD ha successo perché, in quanto partito
virtuale, non assomiglia a nulla di tangibile e concreto (se andate a veder
cosa c’è davvero dietro, troverete
tutti i vecchi catafalchi della vecchia politica - non tutti i De Mita sono
stati fatti fuori – ma in questa fase sono stati neutralizzati dalla nuova
immagine di cui è depositario il leader
– vedremo finché potrà durare e vedremo poi gli sviluppi…). Ha successo perché
abita nel mondo della comunicazione (nel mondo delle idee, se preferite) e perché
viene impersonato immediatamente dalle parole del suo leader (il PD è
impensabile senza Veltroni).[3]
9. Questo nuovo tipo di partito pretende di definire,
confrontandosi direttamente con i propri elettori attraverso manifestazioni di
piazza, nello stesso tempo il candidato
alla guida del governo e il programma (che coincide con la linea politica), certo, una linea semplice, chiara, fattibile,
capace di durare al più una legislatura.[4] La linea politica vale fino alla
prova elettorale. Poi se si vince, si governa, se si perde, si cerca un altro candidato e si
cercherà di costruirgli intorno un altro
programma, un’altra linea politica. Una conseguenza è che in questo modo si
riduce al minimo la burocrazia di partito (congressi, correnti, mozioni, …). Un
partito di questo tipo era comunque l’unico partito che si poteva fare in un
paio di mesi. O questo, o niente.
10. Tutto ciò fa sì che il PD non possa più essere un “partito
di massa” ideologico (tratto sicuramente rimpianto dai vecchi militanti old style che non hanno ancora capito in
cosa si sono imbarcati), ma un autentico partito
di opinione, certo, secondo il modello americano (qualcuno usa ancora
“americano” come fosse un insulto, dimenticando che i primi profeti del partito immagine, quelli che hanno
smantellato il vecchio PCI, li abbiamo prodotti in proprio, sono nostri DOC).
L’ipotesi di trapiantare nella sinistra italiana, sul corpo esangue dei due
vecchi partiti di massa, un vero partito di opinione (un partito che non c’è) non è un’ipotesi peregrina (non è neppure un
effetto della massificazione o dell’“ospite inquietante” che si aggira per la
terra del tramonto): è un esperimento, certamente, ma andrebbe guardato con la
massima attenzione.
11. È chiaro che questo partito non può avere, non vuole avere,
non deve avere nessun riferimento sociale predefinito: non si rivolge
particolarmente ai lavoratori, alla classe operaia, ecc… . È un tipico catch all party. È inutile accusarlo di
non essere un partito della classe operaia (secondo la massima per cui “nello
stesso partito non ci possono stare operai e imprenditori”), oppure di essere
un partito della piccola borghesia.[5]
Bisognerebbe poi anche ricordare, a tutti quelli che non possono stare senza i
riferimenti di classe, che le classi non
esistono più. Non esiste più nemmeno la borghesia, non esiste più la classe
operaia, non esiste più neanche la piccola borghesia. La stratificazione della
nostra società attuale è una cosa diversa,
non è inquadrabile nelle vecchie categorie della classe e della coscienza di
classe.
12. È un dato di fatto che l’operazione – a grandi linee - ha
funzionato, fino a scompigliare pesantemente – questo è stato riconosciuto da
tutti – il sistema politico nazionale. Per la prima volta il nuovo PD riusciva
a dettare l’agenda politica alla Destra. E riusciva a risalire miracolosamente
nei sondaggi, fino a rischiare – vedremo come andrà – il pareggio.
Evidentemente l’elettorato aveva bisogno di quell’immagine (solo un
sociologismo un po’ retrò tenta sempre di scovare una struttura dietro a una
sovrastruttura!). I cittadini (a cui
il PD si rivolge) con la loro maturità
media (non bisogna avere la laurea per votare) hanno risposto positivamente.
Questo basta. È tipico di certi militanti radical
chic, o di certi desperate movements,
sentirsi sempre più furbi delle masse, osannare le masse solo quando seguono le
loro idee, disprezzare le masse quando “le masse” fanno di testa loro. In politica,
un voto vale l’altro. Questo lo ha capito anche
13. Se il nuovo PD è riuscito a imparare qualcosa
dall’esperienza del governo Prodi (o dall’esperienza di questi ultimi 15 anni,
come suggerisce lo stesso Veltroni), e ha per lo meno fatto una ipotesi di cambiamento e l’ha messa
in pratica, nell’area dell’altra sinistra non
è successo nulla (la loro diagnosi del fallimento di Prodi è stata
sconfortante: il governo andava bene, noi siamo stati fedeli, è tutta colpa di
Mastella). L’unico cambiamento effettivo (l’Arcobaleno) è stato un chiaro
effetto del porcellum: hanno dovuto
mettersi sotto uno stesso simbolo elettorale per non rischiare di sparire del
tutto. Non riesco a intravedere in queste formazioni sparse nessuna reale
volontà di cambiamento, di costruzione di una nuova cultura politica che sia capace
di diventare maggioranza di governo e di essere alternativa al progetto di Veltroni. La causa di ciò è che queste
formazioni “vengono da lontano” e ritengono che davvero non serva una nuova
cultura politica, perché ciascuno la sua piccola verità la possiede già e la
custodisce con ossessione maniacale. Va anche detto che, se le culture
politiche di queste schegge sono culture forti ma cristallizzate, è anche vero
che le rendite individuali di posizione
che derivano dalla frammentazione sono assai più potenti (quante poltrone
garantite nei consigli comunali, negli enti, nei sindacati,…) e contrastano
decisamente con la loro supponenza etica.
14. Tuttavia queste forze, questi partiti che si dicono
orgogliosamente “di parte”, rappresentano una possibile opzione elettorale, del
tutto legittima. Sarebbe allora interessante tentare di capire cosa hanno da
offrire. Alcuni partitini sono i tipici single
issue (i Verdi, ad esempio), altri sono caricature dei vecchi partiti di
massa stalinisti (Diliberto), oppure movimentisti (RC, Caruso). Non
dimentichiamo poi, al di fuori dell’Arcobaleno gli ultimi infelici discendenti
di blasoni sbiaditi (Boselli), cui si sarebbe dovuto aggiungere i Radicali e Di
Pietro, se non fosse intervenuto il patto con il PD (questa è l’unica mossa che
mi è piaciuta poco, ma evidentemente anche nel partito immagine, un po’ di
realismo non guasta).
È chiaro le forze
dell’Arcobaleno non hanno alcuna compattezza sia nei termini del modello di
partito, sia nei termini della loro ideologia. Perciò litigano su quasi tutto. Neanche loro hanno riferimento sociale
preciso, un riferimento di classe (s’invocano di volta in volta, i precari,
i no global, gli operai della Tyssen, gli immigrati, ma si tratta spesso di
forze anche in conflitto d’interessi tra di loro, si tratta di forze che
neanche sul vecchio movimento operaio sono d’accordo). Alcuni movimenti poi (ad esempio quello contro
la base di Vicenza e quello contro l’alta velocità) sono fondamentalmente di
tipo reattivo, difendono interessi circoscritti, spesso di tipo locale, per
quanto talvolta legittimi (quando avremo il coraggio di chiamarli lobby?). Se questi riferimenti sociali
dovessero essere la “classe generale”, se da questi riferimenti dovesse
derivare una indicazione per il governo del paese, staremmo freschi. A partire
da questo “essere di parte” comunque non sarà mai possibile costruire un programma
di governo, perché per governare bisogna
avere la maggioranza (chi vorrebbe governare senza avere la maggioranza lo
dovrebbe dire chiaro, prima, così sapremmo regolarci).
15. All’inconsistenza sociale dei riferimenti dell’Arcobaleno
va aggiunta una considerazione riguardante la
domanda politica cui l’Arcobaleno pretenderebbe di dare una risposta. Non
credo che il mondo stia andando a Destra. Ma ormai anche la gente
vocazionalmente “di sinistra” è stanca
dei valori, delle testimonianze, stanca delle promesse del radioso futuro che
non arriva mai. Si ricordi la marcia dei
quarantamila dei primi anni Ottanta.
Si ricordi che la recente riforma delle pensioni (buona o cattiva che
sia) è stata votata da milioni di lavoratori. Sono tutti dei coglioni?[6] O è
tutta colpa dei brogli nella consultazione (che pure, ammetto, ci sono anche
stati)? Insegnava Max Weber che non si può vivere continuamente allo statu nascenti, che l’effervescenza
della creazione del valore e dei movimenti è destinata prima o poi a lasciare
il posto al principio di realtà. I leader che testardamente non si adeguano
al principio di realtà possono
continuare nel loro sogno intransigente, ma diventano ben presto ritualisti,
dogmatici, schematici, poco intelligenti, e progressivamente vengono
abbandonati. Talvolta, prima di uscire dalla scena, fanno moltissimi danni a se
stessi e agli altri perché rifiutano di entrare nell’orizzonte della
responsabilità.
16. È chiaro che la scelta di Veltroni ha confinato
l’Arcobaleno nell’isolamento e l’ha messo di fronte alle proprie responsabilità
politiche. A questo punto, l’unica
cosa furba che avrebbero potuto fare gli Arcobaleni (per un attimo ho sperato,
ho creduto che l’avrebbero fatta - e confesso che personalmente avrei anche potuto aderire con un certo
entusiasmo a un progetto del genere) sarebbe stato di costituire un “partito
socialista” di tipo nuovo (zapaterista,
se si vuole) ispirato al partito
socialista europeo, con un programma autenticamente riformista in senso socialdemocratico.[7] In questo modo avrebbero
dato la prova di aver capito la condotta demenziale da loro tenuta nel governo
Prodi, di aver capito i limiti profondi delle vecchie culture politiche e dei
vecchi schemi organizzativi; avrebbero oltre tutto aperto la possibilità di una
alleanza di governo, su basi programmatiche da socialismo europeo, con il PD.
Certo, ciò avrebbe comportato fare i conti con Boselli e la perdita di qualche
Caruso, di qualche trotzkista… .
Purtroppo per i Diliberti e i Bertinotti la parola “socialdemocrazia” è
una bestemmia. Ironia della sorte, ora per difendere le loro vecchie culture
politiche sono ridotti a sperare nel “porcellum” per continuare ad avere
qualche seggio.
17. Veniamo ora a una riflessione conclusiva sul “Tu cosa voti?”
di ordine sia metodologico sia contenutistico. Quando votiamo come cittadini
qualunque, possiamo adottare diverse logiche, diversi principi etici. Le strade
sono principalmente due. Possiamo adottare un’etica dei valori, e allora pretenderemo che il partito per cui
votiamo ci assomigli in tutto e per
tutto. Questo è il voto identitario,
il voto grazie al quale produciamo un effetto
di tipo simbolico su noi stessi e sul nostro entourage. Anche scegliere un comportamento espressivo, fare un
gesto, magari anche nichilistico, lasciare un segno (annullare, scrivere
slogan, andare al mare …), ricade sotto l’etichetta dell’etica dei valori,
della ricerca identitaria, dove il valore diventa appunto quello di fare un
segno, mandare un messaggio, magari anche un messaggio di autodistruzione.
Questo tipo di comportamento si espone – com’è stato ampiamente dimostrato –
alla delusione perpetua, perché
l’ansia della realizzazione del valore porterà al perfezionismo, al profetismo,
al conflitto permanente, alla continua suddivisione dei puri dagli impuri, alla
frammentazione politica, alle condanne dei traditori. E si espone così anche
alla più totale inefficacia di ordine
pratico, all’impossibilità di concretizzare un qualsiasi programma politico
che funzioni, che possa cioè sperare di fare coalizione e di diventare
maggioranza (del resto chi ragiona così, rifiuta la ratio calcolatrice, la ratio dell’utilità, la ratio della tecnica –
anche se spesso l’etica dei valori si presta poi a coprire rendite di posizione
assai poco nobili).
18. Oppure possiamo adottare un’etica della responsabilità. Possiamo cercare di depotenziare il
valore identitario del nostro gesto elettorale, possiamo mettere da parte le
velleità espressive e possiamo calcolare ragionevolmente quali potranno essere le conseguenze della nostra azione e
quindi preferire quell’azione che potrà portare, a quelli come noi, una
maggiore utilità. Certo, dovremmo ancora metterci d’accordo su cosa sia utile o
inutile.[8] Una regola buona potrebbe essere quella di tenere lontani dalla
valutazione di utilità i grandi valori (altrimenti siamo da capo) e
concentrarsi sulle conseguenze pratiche
del nostro voto. È meglio un governo che combatta l’evasione fiscale, o un
governo che la tolleri? È meglio un governo che vuole “prendere a calci” gli
immigrati o un governo che bene o male sarà più sensibile alla loro
integrazione? E poi bisogna stare attenti che la valutazione di utilità è complessiva: possiamo anche accettare,
tra i candidati, un ex esponente della Federmeccanica pur di non avere un
Presidente del consiglio dentro fino al collo nell’economia illegale, oppure
possiamo anche accettare dei candidati che portano il cilicio pur di non avere
un Presidente che sia un ateo devoto, ecc… . Occorre dunque guardarsi dall’atteggiamento
pericoloso di mettere – a piacimento, a seconda delle proprie personali
perversioni etiche - la fatidica soglia: “Ah, questo per me è troppo, è
intollerabile!”. Non ci sono mai singole cose che siano tollerabili o
intollerabili in sé. È sempre il caso di vedere con che cosa le si raffronta. Questo orientamento significa che
dobbiamo imparare ad accontentarci del meno
peggio, non perché ormai sia compiuto il destino dell’Occidente, o perché
nichilisticamente vogliamo abbracciare il mostro della razionalità strumentale,
ma perché la perfezione non è mai stata di questo mondo e perché la Repubblica
perfetta sta giustamente solo nel mondo delle idee (e così pure la giustizia
perfetta, l’uguaglianza perfetta, la pace perfetta, la felicità perfetta, come
pure la classe generale che dovrebbe emanciparci dalle deiezioni della
particolarità).
19. Ammetto che essere responsabili, a sinistra, non è mai stato tanto di moda. La “fine delle grandi narrazioni” (diamo per scontato per un attimo che i postmoderni abbiano ragione – in realtà continuo a vedere in giro un sacco di gente impegnatissima nel fare un mucchio di grandi narrazioni, postmoderni compresi) non ci deve coprire di mestizia, è l’occasione per liberarci di alcune delle nostre malattie infantili e per provare a diventare un po’ più responsabili. È chiaro che se scegliamo il voto identitario possiamo ignorare ogni appello alla responsabilità, non curarci delle conseguenze e seguire la nostra “coscienza”: dummodo fiat iustitia, pereat mundus! Alimenteremo uno dei tanti partitini, oppure non andremo a votare, o scriveremo qualche insulto sulla scheda. Se faremo invece una scelta di responsabilità, mi pare che la scelta non possa essere altra oggi che quella di votare per il PD. Ma si ribadisce: “Veltroni ormai è di centro. Non posso tradire me stesso, voglio un partito più a sinistra”. Il problema è che un partito più a sinistra che possa vincere queste elezioni (e salvarci da cinque anni di Berlusconi), ora come ora, non c’è. In questo paese non possiamo più permetterci certi lussi. Abbiamo bisogno di un paese che non sperperi soldi, che paghi i debiti, che non perda sistematicamente tutte le occasioni di sviluppo economico, che tolga la spazzatura dalle strade, che sbatta in galera i criminali e renda più sicure le nostre strade. Che faccia pagare le tasse agli evasori. Che faccia una legge elettorale decente. Tutto questo non è, per definizione, di destra, di centro o di sinistra. Non interessa sapere se il PD è di centro o di centro sinistra, se il PDL è di destra o di centro. Se nel programma ci sono obiettivi che vanno bene ai borghesi, a quelli grandi o a quelli piccoli. Si tratta solo di chiedersi se tutte le cose che ci interessano le farà meglio Veltroni o le farà meglio Berlusconi.[9] Su questo punto non ho dubbi. E perciò non sono da disprezzare quelle persone comuni (tra cui mi colloco) che potrebbero scegliere Veltroni per i bassi motivi di cui sopra. Certo, qui scatta l’orgoglio degli aristocratici di sinistra, di quelli che devono sempre sentirsi più avanti delle amate, e nel contempo disprezzate, masse. Nei loro confronti questa volta mi sento davvero di dire che “con questi non vinceremo mai”.
Giuseppe Rinaldi (6/04/2008 – 03/07/2021 rev.)
NOTE
[1] Tipico delle filosofie della storia è che
alcuni fatti sono invocati per sostenere una certa tesi (ad es.: “Tutto il
mondo sta andando a destra”); a sua volta la tesi, una volta data per comprovata,
è invocata per spiegare quegli stessi fatti. Si tratta di ragionamenti, ahimè,
tipicamente circolari.
[2] Tralascio quelli che sono rimasti contenti
del governo Prodi. So che qualcuno c’è. Confesso però che ho difficoltà a
capire questo tipo di valutazione. Ho sentito anche dei difensori del governo
Prodi che sono però fortemente anti veltroniani. Non ci arrivo.
[3] Anche se ho usato lo slogan di Veltroni come
titolo di questo articolo, mi permetto di sottolinearne la pessima traduzione
dall’americano “yes, we can”. Com’è noto, can
esprime, certo, la possibilità, ma esprime anche abilità, conoscenza, capacità.
Tradurre “yes, we can” con “si può fare” è una burinata romanesca, un po’
furbesca, un’espressione prudenziale da parte di chi non sa ancora bene come
andrà a finire, da chi sembra pieno di dubbi ed esitazioni. Bisognava
inventarsi qualcosa come “noi siamo in grado” di vincere, “noi abbiamo il
potere di” vincere, ovvero “abbiamo tutto quel che ci serve” per vincere.
Questo sicuramente è il senso con cui viene usato da Obama. Ma la
sottolineatura di questo senso, dopo il governo Prodi, deve essere sembrata un
po’ esagerata.
[4] È ora di finirla con partiti le cui linee
politiche sono durate per generazioni e generazioni, promettendo sempre senza
realizzare nulla.
[5] Non condivido assolutamente la teoria della
massificazione, della “piccola borghesia che avanza”, del fatto che “il mondo
sta andando a destra” di Raffaele Simone (e, forse, di Patrizia Nosengo). Mi
spiace. È una vecchia storia. Prima decidiamo che ci va bene il principio “una
testa un voto”, poi però cominciamo a sostenere che c’è qualcuno che è più
scemo di qualcun altro, qualcuno che si fa condizionare dalla TV, qualcuno che
vede troppa pubblicità, qualcuno che non capisce quali siano davvero i suoi
veri interessi, ecc… . Dovremmo allora esser conseguenti: proponiamo di dare il
diritto di voto in base al titolo di studio, al QI, oppure a un qualsiasi altro
criterio che selezioni i veri cittadini dagli altri. Altrimenti dobbiamo rispettare
tutti i cittadini elettori come dei soggetti che - in base alla loro
razionalità limitata - cercano di fare la scelta meno peggiore (io mi colloco
tra questi).
[6] Il linguaggio è dell’On. Berlusconi.
[7] Qui uso “socialdemocratico” in senso buono, nel
senso della grande tradizione della socialdemocrazia europea.
[8] Non sto discutendo, come si sta facendo, del
“voto utile”, bensì del voto responsabile.
[9] La popolare interpretazione secondo cui i
programmi dei due sarebbero uguali mi pare solo demenziale. Come pure la tesi
che ormai sull’attività di governo ci siano vincoli tali che, comunque,
chiunque sia al governo farà, per necessità, esattamente le stesse cose di
qualsiasi altro.