1. La telenovela della candidatura della sinistra alla carica
di sindaco di Torino è giunta finalmente a un faticoso approdo. Dopo molte
tergiversazioni, il 12 e 13 giugno 2021 si sono tenute le elezioni primarie,
limitate a una coalizione sorta attorno al PD, data la esplicita rottura tra il
PD e il M5S a livello locale. Quello che ci interessa qui rilevare è lo scarso
afflusso di pubblico: i votanti torinesi alla fine sono stati 11.631 e il
candidato Lo Russo ha vinto con appena 4229 voti.[1] In una città come Torino
ci si poteva attendere qualcosa in più. La delusione tra i dirigenti del PD è
stata infatti piuttosto marcata. La domenica successiva, il 20 giugno 2021, si
sono tenute le primarie a Bologna e Roma con risultati di affluenza
lievemente superiori. A Bologna si sono avuti 26.396 votanti e a Roma 48.624. A
questo punto i commentatori e i dirigenti del PD, tra cui Letta, hanno subito
tirato un sospiro di sollievo e si sono sperticati a dichiarare che le primarie, a parte l’incidente di Torino, hanno rappresentato una “grande prova di
democrazia”.
2. È proprio così? Per fare un raffronto sensato tra le tre recenti
elezioni primarie, la cifra assoluta dei votanti non basta proprio. Occorre per
lo meno mettere in relazione il numero dei votanti con la popolazione degli
aventi diritto. Noi qui ci accontenteremo, per brevità, di proporre
all’attenzione del lettore un tasso di partecipazione grezzo calcolato sulla popolazione
tout court, ipotizzando un’omogeneità anagrafica di fondo tra le tre città.
Ebbene, a Torino il tasso di partecipazione vale l’1,4%, a Bologna vale il 6,7%
mentre a Roma vale l’1,7%.[2] Insomma, Roma ha avuto più o meno un tasso di
partecipazione uguale a quello di Torino. Se Torino è stato un flop, di Roma
non si può proprio dire di meno. Su tre primarie, due flop, dunque. C’è poco da
stare allegri. Bologna ha avuto un tasso un po’ maggiore di affluenza ma
Bologna è un po’ un caso a parte, essendo una città storica della sinistra.
Roma e Torino poi sono le due grandi città con sindaco M5S uscente in cui si è
consumata la rottura a livello locale tra M5S e PD. Caso diverso a Bologna, dove
l’opzione di una alleanza con il M5S era per lo meno rimasta aperta, almeno nel
programma del candidato Matteo Lepore, quello che poi ha vinto. Forse lì qualche
elettore del M5S ha dato una mano. Possiamo comunque ben dire, in base a questi
risultati, che lo stato di salute delle primarie è alquanto preoccupante.
Nel mio recente saggio
intitolato PD. Il partito che non c’è,
pubblicato su Città Futura,[3] avevo cercato, tra le altre cose, di sviluppare un’analisi
del rapporto tormentato e perverso che, nel corso del tempo, si è instaurato
tra il PD e le elezioni primarie. Si tratta di un rapporto che perdura fin
dalla fondazione di questo partito e che, forse, è opportuno analizzare e riconsiderare
organicamente. Nel seguito di questo articolo, riprenderò alcuni aspetti del saggio
citato, utilizzandoli tuttavia per compiere una riflessione organica sulle
primarie del PD e sul loro destino.
3. Il PD, al termine di un processo costituente assai lungo e travagliato,
nacque nel 2007 con la cosiddetta “vocazione maggioritaria”, cioè con l’intento
di realizzare un sistema di alternanza capace di evitare le frammentazioni e le
alleanze pasticciate tipiche del proporzionale. Per questo doveva essere un
partito altamente inclusivo, tale da raccogliere potenzialmente la maggioranza
degli elettori, e nello stesso tempo profondamente democratico anche nelle sue
pratiche interne. Il modello organizzativo di democrazia interna che fu scelto
in quel frangente fu tuttavia un modello alquanto inconsueto, un modello d’importazione, ben diverso da
quello della tradizione europea.
Il PD intendeva con ciò esplicitamente
rompere con il modello organizzativo tipico del partito/ apparato, dotato di
una cultura politica di tipo ideologico e di una struttura di tipo burocratico.
Il modello da superare era il partito di massa di fine Ottocento, il modello
che pur con variazioni era stato adottato dal PSI, dal PC e dalla DC. Col senno
di poi possiamo tranquillamente riconoscere che quella fu una scelta piuttosto
avventata: poiché in Italia si erano effettivamente sfasciati due o tre partiti
appartenenti a quella tradizione, si pensò bene di gettare al vento anche la
stessa tradizione organizzativa.[4] E
ciò senza avere compiuto un’approfondita analisi delle cause effettive del loro
insuccesso.
Come modello organizzativo
alternativo fu proposto quello dei partiti
americani. Il PD nacque come il partito
delle primarie, il partito cioè che demandava agli elettori la facoltà di scegliere gli organismi dirigenti e i candidati.
Ciò comportava, ovviamente, il ridimensionamento
stesso del ruolo degli iscritti, anch’essi colpiti dalla critica ai
partiti/ apparato. Questo nuovo modello di democrazia organizzativa nelle
intenzioni doveva accompagnarsi, dal punto di vista istituzionale, al sistema
elettorale maggioritario e al presidenzialismo. L’ipotesi di fondo era che, sia
nello Stato sia nei partiti, il tradizionale modello di democrazia interna fosse
ormai inefficace e che dovesse pertanto essere profondamente innovato.
4. Si trattava di costruire un partito leggero, con un apparato minimale, un partito di movimento, di fatto messo nelle mani degli elettori, i
quali avrebbero scelto, di volta in volta, attraverso le primarie, un leader e un programma. Lo scopo
principale dell’attività politica, secondo questo modello, era quello di andare
alle elezioni e conquistare il governo nazionale. Perciò il segretario
nazionale, più che svolgere il ruolo di capo di un’organizzazione politica
strutturata e permanente (cioè il capo di una burocrazia politica), non poteva
che aspirare a diventare capo del governo
in caso di vittoria elettorale. Il partito veniva così a confondersi con la
compagine di governo e, in caso di vittoria elettorale, lo stato maggiore del
partito si trasferiva ipso facto al governo.
Il segretario si chiamava ancora “segretario”, ma in realtà era inteso come il candidato a premier. Detto in altri
termini, il partito altro non doveva essere se non il comitato elettorale del candidato a premier. Questo modello del partito delle primarie era ovviamente
destinato a essere utilizzato a livello nazionale ma esso doveva anche essere
riprodotto ai livelli locali. Era dunque utilizzabile in particolare per
scegliere i candidati alle cariche di sindaco
e di presidente della regione.
5. Il progetto organizzativo del PD era perfettamente in linea
con la legge sull’elezione diretta dei sindaci e forse ne era addirittura la prosecuzione.
La legge era stata promulgata una decina
d’anni prima, nel marzo del 1993 (legge 25 marzo 1993, n. 81). Questa legge
aveva ampiamente recepito l’orientamento anti
apparato e filo presidenziale che
già a quei tempi stava diventando dominante tra le forze politiche, dopo la
fine della Guerra fredda e dopo Tangentopoli. Anche in quel frangente, invece
di compiere un esame critico dello scarso rendimento politico del sistema
vigente, s’era scelto di sminuire il modello organizzativo del partito/
apparato per conferire il potere locale agli eletti direttamente dal popolo (sindaci e presidenti regionali). È
appena il caso di ricordare che la legge 81/’93 aveva diverse assonanze con le
proposte di riforma costituzionale che si andavano discutendo nella bicamerale
De Mita-Iotti del 1993-1994. Lo stesso vale poi per la successiva bicamerale
D’Alema del 1997.
Nelle intenzioni dei
fondatori del PD, nel 2007, era ancora ben presente l’idea che il partito delle primarie dovesse preludere
a una più generale riforma istituzionale
che avrebbe dovuto introdurre nel Paese un qualche ordinamento presidenziale basato sul maggioritario. Ciò avrebbe consentito una riforma dei partiti e dei meccanismi elettorali che avrebbe
finalmente introdotto le primarie anche nel nostro stesso ordinamento istituzionale, come in USA. Ci si può rendere conto
solo ora, a distanza di tempo, che quello del PD era un modello di partito
giunto davvero ormai troppo tardi, un
modello che, per essere credibile, implicava una generale riforma dello Stato,
della legge elettorale e dei partiti stessi. Si trattava di obiettivi di cui si
parlava ormai da più di un decennio, con scarsi risultati. Quelle riforme non
sarebbero mai venute.
6. Purtroppo, alla prova dei fatti, il partito delle primarie
ha fallito i suoi scopi fin dalle elezioni del 2008, ove si proponeva il
segretario Veltroni come capo del governo. In seguito a questo fallimento, quasi
come per una deriva irresistibile, esso si trasformò assai rapidamente nel partito delle correnti, un’oligarchia
frammentata e litigiosa. Le primarie continuarono tuttavia a essere usate per
l’elezione di diversi segretari e permisero in particolare la clamorosa scalata
di Matteo Renzi, che fu eletto per ben due volte alla segreteria del partito. Le
primarie furono usate a intermittenza in varie altre occasioni. Non ho spazio
qui per approfondire questi aspetti storici, per i quali rinvio al mio recente
saggio già citato.[5]
La doppia natura del PD,
di partito delle primarie e di partito delle correnti, ha introdotto,
al suo interno, un conflitto di
legittimazione che percorrerà l’intera sua storia e che perdura a
tutt’oggi. Si tratta di un conflitto strutturale di cui forse non sono del
tutto consapevoli neppure i dirigenti del PD stesso. Da un lato, la legittimazione dal basso delle primarie,
con cui si chiede agli elettori di
esercitare liberamente il potere di scegliere i leader, i candidati e la linea politica; dall’altro lato una legittimazione dall’alto con cui le
correnti e le oligarchie dominanti cercano di aggirare il processo delle
primarie oppure di usare le primarie
per imporre o per “far passare” i loro leader,
i loro candidati e la loro linea politica. I dibattiti e gli scontri costanti
circa l’opportunità o meno di fare le
primarie (si veda il recente caso esemplare di Torino) sono un indicatore
esplicito di questa situazione.
In questo perdurante
conflitto di legittimazione, gli elettori sono quelli che normalmente hanno
avuto la peggio, poiché essi hanno potuto esercitare il loro potere solo se convocati e se messi di fronte a scelte autentiche. In realtà, storicamente, soprattutto
a livello locale, raramente sono stati convocati e ancor più raramente sono
stati messi di fronte a scelte autentiche. I candidati imposti dall’alto sono
stati in numero ben maggiore di quelli affermatisi per impulso dal basso.
Questa situazione
strutturale di doppia legittimazione
ha contribuito oltremodo al progressivo indebolimento dell’organizzazione del
PD e della sua politica e alla perdita progressiva del consenso degli elettori.[6]
Oggi il PD è un partito debole, dominato da un’oligarchia correntizia (le correnti restano tali, nonostante
l’onesto ma palesemente impotente segretario Letta) ove gli elettori non hanno
alcuna facoltà di determinare un effettivo ricambio della classe dirigente. Il
PD, oltretutto, ha rinunciato al maggioritario, essenziale per le primarie, e
ha imboccato decisamente la strada del proporzionale, del resto assai più
confacente alla sua natura correntizia.[7] L’unico straccio di maggioritario
rimasto si ha ancora, appunto, nell’elezione dei sindaci e in quella dei presidenti
regionali. Non per nulla è qui che puntualmente si scatena la guerra delle primarie.
7. Retrospettivamente, col senno di poi, è difficile
comprendere cosa sia passato per la mente dei fondatori del PD quando essi hanno
scelto il modello americano. Forse la scelta fu dovuta al personale filo
americanismo di Veltroni o all’idea movimentista della democrazia di un Parisi.
Per saperlo in dettaglio occorrerebbe una ricerca sulle fonti che esula dalle
nostre forze. Forse, ancora, può aver pesato l’idea dell’ormai compiuto tramonto della militanza, l’idea cioè
che l’elettorato “di classe” fosse ormai definitivamente esaurito, per cui si
trattava ora di rivolgersi all’elettore
indistinto, cioè l’elettore tipico dei partiti
pigliatutto. E, forse, c’era anche la segreta ambizione di rincorrere il
modello del partito leggero
berlusconiano che si stava muovendo con successo utilizzando le parole d’ordine
della prima antipolitica.
Forse ancora – ed è
questa l’ipotesi per la quale in definitiva ci sentiamo di propendere - tutti i
numerosi cespugli che stavano dentro l’Ulivo, nella loro lunga diaspora di scissioni
e ricomposizioni precarie, si erano ormai abituati
a stare senza gli apparati, avevano già inaugurato la stagione della auto
promozione dei capi e dei capetti – un andazzo cui ci si abitua facilmente – e,
dunque, non avevano più nessuna voglia di sottomettersi
a un nuovo apparato. Il partito leggero sul modello americano andava dunque
bene per tutti. A questa motivazione di ordine particulare si può aggiungere una psicologica diffidenza reciproca tra le varie componenti che temevano di dover
sottostare a dettami ideologici estranei decisi a maggioranza. Questa
diffidenza di fondo era a sua volta legata al metodo della fusione fredda che era stato di fatto adottato per la costituzione
del nuovo partito: un processo costituente realizzato senza alcuna costruzione
di una base di cultura politica comune.
8. Possiamo a questo punto domandarci quali fossero le
implicazioni del modello americano e se la sua scelta avesse un qualche
fondamento. Intanto va osservato, col senno di poi, che il modello dei partiti
americani in realtà non era poi quella
gran novità. Il sistema partitico ed elettorale americano era, ed è
tuttora, un curioso residuo del passato,
un vero e proprio relitto storico. Un
po’ come la monarchia in Gran Bretagna che, se funziona, funziona bene solo lì
e resta difficilmente esportabile. La
radice profonda del modello americano è quella sette - ottocentesca del partito dei notabili. Un partito non partito, nato in una situazione di
suffragio elettorale piuttosto ristretto, dove i notabili non fanno che
scegliere e appoggiare uno di loro. Un partito che si mobilita quasi
esclusivamente per le campagne elettorali,
per la definizione delle candidature e dei programmi e, soprattutto, per la
raccolta dei fondi senza i quali non si vince. Un partito quindi che non ha mai
interrotto la tradizione di una forte personalizzazione,
sia da parte di coloro che scelgono sia da parte di chi viene scelto. Tanto
valeva rifarsi ai modelli della Destra o della Sinistra storiche, o a quello
del partito liberale di Giolitti.
Sul piano storico, non
tutti sanno che negli USA le primarie furono inventate tra gli Stati del Sud,
durante la Guerra di secessione. La guerra civile era allora combattuta tra
Repubblicani (Nord) e Democratici (Sud) per cui i due principali partiti erano divisi
dalla guerra e, soprattutto negli Stati del Sud, si prospettava in pratica una
situazione di monopartitismo. Allora,
allo scopo di assicurare la possibilità della scelta tra una pluralità di candidature (si rammenti che il
suffragio era comunque assai ristretto), si cominciò a praticare episodicamente
il sistema delle primarie. Esso, dopo quelle prime esperienze, in seguito si
estese e si consolidò, grazie all’ampliamento
del gruppo notabilare che aveva il potere di scegliere i candidati. In
sostanza, le primarie americane rappresentarono una sorta di riforma in senso democratico del tradizionale
sistema ottocentesco del partito dei
notabili, del quale tuttavia furono mantenuti molti aspetti. Con il
suffragio universale, tutti i cittadini
in un certo senso sono divenuti notabili
e si sono così visti riconoscere il potere di scegliere i loro candidati e di
essere a loro volta candidati. È forse il caso però di ricordare che, negli USA,
il compimento di questo processo è avvenuto solo nel 1965.
9. Vediamo meglio le implicazioni del modello americano. I
partiti americani, in virtù della loro origine
notabilare, sono poco più di comitati
elettorali che si mobilitano e funzionano davvero solo in occasione delle elezioni.
Al di fuori delle elezioni, i partiti coincidono essenzialmente con i gruppi
parlamentari, cui va aggiunta la schiera di coloro che ricoprono le cariche
pubbliche di nomina politica. Nella società civile sono presenti soprattutto
come orientamenti di cultura politica, come complesso di tradizioni e di valori,
ma anche come insiemi di relazioni interpersonali e, soprattutto, di intrecci di interessi, alimentati questi
ultimi dalla pratica del lobbismo,
che è attentamente regolamentata.
Da questo complesso
quadro storico deriva un fatto di assoluto rilievo, e cioè che, nella
tradizione elettorale americana, ironia della sorte, conta soprattutto la legittimazione dal basso: gli elettori,
notabili venuti alla fine a coincidere con tutti i cittadini, convocati per disposizione di legge, nel momento
in cui scelgono con le primarie il loro candidato, scelgono anche il programma politico, contribuendo così
a definire la linea del loro partito.
Questo è il motivo per cui lo scontro che avviene durante le primarie americane
è uno scontro autentico, sostanziale per la vita del partito, uno scontro che
serve certamente a selezionare i candidati ritenuti migliori, ma soprattutto è
uno scontro che serve a mettere a punto il
programma elettorale. Insomma, durante le primarie, gli elettori,
selezionando nello stesso tempo il
candidato e il programma, svolgono in
un certo senso l’equivalente di quel che è un congresso di partito secondo la tradizione europea. Per questo
stesso motivo, i candidati e i programmi che sono sconfitti alle primarie sono
abbandonati al loro destino, senza tanti complimenti, evitando così la
formazione di una burocrazia partitica
di carattere oligarchico. Negli States
non si finanziano i partiti, si finanziano le
campagne elettorali di questo o quel candidato. Non si milita
principalmente per un partito, ma si milita per un candidato e per il suo
programma.
10. Un tipico residuo
notabilare è costituito poi dall’idea, del tutto implicita nel sistema
americano, secondo cui i sostenitori più forti del candidato vincente (per lo
più quelli che hanno portato tanti voti) meritano di essere ricompensati. Si
tratta dello spoils system. Chi vince
prende tutto. Chi vince prende cioè in mano le redini del partito, prende il governo
e le relative “spoglie”, costituite da numerosissimi incarichi politico
amministrativi di fascia alta. Chi perde aspetta il turno successivo. Anche per
questo i partiti americani non hanno
una marcata vita propria, al di là delle campagne elettorali. Come si vede, si
tratta di un sistema che ha davvero poco a che fare con la tradizione europea
dei partiti/ apparato, una tradizione invece che ha quasi sempre visto
confrontarsi tra loro maggioranze e minoranze all’interno di una istituzione partitica permanente,
governata da regole democratiche, con fitta distribuzione territoriale,
relativi congressi e cariche interne.
11. Il modello delle primarie è dunque strettamente legato alla
tradizione americana. Ci sarà un
motivo se il modello partitico/ elettorale americano, che è stato uno dei primi
a comparire, non ha mai avuto facili esportazioni in altri Paesi. Le primarie
sul modello americano sono utilizzate stabilmente solo in Canada e in Israele.
Perché allora la diffusione al di fuori degli USA della moda delle primarie negli
ultimi decenni? In concomitanza con la crisi
del modello europeo dei partiti/ apparato,[8] le primarie americane sono
apparse talvolta come una facile ricetta
pragmatica in grado di permettere di riallacciare un legame con gli
elettori e in grado di consentire una migliore selezione del personale
politico. Insomma, una ricetta per tacitare
l’anti politica. A tutt’oggi ci sono diverse sperimentazioni in giro per il
mondo, ma i risultati non sono così chiari. Le primarie d’importazione non
sembrano avere avuto alcun ruolo nella migliore democratizzazione dei vecchi partiti/ apparato. Non sembrano avere
avuto alcun ruolo significativo nella selezione
di una migliore classe dirigente. In più, esse hanno contribuito in modo equivoco
alla personalizzazione della politica,
fatto non negativo di per sé, ma ormai storicamente legato alla recente insorgenza populista. Le primarie,
inoltre, in particolare nel caso Trump, hanno mostrato tutta la loro debolezza intrinseca sul piano della capacità di resistere alle tendenze anti
democratiche.
Da tutto ciò emerge con
chiarezza che la scelta del “partito delle primarie” fu una scelta piuttosto superficiale,
alquanto sprovveduta, assai poco consapevole delle implicazioni che ne
sarebbero derivate. Implicazioni che hanno prodotto diversi effetti boomerang. Il problema è che,
dopo le prime gravi disillusioni, la deriva correntistica ha completamente bloccato la situazione interna del PD e ha impedito di mettere in opera qualsiasi
tipo di correttivo. Per cui il PD ha continuato a essere stretto nella
morsa della doppia legittimazione.
12. Vale la pena a questo punto, di fare una riflessione
aggiuntiva su quello che è il problema
effettivo che sta dietro all’avventurosa scelta del modello del partito
delle primarie da parte del PD. Si tratta di un problema ricorrente e mai
risolto: la questione della democrazia
interna delle organizzazioni partitiche o dei cosiddetti movimenti
politici. A partire almeno dal 1993, in seguito soprattutto ai fatti di
Tangentopoli, nel nostro paese il problema è stato alquanto avvertito dall’opinione
pubblica. Nel corso del tempo sono state proposte diverse soluzioni che costituiscono dei tentativi di risposta al
sempre più grande vuoto di legittimazione
che regna all’interno dei partiti e dei sedicenti movimenti. Il caso delle
primarie del PD è solo una di queste.
Una seconda celebre
soluzione è stata quella sperimentata all’interno del M5S. Questo partito/
movimento, schierandosi contro tutti i partiti tradizionali, ha preteso di dar
vita a un modello di democrazia diretta radicale, da realizzarsi attraverso la
rete e concretizzatosi poi con la piattaforma “Rousseau”. In alcuni casi di
rilievo, gli iscritti al M5S (si badi
bene, gli iscritti, non gli
elettori!) sono stati chiamati a scegliere via web i candidati, oppure a rispondere
a brevi quesiti circa i programmi o ad altre questioni di vita interna. Non
posso qui entrare nel merito, per brevità, ma è un dato di fatto che questo modello
non pare proprio abbia risolto il problema della legittimazione. Il M5S sta
vivendo proprio in questi giorni una crisi drammatica.[9]
Quel che più interessa
per la nostra analisi è per l’appunto quel che sta accadendo negli ultimi
tempi. Com’è noto il M5S, in seguito alle dimissioni del governo Conte, è
entrato in una sorta di fase costituente,
per la fondazione di una nuova formazione politica. Ebbene, in questa occasione
è divenuto palese come il M5S e la piattaforma Rousseau con tutti i suoi
contenuti, fossero praticamente proprietà
di un soggetto privato. Il
soggetto detentore degli elenchi degli
iscritti si rifiutava di renderli disponibili per la costituente e, del pari,
rifiutava di attivare la consultazione costituente stessa. Ciò significa che il
partito più numeroso dell’attuale Parlamento è stato praticamente sequestrato, nella sua attività interna,
da un soggetto privato che legalmente possedeva l’elenco degli iscritti e le password per le consultazioni.
Ma la cosa ancor più
grave è che, nel nostro Paese, nessuno si
sia stupito per un fatto come questo. Non abbiamo sentito nessuno parlare
di attentato alla democrazia. Nessuna inchiesta. Nessuna richiesta di
interventi legislativi per ovviare all’obbrobrio. Insomma, la partecipazione
politica viene palesemente ridotta a una bega di diritto privato e nessuno se
ne accorge. Forse perché in Italia le cose stanno proprio così: la
partecipazione politica è già divenuta essenzialmente una questione privata. Se il M5S, invece che a Rousseau, si fosse
rivolto a Google o a Facebook, forse avrebbe ottenuto migliori risultati e ci
sarebbe stata maggior trasparenza.
13. Alla scelta della doppia legittimazione del PD e alla scelta
della legittimazione per via tecnologica del M5S, possiamo aggiungere, senza
dilungarci più di tanto,[10] anche una terza via ben nota. Si tratta della
legittimazione ottenuta nel rapporto
diretto tra il leader e il popolo. Essa ha avuto nel nostro Paese numerose
sperimentazioni, alcune delle quali hanno avuto notevoli seppur fuggevoli
successi elettorali. È chiaro che in questo caso la legittimazione delle
cariche e dei candidati è una legittimazione
dall’alto ed è legata alla prossimità
con il leader o con il padrone del partito. Niente di nuovo sul
piano organizzativo. Qui l’oligarchia è costituita dal leader ed eventualmente da suo stretto entourage. Non possiamo entrare nel merito, ma questa via sul piano
della democrazia interna ha dato luogo a formazioni politiche fondate spesso
sulla retorica e sul carisma personale, assai instabili, dalle rapide fortune e
dalle altrettanto rapide cadute. Questo non significa che questi modelli di partito
non possano avere anche grandi successi elettorali, nel momento in cui la
comunicazione del leader abbia successo. Alla prova dei fatti comunque questi
modelli, in quanto personali e poco istituzionali, sono risultati altamente volatili,
quando non pericolosi per la stessa democrazia. Il caso Trump negli USA è
davvero esemplare. In ogni caso anche questo modello non risolve in maniera
soddisfacente il problema della legittimazione.
Insomma, le tre più
recenti proposte di soluzione al problema della legittimazione all’interno dei
partiti e dei movimenti, negli ultimi decenni, sono state ampiamente sperimentate
e consumate, hanno conseguito più danni che vantaggi e si stanno risolvendo in
un nulla di fatto.
14. Non ignoriamo il fatto che il problema della legittimazione
c’era anche nei partiti/ apparato e siamo ben lungi dal tesserne le lodi
incondizionate. Conosciamo piuttosto bene le tesi della scuola di Michels.[11]
Secondo la legge ferrea dell’oligarchia
di Michels, le organizzazioni formalmente democratiche evolvono inevitabilmente
verso strutture oligarchiche. Per riassumere, secondo Michels[12] la democrazia
non è concepibile senza una qualche organizzazione. L’organizzazione genera una
solida struttura di potere che finisce per dividere qualsiasi partito o
sindacato in una minoranza che ha il compito di dirigere e una maggioranza diretta
dalla prima. Lo sviluppo di un’organizzazione nel tempo produce
burocratizzazione e centralizzazione, le quali creano una leadership stabile,
che col tempo si trasforma in una casta chiusa e inamovibile. L’insorgenza dell’oligarchia
deriva anche da fattori psicologici, in particolare dalla “naturale sete di
potere” di chi fa politica e dal “bisogno” delle persone di essere comandate.
Quella di Michels è
indubbiamente un’obiezione formidabile. Tuttavia se stiamo alla lettera di
Michels, allora non possiamo fare altro che rinunciare
alla democrazia, poiché il problema
della legittimazione diventa irrisolvibile. E se queste fossero le
conclusioni, dovremmo anche rinunciare
alla politica nel suo senso più proprio e autentico. Infatti, con una certa
coerenza, dopo la Prima guerra mondiale, com’è noto, l’ex socialdemocratico
Michels aderì al fascismo. Ma quello che gli interessava del fascismo non era
tanto il partito/ apparato che pure c’era anche lì; egli riteneva che
Mussolini, grazie alle sue origini proletarie e al suo carisma, potesse
rappresentare direttamente il proletariato, senza la mediazione burocratica
delle rappresentanze sindacali e dei partiti politici. Seguendo questa luminosa
strada, tra gli intellettuali della sinistra italiana è andato di moda, per un
bel po’ di tempo, il politologo nazista Carl Schmitt, il teorico dello stato
d’eccezione e del decisionismo. Come si vede bene, il sogno che ritorna, da
Michels a Schmitt, è sempre lo stesso e cioè che si possa dare rappresentanza politica senza organizzazione.
15. Indubbiamente, le tendenze
oligarchiche sono un dato di fatto e su ciò Michels ha perfettamente ragione.
Proprio per questo però, in tutte le organizzazioni votate alla democrazia,
esistono contromisure che hanno lo
scopo di mettere un freno alle tendenze oligarchiche. Certo, si tratta di
misure che possono risultare più o meno efficaci. Le buone organizzazioni
riescono a governare con successo i loro processi decisionali interni, le
cattive non ci riescono e sono destinate, prima o poi, a comparire davanti al giudizio
della distruzione creatrice.[13]
Quello che sta sotto i nostri occhi, nel caso dei partiti politici, è il fatto
che le tendenze oligarchiche, rese autonome, lasciate in libertà, magari giustificate
con acrobazie teoriche, magari associate a forme di libertarismo o di
democrazia radicale, hanno in ultima analisi gravi costi per la democrazia. I
quali si pagano sia individualmente sia, soprattutto, collettivamente.
C’è una sola soluzione
al problema della legittimazione democratica: i partiti vanno regolati. Del resto le primarie USA sono
rigorosamente regolate per legge. I partiti non
regolati, come quelli del nostro Paese, sono costantemente esposti al
destino di diventare partiti estrattivi,[14]
cioè istituzioni autoreferenziali che,
anziché fornire i servizi che dovrebbero fornire, accumulano, consumano e
sprecano risorse a spese dei loro clienti o utenti. Poiché i partiti estrattivi
si trovano proprio nel ganglio istituzionale che avrebbe il compito di produrre le riforme, è chiaro che essi
potranno fare di tutto, tranne che produrre una riforma efficace dei partiti
stessi. I partiti estrattivi non saranno mai in grado di sostenere una riforma
istituzionale che tolga potere alle loro stesse oligarchie e che ridistribuisca
effettivamente il potere agli utenti. L’antipolitica, nelle sue varie forme che
si sono manifestate a partire dal 1993, ha sviluppato una consapevolezza
profonda del fatto che i partiti non possono auto emendarsi. Purtroppo anche le
soluzioni più o meno esplicite avanzate dagli anti politici stessi sono
risultate ben lontane dall’essere efficaci.
16. Di fronte alle organizzazioni e al conseguente probabile
malfunzionamento organizzativo, secondo un celebre saggio di Hirschman, l’utente leale ha sostanzialmente due
opzioni: voice e exit.[15] Cioè, l’utente, proprio per la sua fedeltà, può essere
indotto in un primo tempo a segnalare i malfunzionamenti, a protestare e a richiedere il ripristino
della qualità del servizio. Qualora l’azione di voice non abbia alcuna conseguenza, all’utente non resta altro che
l’opzione exit, cioè passare a un
altro fornitore o rinunciare al servizio. Pare proprio che ciò sia quanto sta
avvenendo con le primarie. Torino e Roma che abbiamo citato in apertura sono
casi esemplari di exit. Purtroppo,
nel caso della politica, l’opzione exit
degli utenti, che sono cittadini elettori, ha un risvolto paradossale poiché
implica la consegna, permanente e definitiva, di quello che è il bene comune a una combriccola di
oligarchie autoreferenziali.
Le buone organizzazioni
dovrebbero dunque temere anzitutto l’opzione exit e apprezzare ogniqualvolta gli utenti mettono in atto le varie
forme di voice, le azioni di protesta,
che oltretutto possono essere piuttosto onerose per gli utenti stessi. Una
grande attenzione alla voice degli
utenti può guidare le organizzazioni a correggere il proprio funzionamento, a
non perdere gli utenti, a crescere e a svilupparsi. Amazon, dopo la consegna di
un pacco, chiede al cliente di valutare l’esito della transazione e di valutare
l’acquisto effettuato. Se qualcosa è andato storto, Amazon cerca di rimediare,
senza fare tante storie. I nostri partiti non sono neanche in grado di comportarsi,
con i loro elettori, nello stesso modo in cui si comporta Amazon con pacchi e
pacchettini.
17. A questo punto, dopo questa panoramica alquanto teorica,
possiamo tornare al nostro argomento specifico, forse con qualche
consapevolezza in più. Qual è dunque lo stato di salute delle primarie nostrane
rispetto al quadro interpretativo che abbiamo tracciato?
Le primarie nel nostro
Paese, intanto, continuano a essere svolte come eventi del tutto interni ai
partiti della sinistra e continuano a non
avere alcuna veste istituzionale legale. L’unica minima eccezione è quella
della Regione Toscana che ha approvato una legge in merito.[16] L’iniziativa,
che non rende obbligatorie le primarie ma ne permette lo svolgimento eventuale
da parte delle istituzioni regionali e comunali, non è stata seguita da
alcun’altra Regione. Anche in Toscana l’opportunità prevista dalla legge è
stata pochissimo adoperata.
Grazie al loro carattere
non istituzionalizzato, la tipologia funzionale delle primarie italiane è
andata ampliandosi e complicandosi in maniera piuttosto incontrollata. Originariamente,
le primarie avrebbero dovuto servire per scegliere i candidati del PD alle cariche pubbliche. Sono state
utilizzate, contemporaneamente, anche per la scelta del segretario del PD.[17] Le primarie sono poi state
utilizzate anche a livello di coalizione,
per la scelta del candidato a una carica pubblica da parte di una coalizione di
partiti.
L’aspetto davvero comune
a questa variegata casistica è tuttavia il fatto che nel nostro Paese le
primarie nessuno è davvero tenuto a farle.
Di fatto sono uno strumento opzionale di mobilitazione degli elettori che viene deciso di volta in volta. Gli
elettori, in pratica, e questo è l’aspetto essenziale, non hanno alcun diritto di essere convocati. Le primarie in Italia di
fatto sono octroyée, come dicono i
costituzionalisti; in parole povere, sono concesse
dall’alto. Più o meno come lo era lo Statuto albertino.
18. Poiché non sta scritto da nessuna parte che siano un diritto degli elettori e che si
debbano dunque sempre fare, ad ogni
occasione elettorale si scatena puntualmente la querelle se sia il caso o meno di farle. La decisione in merito
ovviamente spetta di fatto alle oligarchie nazionali o a quelle locali del
partito o dei partiti coinvolti. In questa situazione, priva di ogni
prevedibilità, è lecito pensare che, nel decidere se fare o non fare le
primarie, la preoccupazione principale delle oligarchie non sarà mai quella di
assicurare all’elettore il suo diritto di
decidere. Ancora una volta vediamo all’opera la doppia legittimazione, con la netta prevalenza della legittimazione dall’alto.
Va ricordato in proposito che anche l’attuale
segretario del PD è stato eletto senza primarie. In molti dei cespugli della
sinistra le primarie poi non sono neppure previste. Non è chiaro come si
regolerà, sulla questione delle candidature, il nuovo M5S di Conte (se giungerà
sano e salvo alla meta - mentre scriviamo giungono notizie poco confortanti).
Qualora, com’è auspicato da molte parti, si realizzi una coalizione tra PD e
M5S, non si capisce proprio quale tipo di procedura si possa utilizzare per la
scelta dei candidati e dei programmi, visto che il PD predilige le primarie
mentre il M5S predilige la legittimazione via web da parte dei propri iscritti.
19. Uno dei punti più deboli in assoluto delle attuali primarie
made in Italy è quello della formazione delle liste. In teoria, dopo
avere concesso agli elettori il
diritto di effettuare le primarie, stabilite le procedure e una quota minima di
firme per la presentazione delle candidature, chiunque dovrebbe avere il diritto di candidarsi. Accade tuttavia
spesso che le candidature siano prima decise dalle oligarchie e poi fatte passare attraverso le primarie. Le
primarie vengono così a essere sostanzialmente delle meschine operazioni di ratifica di quanto già
deciso altrove. Insomma, agli elettori spesso è data l’illusione di scegliere. Si tratta dunque spesso di pure operazioni
di facciata, proprio come aveva segnalato Michels nella sua legge ferrea dell’oligarchia. Un simile
costume può essere assimilato alla democrazia
plebiscitaria, che è una palese contraddizione in termini. Il caso delle
attuali primarie romane è lampante.
In contrasto con questa
pratica, occorre riconoscere che, in un certo senso, in USA le primarie possono
effettivamente funzionare come espediente anti oligarchico, nel senso che esse,
col voto, danno consapevolmente il potere a un’oligarchia, ma poi sono in grado
di farne piazza pulita nelle elezioni successive. L’oligarchia c’è ma è a scadenza. Questo significa che la
legittimazione ultimativa viene dal basso e funziona perfettamente per lo meno in
senso fallibilista.[18] Mentre in USA
il partito ri-nasce e si organizza in occasione delle elezioni proprio intorno a delle candidature, nel
nostro caso il partito organizzato esiste già come oligarchia correntizia permanente, che ha già fatto un congresso
più o meno autentico, che dispone di cariche, che ha degli interessi da
difendere, che già ha uno straccio di ortodossia programmatica e che ha dei
personaggi da mandare avanti. Questo gruppo oligarchico, inevitabilmente,
finisce per avere un peso fondamentale anzitutto nella decisione se fare o meno
le primarie e, poi, nella definizione delle candidature stesse. Raramente
accade che un candidato estraneo possa imporsi e vincere le primarie. Quando ci
sono simili individui in circolazione, le primarie piuttosto non si fanno.
20. I problemi delle primarie nostrane si presentano in forma
allargata nel caso delle primarie di
coalizione. Data la grande frantumazione della sinistra nostrana, la scelta
dei candidati alle cariche istituzionali difficilmente può essere ricondotta a
un unico partito. Ci si trova spesso di fronte all’opportunità di scegliere il
candidato per una coalizione di liste.
In tal caso occorre
prima determinare i confini della
coalizione, operazione politica che è pressoché sempre demandata alle
oligarchie. Questo è il caso in cui le oligarchie possono porre dei veti[19] oppure
tentare di raccattare tutti quelli che ci stanno. La tendenza di solito è
quella di riunire il maggior numero possibile di gruppi politici e parapolitici.
Spesso s’inventano, per l’occasione, anche gruppi ex novo che di politico non hanno mai fatto nulla. Questi ultimi costituiranno
le liste di appoggio al candidato e,
dopo le elezioni, il più delle volte spariranno dalla circolazione. Tutto
questo serve, magari anche giustamente ma anche assai equivocamente, per allargare la base elettorale.
Poiché ogni lista è
portatrice di voti, nel momento della definizione dei confini della coalizione si
prospetta naturalmente anche il criterio della distribuzione delle “spoglie” in
caso di vittoria. Qualora non si faccia accuratamente quest’operazione, a
elezione avvenuta e a eventuale vittoria raggiunta, si possono registrare
pesanti scosse di assestamento. Bisogna poi che tutti i convenuti discutano di
programmi e candidati e, finalmente, decidano anche se coinvolgere o meno gli elettori, facendo finalmente le primarie octroyée. È chiaro che la primaria di
coalizione, quando si decida di concederla, non può che avere gli esiti in gran
parte scontati. Nella preparazione delle liste ci sono poi gli stessi problemi
che abbiamo già rilevato nel caso delle primarie monopartitiche, aggravati dal
fatto che ciascun gruppo aderente vorrà avere qualcuno dei propri in lista.
21. Come ognun vede, le primarie, come sono per lo più fatte
oggi, dal PD e dalle coalizioni di sinistra, nei rari casi in cui si decide di
farle, rientrano perfettamente nella michelsiana legge ferrea dell’oligarchia. Se le cose stanno così, ci si può
domandare perché recentemente si è tornati a parlare di primarie. Da un certo
punto di vista, dati anche i risultati della nostra analisi, converrebbe
lasciarle perdere. Abbiamo osservato che nel nostro sistema le primarie di
fatto sono octroyee, sono concesse
dall’alto. Possono in teoria essere richieste
dal basso, ma gli elettori non hanno
alcun diritto in merito. E comunque non lo fanno. Chi chiede le primarie fa per lo più la parte dello scocciatore, di
quello che disturba i manovratori. O, peggio, dell’illuso che non sa rassegnarsi
alla dura realtà machiavellica della
lotta politica.
Nell’attuale fase politica
ci sono – a nostro parere – almeno quattro elementi che hanno pesato a favore di
un ritorno di attenzione alle primarie
nella sinistra in senso lato: a) per il PD di Letta le primarie costituiscono
uno strumento tattico che può permettere al segretario di cercare di porre un
freno alla costante rissa correntizia (lo si è visto nei recenti casi di Torino
e di Roma); b) nella sempre maggiore frammentazione della sinistra, le primarie
consentono (talvolta) di formare delle coalizioni e di raggiungere un minimo di
unità d’azione, in una situazione nella quale nessun partito da solo potrebbe
vincere alcunché; c) le primarie permettono di tentare un riavvicinamento all’elettorato
ormai disilluso, rispolverando la retorica e talvolta anche la pratica della
partecipazione; d) nella attuale fase della storia del PD, con la nuova
segreteria Letta, le primarie, ideologicamente, possono costituire una sorta di
ritorno alla narrazione originaria, in cerca di qualche brandello di identità
che il PD sembra avere perduto (e che forse non ha mai avuto). Nei tre casi di
Torino, Bologna e Roma questi quattro elementi si sono visti tutti all’opera. La
questione preliminare è che, volendo recuperare le primarie, si tratterebbe per
lo meno di non darle per scontate, di farne una considerazione critica, per
vedere se siano adatte alla bisogna, oppure per vedere se non ci sia qualcosa da cambiare. Più o meno quel che abbiamo
cercato di fare noi, nel nostro piccolo, con questo articolo.
22. Da quel che abbiamo fin qui argomentato, è davvero difficile
che questi novelli usi delle primarie
possano contribuire a modificare la loro natura ormai alquanto degradata. A
nostro parere, ci sarebbe tuttavia un uso
virtuoso delle primarie - del tutto possibile
ma ahimè alquanto improbabile - che
possiamo immediatamente ricavare dalla nostra precedente analisi. In relazione
a quanto abbiamo affermato circa la legittimazione
dal basso, una svolta sostanziale delle primarie nostrane si potrebbe
realizzare attraverso una mobilitazione
degli elettori (qui mi riferisco allo spazio
politico largo della sinistra) che imponga ai partiti la trasformazione
delle primarie octroyée in primarie di diritto, nelle quali gli
elettori siano sempre chiamati a scegliere
le cariche o le candidature e a discutere e valutare i relativi programmi. Si
tratterebbe cioè di dare un colpo decisivo alle oligarchie interne,
sottoponendole periodicamente al giudizio degli elettori. Questo era
l’autentico spirito originario delle primarie del PD.
La mobilitazione degli
elettori potrebbe avvenire attraverso la stesura di carte rivendicative, sostenute da raccolte pubbliche di firme e attraverso la mobilitazione sul web. Le carte e le
firme potrebbero essere consegnate alle organizzazioni dei partiti e/o delle
coalizioni, le quali sarebbero così costrette a scegliere e a dichiarare
pubblicamente quale sia, secondo loro, la forma corretta di legittimazione. Attorno
alla rivendicazione di un diritto alle primarie
possiamo immaginare un tipo di mobilitazione analogo a quello delle cosiddette
Sardine, di qualche tempo fa. Gli strumenti per una simile iniziativa ci sono e
oggi hanno un costo minimo. Per una compiuta realizzazione dell’iniziativa dal
basso si potrebbero costituire dei comitati
di elettori (già si fanno i vertici per le primarie di coalizione) che
fungano da garanti del processo
democratico, che garantiscano cioè dalle
ingerenze oligarchiche, che organizzino il dibattito a livello territoriale e
che si occupino anche poi delle votazioni. Più o meno come fanno, da più di un
secolo, gli americani nei loro caucus.
Naturalmente tutto ciò avrebbe come sbocco qualcosa di eminentemente concreto
come la modifica dello statuto del PD (e magari degli altri partiti) per
renderlo davvero il partito delle
primarie. Fantapolitica? No, solo se il PD e gli altri partiti avessero il
coraggio di guardare in faccia lo spettro di Michels che aleggia sul proprio attuale
modello organizzativo. Si tratta naturalmente di pura teoria, di una riforma ahimè del tutto possibile ma alquanto improbabile.
23. In prospettiva futura ci sarà un’occasione capitale in cui
la questione delle primarie si riproporrà. Si tratta delle elezioni politiche prossime venture. Com’è noto le prossime
elezioni politiche prevedono la riduzione
del numero dei parlamentari. Non si sa ancora con quale legge elettorale saranno svolte. Quasi certamente
non saranno svolte con un sistema maggioritario, oppure con un doppio turno,
sistemi cioè che siano in grado di dare comunque l’ultima parola agli elettori
nella scelta del candidato. Il rischio è addirittura che ci siano le liste bloccate. In questo scenario sarebbe
logico, per il PD e per la sinistra, sottoporre a primarie le candidature, in
modo da ottenere comunque una solida legittimazione
dal basso. Vedremo invece, assai probabilmente, anche in quell’occasione,
il solito conflitto tra le due fonti di legittimazione, con prevalenza finale della
legittimazione dall’alto. Michels non ha affatto ragione sulla democrazia ma,
quando descrive i meccanismi effettuali della nostra politica, ci azzecca quasi
sempre.
24. Il dato elettorale con cui abbiamo aperto questo articolo dice con chiarezza che, nell’attuale frangente della nostra vita politica, gli elettori anche quando viene loro concessa l’opportunità di fare le primarie, tendono ormai a disertare. Come testimoniano i casi di Torino e Roma. Anche l’affluenza di Bologna non è stata poi così esaltante, considerata la radice di sinistra della cultura cittadina. Le primarie, già deboli e velleitarie nella loro configurazione originaria, evidentemente sono diventate ancor più logore dato l’uso sconsiderato che ne è stato fatto. La colpa ricade soprattutto su chi ne ha avuto la disponibilità e le ha male amministrate. Ma ricade anche sugli elettori, i quali in molteplici occasioni hanno rinunciato a farsi sentire. Hanno preferito usare l’opzione exit, senza intraprendere alcuna azione di voice atta a pretendere come un preciso diritto quella legittimazione dal basso che era stata sbandierata. Regalando così lo spazio politico alle oligarchie. Come spesso accade, la responsabilità del degrado non sta mai da una sola parte.
Giuseppe Rinaldi (30/06/2021)
NOTE
[1] I dati sono stati ricavati dalla stampa
quotidiana.
[2] Riporto la popolazione delle tre città:
Torino 848.196; Bologna 394.533; Roma 2.781.807. I dati sono tratti da
Wikipedia.
[3] Cfr. il saggio pubblicato su Città Futura: PD. Il partito che non
c’è - Città Futura on line (cittafutura.al.it)
[4] La scomparsa repentina di PSI, PC, DC non è
stata senz’altro dovuta al loro modello organizzativo, quanto piuttosto alla
fine della Guerra fredda, che ha modificato in maniera sostanziale gli assetti
politici del Paese. I tre partiti in questione avevano a lungo tratto
giovamento dagli assetti politici bloccati dovuti alla Guerra fredda.
[5] Cfr. il già citato: PD. Il partito che non
c’è - Città Futura on line (cittafutura.al.it)
[6] Si vedano i dati riportati in appendice del
già citato saggio PD. Il partito che non
c’è - Città Futura on line (cittafutura.al.it)
[7] Nonostante il proporzionalismo imperante
della legge elettorale nazionale (proposta da Ettore Rosato, un ex PD), il PD
avrebbe potuto per lo meno sottoporre a primarie le candidature dei Parlamentari.
Nel 2018 il segretario eletto con primarie Renzi si guardò bene dal farlo.
[8] Crisi dovuta non tanto a questioni meramente
organizzative, come abbiamo già sottolineato.
[9] Ciò non significa che la democrazia dei
partiti non possa servirsi delle opportunità della rete.
[10] Senza dilungarci, poiché su questa tematica
abbiamo già sviluppato in passato numerosi interventi.
[11]
Cfr. Michels, Robert, Zur Soziologie des
Parteiwesens in der modernen Democratie. Untersuchungen über die oligarchischen
Tendenzen des Gruppenlebens, Dr. Werner Klinkhardt, Leipzig, 1911. Tr. it.: La sociologia del partito politico nella
democrazia moderna, Il Mulino, Bologna, 1966.
[12] Qui sintetizzo per brevità riprendendo da
Wikipedia.
[13] Il concetto è di Schumpeter.
[14] Il concetto di istituzione estrattiva proviene dall’economista Daron Acemoglu.
[15]
Cfr. Hirschman, Albert O., Exit, Voice
and Loyalty, Harvard University Press, Cambridge, 1970. Tr. it.: Lealtà, defezione, protesta. Rimedi alla
crisi delle imprese, dei partiti e dello Stato, Bompiani, Milano, 1982.
[16] Il 17 dicembre 2004, la Regione Toscana ha
approvato una legge (nota come legge 70) che formalmente consente ai partiti di
tenere elezioni primarie per stabilire i loro candidati, proponendo anche una
comune regolamentazione dello svolgimento, e delegandone l’organizzazione e la
gestione alla Regione e ai comuni, in modo simile alle elezioni regionali.
Questa opportunità è stata finora poco sfruttata. Una simile legge non è stata
ripresa da alcuna altra regione, vuoi di destra vuoi di sinistra.
[17] Che non è una carica pubblica, anche se il
segretario del PD può aspirare alla presidenza del consiglio, in caso di netta
vittoria elettorale
[18] Si veda la concezione popperiana della
democrazia. Popper diceva, in estrema sintesi, che la democrazia non è il
sistema che permette al popolo di governare direttamente, bensì il sistema che
permette periodicamente al popolo di licenziare, senza spargimento si sangue,
chi abbia malgovernato. Il meccanismo della falsificazione
epistemologica viene così trasferito nel campo della politica.
[19] Caso tipico: se inserire o meno il M5S nella coalizione.