1. 
Ho sempre avuto[1] qualche diffidenza nei confronti della filosofia 
frammentaria, quella fatta di pensieri occasionali, aforismi, frammenti, 
ritagli, approssimazioni, spunti, provocazioni, semilavorati, zibaldoni, 
meditazioni, sonde, brani poetici o letterari, libelli satirici, oppure anche 
barzellette, come ha fatto di recente un filosofo che va per la maggiore. Tutto 
ciò, per me, può appartenere alla fase 
preparatoria della riflessione filosofica, al bancone del laboratorio, alla 
cassetta degli attrezzi. Oppure, anche al momento 
privato del filosofo, importantissimo nella motivazione della ricerca ma che 
non necessariamente è interessante e necessario che sia reso pubblico. Credo in
 generale che la riflessione filosofica, per essere efficace, debba essere una 
riflessione pubblica, come per lo 
più accadeva in Grecia proprio ai tempi della nascita della filosofia. Debba, 
per conseguenza, essere composta di argomentazioni compiute e di teorie 
organiche, in modo da dare al pubblico la possibilità di prendere parte alla 
discussione ed eventualmente di scegliere la propria posizione. Per questo, 
secondo me, le tesi filosofiche vanno esposte in forma esplicita ed esauriente 
in modo da dare il fianco a eventuali confutazioni che siano ugualmente 
organiche e chiare.
Per questo, lo confesso onestamente, talvolta faccio 
una certa fatica a seguire lo stile dell’amico Franco Livorsi che ultimamente 
propone le sue meditazioni filosofiche a partire da letture e commenti di brani 
di alcuni classici della filosofia e non disdegna l’uso della narrativa o della 
poesia. Non condanno assolutamente queste pratiche, sicuramente più che 
legittime e appartenenti a una più che rispettabile tradizione. Anche se 
personalmente confesso di non ritrovarmici più di tanto. È senz’altro un mio 
limite. Mi sforzerò comunque, in quel che segue, in nome del valore che 
attribuisco al dialogo, di formulare un mio punto di vista, per come ne sono 
capace, intorno alle sue recenti meditazioni circa l’attuale crisi
 globale e la conseguente possibilità, da lui avanzata, che la sola strada di
 uscita possa essere costituita dall’avvento di una nuova 
religiosità.[2] Questa tesi peraltro mi ricorda più o meno quel che disse 
Heidegger: «Ormai solo un Dio ci può salvare».[3] Una simile irruzione della 
religiosità nella politica va senz’altro controcorrente, vista la tendenza delle 
religioni – almeno in Occidente – ad abitare sempre più la sfera del privato. 
Comunque si pensi, si tratta di argomenti direi di notevole rilievo, di cui 
peraltro nell’attuale piattume culturale si discute sempre meno. Essendo Hegel 
il convitato di pietra di questa nostra discussione, prendendomi anch’io qualche 
libertà nello stile e in un omaggio puramente rituale alla scolastica hegeliana, 
dividerò la mia esposizione in tre parti, tesi, 
antitesi e sintesi, 
anche se diversi studiosi oggi negano che Hegel abbia mai parlato seriamente 
della dialettica in questi termini.[4] Nella prima parte esporrò le mie 
convinzioni circa la questione della crisi epocale e del nichilismo. 
Nella seconda parte discuterò circa la proposta di una nuova
 religiosità o di una nuova 
religione come antidoto per superare la crisi supposta. Nella terza parte 
esporrò una serie di mie considerazioni sulla questione della spiritualità, 
per come questa si prospetta in un mondo laico, plurale e globalizzato. 
Ci tengo a chiarire che queste mie argomentazioni 
vorrebbero essere altrettanti
 approfondimenti da parte mia,sebbene a partire da quanto ha scritto 
Franco Livorsi, e quindi non vanno intese come risposte puntuali nel contesto di 
una qualche contrapposizione polemica che è totalmente fuori dalle mie 
intenzioni.
A - 
Tesi
2. 
Livorsi nel suo articolo parla anzitutto di una crisi 
epocale. Cita addirittura la “caduta” dell’Impero romano. Personalmente ho 
sempre diffidato delle svolte 
epocali. Semplicemente perché, nella storia contemporanea, non possiamo mai 
sapere se un qualche cambiamento appena avvenuto è epocale o meno. Solo nel 
lungo o lunghissimo periodo possiamo individuare, retrospettivamente, le grandi 
svolte significative che sono intercorse. Dico questo anche e soprattutto perché 
mi pare che oggi, nel dibattito politico culturale corrente, la tendenza – 
escludo qui le posizioni di Franco che credo di conoscere abbastanza per non 
farle rientrare nel novero delle mode – a identificare svolte epocali sia 
divenuta veramente patologica. Qualunque perturbamento nell’oggi, positivo o 
negativo che sia, è ormai individuato come svolta 
epocale. Tempo fa, a proposito di altre questioni, ho chiamato svoltismo 
questo atteggiamento. Taluni postmoderni, nonostante il rigoroso minimalismo che 
li dovrebbe contraddistinguere, sono tra gli svoltisti più scatenati.
Ricordo che il termine “crisi”, etimologicamente, ha a 
che fare con una situazione di dubbio che richiede una scelta. Essere in crisi 
significa che si è messi davanti alla necessità di una scelta. Per
 derivazione, crisi indica anche certamente una situazione assai grave di
 disorientamento oppure di sfacelo 
totale, magari senza alcuna via di uscita e, dunque, senza alcuna 
possibilità di scelta. Se così è, va fatto osservare che oggi, a livello 
globale, accade sempre più raramente che una qualunque crisi si configuri come 
un disorientamento assoluto o come una catastrofe totale e sia davvero
 generalizzata, ossia che coinvolga tutti gli aspetti significativi di una 
società, o addirittura di una civiltà, proprio come accadde attorno all’anno 
476. Di solito le crisi odierne riguardano aspetti circoscritti delle varie 
società, anche se molteplici livelli di crisi possono concatenarsi per produrre 
situazioni di crisi più ampie e durature. Se questo è vero, allora, quando si 
parla di crisi bisognerebbe evitare di rimanere sul generale e si dovrebbe 
andare più nel dettaglio. Dico questo perché, da un certo punto di vista, si 
potrebbe anche sostenere che oggi non 
siamo affatto in crisi e che l’umanità, su questo pianeta, nonostante tutto 
non è mai stata così 
bene.
3. 
Molti indici statistici testimoniano di una crescita imponente a livello 
economico, sociale e culturale. Tendiamo a sottovalutare una serie di benefici 
di cui godiamo oggi soltanto perché li abbiamo sempre sotto gli occhi e ci 
sembrano ovvi: i progressi dell’industria, l’avanzamento della tecnologia, 
l’incremento dei consumi, il miglioramento del livello d’istruzione, le cure 
mediche, la libertà di spostamento, internet e così via. In campo politico, tra 
gli elementi positivi, aggiungerei che il numero di Paesi nel mondo che hanno 
forme di governo democratiche, o quasi democratiche, sta progressivamente 
aumentando. Le democrazie hanno senz’altro dei problemi, ma a quanto pare tutte 
le altre forme di governo sono senz’altro peggiori. A Hong Kong si sta lottando 
per la democrazia, anche se ciò avviene nell’indifferenza di coloro che, nel 
resto del mondo, uno straccio di democrazia l’hanno già. 
In generale, nell’ultimo secolo, l’umanità è stata 
protagonista e testimone di sviluppi esponenziali in una miriade di campi, come 
non mai. Non bastano le brutture del secolo breve per misconoscere gli
 avanzamenti che ci sono stati. Le brutture del secolo breve pare anzi abbiano
 avuto la ricaduta positiva di mettere fuori discussione alcune opzioni politico
 sociali che hanno avuto un grande seguito di massa, che sono parse a un certo
 punto come positive ma che si sono rivelate più che mai perniciose. Nessuno
 vorrebbe realisticamente tornare indietro, anche soltanto agli anni Cinquanta
 del secolo scorso. Ci sono molti studiosi che hanno sviluppato esattamente
 questo tipo di argomentazioni, in contrasto con le tesi più catastrofiste, le
 quali sono tuttavia senz’altro le più note, abbondanti e diffuse.
4. 
Allora, cos’è che non va? Intanto, nonostante lo sviluppo imponente, ci sono 
ancora enormi sacche di arretratezza 
che rendono evidente come lo sviluppo fin qui realizzato non 
basta. Lo sviluppo è avvenuto in maniera disomogenea, come si dice, a 
macchia di leopardo. Lo sviluppo sta inoltre rendendo più evidenti le 
disuguaglianze tra gli individui e tra le diverse aree del mondo e sta 
producendo una serie di conflitti, per lo più di carattere locale, che ha per 
oggetto soprattutto la questione della distribuzione, in un quadro ormai di 
sfruttamento intensivo del pianeta e di scarsità delle risorse. Si tratterebbe 
allora di riequilibrare lo sviluppo, piuttosto che bloccarlo.
Si può obiettare tuttavia che un certo tipo di crisi 
aleggi oggi anche e soprattutto proprio nelle aree più sviluppate, dove maggiore 
è la ricchezza e dove maggiori sono i vantaggi portati dallo sviluppo. 
Sembrerebbero in crisi proprio tutti, quelli che stanno bene e quelli che stanno 
male. Ma, allora, si può dire che ci sia un’unica crisi 
globale? Se sì, di che crisi si tratta? I punti 
specifici di crisi sono naturalmente innumerevoli. Se però volessimo darne 
una descrizione terribilmente sintetica tale da accomunarli più o meno tutti – 
cosa che si dovrebbe sempre fare con grande cautela – potremmo sostenere, a mio 
giudizio, indipendentemente dal livello di sviluppo conseguito e goduto, che 
stiamo soffrendo a causa delle difficoltà di adattamento. Lo sviluppo 
economico, sociale e culturale non è facilmente pianificabile, come si era 
creduto in passato, e sta procedendo in forme talmente imprevedibili e a una 
velocità tale che produce lo sconvolgimento nei vecchi assetti e, quindi, induce 
la necessità di rapidi adattamenti e di grandi cambiamenti.
Lo sviluppo attuale produce sconvolgimenti soprattutto 
a livello dei singoli individui. 
Diciamo che c’è uno stato di sofferenza 
diffusa all’interno degli individui, a livello globale, anche se si tratta 
di una sofferenza spesso causata da motivi completamente diversi. C’è 
dunque un disagio diffuso che tuttavia ha cause 
molteplici e che richiederebbe altrettante molteplici 
diverse soluzioni. Una soluzione 
unica non basta. I vari tentativi di soluzione spesso generano tuttavia 
nuovi altri problemi. La sofferenza dei singoli, per le più diverse cause, fa sì 
che i singoli spesso stiano a loro volta tra le cause delle sofferenze altrui. 
In questo modo tendono ad aumentare la concorrenza e la conflittualità 
inter individuali. 
Un altro importante aspetto del disagio che colpisce 
gli individui nella nostra epoca è costituito dalla paura. 
Entrando gli individui a far parte di sistemi sempre più estesi e complessi, 
aumenta la loro sensazione di precarietà, d’incapacità di controllare le 
situazioni. E dunque, anziché affrontare i problemi per quello che sono, c’è la 
tendenza ad andare alla ricerca di soluzioni difensive. Soluzioni
 sbrigative come, tanto per fare qualche esempio piuttosto vicino a noi,
 procurarsi una pistola, picchiare gli infermieri del pronto soccorso, non far
 vaccinare i figli, ubriacarsi e/o drogarsi il sabato sera, costruire muri di
 filo spinato, ignorare il parere degli scienziati, darsi al populismo
 sovranista. In generale, succede dunque che, anche se di fatto stiamo molto
 meglio di cinquanta o cento anni fa, tutto questo non 
ci rende felici e produce uno stato diffuso di precarietà 
e paura. 
5. 
Pensare le molteplici e complesse crisi del mondo di oggi in termini di un’unica crisi epocale produce un effetto 
indesiderato che consiste nell’andare continuamente all’indietro nel tempo per 
cercare la radice ultima del nostro 
ipotetico unico e immenso problema 
epocale. Insomma, si tratterebbe di dare un volto, un nome, al male 
originario che ci opprime. È lo stesso meccanismo che presiede all’antica 
credenza nel peccato originale. Una 
volta identificato il problema unico 
da cui derivano tutti i mali, ecco che può partire la ricerca della soluzione 
unica. Per carità, non c’è nulla di male a fare questi esercizi mentali, i 
quali tuttavia credo abbiano l’effetto collaterale di distogliere 
dall’affrontare effettivamente i problemi specifici che abbiamo. È abbastanza 
evidente poi che si tratti di esercizi mentali - in cui indulgono spesso e per 
lo più i filosofi continentali - che 
pretendono spesso di elaborare una complessiva visione del tutto, per 
ottenere la quale però si è costretti spesso a ricorrere al cosiddetto pensiero
 vago,[5] quel pensiero che è tanto generico che è impossibile da confutare,
 che fornisce l’illusione di avere afferrato i termini ultimi della questione ma
 che poi ci lascia privi di ogni sbocco operativo.
6. 
Una delle diagnosi di carattere epocale – molto popolare e, secondo me, 
piuttosto sbrigativa – è che tutto ciò che ci angustia sia dovuto al nichilismo. 
Si tratta purtroppo di un termine assai ambiguo, per quanto possa essere 
affascinante e molto popolare. Anche perché i filosofi che hanno coniato questo 
termine non si sono mai dati da fare per definire il termine stesso e farne un 
uso controllato. È inutile cercare di capire esattamente
 cosa intendesse Nietzsche con quel termine. Solitamente gli si attribuiscono
 almeno tre o quattro significati diversi. Il che è dovuto, ancora una volta, al
 carattere episodico e frammentario delle stesse riflessioni nicciane. Heidegger
 non ha contribuito a chiarire, forse anzi ha complicato ancor più il quadro. Si
 tratta indubbiamente di filosofi 
vaghi. Ma anche filosofi meno vaghi, come ad esempio il nostro Galimberti, 
che pure si è occupato di psicologia in senso scientifico, non hanno contribuito 
gran ché a chiarire l’arcano. Si veda lo studio di Galimberti sui giovani e il 
nichilismo, in cui la definizione del nichilismo è davvero piuttosto vaga.[6] 
Renzo Volpi, nel suo studio sul nichilismo,[7] dopo una altrettanto vaga 
definizione di un paio di paginette, ha scelto di raccontare la
 storia del termine attraverso le teorie eterogenee dei filosofi. Se ci sono
 tanti nichilismi diversi quanti sono i filosofi o letterati che ne hanno
 parlato, come facciamo a dire con sicurezza che la colpa di tutti i nostri
 guai, la colpa della svolta epocale, sia proprio dovuta al nichilismo?
 Nichilismo quale? Mi spiace, ma 
siamo ancora sempre nel campo del pensiero vago.
7. 
Banalmente, tanto per dare una definizione operativa provvisoria, che 
sia utile alla prosecuzione del nostro discorso senza troppe ambiguità, si 
potrebbe dire che il nichilismo implica una condizione generalizzata di 
incredulità, di perdita dei valori, di disorientamento, di spaesamento 
per dirla con Heidegger, cioè di perdita
 della patria. Si tratterebbe, in termini ancor più sintetici, di una
 perdita dei quadri fondamentali di
 riferimento. Se così è, bisogna però ammettere che il nichilismo in questo
 senso c’è sempre stato. Fin dai tempi di Gorgia. Già a quell’epoca c’era chi,
 di fronte a robuste teorie che propugnavano solide verità, faceva osservare
 l’impossibilità di accedere a qualsiasi verità ultima. Quando simili teorie,
 elaborate in sede filosofica e certo del tutto legittime, dilagano a livello di
 massa, diventano tuttavia spesso un atteggiamento esistenziale più che 
teoretico e possono anche assumere un aspetto patologico dal punto di vista
 dei singoli e dell’organizzazione sociale. Diventano allora non più soltanto teorie filosofiche sbagliate[8] ma una
 vera e propria malattia culturale 
che ha a che fare con il rapporto tra gli individui e la loro cultura, come 
ha bene spiegato Ernesto de Martino[9] (peraltro influenzato anche da 
Heidegger). Se non piace de Martino, ci si può sempre rifare a Durkheim, il cui 
concetto di anomia ha avuto una 
rispettabile storia nell’ambito delle scienze sociali.[10] 
Ci sono state indubbiamente epoche in cui i quadri di 
riferimento di base sono rimasti lungamente immutati e altre epoche nelle quali 
i quadri di riferimento hanno preso a cambiare rapidamente. Sono le società a produrre i propri stessi quadri di 
riferimento, selezionando e tramandando gli orientamenti culturali ritenuti più 
utili. Tuttavia questi quadri possono a un certo punto non funzionare più ed entrare in crisi. Uno dei casi più 
studiati, quasi come fosse un laboratorio, è la repentina destrutturazione
 delle culture precolombiane in seguito al contatto con i conquistadores. 
Si veda lo studio esemplare di Todorov in proposito.[11] Oppure quello di 
Wachtel.[12] Sul piano delle società occidentali resta esemplare il pur oramai 
datato studio di David Riesman sulla Folla solitaria.[13] È chiaro che le cause dell’indebolimento o della
 perdita dei quadri basilari di riferimento di una società possono essere
 molteplici e assai diverse tra loro.
8. 
Comunque, indipendentemente dalle cause - a proposito delle quali si può sempre 
discutere e, soprattutto, si può indagare empiricamente - si può dire che questo 
fatto del disorientamento pur diffuso costituisca una crisi 
epocale? Se il nichilismo è quello che abbiamo appena descritto, direi 
allora che, più che di un “ospite inquietante” come si ama ripetere, si tratta 
di processi abbastanza comprensibili, legati al funzionamento del meccanismo 
culturale, su cui molto potrebbero dire (e molto hanno detto) gli antropologi 
culturali. Messa la stessa questione in mano ai filosofi, sembra che questa 
crisi, divenuta facilmente crisi 
epocale, sia una crisi totale di 
civiltà, una specie di fine del 
mondo in termini ontologici. Per spiegare la crisi epocale filosoficamente 
intesa sono state elaborate svariate teorie che tuttavia paiono afferire più o 
meno tutte a un solo tipo di 
filosofia, quella continentale. 
Secondariamente paiono – almeno a chi scrive - mosse da un unico
 filo conduttore che è quello ben noto della concezione della storia 
come decadenza. La responsabilità della crisi o decadenza è stata variamente 
attribuita a una serie di “cause” che, alla fin fine, sono tutte tra loro 
alquanto imparentate. Per cominciare da lontano, la crisi è stata attribuita 
alla fine del mondo del mito, allo 
sfrontato razionalismo di Ulisse, 
alla nascita della riflessione
 filosofica razionale per opera di Socrate (il quale però tanto poco era
 nichilista che si uccise in nome delle leggi della propria polis). 
Anche il cristianesimo è stato indicato tra i responsabili della decadenza, 
essendo esso la religione degli 
schiavi. Oppure ancora, la colpa è stata identificata in un ipotetico oblio dell’essere che sarebbe avvenuto 
all’inizio della storia dell’Occidente, più o meno dalle parti dei filosofi 
presocratici. Tuttavia, col passar del tempo, questa visione della decadenza 
globale si è arricchita e suddivisa in vari rivoli, per cui sono stati precisati 
innumerevoli nuovi ulteriori colpevoli. Colpa della rivoluzione digitale, colpa 
del predominio della tecnica e della ragione strumentale, colpa del mercato e 
della merce, colpa del capitalismo, colpa della rivoluzione scientifica, colpa 
della rivoluzione industriale, colpa dell’illuminismo, colpa
 dell’individualismo, colpa della secolarizzazione e della perdita della fede,
 colpa dell’abbandono della tradizione, colpa del peccato di presunzione e di
 dominio dell’animale uomo nei confronti della natura. Colpa, infine, anche
 della morte di Dio, che sarebbe
 tipicamente connessa proprio con il nichilismo. Insomma, la colpa è sempre di
 quel che, di volta in volta, si suole comunemente qualificare con la parola progresso. La parola progresso ha
 assunto una connotazione nettamente negativa e chi la pronuncia in pubblico
 oggi fa la figura dello sprovveduto o dello sfrontato. Al posto del progresso,
 che è considerato sospetto, tutti vogliono però lo sviluppo. Già, tutti
 vogliono lo sviluppo, ma è chiaramente pericoloso uno sviluppo 
senza progresso. La ragione di questa stranezza è che parlare di sviluppo 
non pone troppi problemi, mentre il progresso implica prendere 
posizione su ciò che è progressivo e ciò che non lo è. Chi è disorientato, 
appunto, non riesce proprio a giudicare cosa è progressivo e cosa non lo 
è.
Mi stupisco sempre per il fatto che le tesi 
vaghe sulla decadenza come quelle che ho sintetizzato finiscano per godere 
di ampia popolarità e finiscano così, come sottoprodotto, per creare 
e alimentare proprio quel clima di 
nichilismo che invece apparentemente vorrebbero combattere. C’è un serio rischio 
che il nichilismo sia un prodotto elaborato degli stessi filosofi continentali e 
che viene inopinatamente diffuso a livello di massa, dove trova ampia 
accoglienza in mancanza di meglio e dove diventa atteggiamento 
esistenziale generalizzato.[14]
9. 
Data la rapida trasformazione e crescita che ho citato e dato il disagio 
esistenziale, morale, antropologico di cui ho parlato, mi pare che i termini 
della crisi odierna – volendo anche qui fare una sintesi ardita – siano in 
realtà piuttosto semplici e riconducibili a un’opzione basilare. Del resto la 
crisi ha anche a che fare con la questione della scelta. 
Si tratta di scegliere se vogliamo guardare indietro o se vogliamo guardare avanti. Decidere se vogliamo 
vedere il mondo nell’ottica del progresso oppure della decadenza. 
Se vogliamo mantenere una qualche minima buona intenzione di fare 
coscientemente la storia o se invece ci rassegniamo a lasciarci
 fare dalla storia.[15] Guardare avanti implica naturalmente un certo
 coraggio, poiché i problemi sono tanti e il futuro, per sua natura, è sempre
 incerto. Guardare indietro è senz’altro più rassicurante, poiché si cerca di
 ripristinare quel tempo nel quale ci sentivamo meno smarriti, avevamo la
 sensazione cioè di essere più appaesati. 
La soluzione migliore sarebbe ovviamente quella di guardare all’indietro per meglio guardare 
in avanti, ma questa soluzione implica già una prospettiva 
di storicità che chi vive nella prospettiva del nichilismo non può 
sempre permettersi. La perdita dei quadri fondamentali di riferimento implica 
un’enorme difficoltà nella formulazione di piani di azione che abbiano una 
dimensione di autentica storicità.[16] La storicità è un prodotto culturale come ogni altro e 
può accadere che le società, proprio a causa delle loro crisi culturali, 
diventino carenti nella produzione di 
una prospettiva storica. Potrebbe anche essere che, anziché essere dovuta al 
nichilismo, l’attuale crisi, soprattutto quella che insiste nel mondo più ricco 
e sviluppato, sia una crisi di 
storicità.[17] Non m’impegno fino in fondo, ma mi sembrerebbe già una tesi 
vagamente più convincente di quella del nichilismo. Del resto l’umanità ha
 vissuto per migliaia di anni in una condizione di pre-istoria 
e la produzione di una qualche prospettiva storica è cominciata non 
più di sette o ottomila anni fa. La storia è giovane.
Guardare soprattutto indietro produce – come ho
 già accennato - una strana proiezione del passato sul nostro presente e sul
 nostro futuro. In qualcuna delle epoche passate – così si ragiona - potremmo
 avere imboccato una strada sbagliata. Una strada tanto sbagliata da prefigurare
 il nostro attuale presente decaduto, privo di significato e dunque una sicura prossima catastrofe.[18] Le
 strade pericolose che vengono indicate sono più o meno sempre le solite, quelle
 connesse alla visione della 
decadenza (o del fallimento del 
progresso) che abbiamo già segnalato e alle varie teorie annesse e connesse. 
Abbiamo imboccato la strada della tecnica e così diventeremo tutti delle 
macchine e le macchine ci governeranno, come nel mondo dei cyborg. 
Abbiamo imboccato la strada della scienza moderna (a quanto pare la colpa 
sarebbe del povero Francis Bacon) e questa ci porterà alla perdita 
della nostra umanità. Grazie al mercato siamo diventati schiavi 
delle merci e, nel linguaggio di Lacan, abbiamo così abbandonato il desiderio per lasciare spazio alla pulsione. Non ultimo, abbiamo
 abbandonato la religione per il
 materialismo, l’ateismo, la laicità e questo ci ha privato dei quadri
 fondamentali di riferimento che mantenevano solido il rapporto tra noi e il
 resto dell’universo, sia come natura che come società.
Allora, in base a diagnosi di questo tipo, più o meno 
argomentate e approfondite, la soluzione alla crisi (al nichilismo) starà nel tornare indietro a un momento prima di 
quando abbiamo imboccato la strada sbagliata. Sono questi quelli che acutamente 
Franco Livorsi nel suo scritto – prendendo da loro le distanze - ha chiamato i 
ritornanti. Torniamo a prima della 
tecnica, torniamo a prima della razionalità occidentale come voleva Nietzsche, 
riproponiamo il mito, torniamo a prima di Bacone, a prima del mercato e delle 
merci (ci sono quelli che seriamente vorrebbero tornare al baratto), torniamo al 
mondo contadino, facciamo a meno di Internet, recuperiamo la semplicità, 
re-impariamo a respirare e star bene 
con il nostro corpo, e così via. Se si entra nell’ottica di una globale visione di decadenza è davvero 
difficile non ragionare da 
ritornanti.
10. 
Sicuramente la più grande visione della 
decadenza che ha preso piede nella storia d’Occidente è quella che riguarda 
il medio evo. Gli umanisti e i 
rinascimentali hanno osato operare una nuova auto 
collocazione nella storia e hanno creduto di scorgere, dietro di loro, le 
rovine della decadenza medievale. Così hanno cercato di connettersi con quella 
civiltà greco romana che c’era stata prima della decadenza. Tuttavia il
 dilemma se guardare avanti o guardare indietro, ha avuto una formulazione
 esemplare anche in tempi relativamente recenti. Si tratta del dilemma che è
 stato posto nella contrapposizione tra l’illuminismo
 e il romanticismo. Lo stesso 
dilemma, a suo modo, continua a essere posto ancora oggi, poiché possiamo 
sostenere che il romanticismo non è mai finito, come non è finita l’influenza
 dell’illuminismo sul nostro mondo odierno. 
Guarda caso, questo conflitto tra il guardare avanti e 
il guardare indietro ha trovato particolarmente spazio nella Germania del primo 
Ottocento, quando il mondo di Lutero si è trovato a confrontarsi con la 
Rivoluzione industriale. In quel travagliato passaggio, in quel piccolo mondo 
degli staterelli germanici, si è avuto il primo sviluppo del romanticismo e lo 
sviluppo della filosofia idealistica, e di quella hegeliana in particolare. In 
modo del tutto analogo, recentemente, negli scorsi decenni, abbiamo visto 
all’opera il postmodernismo che può 
essere letto come l’ultima onda romantica anti illuministica, ma anche come 
un’ondata tipicamente scettica e nichilistica.[19] Insomma, una filosofia
 della decadenza. Le due cose non si escludono proprio. Tipico del
 postmodernismo è la riflessione sulla crisi delle grandi narrazioni – 
religioni, filosofie e ideologie – e sul nostro necessario adattamento 
disincantato al paesaggio delle rovine 
della modernità – rovine che peraltro piacevano assai proprio ai 
romantici.
Insomma, sempre per grandi sintesi, la questione è 
quella dell’atteggiamento prevalente nei confronti di quello che una volta si 
chiamava il progresso, dietro a cui 
sta la questione più ampia, cui ho accennato, della produzione 
della storicità. Abbiamo creduto nel progresso, ci siamo impegnati nel 
tentativo di fare la storia, il progresso non ci ha resi felici, dunque mettiamo 
al bando il progresso. Sarà semplicistico, ma senz’altro convincente e 
comprensibile a tutti. Lo stesso si può dire di conseguenza a proposito dei 
progetti di rivoluzione: la 
rivoluzione industriale, la rivoluzione scientifica, la rivoluzione francese, le 
rivoluzioni liberali e democratiche, le rivoluzioni nazionali, le rivoluzioni 
socialiste e comuniste. Insomma, le promesse non mantenute del progresso (e 
delle rivoluzioni che comunque fanno parte del progresso e ne costituiscono anzi 
una variante velocizzata e 
radicale), il fallimento della scelta dell’impegno 
nella storia, non fanno che spingere a guardare indietro, a cercare rifugio 
nel passato. O, peggio, a rallentare o addirittura a fermare la storia. Nel 
linguaggio di Franco Livorsi, abbiamo voluto il progresso, cercato di costruire 
il paradiso in terra, abbiamo 
fallito e ora ci troviamo dentro a un inferno, per cui potrebbe essere 
realistico tornare al paradiso in 
cielo il quale, pur essendo proiettato in un futuro indefinito, comunque può 
sempre servirci per vivere meglio, per orientarci utilmente nel nostro inferno 
quotidiano. 
11. 
Le diagnosi catastrofiste anti moderne giocano dunque particolarmente 
sull’irruzione di grandi processi sovra 
individuali che sono considerati come ineluttabili 
e che sembrano destinati a passare sulla testa dei singoli individui. Ciò, 
naturalmente, finisce per alimentare ancor più il senso d’impotenza 
individuale. Il problema tuttavia è che gli individui non sono solo 
testimoni passivi della loro storia – come voleva Hegel. Anche se non fanno 
assolutamente niente, gli individui sono proprio loro sempre i protagonisti. Con 
il loro fare o con il loro non 
fare. A questo punto ci possiamo domandare se – sul piano individuale – il 
fatto di optare pro o contro quello che abbiamo sommariamente definito come progresso (reale o illusorio che sia),
 pro o contro la storicità, è del
 tutto casuale oppure se non dipenda da certe specifiche caratteristiche 
individuali. C’entrano qualcosa, gli individui, con i processi sovra 
individuali con cui hanno a che fare?
Una traccia ci viene dal romanticismo stesso: nel primo 
Ottocento, quali Paesi si sono schierati prevalentemente contro il progresso e 
quali invece si sono schierati a favore? I movimenti contro il progresso si sono 
manifestati soprattutto nei Paesi più 
arretrati, nei Paesi dunque dove l’irruzione repentina del progresso stesso 
ha creato i maggiori disagi di tipo culturale, i maggiori stress.
 Insomma, dove gli individui erano poco
 preparati, o avevano una preparazione inadeguata. Basta vedere 
le valutazioni che Marx dava della Germania del primo ottocento paragonata alla 
Francia. Naturalmente i circoli e i movimenti culturali rispecchiano le tendenze 
più generali di ogni Paese. Nel circolo di Jena gli intellettuali più raffinati 
appoggiavano Goethe e Keplero contro Newton. Hegel ha ottenuto la libera docenza 
con una Dissertazione oscurantista e 
anti scientifica sulle orbite dei pianeti. Mentre a Manchester si producevano, 
in condizioni certo di estremo sfruttamento, gli indumenti per vestire milioni 
di persone, in Germania c’erano quelli che bramavano per l’infinito, 
disprezzavano i vili meccanici e proclamavano che tutto 
è Idea. Il tutto però grazie, comunque e sempre, allo sfruttamento dei 
poveri da parte dei signorotti locali (si ricordi l’intervento di Marx sui furti 
di legna nei boschi). L’oppio dei popoli di Marx nasce dalla consapevolezza che 
non si può avere la mente annebbiata 
se si vuol fare consapevolmente la storia, se si vuole scegliere
 (nel senso di superare le crisi incombenti).
12. 
Il disorientamento individuale non è dunque un fatto ineluttabile, non è un 
fulmine inaspettato che si abbatte qua o là. Il disorientamento individuale 
dipende anche e soprattutto da come sono 
fatti gli individui che dovrebbero far fronte ai problemi che la storia pone 
(una storia non dimentichiamolo, fatta dagli individui stessi). La 
responsabilità viene attribuita spesso e volentieri ai grandi 
processi che condizionano gli individui. Sarebbe ora che si cominciasse a 
conferire un giusto grado di 
responsabilità delle catastrofi anche agli individui, alle loro limitazioni, 
carenze, alla stupidità e alla ignoranza, al particolarismo e al servilismo. 
Alla imbecillità, visto che è ormai 
divenuta una categoria filosofica.[20] Se vivi in Africa in una capanna e il 
medico bianco vaccina tuo figlio e tu tagli il braccio a tuo figlio pensando che 
il bianco gli abbia fatto una magia, sei un imbecille. Certo, si tratta di 
un’imbecillità non strettamente personale bensì, come si dice oggi in modo politically correct, culturalmente 
motivata. Non sei solo tu a pensarla così. Corrisponde alla tua visione del 
mondo, alla tua cultura. Se pretendi che, grazie al materialismo dialettico, 
l’acqua possa scorrere in salita, come avevano progettato i Khmer rossi nelle 
loro risaie, sei ugualmente un imbecille. Culturalmente motivato certo, ma pur 
sempre un imbecille. Se ormai abbiamo le prove che l’uomo discende, per così 
dire, dalla scimmia e se, invece, più della metà della popolazione di un certo 
Paese rifiuta la teoria dell’evoluzione, la colpa non è della scienza, 
dell’oblio dell’essere, della tecnica, del razionalismo occidentale, del mercato 
o quant’altro, ma della miriade di imbecilli culturalmente
 motivati che popolano il pianeta. Questo elenco di imbecillità 
culturalmente motivate potrebbe essere allungato a dismisura. Si potrebbero 
fare accurate classificazioni. Come ha acutamente sostenuto Maurizio Ferraris, 
«L’imbecillità è una cosa seria».[21] Di fronte ai cambiamenti rapidi, alle 
scelte critiche incombenti, gli imbecilli culturalmente motivati – 
proprio poiché le culture tendono a resistere ai cambiamenti - del tutto 
incolpevolmente possono fare dei disastri, soprattutto quando questi sono assai 
numerosi e quando hanno il potere di votare.[22] Di fronte alle crisi, gli 
individui devono scegliere, ma per poterlo fare efficientemente
 dovrebbero avere a loro disposizione gli strumenti per scegliere. Invece di 
scagliarsi contro i grandi processi storici sovra individuali, invece di 
piangere sulla decadenza, invece di darsi al nichilismo, gli individui in crisi 
dovrebbero scagliarsi anzitutto contro 
sé stessi, contro i propri limiti. Dovrebbero cercare di elevarsi
 all’altezza dei problemi da risolvere. 
Detto in termini hegeliani – lo dico solo un po’ per 
ridere - lo Spirito del mondo nella nostra epoca ha evidentemente deciso di fare 
la storia con i fichi secchi. I fichi secchi sono gli imbecilli culturalmente 
motivati che credono di star facendo una cosa e invece ne stanno facendo 
un’altra. Gli imbecilli del resto (anche se non proprio con questa 
denominazione) erano perfettamente stati previsti dall’astuzia 
della ragione hegeliana, anche se l’operato della stessa sarebbe stato 
riconoscibile soltanto a posteriori, sul far della notte, guardando indietro 
quello che era stato fatto. Può essere che lo Spirito della nostra epoca, 
guardando dietro di noi, abbia deciso di far fuori un bel po’ di imbecilli 
inutili e in soprannumero. E noi con loro.
13. 
Se le osservazioni precedenti hanno un qualche fondamento, allora dovremmo 
concludere che, per superare la attuale crisi (o l’attuale nichilismo, che sia o 
meno epocale), dobbiamo attrezzare gli 
individui, la maggior parte degli individui, ad affrontare con successo i 
problemi che la storia ci sta ponendo (quei problemi che noi 
stessi ci stiamo ponendo in quanto parte della umanità). I problemi paiono 
insormontabili solo se non siamo 
attrezzati per risolverli. Questo significa, in generale, che dobbiamo elevare
 il livello qualitativo medio delle persone, elevare ad esempio il livello 
medio di istruzione e di educazione della popolazione, in modo da mettere il 
maggior numero possibile di persone in grado di padroneggiare i cambiamenti e di
 governarli. Si tratta di un’imposizione autoritaria? Un’idea tecnocratica?
 Nella Germania luterana l’alfabetizzazione, che era di fatto imposta, poiché
 serviva per stare con successo nella
 comunità religiosa ha avuto poi notevoli effetti positivi non previsti. Nel
 corso della Rivoluzione francese è stata istituita la scandalosa istruzione 
pubblica obbligatoria per abilitare i cittadini a 
stare consapevolmente nella comunità politica. Lo sviluppo dell’istruzione
 pubblica da allora è stato imponente, anche se forse ancora insufficiente.
 Qualcuno continua a pensare che la diffusione dell’istruzione sia colpa del
 perfido capitalismo che aveva bisogno di personale tecnico.
Il passaggio da suddito a cittadino costituisce un 
progresso che è difficile da contestare: il problema è che il cittadino non si 
trova bell’e fatto, deve essere culturalmente costruito. Deve essere 
allora promossa una cultura civica, 
senza la quale l’esser cittadino è un titolo vuoto. Di fronte ai problemi del 
mondo globale dovremmo trovare il modo di imporci 
una crescita mentale generalizzata degli
 individui, in modo da metterci in grado di accettare la sfida e cercare di
 risolverli. Dobbiamo cominciare a pensare alla cultura 
civica del cittadino del mondo globale. Dobbiamo cominciare ad accettare una 
verità spiacevole: che l’imbecille culturalmente motivato, per quanto 
soggettivamente innocente, è un vero e proprio pericolo 
pubblico, da scoraggiare e, eventualmente, da 
punire severamente. 
Di fronte a questo compito, siamo in grave ritardo e il 
pericolo maggiore è proprio che non ci 
rendiamo conto del ritardo. Si tratta di un ritardo analogo a quello 
denunciato da Greta Thumberg a proposito della crisi ambientale. Di fronte ai 
problemi del mondo di oggi, quei problemi che ci fanno naufragare e ci spingono 
a invocare il rifugio nel passato, abbiamo ovunque – sia nelle aree sviluppate 
che in quelle più arretrate - un grave deficit culturale che non è
 riconosciuto. Non è ammesso. Se guardiamo ad esempio alla preparazione
 culturale degli italiani, se guardiamo appena indietro nel tempo, abbiamo
 l’impressione che negli ultimi cinquant’anni abbiamo fatto un balzo in avanti
 impressionante. Ebbene, quel balzo non è bastato. Oggi nelle statistiche dei
 livelli di istruzione siamo tra gli ultimi. Purtroppo, proprio il progresso
 tecnologico oggi sta permettendo a chiunque abbia un livello medio basso di
 istruzione di vivere benissimo, come chiunque altro, anzi, di spassarsela.
 Molti anni or sono mi sono dato una spiegazione di questo fenomeno. Mentre i
 beni economici sono soggetti a una domanda potenzialmente illimitata, il bene
 della cultura è soggetto a una domanda limitata solo da parte di chi ce l’ha
 già, mentre chi non ce l’ha ancora non ne sente neppure il bisogno.
Tutti gli eventi catastrofici paventati dagli antimoderni 
– quale che sia la loro causa – potranno essere contrastati o evitati solo da un 
progresso decisivo nella mente degli
 individui, nella loro formazione. Non è questione di classi dirigenti.
 Occorre togliere l’audience agli
 antimoderni. Senza un incremento delle capacità culturali della gran parte 
degli individui (che sono in gran parte cittadini, non dimentichiamolo) non
 riusciremo più a padroneggiare un bel nulla. Riusciremo al più a padroneggiare 
il cortile di casa nostra, ma questo
 sarà impietosamente spazzato via.
B - 
Antitesi
14. 
Il mio interlocutore ha dichiarato nel suo scritto che, a suo modo di vedere, 
l’unico modo di uscire dalla crisi 
epocale attuale, qualificata soprattutto come crisi 
morale e spirituale, sarebbe quello di imboccare la strada di una nuova
 religiosità. Cito alla lettera: «La crisi secondo me è in primo luogo
 morale e spirituale, e solo una nuova religiosità potrà contribuire in modo
 forte a risolverla». Si tratta indubbiamente di una proposta rispettabilissima,
 seppure dotata di una certa radicalità e forse alquanto contro corrente.
 Personalmente, potrei anche essere d’accordo sull’esigenza di promuovere un
 orizzonte di pensiero post 
nichilistico, il quale tuttavia, dal mio modesto punto di vista, 
implicherebbe però, per dirla in soldoni, qualcosa come una critica radicale del 
postmodernismo, verso un nuovo 
illuminismo o anche soltanto una nuova diffusione dell’illuminismo. 
Confesso di avere invece molti dubbi sulla proposta di una nuova 
religiosità. I miei dubbi, che cercherò di esporre nel seguito con qualche 
dettaglio, possono essere concentrati tutti in una sola domanda sintetica: «Una 
nuova religiosità e/o una nuova spiritualità sarebbero in grado di sbarazzarci, 
una volta per tutte, di quella che abbiamo definito come imbecillità 
culturalmente motivata?». Vediamo.
15. 
Anzitutto, non mi è del tutto chiaro cosa si debba intendere con nuova 
religiosità. Immagino che questa dizione vada intesa estensivamente anche 
come nuova religione, poiché non mi 
pare possa esserci religiosità senza una qualche corrispondente religione. A 
meno che non si intenda con religiosità una semplice domanda 
o attesa di una nuova religione. 
Quando si fa una proposta così impegnativa si dovrebbe entrare nel dettaglio e 
definire con cura di cosa si tratta. Altrimenti si ricade nel pensiero 
vago. Di nuove religioni fai da 
te ne nascono tutti giorni e pare, almeno finora, che queste non abbiano 
dato il minimo contributo a risolvere i problemi del nostro tempo. Comunque, si 
tratterebbe di capire se la nuova religiosità ipotizzata sia in grado di guardare avanti o se invece 
semplicemente si accontenti di guardare 
indietro, finendo per risultare come una delle tante soluzioni difensive 
passatiste, più o meno come accade attualmente con il sovranismo in politica. O 
se magari, in aggiunta, sia anche capace di guardare all’indietro per
 meglio proiettarsi in avanti come s’è detto. Si tratterebbe cioè di capire
 come una nuova religione possa finalmente farci entrare (o ri-entrare) 
in una prospettiva di storicità che 
ci metta finalmente in grado di risolvere i nostri problemi. Le religioni, in 
effetti, hanno mostrato in passato di riuscire a essere delle formidabili 
organizzatrici degli sforzi comuni di una società in vista di un qualche 
obiettivo. Si tratta di capire allora se, per ridarci una prospettiva di 
storicità, dobbiamo per forza 
ricorrere a una nuova religione.
16. 
Quando sento invocare una nuova 
religiosità, il primo problema che mi si presenta è quale sia il rapporto di 
questa ipotetica nuova religiosità 
con le precedenti (vecchie?) forme di religiosità. Una nuova religiosità 
potrebbe essere invocata principalmente perché si presume che le vecchie 
religioni abbiano fallito. Se è così, poiché la storia del mondo è già stata 
abbastanza lunga e di religioni ce ne sono state di tutti i tipi, sarebbe da 
capire bene perché abbiano finora
 fallito. Di materiale archeologico – nel senso di Foucault – 
ne abbiamo a sufficienza per raggiungere un meditato giudizio. Immagino, 
tuttavia, una variante di questo stesso ragionamento e cioè l’ipotesi che le 
religioni, in effetti, non abbiano proprio fallito, che anzi abbiano ben svolto 
il loro compito, che siano fondamentalmente una buona cosa ma abbiano mostrato 
carenze nel loro operare e siano state messe proditoriamente da parte dalla svolta perniciosa della modernità, dal 
progresso e, più specificatamente, dalle rivoluzioni materialiste. In altri
 termini, le pur buone religioni avrebbero perso la loro battaglia contro un
 nemico più forte e più agguerrito. Ci troveremmo dunque ora in balia del
 nichilismo per un deficit di 
religiosità. Nuova religiosità, in tal caso, vorrebbe dire recupero 
della religiosità perduta. Oppure la realizzazione di una religiosità 
più attrezzata.
Quale che sia l’interpretazione, si tratterebbe, 
anzitutto, di dare una valutazione del ruolo che le religioni hanno finora avuto
 nella storia. Se cioè abbiano fallito o no e se, quindi, sia o meno il caso
 di ripristinare il loro ruolo. Secondariamente, si tratterebbe di capire se,
 volendo ripristinare il loro ruolo,
 si tratti di guardare un po’all’indietro, ridando impulso alle religioni che
 già ci sono, oppure se vogliamo qualcosa che sia più o meno come una religione,
 ma che decisamente non assomigli a 
quelle vecchie e che dunque guardi 
avanti. Questo vorrebbe dire ritenere - niente meno - di dover fare una rivoluzione nel campo delle religioni,
 sempre che si ritenga che, dopo la lunga sperimentazione storica, possa 
effettivamente comparire qualcosa di radicalmente nuovo in questo 
campo.
17. 
La questione di valutare il ruolo delle religioni nella storia è quanto mai 
complessa e certo non è risolvibile in questa sede. Ma non è del tutto 
impossibile da sciogliere provvisoriamente, almeno nei termini richiesti dal 
nostro livello di discorso, che è ancora generalissimo. Se diamo un’occhiata, 
anche superficiale, al ruolo svolto dalle religioni nella storia, non si può non 
rilevare, come minimo, il fatto che 
le religioni non si siano comportate in maniera diversa dai loro odierni 
antagonisti “materialisti” e, in particolare, non si siano comportate in maniera 
diversa da quella dei totalitarismi ideologici del XX secolo – tanto che taluni 
hanno parlato, nei confronti di questi ultimi, proprio di religioni 
secolari. Di qui non si scappa. Il macellaio della storia di cui parlava 
Hegel, sul suo tragico bancone, ha macellato molto spesso e volentieri in 
nome di Dio. Qualche volta, e solo piuttosto recentemente, ha macellato 
anche contro Dio. Se prendiamo in 
considerazione il tasso di 
sofferenza che le religioni hanno imposto all’umanità, se facciamo cioè una 
specie di libro nero delle 
religioni, potremmo essere costretti a concludere che queste sono state non meno dannose di tanti altri
 fenomeni per i quali sono stati scritti altrettanti libri neri. Fenomeni come
 il colonialismo (con cui le 
religioni erano però piuttosto conniventi) oppure il capitalismo,
 oppure ancora, il comunismo. Si 
pensi soltanto alla condizione d’inferiorità in cui le religioni hanno relegato 
la metà del genere umano di ogni epoca. Insomma, ai fini del nostro discorso, 
non pretendiamo di affermare con sicurezza che le religioni abbiano svolto un 
ruolo negativo nella storia. Semplicemente, si tratterebbe di ammettere che non 
hanno fatto meno danni delle altre “religioni secolari” che ultimamente sono 
state loro concorrenti.
18. 
Se il loro ruolo è stato così discutibile e ambivalente, perché allora le 
religioni sono sopravvissute nella storia e, addirittura, pare che oggi, in 
talune aree del pianeta, abbiano un nuovo notevole incremento di popolarità? Io 
mi do la risposta seguente. Le religioni hanno, in effetti, svolto, pur con una 
certa brutalità e gravi 
effetti collaterali, una funzione indispensabile. Sono state, io credo, un 
passaggio necessario dell’evoluzione 
culturale[23] dell’umanità. Sono state, a lungo, il necessario corrispettivo
 sociale e culturale della facoltà del linguaggio. Per costruire grandi
 aggregati sociali occorre un linguaggio
 comune. Dunque tutte le società devono avere almeno una lingua e perciò il
 linguaggio deve essere appreso e trasmesso. Ugualmente, per costruire grandi
 aggregati sociali, occorre avere una prospettiva culturale comune, una narrazione comune sui vari aspetti del 
mondo. Su cosa sono gli astri, su cosa sono i sogni, sul funzionamento della 
natura, sul funzionamento delle leggi e delle istituzioni, sul senso della vita 
associata, e così via. Per avere grandi 
sistemi sociali occorre avere grandi 
sistemi di senso. Le religioni hanno costituito, grazie alla loro 
configurazione istituzionale terrena, la base enciclopedica comune e la prospettiva di storicità che ha 
permesso lo sviluppo di società sempre più grandi e complesse. Certo, per far 
questo, ogni religione ha dovuto inventarsi ed elaborare i propri miti, le 
proprie spiegazioni parascientifiche, i propri spiriti, le proprie divinità.[24] 
Ha dovuto fornire delle spiegazioni comuni intorno all’uomo, al mondo sociale e 
al mondo naturale. Ha dovuto elaborare dei codici morali condivisi. Ha dovuto,
 ahimè, individuare i propri nemici da combattere. Questo corpo di cultura 
comune è diventato ben presto un oggetto esterno, un’istituzione 
materializzata, fatta di luoghi di culto, libri, preghiere, rituali, 
stregoni, preti, calendari, tribunali, roghi e quant’altro. La religione è 
diventata così parte integrante e costitutiva delle diverse società. Per 
lungo tempo si sono fuse seppur variamente con le istituzioni politiche. In tal 
caso, chi non condivide la religione del gruppo non può che essere un estraneo
 potenzialmente pericoloso. Questo è accaduto in particolare presso le religioni
 monoteistiche. Quello che è certo è che le religioni sono state efficienti,
 poiché si sono servite implicitamente o esplicitamente di istituzioni 
educative ma anche di strumenti 
repressivi, strumenti d’inculcazione e di riproduzione. Le religioni, 
insomma, hanno offerto un servizio importante ma hanno richiesto in cambio 
l’obbedienza, la subordinazione e, conseguentemente, l’accettazione di numerosi 
e talvolta drammatici effetti
 collaterali.
19. 
Le grandi religioni hanno cominciato a entrare in crisi quando nelle società 
sono stati messi a disposizione degli strumenti concorrenti proprio per 
assolvere alla medesima funzione di garantire la base culturale comune alla 
convivenza umana. In Occidente, storicamente, il primo strumento concorrente nei 
confronti della religione è stato senz’altro la filosofia. 
La filosofia, in Occidente, ha esordito fornendo spiegazioni naturalistiche al
 posto dei miti religiosi. Ha cercato di fornire fondamenti non religiosi alla
 convivenza umana. Poi le religioni hanno parzialmente assorbito il linguaggio
 stesso della filosofia. Certo, per lungo tempo, filosofia e religione si sono
 anche alimentate reciprocamente, ma hanno anche da to luogo a infiniti scontri
 e rivalità. Qualche filosofo ci ha lasciato la pelle: Socrate e Giordano Bruno,
 tanto per fare qualche esempio. Anche Galileo non se l’è passata proprio bene.
 Pur attraverso percorsi accidentati, la travagliata separazione 
tra Stato e Chiesa e la concomitante secolarizzazione hanno prodotto la
 prospettiva della laicità, la
 possibilità di costruire una prospettiva di senso “etsi 
Deus non daretur”. Nel contempo si è sviluppata la cultura scientifica che 
ha comportato una internazionalizzazione delle conoscenze e una loro separazione 
dallo sfondo religioso e mitico. La comunità scientifica oggi agisce, pensa 
e produce indipendentemente dagli Stati e dalle religioni – anche se c’è 
qualcuno che vorrebbe tornare indietro. Anche i sistemi 
economici si stanno strutturando in forma sovra nazionale e in forma 
indipendente dalle religioni, nonostante le religioni abbiano a lungo prodotto e 
sostenuto una loro specifica etica 
economica, come bene ha descritto Weber. Oggi, in aggiunta, abbiamo avuto lo 
sviluppo della rete Internet e la globalizzazione dell’informazione che 
rendono possibile una prospettiva
 culturale comune del tutto diffusa, a disposizione di tutti e relativamente
 indipendente dalle religioni.
Tutto ciò sta producendo lo sviluppo di una cultura 
cosmopolita che permette di fare a meno delle religioni, soprattutto di 
quelle più chiuse e fondamentaliste. Se i pakistani vogliono la bomba atomica, 
possono anche pregare Allah, ma poi in pratica devono ricorrere ai manuali di 
fisica prodotti dal perfido Occidente. Puoi credere negli spiriti, ma se il tuo 
telefonino ha la batteria scarica, non ci sono spiriti che tengano. La sfida del
 cosmopolitismo ha messo in ritirata anche le religioni più agguerrite. Solo
 timidamente le religioni (non tutte) hanno cominciato a condividere l’ormai
 decisamente datato assunto illuministico per cui ci sarebbe un Dio 
unico e tutte le religioni del mondo non farebbero che riferirsi, senza 
saperlo o senza volerlo ammettere, allo stesso unico Dio. Solo recentemente il 
papa ha cominciato a dire che non è lecito fare la guerra in nome di Dio. Si 
tratta davvero di un notevole cambiamento, poiché la guerra in nome di Dio è 
sempre stata fatta, e la si fa ancora piuttosto volentieri.
Oggi dunque si sta progressivamente costruendo – per la 
prima volta nella storia dell’umanità - una cultura 
globale dove le religioni stanno perdendo la loro antica e consolidata 
funzione di aggregazione delle comunità locali, nazionali e/o statali. Detto in 
altri termini, le religioni pare non siano riuscite a costruire per
 prime una cultura globale
 semplicemente umana. Sono state precedute, senza che ci sia mai stato un
 progetto preciso, dalla filosofia, dall’economia, dalla tecnologia, dalla
 scienza e dall’informazione. La cultura globale semplicemente 
umana che già si sta sviluppando e che ci sarà in un futuro prossimo non 
dipenderà in particolare dalle religioni. Per questo le religioni stanno 
diventando sempre meno pubbliche e 
tendono a sopravvivere sempre più nel
 privato, nell’intimo degli 
individui. Le religioni assolvono sempre meno alle antiche funzioni sociali 
istituzionali e stanno diventando sempre più prospettive
 esistenziali individuali. Come tali – questa è una conseguenza di rilievo - 
invece di andare verso un’universalizzazione, sono sempre più affette da
 prospettive particolaristiche. È questo il fenomeno ben noto della privatizzazione 
delle religioni.[25] Certo, per qualcuno questo è un male, ma le religioni di 
fatto oggi sul piano sociale e culturale non sono più insostituibili, a meno che 
non si torni a considerare gli atei come individui potenzialmente pericolosi e 
non si ritorni alle guerre per 
decidere quale sia la vera 
religione, mettendo magari anche un qualche Dio a capo degli eserciti. 
Le religioni nel mondo stanno vivendo drammaticamente 
la crisi del passaggio dalla condizione istituzionale pubblica al confinamento 
nel privato. Si noti che anche la distinzione tra pubblico e privato è un
 portato fondamentale della modernità. La distinzione tra pubblico e privato è
 peraltro la sostanza delle liberal democrazie contemporanee. Non credo si possa
 seriamente sostenere che questa distinzione vada abolita. Dovremmo in tal caso
 rinunciare a molti dei diritti individuali che si fondano proprio sulla
 garanzia dell’inviolabilità della sfera privata. Si confronti la situazione di 
pluralismo religioso che si sta
 affermando in occidente, dove si discute seriamente se togliere tutti i simboli
 religiosi dai luoghi pubblici, con la situazione di fondamentalismo 
religioso e di commistione tra politica e religione, soprattutto nel mondo 
islamico. Si pensi all’Iran, si pensi alla conflittualità radicale tra sunniti e 
sciiti, che oggi è una delle principali cause di instabilità nel Medio Oriente. 
20. 
La globalizzazione dell’economia, della scienza e dell’informazione si è 
sviluppata dunque assai più velocemente delle religioni, le quali sono rimaste 
ancorate ai loro ambiti tradizionali, perpetuando una infinità di frammentazioni 
e conflitti. Non mi sovviene il caso di due religioni diverse che si siano mai 
fuse in un’unica nuova religione. D’altro canto non sembra neppure che si 
prospetti la possibilità di riconoscimento di una religione 
prevalente a livello mondiale. Mentre l’inglese sta diventando di fatto la 
lingua di base a livello mondiale, 
non c’è attualmente – a quanto pare - alcuna religione che possa seriamente 
essere candidata a diventare il credo di 
base a livello mondiale. Qualche anno fa Huntington aveva addirittura 
elaborato una teoria dello scontro delle 
civiltà, partendo dall’assunto dell’irriducibilità delle matrici religiose 
delle diverse civiltà. Oltretutto, è già stato ricordato, alcune delle grandi 
religioni hanno ancora un atteggiamento conflittuale nei confronti delle altre. 
E quindi pare non siano assolutamente disponibili a farsi sussumere in un’unità 
sincretica universale. Non pare proprio realistico oggi sviluppare una religione 
sincretica che assommi e integri un po’ quel che ci potrebbe essere di 
essenziale in tutte le religioni del mondo. 
Ciò accade anche perché le religioni sono 
fondamentalmente particolaristiche.
 Poiché ogni religione si distingue dalle altre sulla base soprattutto dei precetti particolaristici, non è facile
 costruire una religiosità di tipo sincretico. Più facile appunto è quel che sta
 succedendo e cioè un abbandono del campo pubblico e una deriva privatistica da
 parte dei fedeli di ciascuna religione. Qui si potrebbe anche dare “ragione” a
 Hegel, nel senso che a quanto pare solo
 la ragione è in grado di concepire l’universale. La ragione che è in grado
 di concepire l’universale, che lo si voglia o no, è poi quella di derivazione
 illuministica. Le religioni per loro natura si fondano sull’irrazionale e
 finora sono sempre rimaste un passo indietro sul piano dell’universale. Per
 fortuna l’ONU e le altre organizzazioni internazionali sono indipendenti dal
 fattore religioso e spero proprio che continuino a esserlo.
21. 
Insomma, riassumendo, se non si prospetta la possibilità che una delle religioni 
sopravanzi tutte le altre e diventi quella universale, se non si vede 
all’orizzonte la possibilità di una religione sincretica, derivante da una 
specie di federazione delle religioni 
mondiali, una specie di credo 
minimale per tutta l’umanità, com’è di fatto la Dichiarazione 
dei diritti dell’uomo in campo politico sociale, allora – se si vuol restare
 nell’ambito religioso - non resta che pensare a un nuovo 
alternativo modello di religione o di religiosità destinato a diffondersi e 
a soppiantare (o superare, in senso 
hegeliano) tutte le altre religioni. La qual cosa dovrebbe consistere in una 
vera e propria rivoluzione nel campo 
delle religioni. Proviamo dunque a esaminare questa prospettiva.
In tal caso si porrebbe anzitutto una questione 
di metodo. Difficilmente le religioni, o ancor più la religiosità, si 
costruiscono a tavolino. In molti ci hanno provato, ma i risultati non paiono 
proprio entusiasmanti. Anche se alcune delle religioni nate effettivamente a 
tavolino in tempi recenti si sono relativamente diffuse e hanno avuto un certo 
relativo successo non hanno scalzato i culti tradizionali e hanno anzi aumentato 
la frammentazione. Il campo del religioso non può essere facilmente pianificato.
 Taluni studiosi ritengono che – almeno nelle società pluralistiche - il campo
 delle religioni possa essere inteso come un mercato
 (estremamente frammentato per 
ragioni storiche, culturali, geografiche) dove si incontra la domanda e 
l’offerta, con esiti tuttavia non facilmente prevedibili. Una rivoluzione nel 
campo delle religioni a livello globale, che metta una religione
 dell’avvenire in grado di affrontare la crisi epocale è dunque difficile
 anche solo da pensare. Si può sempre provare a stare 
ad aspettare, nell’attesa che l’automatismo del mercato selezioni i 
migliori prodotti in offerta e scarti i peggiori. O per lo meno riesca a 
individuare i prodotti più popolari. Chi invoca una nuova religione, può farsi 
egli stesso profeta, per vedere l’effetto che fa sul mercato, oppure può restare 
in fiduciosa attesa a che qualcosa prima o poi accada.
22. 
Oltre alla questione di metodo, si pone poi il problema dei contenuti. 
Franco Livorsi – occasionalmente ne abbiamo discusso – devo dire non è molto 
chiaro sulle caratteristiche di questa nuova religiosità che egli propugna. 
Spesso accenna al buddismo, oppure a Gandhi o a Teilhard de Chardin. Ad alcune 
correnti ecologiste. Spesso cita Fritjof Capra. Nel suo articolo compaiono nomi 
di diversi filosofi variamente idealisti, come Mazzini, Bergson, Mounier, ma 
anche Croce, Calogero, Capitini e De Ruggiero. Oltre naturalmente agli idealisti
 tedeschi da cui egli pensa di trarre ispirazione nella direzione della nuova
 religiosità. Mi paiono tutti riferimenti rispettabili e interessanti, anche se
 faccio una certa fatica a immaginare una loro composizione in un modello
 coerente di nuova religiosità. Si
 corre il rischio di inventarsi una sorta di religione
 dell’umanità, come quella dell’ultimo Comte. 
Tra gli esempi citati da Livorsi sembrano comunque 
prevalere piuttosto i filosofi o teologi piuttosto che i mistici. E ciò riduce 
comunque la estrema variabilità dei possibili contenuti. Già in Hegel si era 
prospettato consapevolmente il potenziale conflitto tra una tendenza più 
filosofico – teologica e una tendenza mistica. Hegel ha copiato abbondantemente 
dal mistico ciabattino Boehme ma poi lo ha considerato come incapace di 
guadagnare il livello del concetto. 
Nella prospettiva di una religiosità universale che sia in grado di rivolvere i 
problemi del mondo di oggi va poi considerato che – per loro natura – i mistici 
risulterebbero piuttosto individualisti, anarchici e incontrollabili, e comunque 
poco interessati a rivolvere i “problemi del mondo” e piuttosto propensi proprio 
ad allontanarsi dal mondo. E la loro “esperienza” risulterebbe comunque anche 
piuttosto poco comunicabile al pubblico. Lutero aveva dovuto affrontare il 
problema degli illuminati, ognuno 
dei quali riteneva di essere il portatore della parola dello Spirito santo. Mistici fai da te, insomma, appunto 
piuttosto anarchici e incontrollabili. Sembrerebbe allora che la nuova
 religiosità debba essere piuttosto una religiosità di carattere filosofico – 
teologico, ma questo pone enormi problemi di costruire ex novo una nuova 
visione del mondo con gli strumenti appunto del linguaggio
 filosofico - teologico. Heidegger doveva averci provato, ma a suo dire gli era venuto meno proprio il 
linguaggio. Per questo pare si sia momentaneamente dedicato a questioni ben 
più terrene. 
 23. Nel suo articolo, più che esprimere i caratteri della 
nuova religione o nuova spiritualità (spero che prossimamente sia più 
esplicito), Franco Livorsi ha citato una serie di casi
 del passato, tanto da autorizzarmi a sospettare che anch’egli talvolta ami
 frequentare i ritornanti. Nel suo
 articolo compare una certa sua delusione per il ridimensionamento progressivo
 del cristianesimo per opera dell’illuminismo. Se fossi un dialettico hegeliano,
 direi invece che l’avvento dell’illuminismo rappresenta il più importante inveramento dei valori più profondi del
 cristianesimo, ossia la valorizzazione dell’individualità
 e dell’eguaglianza. Ugualmente, ho 
notato un certo suo rimpianto per la 
sacralità dello Stato. Un rimpianto per il venir meno dell’apporto 
della religione alla virtù civile, come prospettato in certi autori della 
tradizione repubblicana, come ad esempio in Rousseau. Oppure in Robespierre, in 
cui troviamo il tentativo esplicito di fondare una religione 
civile (il famoso culto della 
Ragione). Ho notato poi una valutazione positiva del progetto hegeliano 
complessivo di costruzione di una filosofia ultima e totale, panteistica,
 su basi razionali che inglobi la religione dentro lo Spirito assoluto. Tanto
 che mi è parso di capire che, nella costruzione della nuova religiosità, si
 possa anche immaginare di tornare a 
Hegel.
24. 
Questi elementi di positività attribuiti ai tentativi passati di costruzione di 
religioni civili richiamano tutti, 
secondo me, una sola questione, ovvero la questione peraltro ben nota dello Stato etico. Mi pare di capire, può 
darsi che mi sbagli ma dovrei avere chiarimenti in proposito, che qui Franco 
Livorsi stia sostenendo la necessità di un ritorno 
allo Stato etico o a qualcosa di assai simile. O magari a un nuovo
 modello di Stato etico diverso da quelli del passato. Se davvero così
 fosse, mi parrebbe una prospettiva assai azzardata e financo pericolosa. I
 primi in questo campo, in Occidente, sono stati i pitagorici. 
Poi è venuto Platone, che aveva cercato di realizzare la sua “Repubblica dei 
filosofi”, sempre di stampo pitagorico, grazie all’appoggio di alcuni piccoli 
tiranni siciliani. In Occidente, forse il più grande e significativo Stato etico 
è stato – pur con varie vicende – il Sacro Romano Impero. Tralascio gli Stati 
etici di carattere totalitario del secolo passato, che comunque sono nati sulla 
scia culturale di Platone e dello stesso Hegel. L’ideologia del fascismo ha 
pescato abbondantemente nel totalitarismo di destra e di sinistra. La 
società aperta e i suoi nemici[26] di Popper anziché esser dileggiata 
andrebbe attentamente meditata, per non rifare gli stessi errori.
 Hegel, dal canto suo, non ha inteso fondare una 
religione, ma il suo modello di Stato – quello presentato nei Lineamenti 
di filosofia del diritto - è indubbiamente uno Stato etico. Hegel poi, ha 
una posizione particolare nei confronti delle religioni, poiché le sussume 
all’interno della sua nozione dello Spirito. Il cristianesimo è la religione 
ultima e definitiva che prepara il salto – nella storia dello Spirito - dalla 
mera immaginazione sensibile al concetto. Dopo il cristianesimo, nessun’altra 
religione sarebbe possibile. Le altre religioni sono solo stadi inferiori 
preparatori per il cristianesimo stesso. Hegel fa a meno di un Dio di qualunque 
tipo, poiché il Dio di Hegel coincide con lo Spirito stesso, ossia con l’unità 
vivente dell’Idea e della Natura. Lo Spirito di Hegel nella storia del mondo si 
ferma allo Stato germanico e alla religione cristiana. Dopo c’è solo la 
filosofia (che culmina con la filosofia hegeliana stessa). Per questo molti 
interpreti ritengono che Hegel fosse del tutto ateo, nel senso comune del 
termine. Hegel sarebbe stato, in altri termini, uno dei primi a enunciare, 
dall’interno stesso del cristianesimo, l’esito ineluttabile della morte
 di Dio. Un Hegel anticipatore del nichilismo, dunque. Può essere che 
questa interpretazione di Hegel non soddisfi, ma mi pare che i testi 
sostanzialmente la avvalorino. Non ho spazio qui per entrare nel
 merito.
25. 
I casi di Rousseau e Robespierre mi paiono invece appena un poco differenti. 
Perché, in questi due, ci si fa carico per la prima volta nella modernità della 
questione della cultura civica come 
elemento costitutivo dello Stato repubblicano. È questa una questione che 
attraversa tutta la storia del tanto bistrattato pensiero 
repubblicano moderno. Si sostiene che, ai fini del buon mantenimento della 
Repubblica, i cittadini debbano essere virtuosi.[27] E fin qui ci siamo. Ma poi 
si sostiene che il cittadino virtuoso debba essere il prodotto di una religione 
– Platone non la pensava del tutto così - non quella tradizionale, ma di una 
religione che contenga quel che è indispensabile per il civismo (la derivazione 
qui è ovviamente illuministica). Rousseau e Robespierre considerano la religione 
come uno strumento educativo capace 
di creare la coesione sociale e le 
virtù indispensabili al buon 
funzionamento della Repubblica. Tra l’altro questa sarebbe una prova in più di 
quanto abbiamo affermato poc’anzi circa il ruolo funzionale che le religioni 
hanno svolto per molto tempo per compattare i grandi aggregati umani.
Posto che la costruzione della cultura civica è 
effettivamente un problema nelle democrazie del giorno d’oggi, la questione 
odierna circa l’indispensabilità della religione in questo compito è facilmente 
risolvibile, sempre al livello generalissimo di discorso che stiamo conducendo. 
Con un ricorso ai dati brutali e impietosi del mondo empirico. Basta rispondere 
alla domanda: «Coloro che hanno fede religiosa, sono migliori cittadini di 
coloro che non ce l’hanno?». Oppure a quest’altra: «Gli atei violano la legge 
con maggiore frequenza di coloro che credono in Dio?». Sulla questione della 
sacralizzazione dello Stato, basta rispondere alla domanda: «La sacralizzazione 
della legge induce a una migliore obbedienza dei popoli alla legge stessa?». 
Oppure: «Gli Stati teocratici hanno cittadini migliori degli stati non 
teocratici?». Oppure, ancora: «Giurare sul libro 
sacro o giurare su una costituzione 
laica e repubblicana produce effetti diversi sulla forza dell’impegno che ci 
si assume col giuramento?».
Aggiungo un’ulteriore considerazione. Pensare a una 
nuova religiosità con lo scopo di avere 
buoni cittadini ha un sapore di accentuato strumentalismo. 
Forse quasi di un contagio con il “grande male” della politica. La religiosità 
dovrebbe essere e restare il regno del vero e magari del buono, 
piuttosto che dell’utile. La 
religiosità dovrebbe, forse, essere qualcosa di del tutto disinteressato, per 
non ricascare nella perfida ragione 
strumentale.
26. 
Una nuova religiosità implica poi, presumo, la questione del rapporto con un 
qualche Dio, o con una moltitudine 
di divinità. Ci sono certamente religioni che non hanno un Dio, anche 
se si tratta di casi abbastanza rari. Si può pensare a qualcosa che assomigli al 
confucianesimo o al buddismo. Pare che nell’odierna Cina il confucianesimo stia 
prendendo di fatto il posto del marxismo – leninismo. È un fatto però che la 
maggior parte delle religioni abbia un Dio di qualche tipo. Ho cercato di capire 
quale fosse la posizione di Franco Livorsi in merito, anche se nel suo scritto 
non si evince chiaramente. Capisco che una domanda diretta intorno alla natura 
di Dio possa essere considerata provocatoria – fatto questo dovuto appunto al 
fenomeno della privatizzazione delle religioni - tuttavia non è ovviabile se 
vogliamo stare sul nostro argomento. Non si può dire che Dio è il nostro 
prossimo, oppure che è una scommessa. Oppure che “viene meno il linguaggio” o 
che le parole non sono adeguate all’oggetto, che Dio sfugge a ogni definizione, 
che è ineffabile. O, peggio, che il suo nome non va neppure pronunciato. «Di ciò 
di cui non si può parlare, si deve tacere» disse Wittgenstein ma, oltre che un 
truismo, la sua affermazione rinviava a una posizione mistica, posizione che 
pare del tutto poco adatta a risolvere la crisi globale del nostro tempo. 
Mettendo insieme le poche righe da Livorsi dedicate alla questione, mi pare che 
egli si riferisca comunque a un Dio, per quanto non certo convenzionale. Il 
problema è se questo Dio è il Dio 
privato di Livorsi, destinato a rimaner tale, o se è invece quel Dio che 
fonda la nuova spiritualità dalla quale ci dovremmo attendere la soluzione dei 
nostri problemi globali. Un Dio per lo meno dai risvolti sensibilmente pubblici, 
oserei dire, politici. Riprendendo dall’articolo, se ho capito bene, Dio per 
Livorsi non si trova “dentro l’uomo” ma Dio “è” l’uomo stesso. Secondo Livorsi, 
l’uomo: «non è più solo il luogo di “abitazione” di Dio come per Agostino, ma 
Dio alla prima radice e anzi tout court radice della nostra mente, in cui siamo 
l’infinito ed eterno e, in esso, tutti fratelli e cittadini». Inoltre: 
«L’intersoggettività è già in noi». Altre osservazioni significative mi paiono: 
«Quel polo interiore [...] dà un senso eterno e solidale alla nostra vita» e «Il 
ritrovare Dio come nostra mente è necessario». Ancora, «La nuova via tra l’altro 
rende la vita “tutta sacra”, oppure tutta arbitraria se l’Assoluto non sta 
neppure lì “dentro”, come archè, 
inizio, radice».
Se ben comprendo, L’Assoluto (Dio) si trova contratto
 (nel senso di Nicola da Cues – non mi vengono riferimenti migliori) dentro la
 nostra mente e come tale ci costituisce
 intimamente. L’uomo dunque, essendo fondato in Dio, o essendo Dio
 fondatamente, coincide con Dio, 
anche se potrebbe non rendersene conto. Il Dio che ciascuno di noi è 
di già rappresenta non solo il fondamento di noi stessi ma anche il 
fondamento dell’intersoggettività, cioè della capacità che abbiamo di entrare in 
relazione con tutti gli altri nostri simili. Cioè il fondamento dell’umanità.
 Questo Dio contratto che sta in noi è infinito ed eterno, per cui è da 
presumere che anche noi siamo infiniti ed eterni. Ne conseguirebbe che siamo 
immortali (anche se non è chiaro se si tratta di un’immortalità in senso 
individuale – personalmente non capisco cosa voglia dire una immortalità che non 
sia di tipo individuale). Il Dio contratto in noi rende perciò sacra 
la nostra vita e presumibilmente anche quella altrui. Non è chiaro se questo Dio 
è contratto anche negli oggetti, nella natura, negli animali: la cosa non è di 
poco conto per capire se si tratti, e in che misura, di un Dio 
panteista (se sia cioè soprannaturale o meno). Pare comunque, da qualche 
accenno, che l’uomo abbia un qualche privilegio rispetto al resto della 
natura.
27. 
A mio modesto avviso una simile concezione, per quanto ancor vaga, presenta 
parecchi problemi, alcuni dei quali mi paiono insormontabili. Anzitutto, non è 
chiaro come mai, se ciascuno di noi “è” il Dio contratto, per lo più non lo 
sappiamo, non ce ne accorgiamo. È probabile che sia un Dio che resta inconscio, 
più o meno come l’Idea hegeliana o come un archetipo junghiano. Il Dio contratto 
e inconscio non pare avere effetti sui destini degli individui, poiché è un 
fatto che la varietà immensa dei comportamenti degli umani – buoni o cattivi che
 siano – confligge con il fatto che gli umani abbiano tutti come radice lo
 stesso Assoluto dentro di loro. La comunanza (la socialità e il carattere di
 animale politico) degli uomini, essendo tutti portatori dello stesso Dio
 contratto, dovrebbe implicare immediatamente una fratellanza universale, cosa
 che non pare proprio si sia mai avverata. Il problema è sempre il solito: si
 postula un Dio onnipotente, assoluto, onnisciente – dovunque e comunque sia – 
ma poi questo Dio si rivela sempre al di
 sotto delle aspettative (più o meno come le rivoluzioni politiche terrene), 
incapace di intervenire come provvidenza, incapace di vincere il male, incapace 
di rendere buoni anche soltanto coloro che si dichiarano suoi fedeli. 
Insomma, siamo 
Dio, ma non lo sappiamo, non ce ne accorgiamo e il Dio dentro di noi pare 
non avere alcun effetto rilevabile. A meno che non si pensi che tutto
 quello che facciamo sia opera del Dio che noi stessi già 
siamo. Qui ci sarebbero tutti i rischi di una certa esaltazione. 
In questo caso avremmo un Dio assoluto frantumato in mille pezzi, alcuni dei 
quali buoni, alcuni dei quali cattivi. Anche Hitler doveva avere il suo bravo 
Dio contratto che lo guidava. Tante divinità contratte che si combattono tra 
loro, come una sorta di altrettanti atomi di una volontà 
di potenza nicciana? Si pone comunque anche il problema di quale rapporto
 ciascuno di noi possa intrattenere con il proprio Dio interno (cioè con il se stesso autentico) sconosciuto. Come
 mettersi in rapporto o relazione con questa parte così importante di noi
 stessi, della quale tuttavia non abbiamo una precisa nozione? Una via 
mistica individuale? Abbiamo già rilevato i rischi del misticismo. Una illuminazione della mente dall’interno 
o dal profondo? Il che comporterebbe una vita di attesa 
dell’illuminazione, come nel buddismo zen. Una rivelazione 
che parte dal Dio stesso, un po’ come gli illuminati di Zwickau? Una serie 
di esercizi spirituali sotto la guida di un maestro? Una dottrina teologica 
articolata invece, espressa in termini razionali, da apprendere e condividere secondo il concetto – come avrebbe 
detto Hegel. Il che farebbe di questa religione una specie di filosofia. Stare 
ad aspettare i segni (magari attraverso la poesia o l’arte) del Dio che abbiamo
 dentro? – proprio Heidegger diceva che pensare significa aspettare. 
Interpretare i sogni (o altri tipi 
di segni) nei termini di messaggi del Dio dal profondo? Decisamente, mi paiono
 sentieri alquanto accidentati e perigliosi. E soprattutto non decisamente nuovi
 e alquanto già visti, tali comunque
 da riprodurre forme passate di
 religiosità. Tuttavia attendo fiducioso eventuali ulteriori delucidazioni e
 sviluppi. Non vorrei dare l’impressione di un mio atteggiamento
 a-prioristicamente negativo nei confronti di un progetto di nuova religiosità. 
Di fronte a una proposta di una nuova religiosità effettivamente 
convincente sarei il primo a dare una mia adesione entusiastica. 
Personalmente, ho sempre ritenuto che una prospettiva religiosa sia in 
definitiva assai più comoda e piacevole di una prospettiva laica.
28. 
In ogni caso, un Dio come quello tratteggiato qui tutto mi pare tranne che un 
Dio hegeliano o simil hegeliano. È probabile che la mia interpretazione di Hegel 
non concordi del tutto con quella di Franco Livorsi. Hegel del resto è un autore 
assai oscuro (volutamente oscuro) che è suscettibile di interpretazioni davvero 
assai discordanti. Usare Hegel per i propri scopi occasionali è però diverso dal 
darne un’interpretazione adeguata. Mi riservo di entrare nel merito di Hegel – 
che secondo il rimbrotto di Franco io avrei immeritatamente trattato come un 
“cane morto” – in un eventuale prossimo 
articolo.[28]
Quello di Hegel, comunque, è un panteismo radicale, di 
marca romantica, in cui lo Spirito assoluto, che è 
di fatto vagamente analogo a un Dio, coincide con la totalità
 vivente. Questo significa che il positivo e il negativo sono dentro 
lo Spirito. Qualche interprete ha avanzato l’ipotesi che Hegel fosse stato in 
realtà ateo e che lo Spirito hegeliano altro non sarebbe che l’umanità
 stessa. Del resto ci aveva già pensato Feuerbach. Il nichilismo 
comunque, come minimo, farebbe parte 
dello Spirito stesso. Dovrebbe essere un momento 
necessario della vita dello Spirito. Tutte le catastrofi – compresa la catastrofe epocale che staremmo vivendo 
e che Franco vorrebbe superare grazie a una religione dai tratti neo-hegeliani – 
starebbero dentro lo Spirito e sarebbero modalità necessarie attraverso le quali 
lo Spirito, il Dio vivente, o l’umanità, si conosce sempre meglio. Dunque, 
dovremmo sempre stare tranquilli e 
contenti di contribuire, con la nostra attuale sofferenza, alla vita dello 
Spirito.
Confesso, in proposito, che non sono mai riuscito a 
comprendere l’utilità di un Dio panteista. Poiché questo Dio sarebbe coincidente 
con il tutto, il massimo che un 
simile Dio potrebbe fare è di lasciare 
le cose come stanno, come ineluttabilmente già determinate da Egli stesso, 
nell’ambito del tutto. Oppure, come nel caso di Leibniz, di agire come 
provvidenza, ma con fini talmente imperscrutabili da non lasciare ai mortali 
alcuna spiegazione o consolazione. Il che si risolverebbe comunque in tal caso 
nel più totale fatalismo (o nel più 
cieco ottimismo, il che è lo
 stesso). In genere le religioni tendono invece a fungere da intermediarie tra
 l’uomo e un Dio trascendente e, così facendo, cercano di offrire taluni
 vantaggi al fedele. Qui non si vede in cosa consistano i vantaggi del
 panteismo.
Non mi pare poi sostenibile l’ipotesi, per me 
semplicistica, che Hegel abbia divinizzato l’uomo, come
 individuo. Hegel ha divinizzato (meglio sarebbe dire: concepito 
concettualmente) il tutto e ha fatto dell’uomo singolo un pezzo 
insignificante del tutto. Il fatto che in Hegel ci sia una ragione 
astuta che raggiunge i suoi scopi in barba alla coscienza dei singoli la 
dice lunga sul carattere totalitario o se si preferisce olistico del suo 
sistema. Per Hegel i singoli, gli spiriti soggettivi, per quanto 
tipologicamente previsti nel piano enciclopedico dello Spirito stesso, sono mera accidentalità rispetto alla
 necessità del tutto. È vero che lo Spirito soggettivo di Hegel termina con la 
“sintesi” dello Spirito libero. Ma 
subito dopo viene lo Spirito 
oggettivo, con le entità spirituali sovra individuali che inglobano e 
coartano gli Spiriti liberi: la famiglia, la società civile e lo Stato. E poi 
c’è la Storia del mondo che se ne frega di tutte le accidentalità e fa quello 
che vuole (senza nessun disegno 
intelligente poiché vuole furbescamente a posteriori quello che è 
in effetti già accaduto). Lo dicono anche i manuali di filosofia che lo 
Spirito hegeliano è l’unico soggetto veramente libero.
29. 
Il migliore tentativo, tra quelli che conosco, di usare Hegel per fondare una 
nuova religiosità (o per rifondare quella “vecchia”) è quello di Vito Mancuso. 
Mancuso cerca di svecchiare il cristianesimo esattamente in una prospettiva 
vagamente hegeliana, tenendo presente l’esigenza di una certa spiritualizzazione 
della natura, confrontandosi apertamente e temerariamente con i risultati della 
scienza moderna, recuperando quel che è recuperabile della teologia scolastica, 
soprattutto in direzione dello sviluppo di un’etica individuale. Mancuso ha però 
il buon senso di lasciare da parte la 
questione dello Stato etico. Si tratta di un sincretismo, a mio giudizio 
assai intelligente, che cerca di recuperare la filosofia alle esigenze di una 
religiosità rinnovata e che guarda soprattutto ai cristiani insoddisfatti per lo 
scarso adeguamento della tradizionale cultura cristiana al mondo attuale. 
Purtroppo, nel compiere la sua, in effetti quasi 
miracolosa, opera sincretica, Mancuso non sempre riesce ad amalgamare bene 
il tutto (del resto già Hegel aveva avuto enormi problemi di amalgamazione delle 
varie membra del suo sistema) e, in quanto scrive, le suture
 tra le parti diverse sono ampiamente visibili e, in taluni casi, gridano un
 po’ vendetta. In ogni caso, passando per Hegel, non so se sia possibile andare
 oltre quel che ha già tentato di elaborare il generoso Mancuso.
Queste sono le mie riflessioni alquanto estemporanee 
intorno all’ipotesi di affidare a una nuova religiosità le speranze dell’uscita 
del mondo attuale dal cosiddetto nichilismo e alle poche notizie specifiche in 
merito alla nuova religione o religiosità propugnata da Franco Livorsi, ammesso 
che io abbia ben compreso. Naturalmente sarò ben contento di ricredermi, in 
presenza di ulteriori delucidazioni.
C - 
Sintesi
30. 
Aggiungo a questo scritto, ahimè già fin troppo prolisso, un’ultima 
argomentazione con cui intenderei prendere in considerazione la questione 
della spiritualità e trarne alcune conseguenze di ordine pratico. 
Spiritualità è un termine che è senz’altro vicino a quello di religiosità,
 tanto che spesso è usato in modo intercambiabile. Quando non sia usato in modo
 intercambiabile, si suole contrappore la religione,
 in quanto assetto tradizionale, normativo e istituzionale, alla spiritualità 
in quanto espressione innovativa, individuale e libera. Spesso si suggerisce che 
la religiosità implichi una membership nell’ambito di qualche fede 
istituzionalizzata, mentre la spiritualità sarebbe tipica di una religiosità in libera uscita, di una ricerca 
prettamente individuale e privata. In altri termini, sia che venga connessa alla 
religiosità istituzionale, sia che venga identificata con quella privatizzata, 
la spiritualità pare stia diventando, in certi ambienti, l’ultimo rifugio della 
religione, una specie di baluardo interiore contro la morte di Dio, contro il 
nichilismo, contro i presunti assalti della modernità atea e materialista. Dalla 
concorrenza tra le religioni per la conquista dello spazio pubblico si 
passerebbe così a una diffusione soft 
della spiritualità, motivata soprattutto da esigenze interiori, da una
 domanda che deriverebbe dagli individui stessi. Del resto oggi stiamo
 assistendo a un vero e proprio sviluppo di una sorta di mercato 
della spiritualità. Se la parola religione sembra avere sempre meno appeal, il termine spiritualità sembra 
così avere acquisito una sorta di valore aggiunto del tutto positivo.
31. 
In questo quadro, l’uso discriminatorio della parola spiritualità 
che solitamente vien fatto, a livello di senso comune, ma anche negli ambienti 
religiosi e filosofici, mi dà – lo confesso – un poco di fastidio. Io che sono 
ateo, almeno nel senso corrente del termine, non credo di essere meno
 spirituale di quelli che vanno in chiesa tutte le domeniche, oppure di
 quelli che si chiudono in un monastero tibetano o di quelli che si fanno col peyote per allargare la coscienza.
 Credere di avere il monopolio dello
 Spirito, distribuire patenti di
 spiritualità – non mi riferisco certo qui a Franco Livorsi bensì a un certo
 costume generale - è spesso un facile espediente per acquistare a buon prezzo
 un illusorio senso di superiorità e per denigrare coloro con cui si dissente di
 volta in volta. Io sono, ad esempio, ormai da tempo abituato a sentirmi
 apostrofare come arido razionalista, empirista astratto, materialista,
 scientista, positivista, meccanicista e quant’altro da sedicenti “spirituali” 
che tuttavia, al momento buono, mostrano spesso e volentieri di essere assai ben 
introdotti nei misteri della materia e del calcolo strumentale.
32. 
Nella nostra cultura, il termine “spiritualità” proviene dalla visione 
dicotomica tra spirito e materia che è certo radicata nella nostra tradizione. 
Il cristianesimo ha generalizzato questa distinzione. Ora che la 
dicotomia tra spirito materia non ha più alcuna ragione di sussistere 
(quest’affermazione si fonda, ovviamente, sui risultati della scienza moderna, 
dalla cosmologia fino alle scienze cognitive – non ho spazio qui per argomentare 
in merito, ma ormai c’è un’ampia letteratura in proposito che non si può più 
ignorare) non si può più seriamente continuare a usare la facile
 rendita di questa sorpassata tradizione. La base 
materiale della suddivisione tra spirito e materia semplicemente non 
c’è più! Ammesso che si voglia continuare a parlare di spiritualità, ci 
dovremmo riferire a un’altra cosa. 
Ci dovremmo riferire a una particolare qualità interiore (Socrate l’avrebbe 
chiamata virtù) che sia in grado di 
distinguere gli individui su una dimensione di spiritualità, in pratica 
su una scala di spiritualità. Questo 
perché caratteristica propria di ciascuna virtù è di 
essere posseduta in grado diverso da individui diversi. Sennò non sarebbe 
una virtù. Se questo è vero, allora dovremmo avere la pazienza di definire quali 
siano gli indicatori della 
dimensione in questione. Non vale l’obiezione che siamo
 tutti spirituali, oppure che la
 spiritualità non si può definire, oppure che, essendo infinite le forme
 della spiritualità, ciascuno è 
spirituale a modo suo, oppure ancora che è
 spirituale chi così si auto proclama. In tal caso nessuno potrebbe essere
 davvero detto spirituale. E parlare di un’eventuale nuova 
spiritualità non avrebbe contenuto alcuno che sia comunicabile. Men che mai 
una nuova spiritualità così indeterminata potrebbe contribuire a risolvere i 
problemi globali del mondo odierno.
33. 
Ci occorre allora una modesta, minima, definizione operativa della 
spiritualità, sulla quale possiamo all’ingrosso concordare. Altrimenti ogni 
discorso sulla spiritualità diventa flatus vocis. Vediamo qualche esempio 
in termini di pars destruens. Quanto
 conta agli effetti della spiritualità la cultura posseduta? A parità di altre
 condizioni, un colto e un incolto possono essere ugualmente spirituali? Il
 ciabattino Boehme come si pone rispetto al super istruito Hegel? Nella sua Storia della filosofia Hegel, che ha
 copiato molto da Boehme, ne parla a lungo mantenendo tuttavia un atteggiamento
 sprezzante nei suoi confronti, poiché il povero ciabattino non avrebbe saputo
 elevare la sua visione mistica al 
livello del concetto. E poi, ci sono popoli più spirituali di altri? 
Heidegger pensava che i greci (antichi) e i tedeschi fossero i popoli più 
spirituali, grazie alla loro lingua. Gli Orientali sono più spirituali degli 
Occidentali? Quello che si carica una pietra in testa e percorre in ginocchio le 
stazioni della Via crucis può essere 
definito spirituale? Le bambine (“pastorelle”) che hanno visto la Madonna 
possono essere definite spirituali? I bambini musulmani che entrano giovanissimi 
nelle madrasse pakistane e imparano a memoria il corano e poi lo recitano,
 dondolandosi ritmicamente per ore e ore, sono spirituali? Un astrofisico che
 studia le onde gravitazionali può esser detto per ciò stesso spirituale? Quei
 fondamentalisti ebraici che osservano rigorosamente tutti i numerosissimi
 dettami della Legge, sono spirituali? Quei prelati che governano le finanze
 vaticane, quanto c’è di spirituale nella loro attività? Chi riserva una parte
 delle proprie finanze alle opere caritatevoli, è perciò stesso spirituale?
 Passare lunghe ore seduti con gli occhi chiusi, come si dice, in meditazione, è
 indice di spiritualità? L’ascesi intra mondana del capitalista, come descritta
 dal Weber, è spirituale? Quelli che frequentano un corso di yoga, sono
 spirituali? Quelli che tutte le domeniche si adunano in piazza San Pietro sono
 spirituali? I terroristi suicidi islamisti si possono considerare come
 spirituali? Un alpinista ateo che rischia la vita per salire sulla cima di una
 montagna è spirituale? Quelli che pregano chiedendo
 in cambio una grazia al loro Dio, sono spirituali? E quelli che consultano
 i sedicenti veggenti per prevedere il futuro? Quelli che si drogano per 
“allargare la coscienza” sono spirituali? Un soldato che per essere fedele alla
 propria missione perde la vita sul campo può essere considerato spirituale?
 Quelli che giocano al lotto i numeri ricevuti in sogno sono spirituali? Tutti
 quelli – e sono tanti - che si fanno di pasticche, hashish e marihuana per
 uscire dalla quotidianità, per 
sballare, sono spirituali? I vegetariani e i vegani sono spirituali? Questo 
è un campionario, assolutamente incompleto, un po’ caricaturale e certo 
estremizzato, di altrettante declinazioni della spiritualità. Sono 
senz’altro utili e sensate per chi le 
pratica, per quanto talune possano anche costituire un pericolo sociale. Se 
però la varietà è così grande, tutti sono spirituali e nessuno lo è veramente. 
Una nuova spiritualità, in mancanza 
di precisazioni, finirebbe solo per assommarsi alle vecchie, aggiungendo 
confusione a confusione.
34. 
Non ho mai sentito come particolarmente urgente il compito di definire cosa 
sia la spiritualità. Dal mio modesto punto di vista, comunque – avanzo qui, 
temerariamente, una proposta di definizione operativa, una specie d’imperativo 
categorico della spiritualità. Secondo la mia definizione, è spirituale 
colui che impiega moltissimo tempo, pazienza e risorse per aumentare le proprie 
conoscenze, per divenire più consapevole delle proprie dinamiche emotive e 
cognitive interiori, per ampliare la propria inner 
complexity. Il tutto per costruire e sviluppare la propria identità
 personale. Colui che, inoltre, in termini di ricerca 
consapevole, sia in grado di mettere a confronto, nel modo più ampio 
possibile, le varie tradizioni di pensiero con cui entra in contatto allo scopo 
di costruire un suo punto di vista originale, senza tuttavia assolutizzarlo. È 
poi spirituale chi, facendo tutte le cose precedenti, si comporta nella vita 
pratica e nel mondo in piena coerenza con i risultati raggiunti. È spirituale 
inoltre ancora colui che, pur essendo abituato alla riflessione interiore, sia 
nello stesso tempo disponibile al confronto con chiunque altro, usando le armi 
pacifiche della argomentazione. Colui, infine, che fa, di questa ricerca e 
pratica “spirituale”, lo scopo più importante della propria vita e un impegno 
rigoroso verso se stesso e verso gli altri.
35. 
Naturalmente la definizione qui sopra riportata è del tutto improvvisata, 
senz’altro incompleta e suscettibile 
di miglioramenti. Quel che conta comunque è che un simile modello di 
spiritualità sarebbe assolutamente pluralistico, e sarebbe a
 disposizione di tutti, indipendentemente dal fatto che si sia laici o
 religiosi, credenti o miscredenti, teisti o panteisti. Sarebbe questa la base
 per una spiritualità del tutto 
umana, non necessariamente dipendente dalla religione. Può anche essere che 
il fatto di appartenere a una qualche religione sia d’intralcio allo sviluppo di 
un simile modello di spiritualità, perché la religione spesso soffoca l’elemento
 fondamentale che è costituito proprio dal dubbio
 e dalla ricerca. Secondo questa
 nostra definizione, temiamo oltretutto che molti sedicenti religiosi starebbero
 piuttosto in basso nella scala della spiritualità. Questo modello di
 spiritualità è soprattutto un modello di architettura
 della mente, dell’interiorità, dell’identità personale. Non è un modello di
 perfezione morale. Chi pratica questa ricerca spirituale non è 
necessariamente buono o cattivo. Gli spirituali siffatti non sono 
necessariamente buoni, anche se forse hanno qualche probabilità in più di 
diventare buoni, o di fare buone cose nella loro vita. La spiritualità, per
 com’è stata qui definita, non offre neppure particolari vantaggi personali, si
 può essere molto spirituali e fare una vita disperatissima.
36. 
Qui pongo la domanda risolutiva della mia intera argomentazione. Che vantaggio 
può avere una società, qualora essa sia costituita di un gran numero di simili 
individui “spirituali”, come li abbiamo definiti? Il vantaggio sarebbe – in 
breve - che il nichilismo si dissolverebbe d’un fiato, la qualità media degli 
individui avrebbe un’impennata verso l’alto, emergerebbero e si diffonderebbero 
numerose e buone idee, ci sarebbe un accrescimento di impegno collettivo e di 
conseguenza molti dei problemi che abbiamo, di adeguamento di noi stessi, della 
nostra interiorità e della nostra mente, al progresso economico sociale e 
culturale e alle trasformazioni sempre più rapide cui siamo sottoposti, 
sarebbero presto inquadrati, sia individualmente sia collettivamente, e 
sarebbero ben presto messi in via di soluzione. 
37. 
Non sarà sfuggito al mio interlocutore che l’improbabile costruzione dello Spirito assoluto hegeliano, che doveva 
comprendere tutto, in cui gli 
individui singoli erano semplici accidentalità, viene qui – in questa mia 
modesta e provvisoria elaborazione – condensata e concentrata proprio dentro ai 
singoli individui, con la funzione di costruire, artigianalmente e 
originalmente, la totalità interiore 
di ciascuno. Totalità interiori decisamente ricche, piuttosto che povere. 
Totalità interiori che sono però costruzioni del tutto mondane, che non 
hanno necessariamente a che fare con la scoperta di un Dio 
nascosto dentro di sé, oppure con la maturazione della credenza di essere
 Dio. Certo, qualcuno può anche giungere liberamente a crederlo, alla fine
 della sua personale ricerca, ma si tratterebbe in quel caso di un’opzione del
 tutto personale, una credenza,
 appunto, accanto a tante altre, magari da rispettare ma non certo da
 assolutizzare. Non certo da usare per costruire a tavolino una religione,
 magari anche istituzionalizzata.
Qui, nella totalità interiore di ciascuno e ben 
lontani dallo Stato etico, possiamo finalmente parlare di totalità 
in senso positivo – anche se, come del tutto prevedibile, ci potranno essere 
delle totalità interiori un poco bacate e/o del tutto patologiche.[29] 
Ciò semplicemente significa che la mia definizione laica della spiritualità non 
pretende di risolvere il problema del male (come fanno invece di solito le 
religioni) ma lo lascia in sorte all’orologiaio cieco,[30] il quale è sempre 
al lavoro, anche nel campo dell’evoluzione culturale, togliendo di 
mezzo a lungo andare, costi quel che costi, gli eventuali rami 
secchi dello Spirito. Più o meno come il macellaio della storia di Hegel, ma 
in modo forse più incruento.[31] 
38. 
Comprendo perfettamente come la proliferazione in massa di simili individualità 
da taluni potrebbe essere considerata come un incubo. Per me costituirebbe 
invece effettivamente una rivoluzione
 interiore di massa o, se si vuole, una rivoluzione
 spirituale che avrebbe enormi risvolti collettivi. Una società del genere,
 dotata di un gran numero di individui spiritualmente virtuosi, si 
configurerebbe come una società di spiriti liberi (qui mi riferisco a Kant 
e non a Hegel[32]) i quali tuttavia – per come sarebbero costruiti dentro – 
sarebbero in grado di armonizzarsi e di interagire costruttivamente con gli 
altri spiriti liberi che eventualmente potrebbero incontrare sul loro cammino. 
Questa, a mio giudizio, è l’unica repubblica degli spiriti che sia 
sensatamente ammissibile ai giorni nostri e nel prossimo futuro. Una repubblica 
degli spiriti diffusa a livello di 
massa - si potrebbe azzardare - che progressivamente sopravanzerebbe e 
prenderebbe il posto di quella società
 del cazzeggio di massa che invece stiamo producendo e alimentando. E si
 tratterebbe comunque di una repubblica, non di una religione.
Giuseppe Rinaldi
05/02/2020
OPERE CITATE
2004 Cavalli Sforza, Luigi Luca
L’evoluzione
della cultura,
Codice edizioni, Torino.
 2002 D’Agostini, Franca 
Disavventure
della verità,
Einaudi, Torino.
 1986
Dawkins, Richard 
The Blind Watchmaker,
Longman Scientific and Technical, UK. Tr. it.: L’orologiaio cieco. Creazione o evoluzione?, Rizzoli, Milano, 1988.
 1964 de Martino, Ernesto 
“Apocalissi culturali e apocalissi
psicopatologiche”, in Nuovi argomenti,
n. 69-71, pp. 105-141.
 1977 de Martino, Ernesto 
La fine
del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino.
 2016 Ferraris, Maurizio
L’imbecillità
è una cosa seria,
Il Mulino, Bologna.
 2007 Galimberti, Umberto 
L’ospite
inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano.
 2000 Heidegger, Martin 
Nur noch
ein Gott Kann uns retten, Vittorio Klostermann GmbH, Frankfurt am Main. Tr. it.: Ormai solo un Dio ci può salvare. Intervista
con lo “Spiegel”, Guanda, Parma, 1987.
 1996 Izzo, Alberto 
L’anomia.
Analisi e storia di un concetto, Laterza, Bari.
 1958
Mueller, Gustav E. 
“The
Hegel Legend of ‘Thesis - Antithesis – Synthesis’ “, in Journal of the History of Ideas, vol. 19, n. 3 (1958) p. 411-14.
 1966
Popper, Karl R. 
The Open Society and Its Ennemies. The Big Tide of
Profecy: Hegel, Marx and the Aftermath,
Routledge & Kegan Paul Ltd, London. Tr. it.: La
società aperta e i suoi nemici. Hegel e Marx falsi profeti, Armando, Roma,
1974.
 2009 Stausberg, Michael (a cura di)
Contemporay Theories of Religion, Routledge, London.
 1982 Todorov, Tzvetan 
La
conquéte de l’Amerique: la question de l’autre, Éditions du Seuil,
Paris. Tr. it.: La conquista dell’America.
Il problema dell’ “altro”, Einaudi, Torino, 1992.
 1992 Tullio - Altan, Carlo 
Soggetto,
simbolo e valore. Per un’ermeneutica antropologica, Feltrinelli, Milano.
 1985 Viano, Carlo Augusto 
Va’
pensiero. Il carattere della filosofia italiana contemporanea, Einaudi, Torino.
 1996 Volpi, Franco 
Il
nichilismo,
Laterza, Bari.
 1971
Wachtel, Nathan 
La vision des vaincus,
Gallimard, Paris. Tr.
it.: La visione dei vinti. Gli indios del
Perù di fronte alla conquista spagnola, Einaudi, Torino, 1977.
NOTE
[1] Questo scritto prende spunto dall’articolo di 
Franco Livorsi “Piccolo dialogo con Giuseppe Rinaldi sulla religiosità in Hegel 
e Marx”, pubblicato su Città Futura in data 2/01/2020. Franco mi ha coinvolto – 
come spiega egli stesso nel suo articolo – in seguito a un mio breve post 
di commento a un suo precedente articolo su Marx. Non ho qui cercato di 
rispondere punto per punto al suo articolo ma ho cercato piuttosto di costruire 
una mia argomentazione intorno ai problemi da lui sollevati. Non sono sicuro di 
avere ben compreso tutte le argomentazioni di Franco, per cui saranno sempre 
possibili – e senz’altro benvenute – eventuali precisazioni da parte sua. Credo 
comunque, in generale, sia utile che su Città Futura si discuta anche di 
argomenti come questi che possono sembrare come lontani dall’attualità sociale e 
politica, che possono, in altre parole, sembrare come decisamente inattuali. 
Dato il carattere di dibattito di quest’articolo, ho ridotto al minimo le note e 
le citazioni bibliografiche.
[2] Questa tesi è esposta nell’articolo citato alla 
nota precedente.
[3] Cfr. Heidegger 2000.
[4] Cfr. Mueller 1958.
[5] L’espressione risale, per quel che ne so, a Carlo 
Augusto Viano. Cfr. Viano 1985. 
[6] Cfr. Galimberti 2007.
[7] Cfr. Volpi 1996.
[8] Non ho spazio qui per argomentare circa l’assenza 
di fondamenti del nichilismo filosofico. Mi limito, per chi voglia 
approfondire, a segnalare l’ottimo e rigoroso D’Agostini 2002.
[9] Segnalo un mio vecchio post sul mio blog
 Finestrerotte che affronta esattamente questi problemi. Cfr. L’illusione 
necessaria del 5 settembre 2014, all’indirizzo:
 https://finestrerotte.blogspot.com/2014/09/lillusione-necessaria.html 
[10] A differenza del nichilismo, dell’anomia 
sono state date diverse definizioni operative, sono state costruite diverse 
misurazioni o scale di anomia e s’è 
dato luogo a numerose ricerche empiriche. Per una introduzione, si veda Izzo 
1996.
[11] Cfr. Todorov 1982.
[12] Cfr. Wachtel 1971. 
[13] Segnalo un post sul mio blog Finestrerotte in cui 
ho ripreso la teoria di Riesman. Cfr. L’individuo ben socializzato del 5 
febbraio 2017, all’indirizzo:
 https://finestrerotte.blogspot.com/2017/02/lindividuo-ben-socializzato.html 
.
[14] Un’analisi analoga è stata condotta da Maurizio 
Ferraris a proposito della postverità.
[15] Cfr. il concetto di destorificazione 
in Tullio-Altan 1992.
[16] La storicità è l’opposto 
della destorificazione. Su questo punto non posso che nuovamente rimandare a 
de Martino e al suo concetto del rischio 
della presenza. Tutte queste questioni sono state sviluppate e approfondite 
dall’antropologo Carlo Tullio-Altan. Vedi sempre Tullio-Altan 1992.
[17] Del resto qualche tempo fa si è parlato
 esplicitamente di fine della 
storia.
[18] Si vedano gli studi di de Martino sulla fine 
del mondo. Cfr. Ad esempio, de Martino 1964, oppure de Martino 
1977.
[19] Sul postmodernismo rimando al mio articolo Il tramonto annunciato dei profeti del 
nulla, pubblicato su Città Futura. Vedi il link all’articolo pubblicato il 
18/03/2015 sul mio blog:
 https://finestrerotte.blogspot.com/2015/03/il-tramonto-annunciato-dei-profeti-del.html 
[20] Cfr. Ferraris 2016. 
[21] Cfr. Ferraris 2016.
[22] Con questo non intendo assumere una posizione 
antidemocratica. Intendo soltanto che il diritto di voto implicherebbe un dovere 
corrispettivo, una vera e propria responsabilità, di sforzarsi di conoscere le 
questioni intorno alle quali si sta votando.
[23] La nozione di evoluzione 
culturale mi pare che sia ormai ampiamente accettata da molti studiosi. Cfr. 
Cavalli Sforza 2004.
[24] Oltre a quest’analisi, che è di carattere
 funzionale, cerca cioè di spiegare un fenomeno in base alla sua funzione, sono
 oggi disponibili molte teorie piuttosto precise e circostanziate che tendono a
 spiegare la predisposizione degli umani a credere nelle più diverse divinità.
 Si veda in proposito Stausberg 2009.
[25] La privatizzazione delle religioni costituirebbe – 
secondo taluni – la prova che le religioni, oltre a svolgere una funzione di 
tipo sociale e istituzionale come quella che abbiamo descritto, risponderebbero 
anche a un bisogno innato degli 
individui, un bisogno di sviluppare un rapporto con il sacro 
e con il soprannaturale. Sulla 
questione di una innata predisposizione umana verso il sacro, il soprannaturale 
e il divino sono state elaborate teorie molto interessanti. Si veda ad esempio 
la teoria cognitiva delle religioni. 
Quand’anche si riuscisse a provare che il sacro abbia un qualche fondamento 
nella biologia evolutiva, questo riuscirebbe al più a sostenere la prospettiva 
delle religioni esistenziali, non 
certo delle religioni
 istituzionalizzate. 
[26] Cfr. Popper 1966.
[27] Questo perché lo Stato repubblicano chiede molto 
ai cittadini, in termini di impegno, partecipazione, competenza,
 rettitudine.
[28] Capisco, con quest’affermazione, di star
 terrorizzando i miei dieci lettori. Vorrei comunque ricordare loro che – 
proprio grazie all’illuminismo - siamo in un regime di piena libertà, anche di
 non leggere. Magari l’articolo lo scriverò solo se qualcuno si mostrerà
 interessato e me lo chiederà.
[29] Qui sento fremere i relativisti e i postmoderni politicamente corretti. Come ti arroghi 
di individuare e distinguere ciò che è patologico da ciò che non lo è? Io non mi 
arrogo, ma sostenere che «Tutto va bene» è una delle tante forme 
dell’imbecillità culturalmente motivata. Ricordo che il relativismo 
estremo non è fondamentalmente diverso dal nichilismo.
[30] Cfr. Dawkins 1986.
[31] Ci sono ormai molte teorie che trattano della selezione culturale. Non ho spazio qui 
per entrare nel merito. L’evoluzione culturale, a lungo andare, seleziona le 
idee. Io sostengo semplicemente che, perché siano sottoposte a selezione
 culturale, le idee bisognerebbe prima di tutto avercele. E averne un gran
 numero. E metterle a confronto.
[32] Anche Hegel ha parlato dello Spirito 
libero nella sua Fenomenologia. 
Kant ha prospettato una repubblica degli spiriti morali che ha chiamato Regno dei fini. Kant dice “regno” ma 
aveva in mente una repubblica. Sul piano storico filosofico, il Regno dei fini è 
storicamente una derivazione sia della filosofia greca sia del 
cristianesimo.

