1.
Ho sempre avuto[1] qualche diffidenza nei confronti della filosofia
frammentaria, quella fatta di pensieri occasionali, aforismi, frammenti,
ritagli, approssimazioni, spunti, provocazioni, semilavorati, zibaldoni,
meditazioni, sonde, brani poetici o letterari, libelli satirici, oppure anche
barzellette, come ha fatto di recente un filosofo che va per la maggiore. Tutto
ciò, per me, può appartenere alla fase
preparatoria della riflessione filosofica, al bancone del laboratorio, alla
cassetta degli attrezzi. Oppure, anche al momento
privato del filosofo, importantissimo nella motivazione della ricerca ma che
non necessariamente è interessante e necessario che sia reso pubblico. Credo in
generale che la riflessione filosofica, per essere efficace, debba essere una
riflessione pubblica, come per lo
più accadeva in Grecia proprio ai tempi della nascita della filosofia. Debba,
per conseguenza, essere composta di argomentazioni compiute e di teorie
organiche, in modo da dare al pubblico la possibilità di prendere parte alla
discussione ed eventualmente di scegliere la propria posizione. Per questo,
secondo me, le tesi filosofiche vanno esposte in forma esplicita ed esauriente
in modo da dare il fianco a eventuali confutazioni che siano ugualmente
organiche e chiare.
Per questo, lo confesso onestamente, talvolta faccio
una certa fatica a seguire lo stile dell’amico Franco Livorsi che ultimamente
propone le sue meditazioni filosofiche a partire da letture e commenti di brani
di alcuni classici della filosofia e non disdegna l’uso della narrativa o della
poesia. Non condanno assolutamente queste pratiche, sicuramente più che
legittime e appartenenti a una più che rispettabile tradizione. Anche se
personalmente confesso di non ritrovarmici più di tanto. È senz’altro un mio
limite. Mi sforzerò comunque, in quel che segue, in nome del valore che
attribuisco al dialogo, di formulare un mio punto di vista, per come ne sono
capace, intorno alle sue recenti meditazioni circa l’attuale crisi
globale e la conseguente possibilità, da lui avanzata, che la sola strada di
uscita possa essere costituita dall’avvento di una nuova
religiosità.[2] Questa tesi peraltro mi ricorda più o meno quel che disse
Heidegger: «Ormai solo un Dio ci può salvare».[3] Una simile irruzione della
religiosità nella politica va senz’altro controcorrente, vista la tendenza delle
religioni – almeno in Occidente – ad abitare sempre più la sfera del privato.
Comunque si pensi, si tratta di argomenti direi di notevole rilievo, di cui
peraltro nell’attuale piattume culturale si discute sempre meno. Essendo Hegel
il convitato di pietra di questa nostra discussione, prendendomi anch’io qualche
libertà nello stile e in un omaggio puramente rituale alla scolastica hegeliana,
dividerò la mia esposizione in tre parti, tesi,
antitesi e sintesi,
anche se diversi studiosi oggi negano che Hegel abbia mai parlato seriamente
della dialettica in questi termini.[4] Nella prima parte esporrò le mie
convinzioni circa la questione della crisi epocale e del nichilismo.
Nella seconda parte discuterò circa la proposta di una nuova
religiosità o di una nuova
religione come antidoto per superare la crisi supposta. Nella terza parte
esporrò una serie di mie considerazioni sulla questione della spiritualità,
per come questa si prospetta in un mondo laico, plurale e globalizzato.
Ci tengo a chiarire che queste mie argomentazioni
vorrebbero essere altrettanti
approfondimenti da parte mia,sebbene a partire da quanto ha scritto
Franco Livorsi, e quindi non vanno intese come risposte puntuali nel contesto di
una qualche contrapposizione polemica che è totalmente fuori dalle mie
intenzioni.
A -
Tesi
2.
Livorsi nel suo articolo parla anzitutto di una crisi
epocale. Cita addirittura la “caduta” dell’Impero romano. Personalmente ho
sempre diffidato delle svolte
epocali. Semplicemente perché, nella storia contemporanea, non possiamo mai
sapere se un qualche cambiamento appena avvenuto è epocale o meno. Solo nel
lungo o lunghissimo periodo possiamo individuare, retrospettivamente, le grandi
svolte significative che sono intercorse. Dico questo anche e soprattutto perché
mi pare che oggi, nel dibattito politico culturale corrente, la tendenza –
escludo qui le posizioni di Franco che credo di conoscere abbastanza per non
farle rientrare nel novero delle mode – a identificare svolte epocali sia
divenuta veramente patologica. Qualunque perturbamento nell’oggi, positivo o
negativo che sia, è ormai individuato come svolta
epocale. Tempo fa, a proposito di altre questioni, ho chiamato svoltismo
questo atteggiamento. Taluni postmoderni, nonostante il rigoroso minimalismo che
li dovrebbe contraddistinguere, sono tra gli svoltisti più scatenati.
Ricordo che il termine “crisi”, etimologicamente, ha a
che fare con una situazione di dubbio che richiede una scelta. Essere in crisi
significa che si è messi davanti alla necessità di una scelta. Per
derivazione, crisi indica anche certamente una situazione assai grave di
disorientamento oppure di sfacelo
totale, magari senza alcuna via di uscita e, dunque, senza alcuna
possibilità di scelta. Se così è, va fatto osservare che oggi, a livello
globale, accade sempre più raramente che una qualunque crisi si configuri come
un disorientamento assoluto o come una catastrofe totale e sia davvero
generalizzata, ossia che coinvolga tutti gli aspetti significativi di una
società, o addirittura di una civiltà, proprio come accadde attorno all’anno
476. Di solito le crisi odierne riguardano aspetti circoscritti delle varie
società, anche se molteplici livelli di crisi possono concatenarsi per produrre
situazioni di crisi più ampie e durature. Se questo è vero, allora, quando si
parla di crisi bisognerebbe evitare di rimanere sul generale e si dovrebbe
andare più nel dettaglio. Dico questo perché, da un certo punto di vista, si
potrebbe anche sostenere che oggi non
siamo affatto in crisi e che l’umanità, su questo pianeta, nonostante tutto
non è mai stata così
bene.
3.
Molti indici statistici testimoniano di una crescita imponente a livello
economico, sociale e culturale. Tendiamo a sottovalutare una serie di benefici
di cui godiamo oggi soltanto perché li abbiamo sempre sotto gli occhi e ci
sembrano ovvi: i progressi dell’industria, l’avanzamento della tecnologia,
l’incremento dei consumi, il miglioramento del livello d’istruzione, le cure
mediche, la libertà di spostamento, internet e così via. In campo politico, tra
gli elementi positivi, aggiungerei che il numero di Paesi nel mondo che hanno
forme di governo democratiche, o quasi democratiche, sta progressivamente
aumentando. Le democrazie hanno senz’altro dei problemi, ma a quanto pare tutte
le altre forme di governo sono senz’altro peggiori. A Hong Kong si sta lottando
per la democrazia, anche se ciò avviene nell’indifferenza di coloro che, nel
resto del mondo, uno straccio di democrazia l’hanno già.
In generale, nell’ultimo secolo, l’umanità è stata
protagonista e testimone di sviluppi esponenziali in una miriade di campi, come
non mai. Non bastano le brutture del secolo breve per misconoscere gli
avanzamenti che ci sono stati. Le brutture del secolo breve pare anzi abbiano
avuto la ricaduta positiva di mettere fuori discussione alcune opzioni politico
sociali che hanno avuto un grande seguito di massa, che sono parse a un certo
punto come positive ma che si sono rivelate più che mai perniciose. Nessuno
vorrebbe realisticamente tornare indietro, anche soltanto agli anni Cinquanta
del secolo scorso. Ci sono molti studiosi che hanno sviluppato esattamente
questo tipo di argomentazioni, in contrasto con le tesi più catastrofiste, le
quali sono tuttavia senz’altro le più note, abbondanti e diffuse.
4.
Allora, cos’è che non va? Intanto, nonostante lo sviluppo imponente, ci sono
ancora enormi sacche di arretratezza
che rendono evidente come lo sviluppo fin qui realizzato non
basta. Lo sviluppo è avvenuto in maniera disomogenea, come si dice, a
macchia di leopardo. Lo sviluppo sta inoltre rendendo più evidenti le
disuguaglianze tra gli individui e tra le diverse aree del mondo e sta
producendo una serie di conflitti, per lo più di carattere locale, che ha per
oggetto soprattutto la questione della distribuzione, in un quadro ormai di
sfruttamento intensivo del pianeta e di scarsità delle risorse. Si tratterebbe
allora di riequilibrare lo sviluppo, piuttosto che bloccarlo.
Si può obiettare tuttavia che un certo tipo di crisi
aleggi oggi anche e soprattutto proprio nelle aree più sviluppate, dove maggiore
è la ricchezza e dove maggiori sono i vantaggi portati dallo sviluppo.
Sembrerebbero in crisi proprio tutti, quelli che stanno bene e quelli che stanno
male. Ma, allora, si può dire che ci sia un’unica crisi
globale? Se sì, di che crisi si tratta? I punti
specifici di crisi sono naturalmente innumerevoli. Se però volessimo darne
una descrizione terribilmente sintetica tale da accomunarli più o meno tutti –
cosa che si dovrebbe sempre fare con grande cautela – potremmo sostenere, a mio
giudizio, indipendentemente dal livello di sviluppo conseguito e goduto, che
stiamo soffrendo a causa delle difficoltà di adattamento. Lo sviluppo
economico, sociale e culturale non è facilmente pianificabile, come si era
creduto in passato, e sta procedendo in forme talmente imprevedibili e a una
velocità tale che produce lo sconvolgimento nei vecchi assetti e, quindi, induce
la necessità di rapidi adattamenti e di grandi cambiamenti.
Lo sviluppo attuale produce sconvolgimenti soprattutto
a livello dei singoli individui.
Diciamo che c’è uno stato di sofferenza
diffusa all’interno degli individui, a livello globale, anche se si tratta
di una sofferenza spesso causata da motivi completamente diversi. C’è
dunque un disagio diffuso che tuttavia ha cause
molteplici e che richiederebbe altrettante molteplici
diverse soluzioni. Una soluzione
unica non basta. I vari tentativi di soluzione spesso generano tuttavia
nuovi altri problemi. La sofferenza dei singoli, per le più diverse cause, fa sì
che i singoli spesso stiano a loro volta tra le cause delle sofferenze altrui.
In questo modo tendono ad aumentare la concorrenza e la conflittualità
inter individuali.
Un altro importante aspetto del disagio che colpisce
gli individui nella nostra epoca è costituito dalla paura.
Entrando gli individui a far parte di sistemi sempre più estesi e complessi,
aumenta la loro sensazione di precarietà, d’incapacità di controllare le
situazioni. E dunque, anziché affrontare i problemi per quello che sono, c’è la
tendenza ad andare alla ricerca di soluzioni difensive. Soluzioni
sbrigative come, tanto per fare qualche esempio piuttosto vicino a noi,
procurarsi una pistola, picchiare gli infermieri del pronto soccorso, non far
vaccinare i figli, ubriacarsi e/o drogarsi il sabato sera, costruire muri di
filo spinato, ignorare il parere degli scienziati, darsi al populismo
sovranista. In generale, succede dunque che, anche se di fatto stiamo molto
meglio di cinquanta o cento anni fa, tutto questo non
ci rende felici e produce uno stato diffuso di precarietà
e paura.
5.
Pensare le molteplici e complesse crisi del mondo di oggi in termini di un’unica crisi epocale produce un effetto
indesiderato che consiste nell’andare continuamente all’indietro nel tempo per
cercare la radice ultima del nostro
ipotetico unico e immenso problema
epocale. Insomma, si tratterebbe di dare un volto, un nome, al male
originario che ci opprime. È lo stesso meccanismo che presiede all’antica
credenza nel peccato originale. Una
volta identificato il problema unico
da cui derivano tutti i mali, ecco che può partire la ricerca della soluzione
unica. Per carità, non c’è nulla di male a fare questi esercizi mentali, i
quali tuttavia credo abbiano l’effetto collaterale di distogliere
dall’affrontare effettivamente i problemi specifici che abbiamo. È abbastanza
evidente poi che si tratti di esercizi mentali - in cui indulgono spesso e per
lo più i filosofi continentali - che
pretendono spesso di elaborare una complessiva visione del tutto, per
ottenere la quale però si è costretti spesso a ricorrere al cosiddetto pensiero
vago,[5] quel pensiero che è tanto generico che è impossibile da confutare,
che fornisce l’illusione di avere afferrato i termini ultimi della questione ma
che poi ci lascia privi di ogni sbocco operativo.
6.
Una delle diagnosi di carattere epocale – molto popolare e, secondo me,
piuttosto sbrigativa – è che tutto ciò che ci angustia sia dovuto al nichilismo.
Si tratta purtroppo di un termine assai ambiguo, per quanto possa essere
affascinante e molto popolare. Anche perché i filosofi che hanno coniato questo
termine non si sono mai dati da fare per definire il termine stesso e farne un
uso controllato. È inutile cercare di capire esattamente
cosa intendesse Nietzsche con quel termine. Solitamente gli si attribuiscono
almeno tre o quattro significati diversi. Il che è dovuto, ancora una volta, al
carattere episodico e frammentario delle stesse riflessioni nicciane. Heidegger
non ha contribuito a chiarire, forse anzi ha complicato ancor più il quadro. Si
tratta indubbiamente di filosofi
vaghi. Ma anche filosofi meno vaghi, come ad esempio il nostro Galimberti,
che pure si è occupato di psicologia in senso scientifico, non hanno contribuito
gran ché a chiarire l’arcano. Si veda lo studio di Galimberti sui giovani e il
nichilismo, in cui la definizione del nichilismo è davvero piuttosto vaga.[6]
Renzo Volpi, nel suo studio sul nichilismo,[7] dopo una altrettanto vaga
definizione di un paio di paginette, ha scelto di raccontare la
storia del termine attraverso le teorie eterogenee dei filosofi. Se ci sono
tanti nichilismi diversi quanti sono i filosofi o letterati che ne hanno
parlato, come facciamo a dire con sicurezza che la colpa di tutti i nostri
guai, la colpa della svolta epocale, sia proprio dovuta al nichilismo?
Nichilismo quale? Mi spiace, ma
siamo ancora sempre nel campo del pensiero vago.
7.
Banalmente, tanto per dare una definizione operativa provvisoria, che
sia utile alla prosecuzione del nostro discorso senza troppe ambiguità, si
potrebbe dire che il nichilismo implica una condizione generalizzata di
incredulità, di perdita dei valori, di disorientamento, di spaesamento
per dirla con Heidegger, cioè di perdita
della patria. Si tratterebbe, in termini ancor più sintetici, di una
perdita dei quadri fondamentali di
riferimento. Se così è, bisogna però ammettere che il nichilismo in questo
senso c’è sempre stato. Fin dai tempi di Gorgia. Già a quell’epoca c’era chi,
di fronte a robuste teorie che propugnavano solide verità, faceva osservare
l’impossibilità di accedere a qualsiasi verità ultima. Quando simili teorie,
elaborate in sede filosofica e certo del tutto legittime, dilagano a livello di
massa, diventano tuttavia spesso un atteggiamento esistenziale più che
teoretico e possono anche assumere un aspetto patologico dal punto di vista
dei singoli e dell’organizzazione sociale. Diventano allora non più soltanto teorie filosofiche sbagliate[8] ma una
vera e propria malattia culturale
che ha a che fare con il rapporto tra gli individui e la loro cultura, come
ha bene spiegato Ernesto de Martino[9] (peraltro influenzato anche da
Heidegger). Se non piace de Martino, ci si può sempre rifare a Durkheim, il cui
concetto di anomia ha avuto una
rispettabile storia nell’ambito delle scienze sociali.[10]
Ci sono state indubbiamente epoche in cui i quadri di
riferimento di base sono rimasti lungamente immutati e altre epoche nelle quali
i quadri di riferimento hanno preso a cambiare rapidamente. Sono le società a produrre i propri stessi quadri di
riferimento, selezionando e tramandando gli orientamenti culturali ritenuti più
utili. Tuttavia questi quadri possono a un certo punto non funzionare più ed entrare in crisi. Uno dei casi più
studiati, quasi come fosse un laboratorio, è la repentina destrutturazione
delle culture precolombiane in seguito al contatto con i conquistadores.
Si veda lo studio esemplare di Todorov in proposito.[11] Oppure quello di
Wachtel.[12] Sul piano delle società occidentali resta esemplare il pur oramai
datato studio di David Riesman sulla Folla solitaria.[13] È chiaro che le cause dell’indebolimento o della
perdita dei quadri basilari di riferimento di una società possono essere
molteplici e assai diverse tra loro.
8.
Comunque, indipendentemente dalle cause - a proposito delle quali si può sempre
discutere e, soprattutto, si può indagare empiricamente - si può dire che questo
fatto del disorientamento pur diffuso costituisca una crisi
epocale? Se il nichilismo è quello che abbiamo appena descritto, direi
allora che, più che di un “ospite inquietante” come si ama ripetere, si tratta
di processi abbastanza comprensibili, legati al funzionamento del meccanismo
culturale, su cui molto potrebbero dire (e molto hanno detto) gli antropologi
culturali. Messa la stessa questione in mano ai filosofi, sembra che questa
crisi, divenuta facilmente crisi
epocale, sia una crisi totale di
civiltà, una specie di fine del
mondo in termini ontologici. Per spiegare la crisi epocale filosoficamente
intesa sono state elaborate svariate teorie che tuttavia paiono afferire più o
meno tutte a un solo tipo di
filosofia, quella continentale.
Secondariamente paiono – almeno a chi scrive - mosse da un unico
filo conduttore che è quello ben noto della concezione della storia
come decadenza. La responsabilità della crisi o decadenza è stata variamente
attribuita a una serie di “cause” che, alla fin fine, sono tutte tra loro
alquanto imparentate. Per cominciare da lontano, la crisi è stata attribuita
alla fine del mondo del mito, allo
sfrontato razionalismo di Ulisse,
alla nascita della riflessione
filosofica razionale per opera di Socrate (il quale però tanto poco era
nichilista che si uccise in nome delle leggi della propria polis).
Anche il cristianesimo è stato indicato tra i responsabili della decadenza,
essendo esso la religione degli
schiavi. Oppure ancora, la colpa è stata identificata in un ipotetico oblio dell’essere che sarebbe avvenuto
all’inizio della storia dell’Occidente, più o meno dalle parti dei filosofi
presocratici. Tuttavia, col passar del tempo, questa visione della decadenza
globale si è arricchita e suddivisa in vari rivoli, per cui sono stati precisati
innumerevoli nuovi ulteriori colpevoli. Colpa della rivoluzione digitale, colpa
del predominio della tecnica e della ragione strumentale, colpa del mercato e
della merce, colpa del capitalismo, colpa della rivoluzione scientifica, colpa
della rivoluzione industriale, colpa dell’illuminismo, colpa
dell’individualismo, colpa della secolarizzazione e della perdita della fede,
colpa dell’abbandono della tradizione, colpa del peccato di presunzione e di
dominio dell’animale uomo nei confronti della natura. Colpa, infine, anche
della morte di Dio, che sarebbe
tipicamente connessa proprio con il nichilismo. Insomma, la colpa è sempre di
quel che, di volta in volta, si suole comunemente qualificare con la parola progresso. La parola progresso ha
assunto una connotazione nettamente negativa e chi la pronuncia in pubblico
oggi fa la figura dello sprovveduto o dello sfrontato. Al posto del progresso,
che è considerato sospetto, tutti vogliono però lo sviluppo. Già, tutti
vogliono lo sviluppo, ma è chiaramente pericoloso uno sviluppo
senza progresso. La ragione di questa stranezza è che parlare di sviluppo
non pone troppi problemi, mentre il progresso implica prendere
posizione su ciò che è progressivo e ciò che non lo è. Chi è disorientato,
appunto, non riesce proprio a giudicare cosa è progressivo e cosa non lo
è.
Mi stupisco sempre per il fatto che le tesi
vaghe sulla decadenza come quelle che ho sintetizzato finiscano per godere
di ampia popolarità e finiscano così, come sottoprodotto, per creare
e alimentare proprio quel clima di
nichilismo che invece apparentemente vorrebbero combattere. C’è un serio rischio
che il nichilismo sia un prodotto elaborato degli stessi filosofi continentali e
che viene inopinatamente diffuso a livello di massa, dove trova ampia
accoglienza in mancanza di meglio e dove diventa atteggiamento
esistenziale generalizzato.[14]
9.
Data la rapida trasformazione e crescita che ho citato e dato il disagio
esistenziale, morale, antropologico di cui ho parlato, mi pare che i termini
della crisi odierna – volendo anche qui fare una sintesi ardita – siano in
realtà piuttosto semplici e riconducibili a un’opzione basilare. Del resto la
crisi ha anche a che fare con la questione della scelta.
Si tratta di scegliere se vogliamo guardare indietro o se vogliamo guardare avanti. Decidere se vogliamo
vedere il mondo nell’ottica del progresso oppure della decadenza.
Se vogliamo mantenere una qualche minima buona intenzione di fare
coscientemente la storia o se invece ci rassegniamo a lasciarci
fare dalla storia.[15] Guardare avanti implica naturalmente un certo
coraggio, poiché i problemi sono tanti e il futuro, per sua natura, è sempre
incerto. Guardare indietro è senz’altro più rassicurante, poiché si cerca di
ripristinare quel tempo nel quale ci sentivamo meno smarriti, avevamo la
sensazione cioè di essere più appaesati.
La soluzione migliore sarebbe ovviamente quella di guardare all’indietro per meglio guardare
in avanti, ma questa soluzione implica già una prospettiva
di storicità che chi vive nella prospettiva del nichilismo non può
sempre permettersi. La perdita dei quadri fondamentali di riferimento implica
un’enorme difficoltà nella formulazione di piani di azione che abbiano una
dimensione di autentica storicità.[16] La storicità è un prodotto culturale come ogni altro e
può accadere che le società, proprio a causa delle loro crisi culturali,
diventino carenti nella produzione di
una prospettiva storica. Potrebbe anche essere che, anziché essere dovuta al
nichilismo, l’attuale crisi, soprattutto quella che insiste nel mondo più ricco
e sviluppato, sia una crisi di
storicità.[17] Non m’impegno fino in fondo, ma mi sembrerebbe già una tesi
vagamente più convincente di quella del nichilismo. Del resto l’umanità ha
vissuto per migliaia di anni in una condizione di pre-istoria
e la produzione di una qualche prospettiva storica è cominciata non
più di sette o ottomila anni fa. La storia è giovane.
Guardare soprattutto indietro produce – come ho
già accennato - una strana proiezione del passato sul nostro presente e sul
nostro futuro. In qualcuna delle epoche passate – così si ragiona - potremmo
avere imboccato una strada sbagliata. Una strada tanto sbagliata da prefigurare
il nostro attuale presente decaduto, privo di significato e dunque una sicura prossima catastrofe.[18] Le
strade pericolose che vengono indicate sono più o meno sempre le solite, quelle
connesse alla visione della
decadenza (o del fallimento del
progresso) che abbiamo già segnalato e alle varie teorie annesse e connesse.
Abbiamo imboccato la strada della tecnica e così diventeremo tutti delle
macchine e le macchine ci governeranno, come nel mondo dei cyborg.
Abbiamo imboccato la strada della scienza moderna (a quanto pare la colpa
sarebbe del povero Francis Bacon) e questa ci porterà alla perdita
della nostra umanità. Grazie al mercato siamo diventati schiavi
delle merci e, nel linguaggio di Lacan, abbiamo così abbandonato il desiderio per lasciare spazio alla pulsione. Non ultimo, abbiamo
abbandonato la religione per il
materialismo, l’ateismo, la laicità e questo ci ha privato dei quadri
fondamentali di riferimento che mantenevano solido il rapporto tra noi e il
resto dell’universo, sia come natura che come società.
Allora, in base a diagnosi di questo tipo, più o meno
argomentate e approfondite, la soluzione alla crisi (al nichilismo) starà nel tornare indietro a un momento prima di
quando abbiamo imboccato la strada sbagliata. Sono questi quelli che acutamente
Franco Livorsi nel suo scritto – prendendo da loro le distanze - ha chiamato i
ritornanti. Torniamo a prima della
tecnica, torniamo a prima della razionalità occidentale come voleva Nietzsche,
riproponiamo il mito, torniamo a prima di Bacone, a prima del mercato e delle
merci (ci sono quelli che seriamente vorrebbero tornare al baratto), torniamo al
mondo contadino, facciamo a meno di Internet, recuperiamo la semplicità,
re-impariamo a respirare e star bene
con il nostro corpo, e così via. Se si entra nell’ottica di una globale visione di decadenza è davvero
difficile non ragionare da
ritornanti.
10.
Sicuramente la più grande visione della
decadenza che ha preso piede nella storia d’Occidente è quella che riguarda
il medio evo. Gli umanisti e i
rinascimentali hanno osato operare una nuova auto
collocazione nella storia e hanno creduto di scorgere, dietro di loro, le
rovine della decadenza medievale. Così hanno cercato di connettersi con quella
civiltà greco romana che c’era stata prima della decadenza. Tuttavia il
dilemma se guardare avanti o guardare indietro, ha avuto una formulazione
esemplare anche in tempi relativamente recenti. Si tratta del dilemma che è
stato posto nella contrapposizione tra l’illuminismo
e il romanticismo. Lo stesso
dilemma, a suo modo, continua a essere posto ancora oggi, poiché possiamo
sostenere che il romanticismo non è mai finito, come non è finita l’influenza
dell’illuminismo sul nostro mondo odierno.
Guarda caso, questo conflitto tra il guardare avanti e
il guardare indietro ha trovato particolarmente spazio nella Germania del primo
Ottocento, quando il mondo di Lutero si è trovato a confrontarsi con la
Rivoluzione industriale. In quel travagliato passaggio, in quel piccolo mondo
degli staterelli germanici, si è avuto il primo sviluppo del romanticismo e lo
sviluppo della filosofia idealistica, e di quella hegeliana in particolare. In
modo del tutto analogo, recentemente, negli scorsi decenni, abbiamo visto
all’opera il postmodernismo che può
essere letto come l’ultima onda romantica anti illuministica, ma anche come
un’ondata tipicamente scettica e nichilistica.[19] Insomma, una filosofia
della decadenza. Le due cose non si escludono proprio. Tipico del
postmodernismo è la riflessione sulla crisi delle grandi narrazioni –
religioni, filosofie e ideologie – e sul nostro necessario adattamento
disincantato al paesaggio delle rovine
della modernità – rovine che peraltro piacevano assai proprio ai
romantici.
Insomma, sempre per grandi sintesi, la questione è
quella dell’atteggiamento prevalente nei confronti di quello che una volta si
chiamava il progresso, dietro a cui
sta la questione più ampia, cui ho accennato, della produzione
della storicità. Abbiamo creduto nel progresso, ci siamo impegnati nel
tentativo di fare la storia, il progresso non ci ha resi felici, dunque mettiamo
al bando il progresso. Sarà semplicistico, ma senz’altro convincente e
comprensibile a tutti. Lo stesso si può dire di conseguenza a proposito dei
progetti di rivoluzione: la
rivoluzione industriale, la rivoluzione scientifica, la rivoluzione francese, le
rivoluzioni liberali e democratiche, le rivoluzioni nazionali, le rivoluzioni
socialiste e comuniste. Insomma, le promesse non mantenute del progresso (e
delle rivoluzioni che comunque fanno parte del progresso e ne costituiscono anzi
una variante velocizzata e
radicale), il fallimento della scelta dell’impegno
nella storia, non fanno che spingere a guardare indietro, a cercare rifugio
nel passato. O, peggio, a rallentare o addirittura a fermare la storia. Nel
linguaggio di Franco Livorsi, abbiamo voluto il progresso, cercato di costruire
il paradiso in terra, abbiamo
fallito e ora ci troviamo dentro a un inferno, per cui potrebbe essere
realistico tornare al paradiso in
cielo il quale, pur essendo proiettato in un futuro indefinito, comunque può
sempre servirci per vivere meglio, per orientarci utilmente nel nostro inferno
quotidiano.
11.
Le diagnosi catastrofiste anti moderne giocano dunque particolarmente
sull’irruzione di grandi processi sovra
individuali che sono considerati come ineluttabili
e che sembrano destinati a passare sulla testa dei singoli individui. Ciò,
naturalmente, finisce per alimentare ancor più il senso d’impotenza
individuale. Il problema tuttavia è che gli individui non sono solo
testimoni passivi della loro storia – come voleva Hegel. Anche se non fanno
assolutamente niente, gli individui sono proprio loro sempre i protagonisti. Con
il loro fare o con il loro non
fare. A questo punto ci possiamo domandare se – sul piano individuale – il
fatto di optare pro o contro quello che abbiamo sommariamente definito come progresso (reale o illusorio che sia),
pro o contro la storicità, è del
tutto casuale oppure se non dipenda da certe specifiche caratteristiche
individuali. C’entrano qualcosa, gli individui, con i processi sovra
individuali con cui hanno a che fare?
Una traccia ci viene dal romanticismo stesso: nel primo
Ottocento, quali Paesi si sono schierati prevalentemente contro il progresso e
quali invece si sono schierati a favore? I movimenti contro il progresso si sono
manifestati soprattutto nei Paesi più
arretrati, nei Paesi dunque dove l’irruzione repentina del progresso stesso
ha creato i maggiori disagi di tipo culturale, i maggiori stress.
Insomma, dove gli individui erano poco
preparati, o avevano una preparazione inadeguata. Basta vedere
le valutazioni che Marx dava della Germania del primo ottocento paragonata alla
Francia. Naturalmente i circoli e i movimenti culturali rispecchiano le tendenze
più generali di ogni Paese. Nel circolo di Jena gli intellettuali più raffinati
appoggiavano Goethe e Keplero contro Newton. Hegel ha ottenuto la libera docenza
con una Dissertazione oscurantista e
anti scientifica sulle orbite dei pianeti. Mentre a Manchester si producevano,
in condizioni certo di estremo sfruttamento, gli indumenti per vestire milioni
di persone, in Germania c’erano quelli che bramavano per l’infinito,
disprezzavano i vili meccanici e proclamavano che tutto
è Idea. Il tutto però grazie, comunque e sempre, allo sfruttamento dei
poveri da parte dei signorotti locali (si ricordi l’intervento di Marx sui furti
di legna nei boschi). L’oppio dei popoli di Marx nasce dalla consapevolezza che
non si può avere la mente annebbiata
se si vuol fare consapevolmente la storia, se si vuole scegliere
(nel senso di superare le crisi incombenti).
12.
Il disorientamento individuale non è dunque un fatto ineluttabile, non è un
fulmine inaspettato che si abbatte qua o là. Il disorientamento individuale
dipende anche e soprattutto da come sono
fatti gli individui che dovrebbero far fronte ai problemi che la storia pone
(una storia non dimentichiamolo, fatta dagli individui stessi). La
responsabilità viene attribuita spesso e volentieri ai grandi
processi che condizionano gli individui. Sarebbe ora che si cominciasse a
conferire un giusto grado di
responsabilità delle catastrofi anche agli individui, alle loro limitazioni,
carenze, alla stupidità e alla ignoranza, al particolarismo e al servilismo.
Alla imbecillità, visto che è ormai
divenuta una categoria filosofica.[20] Se vivi in Africa in una capanna e il
medico bianco vaccina tuo figlio e tu tagli il braccio a tuo figlio pensando che
il bianco gli abbia fatto una magia, sei un imbecille. Certo, si tratta di
un’imbecillità non strettamente personale bensì, come si dice oggi in modo politically correct, culturalmente
motivata. Non sei solo tu a pensarla così. Corrisponde alla tua visione del
mondo, alla tua cultura. Se pretendi che, grazie al materialismo dialettico,
l’acqua possa scorrere in salita, come avevano progettato i Khmer rossi nelle
loro risaie, sei ugualmente un imbecille. Culturalmente motivato certo, ma pur
sempre un imbecille. Se ormai abbiamo le prove che l’uomo discende, per così
dire, dalla scimmia e se, invece, più della metà della popolazione di un certo
Paese rifiuta la teoria dell’evoluzione, la colpa non è della scienza,
dell’oblio dell’essere, della tecnica, del razionalismo occidentale, del mercato
o quant’altro, ma della miriade di imbecilli culturalmente
motivati che popolano il pianeta. Questo elenco di imbecillità
culturalmente motivate potrebbe essere allungato a dismisura. Si potrebbero
fare accurate classificazioni. Come ha acutamente sostenuto Maurizio Ferraris,
«L’imbecillità è una cosa seria».[21] Di fronte ai cambiamenti rapidi, alle
scelte critiche incombenti, gli imbecilli culturalmente motivati –
proprio poiché le culture tendono a resistere ai cambiamenti - del tutto
incolpevolmente possono fare dei disastri, soprattutto quando questi sono assai
numerosi e quando hanno il potere di votare.[22] Di fronte alle crisi, gli
individui devono scegliere, ma per poterlo fare efficientemente
dovrebbero avere a loro disposizione gli strumenti per scegliere. Invece di
scagliarsi contro i grandi processi storici sovra individuali, invece di
piangere sulla decadenza, invece di darsi al nichilismo, gli individui in crisi
dovrebbero scagliarsi anzitutto contro
sé stessi, contro i propri limiti. Dovrebbero cercare di elevarsi
all’altezza dei problemi da risolvere.
Detto in termini hegeliani – lo dico solo un po’ per
ridere - lo Spirito del mondo nella nostra epoca ha evidentemente deciso di fare
la storia con i fichi secchi. I fichi secchi sono gli imbecilli culturalmente
motivati che credono di star facendo una cosa e invece ne stanno facendo
un’altra. Gli imbecilli del resto (anche se non proprio con questa
denominazione) erano perfettamente stati previsti dall’astuzia
della ragione hegeliana, anche se l’operato della stessa sarebbe stato
riconoscibile soltanto a posteriori, sul far della notte, guardando indietro
quello che era stato fatto. Può essere che lo Spirito della nostra epoca,
guardando dietro di noi, abbia deciso di far fuori un bel po’ di imbecilli
inutili e in soprannumero. E noi con loro.
13.
Se le osservazioni precedenti hanno un qualche fondamento, allora dovremmo
concludere che, per superare la attuale crisi (o l’attuale nichilismo, che sia o
meno epocale), dobbiamo attrezzare gli
individui, la maggior parte degli individui, ad affrontare con successo i
problemi che la storia ci sta ponendo (quei problemi che noi
stessi ci stiamo ponendo in quanto parte della umanità). I problemi paiono
insormontabili solo se non siamo
attrezzati per risolverli. Questo significa, in generale, che dobbiamo elevare
il livello qualitativo medio delle persone, elevare ad esempio il livello
medio di istruzione e di educazione della popolazione, in modo da mettere il
maggior numero possibile di persone in grado di padroneggiare i cambiamenti e di
governarli. Si tratta di un’imposizione autoritaria? Un’idea tecnocratica?
Nella Germania luterana l’alfabetizzazione, che era di fatto imposta, poiché
serviva per stare con successo nella
comunità religiosa ha avuto poi notevoli effetti positivi non previsti. Nel
corso della Rivoluzione francese è stata istituita la scandalosa istruzione
pubblica obbligatoria per abilitare i cittadini a
stare consapevolmente nella comunità politica. Lo sviluppo dell’istruzione
pubblica da allora è stato imponente, anche se forse ancora insufficiente.
Qualcuno continua a pensare che la diffusione dell’istruzione sia colpa del
perfido capitalismo che aveva bisogno di personale tecnico.
Il passaggio da suddito a cittadino costituisce un
progresso che è difficile da contestare: il problema è che il cittadino non si
trova bell’e fatto, deve essere culturalmente costruito. Deve essere
allora promossa una cultura civica,
senza la quale l’esser cittadino è un titolo vuoto. Di fronte ai problemi del
mondo globale dovremmo trovare il modo di imporci
una crescita mentale generalizzata degli
individui, in modo da metterci in grado di accettare la sfida e cercare di
risolverli. Dobbiamo cominciare a pensare alla cultura
civica del cittadino del mondo globale. Dobbiamo cominciare ad accettare una
verità spiacevole: che l’imbecille culturalmente motivato, per quanto
soggettivamente innocente, è un vero e proprio pericolo
pubblico, da scoraggiare e, eventualmente, da
punire severamente.
Di fronte a questo compito, siamo in grave ritardo e il
pericolo maggiore è proprio che non ci
rendiamo conto del ritardo. Si tratta di un ritardo analogo a quello
denunciato da Greta Thumberg a proposito della crisi ambientale. Di fronte ai
problemi del mondo di oggi, quei problemi che ci fanno naufragare e ci spingono
a invocare il rifugio nel passato, abbiamo ovunque – sia nelle aree sviluppate
che in quelle più arretrate - un grave deficit culturale che non è
riconosciuto. Non è ammesso. Se guardiamo ad esempio alla preparazione
culturale degli italiani, se guardiamo appena indietro nel tempo, abbiamo
l’impressione che negli ultimi cinquant’anni abbiamo fatto un balzo in avanti
impressionante. Ebbene, quel balzo non è bastato. Oggi nelle statistiche dei
livelli di istruzione siamo tra gli ultimi. Purtroppo, proprio il progresso
tecnologico oggi sta permettendo a chiunque abbia un livello medio basso di
istruzione di vivere benissimo, come chiunque altro, anzi, di spassarsela.
Molti anni or sono mi sono dato una spiegazione di questo fenomeno. Mentre i
beni economici sono soggetti a una domanda potenzialmente illimitata, il bene
della cultura è soggetto a una domanda limitata solo da parte di chi ce l’ha
già, mentre chi non ce l’ha ancora non ne sente neppure il bisogno.
Tutti gli eventi catastrofici paventati dagli antimoderni
– quale che sia la loro causa – potranno essere contrastati o evitati solo da un
progresso decisivo nella mente degli
individui, nella loro formazione. Non è questione di classi dirigenti.
Occorre togliere l’audience agli
antimoderni. Senza un incremento delle capacità culturali della gran parte
degli individui (che sono in gran parte cittadini, non dimentichiamolo) non
riusciremo più a padroneggiare un bel nulla. Riusciremo al più a padroneggiare
il cortile di casa nostra, ma questo
sarà impietosamente spazzato via.
B -
Antitesi
14.
Il mio interlocutore ha dichiarato nel suo scritto che, a suo modo di vedere,
l’unico modo di uscire dalla crisi
epocale attuale, qualificata soprattutto come crisi
morale e spirituale, sarebbe quello di imboccare la strada di una nuova
religiosità. Cito alla lettera: «La crisi secondo me è in primo luogo
morale e spirituale, e solo una nuova religiosità potrà contribuire in modo
forte a risolverla». Si tratta indubbiamente di una proposta rispettabilissima,
seppure dotata di una certa radicalità e forse alquanto contro corrente.
Personalmente, potrei anche essere d’accordo sull’esigenza di promuovere un
orizzonte di pensiero post
nichilistico, il quale tuttavia, dal mio modesto punto di vista,
implicherebbe però, per dirla in soldoni, qualcosa come una critica radicale del
postmodernismo, verso un nuovo
illuminismo o anche soltanto una nuova diffusione dell’illuminismo.
Confesso di avere invece molti dubbi sulla proposta di una nuova
religiosità. I miei dubbi, che cercherò di esporre nel seguito con qualche
dettaglio, possono essere concentrati tutti in una sola domanda sintetica: «Una
nuova religiosità e/o una nuova spiritualità sarebbero in grado di sbarazzarci,
una volta per tutte, di quella che abbiamo definito come imbecillità
culturalmente motivata?». Vediamo.
15.
Anzitutto, non mi è del tutto chiaro cosa si debba intendere con nuova
religiosità. Immagino che questa dizione vada intesa estensivamente anche
come nuova religione, poiché non mi
pare possa esserci religiosità senza una qualche corrispondente religione. A
meno che non si intenda con religiosità una semplice domanda
o attesa di una nuova religione.
Quando si fa una proposta così impegnativa si dovrebbe entrare nel dettaglio e
definire con cura di cosa si tratta. Altrimenti si ricade nel pensiero
vago. Di nuove religioni fai da
te ne nascono tutti giorni e pare, almeno finora, che queste non abbiano
dato il minimo contributo a risolvere i problemi del nostro tempo. Comunque, si
tratterebbe di capire se la nuova religiosità ipotizzata sia in grado di guardare avanti o se invece
semplicemente si accontenti di guardare
indietro, finendo per risultare come una delle tante soluzioni difensive
passatiste, più o meno come accade attualmente con il sovranismo in politica. O
se magari, in aggiunta, sia anche capace di guardare all’indietro per
meglio proiettarsi in avanti come s’è detto. Si tratterebbe cioè di capire
come una nuova religione possa finalmente farci entrare (o ri-entrare)
in una prospettiva di storicità che
ci metta finalmente in grado di risolvere i nostri problemi. Le religioni, in
effetti, hanno mostrato in passato di riuscire a essere delle formidabili
organizzatrici degli sforzi comuni di una società in vista di un qualche
obiettivo. Si tratta di capire allora se, per ridarci una prospettiva di
storicità, dobbiamo per forza
ricorrere a una nuova religione.
16.
Quando sento invocare una nuova
religiosità, il primo problema che mi si presenta è quale sia il rapporto di
questa ipotetica nuova religiosità
con le precedenti (vecchie?) forme di religiosità. Una nuova religiosità
potrebbe essere invocata principalmente perché si presume che le vecchie
religioni abbiano fallito. Se è così, poiché la storia del mondo è già stata
abbastanza lunga e di religioni ce ne sono state di tutti i tipi, sarebbe da
capire bene perché abbiano finora
fallito. Di materiale archeologico – nel senso di Foucault –
ne abbiamo a sufficienza per raggiungere un meditato giudizio. Immagino,
tuttavia, una variante di questo stesso ragionamento e cioè l’ipotesi che le
religioni, in effetti, non abbiano proprio fallito, che anzi abbiano ben svolto
il loro compito, che siano fondamentalmente una buona cosa ma abbiano mostrato
carenze nel loro operare e siano state messe proditoriamente da parte dalla svolta perniciosa della modernità, dal
progresso e, più specificatamente, dalle rivoluzioni materialiste. In altri
termini, le pur buone religioni avrebbero perso la loro battaglia contro un
nemico più forte e più agguerrito. Ci troveremmo dunque ora in balia del
nichilismo per un deficit di
religiosità. Nuova religiosità, in tal caso, vorrebbe dire recupero
della religiosità perduta. Oppure la realizzazione di una religiosità
più attrezzata.
Quale che sia l’interpretazione, si tratterebbe,
anzitutto, di dare una valutazione del ruolo che le religioni hanno finora avuto
nella storia. Se cioè abbiano fallito o no e se, quindi, sia o meno il caso
di ripristinare il loro ruolo. Secondariamente, si tratterebbe di capire se,
volendo ripristinare il loro ruolo,
si tratti di guardare un po’all’indietro, ridando impulso alle religioni che
già ci sono, oppure se vogliamo qualcosa che sia più o meno come una religione,
ma che decisamente non assomigli a
quelle vecchie e che dunque guardi
avanti. Questo vorrebbe dire ritenere - niente meno - di dover fare una rivoluzione nel campo delle religioni,
sempre che si ritenga che, dopo la lunga sperimentazione storica, possa
effettivamente comparire qualcosa di radicalmente nuovo in questo
campo.
17.
La questione di valutare il ruolo delle religioni nella storia è quanto mai
complessa e certo non è risolvibile in questa sede. Ma non è del tutto
impossibile da sciogliere provvisoriamente, almeno nei termini richiesti dal
nostro livello di discorso, che è ancora generalissimo. Se diamo un’occhiata,
anche superficiale, al ruolo svolto dalle religioni nella storia, non si può non
rilevare, come minimo, il fatto che
le religioni non si siano comportate in maniera diversa dai loro odierni
antagonisti “materialisti” e, in particolare, non si siano comportate in maniera
diversa da quella dei totalitarismi ideologici del XX secolo – tanto che taluni
hanno parlato, nei confronti di questi ultimi, proprio di religioni
secolari. Di qui non si scappa. Il macellaio della storia di cui parlava
Hegel, sul suo tragico bancone, ha macellato molto spesso e volentieri in
nome di Dio. Qualche volta, e solo piuttosto recentemente, ha macellato
anche contro Dio. Se prendiamo in
considerazione il tasso di
sofferenza che le religioni hanno imposto all’umanità, se facciamo cioè una
specie di libro nero delle
religioni, potremmo essere costretti a concludere che queste sono state non meno dannose di tanti altri
fenomeni per i quali sono stati scritti altrettanti libri neri. Fenomeni come
il colonialismo (con cui le
religioni erano però piuttosto conniventi) oppure il capitalismo,
oppure ancora, il comunismo. Si
pensi soltanto alla condizione d’inferiorità in cui le religioni hanno relegato
la metà del genere umano di ogni epoca. Insomma, ai fini del nostro discorso,
non pretendiamo di affermare con sicurezza che le religioni abbiano svolto un
ruolo negativo nella storia. Semplicemente, si tratterebbe di ammettere che non
hanno fatto meno danni delle altre “religioni secolari” che ultimamente sono
state loro concorrenti.
18.
Se il loro ruolo è stato così discutibile e ambivalente, perché allora le
religioni sono sopravvissute nella storia e, addirittura, pare che oggi, in
talune aree del pianeta, abbiano un nuovo notevole incremento di popolarità? Io
mi do la risposta seguente. Le religioni hanno, in effetti, svolto, pur con una
certa brutalità e gravi
effetti collaterali, una funzione indispensabile. Sono state, io credo, un
passaggio necessario dell’evoluzione
culturale[23] dell’umanità. Sono state, a lungo, il necessario corrispettivo
sociale e culturale della facoltà del linguaggio. Per costruire grandi
aggregati sociali occorre un linguaggio
comune. Dunque tutte le società devono avere almeno una lingua e perciò il
linguaggio deve essere appreso e trasmesso. Ugualmente, per costruire grandi
aggregati sociali, occorre avere una prospettiva culturale comune, una narrazione comune sui vari aspetti del
mondo. Su cosa sono gli astri, su cosa sono i sogni, sul funzionamento della
natura, sul funzionamento delle leggi e delle istituzioni, sul senso della vita
associata, e così via. Per avere grandi
sistemi sociali occorre avere grandi
sistemi di senso. Le religioni hanno costituito, grazie alla loro
configurazione istituzionale terrena, la base enciclopedica comune e la prospettiva di storicità che ha
permesso lo sviluppo di società sempre più grandi e complesse. Certo, per far
questo, ogni religione ha dovuto inventarsi ed elaborare i propri miti, le
proprie spiegazioni parascientifiche, i propri spiriti, le proprie divinità.[24]
Ha dovuto fornire delle spiegazioni comuni intorno all’uomo, al mondo sociale e
al mondo naturale. Ha dovuto elaborare dei codici morali condivisi. Ha dovuto,
ahimè, individuare i propri nemici da combattere. Questo corpo di cultura
comune è diventato ben presto un oggetto esterno, un’istituzione
materializzata, fatta di luoghi di culto, libri, preghiere, rituali,
stregoni, preti, calendari, tribunali, roghi e quant’altro. La religione è
diventata così parte integrante e costitutiva delle diverse società. Per
lungo tempo si sono fuse seppur variamente con le istituzioni politiche. In tal
caso, chi non condivide la religione del gruppo non può che essere un estraneo
potenzialmente pericoloso. Questo è accaduto in particolare presso le religioni
monoteistiche. Quello che è certo è che le religioni sono state efficienti,
poiché si sono servite implicitamente o esplicitamente di istituzioni
educative ma anche di strumenti
repressivi, strumenti d’inculcazione e di riproduzione. Le religioni,
insomma, hanno offerto un servizio importante ma hanno richiesto in cambio
l’obbedienza, la subordinazione e, conseguentemente, l’accettazione di numerosi
e talvolta drammatici effetti
collaterali.
19.
Le grandi religioni hanno cominciato a entrare in crisi quando nelle società
sono stati messi a disposizione degli strumenti concorrenti proprio per
assolvere alla medesima funzione di garantire la base culturale comune alla
convivenza umana. In Occidente, storicamente, il primo strumento concorrente nei
confronti della religione è stato senz’altro la filosofia.
La filosofia, in Occidente, ha esordito fornendo spiegazioni naturalistiche al
posto dei miti religiosi. Ha cercato di fornire fondamenti non religiosi alla
convivenza umana. Poi le religioni hanno parzialmente assorbito il linguaggio
stesso della filosofia. Certo, per lungo tempo, filosofia e religione si sono
anche alimentate reciprocamente, ma hanno anche da to luogo a infiniti scontri
e rivalità. Qualche filosofo ci ha lasciato la pelle: Socrate e Giordano Bruno,
tanto per fare qualche esempio. Anche Galileo non se l’è passata proprio bene.
Pur attraverso percorsi accidentati, la travagliata separazione
tra Stato e Chiesa e la concomitante secolarizzazione hanno prodotto la
prospettiva della laicità, la
possibilità di costruire una prospettiva di senso “etsi
Deus non daretur”. Nel contempo si è sviluppata la cultura scientifica che
ha comportato una internazionalizzazione delle conoscenze e una loro separazione
dallo sfondo religioso e mitico. La comunità scientifica oggi agisce, pensa
e produce indipendentemente dagli Stati e dalle religioni – anche se c’è
qualcuno che vorrebbe tornare indietro. Anche i sistemi
economici si stanno strutturando in forma sovra nazionale e in forma
indipendente dalle religioni, nonostante le religioni abbiano a lungo prodotto e
sostenuto una loro specifica etica
economica, come bene ha descritto Weber. Oggi, in aggiunta, abbiamo avuto lo
sviluppo della rete Internet e la globalizzazione dell’informazione che
rendono possibile una prospettiva
culturale comune del tutto diffusa, a disposizione di tutti e relativamente
indipendente dalle religioni.
Tutto ciò sta producendo lo sviluppo di una cultura
cosmopolita che permette di fare a meno delle religioni, soprattutto di
quelle più chiuse e fondamentaliste. Se i pakistani vogliono la bomba atomica,
possono anche pregare Allah, ma poi in pratica devono ricorrere ai manuali di
fisica prodotti dal perfido Occidente. Puoi credere negli spiriti, ma se il tuo
telefonino ha la batteria scarica, non ci sono spiriti che tengano. La sfida del
cosmopolitismo ha messo in ritirata anche le religioni più agguerrite. Solo
timidamente le religioni (non tutte) hanno cominciato a condividere l’ormai
decisamente datato assunto illuministico per cui ci sarebbe un Dio
unico e tutte le religioni del mondo non farebbero che riferirsi, senza
saperlo o senza volerlo ammettere, allo stesso unico Dio. Solo recentemente il
papa ha cominciato a dire che non è lecito fare la guerra in nome di Dio. Si
tratta davvero di un notevole cambiamento, poiché la guerra in nome di Dio è
sempre stata fatta, e la si fa ancora piuttosto volentieri.
Oggi dunque si sta progressivamente costruendo – per la
prima volta nella storia dell’umanità - una cultura
globale dove le religioni stanno perdendo la loro antica e consolidata
funzione di aggregazione delle comunità locali, nazionali e/o statali. Detto in
altri termini, le religioni pare non siano riuscite a costruire per
prime una cultura globale
semplicemente umana. Sono state precedute, senza che ci sia mai stato un
progetto preciso, dalla filosofia, dall’economia, dalla tecnologia, dalla
scienza e dall’informazione. La cultura globale semplicemente
umana che già si sta sviluppando e che ci sarà in un futuro prossimo non
dipenderà in particolare dalle religioni. Per questo le religioni stanno
diventando sempre meno pubbliche e
tendono a sopravvivere sempre più nel
privato, nell’intimo degli
individui. Le religioni assolvono sempre meno alle antiche funzioni sociali
istituzionali e stanno diventando sempre più prospettive
esistenziali individuali. Come tali – questa è una conseguenza di rilievo -
invece di andare verso un’universalizzazione, sono sempre più affette da
prospettive particolaristiche. È questo il fenomeno ben noto della privatizzazione
delle religioni.[25] Certo, per qualcuno questo è un male, ma le religioni di
fatto oggi sul piano sociale e culturale non sono più insostituibili, a meno che
non si torni a considerare gli atei come individui potenzialmente pericolosi e
non si ritorni alle guerre per
decidere quale sia la vera
religione, mettendo magari anche un qualche Dio a capo degli eserciti.
Le religioni nel mondo stanno vivendo drammaticamente
la crisi del passaggio dalla condizione istituzionale pubblica al confinamento
nel privato. Si noti che anche la distinzione tra pubblico e privato è un
portato fondamentale della modernità. La distinzione tra pubblico e privato è
peraltro la sostanza delle liberal democrazie contemporanee. Non credo si possa
seriamente sostenere che questa distinzione vada abolita. Dovremmo in tal caso
rinunciare a molti dei diritti individuali che si fondano proprio sulla
garanzia dell’inviolabilità della sfera privata. Si confronti la situazione di
pluralismo religioso che si sta
affermando in occidente, dove si discute seriamente se togliere tutti i simboli
religiosi dai luoghi pubblici, con la situazione di fondamentalismo
religioso e di commistione tra politica e religione, soprattutto nel mondo
islamico. Si pensi all’Iran, si pensi alla conflittualità radicale tra sunniti e
sciiti, che oggi è una delle principali cause di instabilità nel Medio Oriente.
20.
La globalizzazione dell’economia, della scienza e dell’informazione si è
sviluppata dunque assai più velocemente delle religioni, le quali sono rimaste
ancorate ai loro ambiti tradizionali, perpetuando una infinità di frammentazioni
e conflitti. Non mi sovviene il caso di due religioni diverse che si siano mai
fuse in un’unica nuova religione. D’altro canto non sembra neppure che si
prospetti la possibilità di riconoscimento di una religione
prevalente a livello mondiale. Mentre l’inglese sta diventando di fatto la
lingua di base a livello mondiale,
non c’è attualmente – a quanto pare - alcuna religione che possa seriamente
essere candidata a diventare il credo di
base a livello mondiale. Qualche anno fa Huntington aveva addirittura
elaborato una teoria dello scontro delle
civiltà, partendo dall’assunto dell’irriducibilità delle matrici religiose
delle diverse civiltà. Oltretutto, è già stato ricordato, alcune delle grandi
religioni hanno ancora un atteggiamento conflittuale nei confronti delle altre.
E quindi pare non siano assolutamente disponibili a farsi sussumere in un’unità
sincretica universale. Non pare proprio realistico oggi sviluppare una religione
sincretica che assommi e integri un po’ quel che ci potrebbe essere di
essenziale in tutte le religioni del mondo.
Ciò accade anche perché le religioni sono
fondamentalmente particolaristiche.
Poiché ogni religione si distingue dalle altre sulla base soprattutto dei precetti particolaristici, non è facile
costruire una religiosità di tipo sincretico. Più facile appunto è quel che sta
succedendo e cioè un abbandono del campo pubblico e una deriva privatistica da
parte dei fedeli di ciascuna religione. Qui si potrebbe anche dare “ragione” a
Hegel, nel senso che a quanto pare solo
la ragione è in grado di concepire l’universale. La ragione che è in grado
di concepire l’universale, che lo si voglia o no, è poi quella di derivazione
illuministica. Le religioni per loro natura si fondano sull’irrazionale e
finora sono sempre rimaste un passo indietro sul piano dell’universale. Per
fortuna l’ONU e le altre organizzazioni internazionali sono indipendenti dal
fattore religioso e spero proprio che continuino a esserlo.
21.
Insomma, riassumendo, se non si prospetta la possibilità che una delle religioni
sopravanzi tutte le altre e diventi quella universale, se non si vede
all’orizzonte la possibilità di una religione sincretica, derivante da una
specie di federazione delle religioni
mondiali, una specie di credo
minimale per tutta l’umanità, com’è di fatto la Dichiarazione
dei diritti dell’uomo in campo politico sociale, allora – se si vuol restare
nell’ambito religioso - non resta che pensare a un nuovo
alternativo modello di religione o di religiosità destinato a diffondersi e
a soppiantare (o superare, in senso
hegeliano) tutte le altre religioni. La qual cosa dovrebbe consistere in una
vera e propria rivoluzione nel campo
delle religioni. Proviamo dunque a esaminare questa prospettiva.
In tal caso si porrebbe anzitutto una questione
di metodo. Difficilmente le religioni, o ancor più la religiosità, si
costruiscono a tavolino. In molti ci hanno provato, ma i risultati non paiono
proprio entusiasmanti. Anche se alcune delle religioni nate effettivamente a
tavolino in tempi recenti si sono relativamente diffuse e hanno avuto un certo
relativo successo non hanno scalzato i culti tradizionali e hanno anzi aumentato
la frammentazione. Il campo del religioso non può essere facilmente pianificato.
Taluni studiosi ritengono che – almeno nelle società pluralistiche - il campo
delle religioni possa essere inteso come un mercato
(estremamente frammentato per
ragioni storiche, culturali, geografiche) dove si incontra la domanda e
l’offerta, con esiti tuttavia non facilmente prevedibili. Una rivoluzione nel
campo delle religioni a livello globale, che metta una religione
dell’avvenire in grado di affrontare la crisi epocale è dunque difficile
anche solo da pensare. Si può sempre provare a stare
ad aspettare, nell’attesa che l’automatismo del mercato selezioni i
migliori prodotti in offerta e scarti i peggiori. O per lo meno riesca a
individuare i prodotti più popolari. Chi invoca una nuova religione, può farsi
egli stesso profeta, per vedere l’effetto che fa sul mercato, oppure può restare
in fiduciosa attesa a che qualcosa prima o poi accada.
22.
Oltre alla questione di metodo, si pone poi il problema dei contenuti.
Franco Livorsi – occasionalmente ne abbiamo discusso – devo dire non è molto
chiaro sulle caratteristiche di questa nuova religiosità che egli propugna.
Spesso accenna al buddismo, oppure a Gandhi o a Teilhard de Chardin. Ad alcune
correnti ecologiste. Spesso cita Fritjof Capra. Nel suo articolo compaiono nomi
di diversi filosofi variamente idealisti, come Mazzini, Bergson, Mounier, ma
anche Croce, Calogero, Capitini e De Ruggiero. Oltre naturalmente agli idealisti
tedeschi da cui egli pensa di trarre ispirazione nella direzione della nuova
religiosità. Mi paiono tutti riferimenti rispettabili e interessanti, anche se
faccio una certa fatica a immaginare una loro composizione in un modello
coerente di nuova religiosità. Si
corre il rischio di inventarsi una sorta di religione
dell’umanità, come quella dell’ultimo Comte.
Tra gli esempi citati da Livorsi sembrano comunque
prevalere piuttosto i filosofi o teologi piuttosto che i mistici. E ciò riduce
comunque la estrema variabilità dei possibili contenuti. Già in Hegel si era
prospettato consapevolmente il potenziale conflitto tra una tendenza più
filosofico – teologica e una tendenza mistica. Hegel ha copiato abbondantemente
dal mistico ciabattino Boehme ma poi lo ha considerato come incapace di
guadagnare il livello del concetto.
Nella prospettiva di una religiosità universale che sia in grado di rivolvere i
problemi del mondo di oggi va poi considerato che – per loro natura – i mistici
risulterebbero piuttosto individualisti, anarchici e incontrollabili, e comunque
poco interessati a rivolvere i “problemi del mondo” e piuttosto propensi proprio
ad allontanarsi dal mondo. E la loro “esperienza” risulterebbe comunque anche
piuttosto poco comunicabile al pubblico. Lutero aveva dovuto affrontare il
problema degli illuminati, ognuno
dei quali riteneva di essere il portatore della parola dello Spirito santo. Mistici fai da te, insomma, appunto
piuttosto anarchici e incontrollabili. Sembrerebbe allora che la nuova
religiosità debba essere piuttosto una religiosità di carattere filosofico –
teologico, ma questo pone enormi problemi di costruire ex novo una nuova
visione del mondo con gli strumenti appunto del linguaggio
filosofico - teologico. Heidegger doveva averci provato, ma a suo dire gli era venuto meno proprio il
linguaggio. Per questo pare si sia momentaneamente dedicato a questioni ben
più terrene.
23. Nel suo articolo, più che esprimere i caratteri della
nuova religione o nuova spiritualità (spero che prossimamente sia più
esplicito), Franco Livorsi ha citato una serie di casi
del passato, tanto da autorizzarmi a sospettare che anch’egli talvolta ami
frequentare i ritornanti. Nel suo
articolo compare una certa sua delusione per il ridimensionamento progressivo
del cristianesimo per opera dell’illuminismo. Se fossi un dialettico hegeliano,
direi invece che l’avvento dell’illuminismo rappresenta il più importante inveramento dei valori più profondi del
cristianesimo, ossia la valorizzazione dell’individualità
e dell’eguaglianza. Ugualmente, ho
notato un certo suo rimpianto per la
sacralità dello Stato. Un rimpianto per il venir meno dell’apporto
della religione alla virtù civile, come prospettato in certi autori della
tradizione repubblicana, come ad esempio in Rousseau. Oppure in Robespierre, in
cui troviamo il tentativo esplicito di fondare una religione
civile (il famoso culto della
Ragione). Ho notato poi una valutazione positiva del progetto hegeliano
complessivo di costruzione di una filosofia ultima e totale, panteistica,
su basi razionali che inglobi la religione dentro lo Spirito assoluto. Tanto
che mi è parso di capire che, nella costruzione della nuova religiosità, si
possa anche immaginare di tornare a
Hegel.
24.
Questi elementi di positività attribuiti ai tentativi passati di costruzione di
religioni civili richiamano tutti,
secondo me, una sola questione, ovvero la questione peraltro ben nota dello Stato etico. Mi pare di capire, può
darsi che mi sbagli ma dovrei avere chiarimenti in proposito, che qui Franco
Livorsi stia sostenendo la necessità di un ritorno
allo Stato etico o a qualcosa di assai simile. O magari a un nuovo
modello di Stato etico diverso da quelli del passato. Se davvero così
fosse, mi parrebbe una prospettiva assai azzardata e financo pericolosa. I
primi in questo campo, in Occidente, sono stati i pitagorici.
Poi è venuto Platone, che aveva cercato di realizzare la sua “Repubblica dei
filosofi”, sempre di stampo pitagorico, grazie all’appoggio di alcuni piccoli
tiranni siciliani. In Occidente, forse il più grande e significativo Stato etico
è stato – pur con varie vicende – il Sacro Romano Impero. Tralascio gli Stati
etici di carattere totalitario del secolo passato, che comunque sono nati sulla
scia culturale di Platone e dello stesso Hegel. L’ideologia del fascismo ha
pescato abbondantemente nel totalitarismo di destra e di sinistra. La
società aperta e i suoi nemici[26] di Popper anziché esser dileggiata
andrebbe attentamente meditata, per non rifare gli stessi errori.
Hegel, dal canto suo, non ha inteso fondare una
religione, ma il suo modello di Stato – quello presentato nei Lineamenti
di filosofia del diritto - è indubbiamente uno Stato etico. Hegel poi, ha
una posizione particolare nei confronti delle religioni, poiché le sussume
all’interno della sua nozione dello Spirito. Il cristianesimo è la religione
ultima e definitiva che prepara il salto – nella storia dello Spirito - dalla
mera immaginazione sensibile al concetto. Dopo il cristianesimo, nessun’altra
religione sarebbe possibile. Le altre religioni sono solo stadi inferiori
preparatori per il cristianesimo stesso. Hegel fa a meno di un Dio di qualunque
tipo, poiché il Dio di Hegel coincide con lo Spirito stesso, ossia con l’unità
vivente dell’Idea e della Natura. Lo Spirito di Hegel nella storia del mondo si
ferma allo Stato germanico e alla religione cristiana. Dopo c’è solo la
filosofia (che culmina con la filosofia hegeliana stessa). Per questo molti
interpreti ritengono che Hegel fosse del tutto ateo, nel senso comune del
termine. Hegel sarebbe stato, in altri termini, uno dei primi a enunciare,
dall’interno stesso del cristianesimo, l’esito ineluttabile della morte
di Dio. Un Hegel anticipatore del nichilismo, dunque. Può essere che
questa interpretazione di Hegel non soddisfi, ma mi pare che i testi
sostanzialmente la avvalorino. Non ho spazio qui per entrare nel
merito.
25.
I casi di Rousseau e Robespierre mi paiono invece appena un poco differenti.
Perché, in questi due, ci si fa carico per la prima volta nella modernità della
questione della cultura civica come
elemento costitutivo dello Stato repubblicano. È questa una questione che
attraversa tutta la storia del tanto bistrattato pensiero
repubblicano moderno. Si sostiene che, ai fini del buon mantenimento della
Repubblica, i cittadini debbano essere virtuosi.[27] E fin qui ci siamo. Ma poi
si sostiene che il cittadino virtuoso debba essere il prodotto di una religione
– Platone non la pensava del tutto così - non quella tradizionale, ma di una
religione che contenga quel che è indispensabile per il civismo (la derivazione
qui è ovviamente illuministica). Rousseau e Robespierre considerano la religione
come uno strumento educativo capace
di creare la coesione sociale e le
virtù indispensabili al buon
funzionamento della Repubblica. Tra l’altro questa sarebbe una prova in più di
quanto abbiamo affermato poc’anzi circa il ruolo funzionale che le religioni
hanno svolto per molto tempo per compattare i grandi aggregati umani.
Posto che la costruzione della cultura civica è
effettivamente un problema nelle democrazie del giorno d’oggi, la questione
odierna circa l’indispensabilità della religione in questo compito è facilmente
risolvibile, sempre al livello generalissimo di discorso che stiamo conducendo.
Con un ricorso ai dati brutali e impietosi del mondo empirico. Basta rispondere
alla domanda: «Coloro che hanno fede religiosa, sono migliori cittadini di
coloro che non ce l’hanno?». Oppure a quest’altra: «Gli atei violano la legge
con maggiore frequenza di coloro che credono in Dio?». Sulla questione della
sacralizzazione dello Stato, basta rispondere alla domanda: «La sacralizzazione
della legge induce a una migliore obbedienza dei popoli alla legge stessa?».
Oppure: «Gli Stati teocratici hanno cittadini migliori degli stati non
teocratici?». Oppure, ancora: «Giurare sul libro
sacro o giurare su una costituzione
laica e repubblicana produce effetti diversi sulla forza dell’impegno che ci
si assume col giuramento?».
Aggiungo un’ulteriore considerazione. Pensare a una
nuova religiosità con lo scopo di avere
buoni cittadini ha un sapore di accentuato strumentalismo.
Forse quasi di un contagio con il “grande male” della politica. La religiosità
dovrebbe essere e restare il regno del vero e magari del buono,
piuttosto che dell’utile. La
religiosità dovrebbe, forse, essere qualcosa di del tutto disinteressato, per
non ricascare nella perfida ragione
strumentale.
26.
Una nuova religiosità implica poi, presumo, la questione del rapporto con un
qualche Dio, o con una moltitudine
di divinità. Ci sono certamente religioni che non hanno un Dio, anche
se si tratta di casi abbastanza rari. Si può pensare a qualcosa che assomigli al
confucianesimo o al buddismo. Pare che nell’odierna Cina il confucianesimo stia
prendendo di fatto il posto del marxismo – leninismo. È un fatto però che la
maggior parte delle religioni abbia un Dio di qualche tipo. Ho cercato di capire
quale fosse la posizione di Franco Livorsi in merito, anche se nel suo scritto
non si evince chiaramente. Capisco che una domanda diretta intorno alla natura
di Dio possa essere considerata provocatoria – fatto questo dovuto appunto al
fenomeno della privatizzazione delle religioni - tuttavia non è ovviabile se
vogliamo stare sul nostro argomento. Non si può dire che Dio è il nostro
prossimo, oppure che è una scommessa. Oppure che “viene meno il linguaggio” o
che le parole non sono adeguate all’oggetto, che Dio sfugge a ogni definizione,
che è ineffabile. O, peggio, che il suo nome non va neppure pronunciato. «Di ciò
di cui non si può parlare, si deve tacere» disse Wittgenstein ma, oltre che un
truismo, la sua affermazione rinviava a una posizione mistica, posizione che
pare del tutto poco adatta a risolvere la crisi globale del nostro tempo.
Mettendo insieme le poche righe da Livorsi dedicate alla questione, mi pare che
egli si riferisca comunque a un Dio, per quanto non certo convenzionale. Il
problema è se questo Dio è il Dio
privato di Livorsi, destinato a rimaner tale, o se è invece quel Dio che
fonda la nuova spiritualità dalla quale ci dovremmo attendere la soluzione dei
nostri problemi globali. Un Dio per lo meno dai risvolti sensibilmente pubblici,
oserei dire, politici. Riprendendo dall’articolo, se ho capito bene, Dio per
Livorsi non si trova “dentro l’uomo” ma Dio “è” l’uomo stesso. Secondo Livorsi,
l’uomo: «non è più solo il luogo di “abitazione” di Dio come per Agostino, ma
Dio alla prima radice e anzi tout court radice della nostra mente, in cui siamo
l’infinito ed eterno e, in esso, tutti fratelli e cittadini». Inoltre:
«L’intersoggettività è già in noi». Altre osservazioni significative mi paiono:
«Quel polo interiore [...] dà un senso eterno e solidale alla nostra vita» e «Il
ritrovare Dio come nostra mente è necessario». Ancora, «La nuova via tra l’altro
rende la vita “tutta sacra”, oppure tutta arbitraria se l’Assoluto non sta
neppure lì “dentro”, come archè,
inizio, radice».
Se ben comprendo, L’Assoluto (Dio) si trova contratto
(nel senso di Nicola da Cues – non mi vengono riferimenti migliori) dentro la
nostra mente e come tale ci costituisce
intimamente. L’uomo dunque, essendo fondato in Dio, o essendo Dio
fondatamente, coincide con Dio,
anche se potrebbe non rendersene conto. Il Dio che ciascuno di noi è
di già rappresenta non solo il fondamento di noi stessi ma anche il
fondamento dell’intersoggettività, cioè della capacità che abbiamo di entrare in
relazione con tutti gli altri nostri simili. Cioè il fondamento dell’umanità.
Questo Dio contratto che sta in noi è infinito ed eterno, per cui è da
presumere che anche noi siamo infiniti ed eterni. Ne conseguirebbe che siamo
immortali (anche se non è chiaro se si tratta di un’immortalità in senso
individuale – personalmente non capisco cosa voglia dire una immortalità che non
sia di tipo individuale). Il Dio contratto in noi rende perciò sacra
la nostra vita e presumibilmente anche quella altrui. Non è chiaro se questo Dio
è contratto anche negli oggetti, nella natura, negli animali: la cosa non è di
poco conto per capire se si tratti, e in che misura, di un Dio
panteista (se sia cioè soprannaturale o meno). Pare comunque, da qualche
accenno, che l’uomo abbia un qualche privilegio rispetto al resto della
natura.
27.
A mio modesto avviso una simile concezione, per quanto ancor vaga, presenta
parecchi problemi, alcuni dei quali mi paiono insormontabili. Anzitutto, non è
chiaro come mai, se ciascuno di noi “è” il Dio contratto, per lo più non lo
sappiamo, non ce ne accorgiamo. È probabile che sia un Dio che resta inconscio,
più o meno come l’Idea hegeliana o come un archetipo junghiano. Il Dio contratto
e inconscio non pare avere effetti sui destini degli individui, poiché è un
fatto che la varietà immensa dei comportamenti degli umani – buoni o cattivi che
siano – confligge con il fatto che gli umani abbiano tutti come radice lo
stesso Assoluto dentro di loro. La comunanza (la socialità e il carattere di
animale politico) degli uomini, essendo tutti portatori dello stesso Dio
contratto, dovrebbe implicare immediatamente una fratellanza universale, cosa
che non pare proprio si sia mai avverata. Il problema è sempre il solito: si
postula un Dio onnipotente, assoluto, onnisciente – dovunque e comunque sia –
ma poi questo Dio si rivela sempre al di
sotto delle aspettative (più o meno come le rivoluzioni politiche terrene),
incapace di intervenire come provvidenza, incapace di vincere il male, incapace
di rendere buoni anche soltanto coloro che si dichiarano suoi fedeli.
Insomma, siamo
Dio, ma non lo sappiamo, non ce ne accorgiamo e il Dio dentro di noi pare
non avere alcun effetto rilevabile. A meno che non si pensi che tutto
quello che facciamo sia opera del Dio che noi stessi già
siamo. Qui ci sarebbero tutti i rischi di una certa esaltazione.
In questo caso avremmo un Dio assoluto frantumato in mille pezzi, alcuni dei
quali buoni, alcuni dei quali cattivi. Anche Hitler doveva avere il suo bravo
Dio contratto che lo guidava. Tante divinità contratte che si combattono tra
loro, come una sorta di altrettanti atomi di una volontà
di potenza nicciana? Si pone comunque anche il problema di quale rapporto
ciascuno di noi possa intrattenere con il proprio Dio interno (cioè con il se stesso autentico) sconosciuto. Come
mettersi in rapporto o relazione con questa parte così importante di noi
stessi, della quale tuttavia non abbiamo una precisa nozione? Una via
mistica individuale? Abbiamo già rilevato i rischi del misticismo. Una illuminazione della mente dall’interno
o dal profondo? Il che comporterebbe una vita di attesa
dell’illuminazione, come nel buddismo zen. Una rivelazione
che parte dal Dio stesso, un po’ come gli illuminati di Zwickau? Una serie
di esercizi spirituali sotto la guida di un maestro? Una dottrina teologica
articolata invece, espressa in termini razionali, da apprendere e condividere secondo il concetto – come avrebbe
detto Hegel. Il che farebbe di questa religione una specie di filosofia. Stare
ad aspettare i segni (magari attraverso la poesia o l’arte) del Dio che abbiamo
dentro? – proprio Heidegger diceva che pensare significa aspettare.
Interpretare i sogni (o altri tipi
di segni) nei termini di messaggi del Dio dal profondo? Decisamente, mi paiono
sentieri alquanto accidentati e perigliosi. E soprattutto non decisamente nuovi
e alquanto già visti, tali comunque
da riprodurre forme passate di
religiosità. Tuttavia attendo fiducioso eventuali ulteriori delucidazioni e
sviluppi. Non vorrei dare l’impressione di un mio atteggiamento
a-prioristicamente negativo nei confronti di un progetto di nuova religiosità.
Di fronte a una proposta di una nuova religiosità effettivamente
convincente sarei il primo a dare una mia adesione entusiastica.
Personalmente, ho sempre ritenuto che una prospettiva religiosa sia in
definitiva assai più comoda e piacevole di una prospettiva laica.
28.
In ogni caso, un Dio come quello tratteggiato qui tutto mi pare tranne che un
Dio hegeliano o simil hegeliano. È probabile che la mia interpretazione di Hegel
non concordi del tutto con quella di Franco Livorsi. Hegel del resto è un autore
assai oscuro (volutamente oscuro) che è suscettibile di interpretazioni davvero
assai discordanti. Usare Hegel per i propri scopi occasionali è però diverso dal
darne un’interpretazione adeguata. Mi riservo di entrare nel merito di Hegel –
che secondo il rimbrotto di Franco io avrei immeritatamente trattato come un
“cane morto” – in un eventuale prossimo
articolo.[28]
Quello di Hegel, comunque, è un panteismo radicale, di
marca romantica, in cui lo Spirito assoluto, che è
di fatto vagamente analogo a un Dio, coincide con la totalità
vivente. Questo significa che il positivo e il negativo sono dentro
lo Spirito. Qualche interprete ha avanzato l’ipotesi che Hegel fosse stato in
realtà ateo e che lo Spirito hegeliano altro non sarebbe che l’umanità
stessa. Del resto ci aveva già pensato Feuerbach. Il nichilismo
comunque, come minimo, farebbe parte
dello Spirito stesso. Dovrebbe essere un momento
necessario della vita dello Spirito. Tutte le catastrofi – compresa la catastrofe epocale che staremmo vivendo
e che Franco vorrebbe superare grazie a una religione dai tratti neo-hegeliani –
starebbero dentro lo Spirito e sarebbero modalità necessarie attraverso le quali
lo Spirito, il Dio vivente, o l’umanità, si conosce sempre meglio. Dunque,
dovremmo sempre stare tranquilli e
contenti di contribuire, con la nostra attuale sofferenza, alla vita dello
Spirito.
Confesso, in proposito, che non sono mai riuscito a
comprendere l’utilità di un Dio panteista. Poiché questo Dio sarebbe coincidente
con il tutto, il massimo che un
simile Dio potrebbe fare è di lasciare
le cose come stanno, come ineluttabilmente già determinate da Egli stesso,
nell’ambito del tutto. Oppure, come nel caso di Leibniz, di agire come
provvidenza, ma con fini talmente imperscrutabili da non lasciare ai mortali
alcuna spiegazione o consolazione. Il che si risolverebbe comunque in tal caso
nel più totale fatalismo (o nel più
cieco ottimismo, il che è lo
stesso). In genere le religioni tendono invece a fungere da intermediarie tra
l’uomo e un Dio trascendente e, così facendo, cercano di offrire taluni
vantaggi al fedele. Qui non si vede in cosa consistano i vantaggi del
panteismo.
Non mi pare poi sostenibile l’ipotesi, per me
semplicistica, che Hegel abbia divinizzato l’uomo, come
individuo. Hegel ha divinizzato (meglio sarebbe dire: concepito
concettualmente) il tutto e ha fatto dell’uomo singolo un pezzo
insignificante del tutto. Il fatto che in Hegel ci sia una ragione
astuta che raggiunge i suoi scopi in barba alla coscienza dei singoli la
dice lunga sul carattere totalitario o se si preferisce olistico del suo
sistema. Per Hegel i singoli, gli spiriti soggettivi, per quanto
tipologicamente previsti nel piano enciclopedico dello Spirito stesso, sono mera accidentalità rispetto alla
necessità del tutto. È vero che lo Spirito soggettivo di Hegel termina con la
“sintesi” dello Spirito libero. Ma
subito dopo viene lo Spirito
oggettivo, con le entità spirituali sovra individuali che inglobano e
coartano gli Spiriti liberi: la famiglia, la società civile e lo Stato. E poi
c’è la Storia del mondo che se ne frega di tutte le accidentalità e fa quello
che vuole (senza nessun disegno
intelligente poiché vuole furbescamente a posteriori quello che è
in effetti già accaduto). Lo dicono anche i manuali di filosofia che lo
Spirito hegeliano è l’unico soggetto veramente libero.
29.
Il migliore tentativo, tra quelli che conosco, di usare Hegel per fondare una
nuova religiosità (o per rifondare quella “vecchia”) è quello di Vito Mancuso.
Mancuso cerca di svecchiare il cristianesimo esattamente in una prospettiva
vagamente hegeliana, tenendo presente l’esigenza di una certa spiritualizzazione
della natura, confrontandosi apertamente e temerariamente con i risultati della
scienza moderna, recuperando quel che è recuperabile della teologia scolastica,
soprattutto in direzione dello sviluppo di un’etica individuale. Mancuso ha però
il buon senso di lasciare da parte la
questione dello Stato etico. Si tratta di un sincretismo, a mio giudizio
assai intelligente, che cerca di recuperare la filosofia alle esigenze di una
religiosità rinnovata e che guarda soprattutto ai cristiani insoddisfatti per lo
scarso adeguamento della tradizionale cultura cristiana al mondo attuale.
Purtroppo, nel compiere la sua, in effetti quasi
miracolosa, opera sincretica, Mancuso non sempre riesce ad amalgamare bene
il tutto (del resto già Hegel aveva avuto enormi problemi di amalgamazione delle
varie membra del suo sistema) e, in quanto scrive, le suture
tra le parti diverse sono ampiamente visibili e, in taluni casi, gridano un
po’ vendetta. In ogni caso, passando per Hegel, non so se sia possibile andare
oltre quel che ha già tentato di elaborare il generoso Mancuso.
Queste sono le mie riflessioni alquanto estemporanee
intorno all’ipotesi di affidare a una nuova religiosità le speranze dell’uscita
del mondo attuale dal cosiddetto nichilismo e alle poche notizie specifiche in
merito alla nuova religione o religiosità propugnata da Franco Livorsi, ammesso
che io abbia ben compreso. Naturalmente sarò ben contento di ricredermi, in
presenza di ulteriori delucidazioni.
C -
Sintesi
30.
Aggiungo a questo scritto, ahimè già fin troppo prolisso, un’ultima
argomentazione con cui intenderei prendere in considerazione la questione
della spiritualità e trarne alcune conseguenze di ordine pratico.
Spiritualità è un termine che è senz’altro vicino a quello di religiosità,
tanto che spesso è usato in modo intercambiabile. Quando non sia usato in modo
intercambiabile, si suole contrappore la religione,
in quanto assetto tradizionale, normativo e istituzionale, alla spiritualità
in quanto espressione innovativa, individuale e libera. Spesso si suggerisce che
la religiosità implichi una membership nell’ambito di qualche fede
istituzionalizzata, mentre la spiritualità sarebbe tipica di una religiosità in libera uscita, di una ricerca
prettamente individuale e privata. In altri termini, sia che venga connessa alla
religiosità istituzionale, sia che venga identificata con quella privatizzata,
la spiritualità pare stia diventando, in certi ambienti, l’ultimo rifugio della
religione, una specie di baluardo interiore contro la morte di Dio, contro il
nichilismo, contro i presunti assalti della modernità atea e materialista. Dalla
concorrenza tra le religioni per la conquista dello spazio pubblico si
passerebbe così a una diffusione soft
della spiritualità, motivata soprattutto da esigenze interiori, da una
domanda che deriverebbe dagli individui stessi. Del resto oggi stiamo
assistendo a un vero e proprio sviluppo di una sorta di mercato
della spiritualità. Se la parola religione sembra avere sempre meno appeal, il termine spiritualità sembra
così avere acquisito una sorta di valore aggiunto del tutto positivo.
31.
In questo quadro, l’uso discriminatorio della parola spiritualità
che solitamente vien fatto, a livello di senso comune, ma anche negli ambienti
religiosi e filosofici, mi dà – lo confesso – un poco di fastidio. Io che sono
ateo, almeno nel senso corrente del termine, non credo di essere meno
spirituale di quelli che vanno in chiesa tutte le domeniche, oppure di
quelli che si chiudono in un monastero tibetano o di quelli che si fanno col peyote per allargare la coscienza.
Credere di avere il monopolio dello
Spirito, distribuire patenti di
spiritualità – non mi riferisco certo qui a Franco Livorsi bensì a un certo
costume generale - è spesso un facile espediente per acquistare a buon prezzo
un illusorio senso di superiorità e per denigrare coloro con cui si dissente di
volta in volta. Io sono, ad esempio, ormai da tempo abituato a sentirmi
apostrofare come arido razionalista, empirista astratto, materialista,
scientista, positivista, meccanicista e quant’altro da sedicenti “spirituali”
che tuttavia, al momento buono, mostrano spesso e volentieri di essere assai ben
introdotti nei misteri della materia e del calcolo strumentale.
32.
Nella nostra cultura, il termine “spiritualità” proviene dalla visione
dicotomica tra spirito e materia che è certo radicata nella nostra tradizione.
Il cristianesimo ha generalizzato questa distinzione. Ora che la
dicotomia tra spirito materia non ha più alcuna ragione di sussistere
(quest’affermazione si fonda, ovviamente, sui risultati della scienza moderna,
dalla cosmologia fino alle scienze cognitive – non ho spazio qui per argomentare
in merito, ma ormai c’è un’ampia letteratura in proposito che non si può più
ignorare) non si può più seriamente continuare a usare la facile
rendita di questa sorpassata tradizione. La base
materiale della suddivisione tra spirito e materia semplicemente non
c’è più! Ammesso che si voglia continuare a parlare di spiritualità, ci
dovremmo riferire a un’altra cosa.
Ci dovremmo riferire a una particolare qualità interiore (Socrate l’avrebbe
chiamata virtù) che sia in grado di
distinguere gli individui su una dimensione di spiritualità, in pratica
su una scala di spiritualità. Questo
perché caratteristica propria di ciascuna virtù è di
essere posseduta in grado diverso da individui diversi. Sennò non sarebbe
una virtù. Se questo è vero, allora dovremmo avere la pazienza di definire quali
siano gli indicatori della
dimensione in questione. Non vale l’obiezione che siamo
tutti spirituali, oppure che la
spiritualità non si può definire, oppure che, essendo infinite le forme
della spiritualità, ciascuno è
spirituale a modo suo, oppure ancora che è
spirituale chi così si auto proclama. In tal caso nessuno potrebbe essere
davvero detto spirituale. E parlare di un’eventuale nuova
spiritualità non avrebbe contenuto alcuno che sia comunicabile. Men che mai
una nuova spiritualità così indeterminata potrebbe contribuire a risolvere i
problemi globali del mondo odierno.
33.
Ci occorre allora una modesta, minima, definizione operativa della
spiritualità, sulla quale possiamo all’ingrosso concordare. Altrimenti ogni
discorso sulla spiritualità diventa flatus vocis. Vediamo qualche esempio
in termini di pars destruens. Quanto
conta agli effetti della spiritualità la cultura posseduta? A parità di altre
condizioni, un colto e un incolto possono essere ugualmente spirituali? Il
ciabattino Boehme come si pone rispetto al super istruito Hegel? Nella sua Storia della filosofia Hegel, che ha
copiato molto da Boehme, ne parla a lungo mantenendo tuttavia un atteggiamento
sprezzante nei suoi confronti, poiché il povero ciabattino non avrebbe saputo
elevare la sua visione mistica al
livello del concetto. E poi, ci sono popoli più spirituali di altri?
Heidegger pensava che i greci (antichi) e i tedeschi fossero i popoli più
spirituali, grazie alla loro lingua. Gli Orientali sono più spirituali degli
Occidentali? Quello che si carica una pietra in testa e percorre in ginocchio le
stazioni della Via crucis può essere
definito spirituale? Le bambine (“pastorelle”) che hanno visto la Madonna
possono essere definite spirituali? I bambini musulmani che entrano giovanissimi
nelle madrasse pakistane e imparano a memoria il corano e poi lo recitano,
dondolandosi ritmicamente per ore e ore, sono spirituali? Un astrofisico che
studia le onde gravitazionali può esser detto per ciò stesso spirituale? Quei
fondamentalisti ebraici che osservano rigorosamente tutti i numerosissimi
dettami della Legge, sono spirituali? Quei prelati che governano le finanze
vaticane, quanto c’è di spirituale nella loro attività? Chi riserva una parte
delle proprie finanze alle opere caritatevoli, è perciò stesso spirituale?
Passare lunghe ore seduti con gli occhi chiusi, come si dice, in meditazione, è
indice di spiritualità? L’ascesi intra mondana del capitalista, come descritta
dal Weber, è spirituale? Quelli che frequentano un corso di yoga, sono
spirituali? Quelli che tutte le domeniche si adunano in piazza San Pietro sono
spirituali? I terroristi suicidi islamisti si possono considerare come
spirituali? Un alpinista ateo che rischia la vita per salire sulla cima di una
montagna è spirituale? Quelli che pregano chiedendo
in cambio una grazia al loro Dio, sono spirituali? E quelli che consultano
i sedicenti veggenti per prevedere il futuro? Quelli che si drogano per
“allargare la coscienza” sono spirituali? Un soldato che per essere fedele alla
propria missione perde la vita sul campo può essere considerato spirituale?
Quelli che giocano al lotto i numeri ricevuti in sogno sono spirituali? Tutti
quelli – e sono tanti - che si fanno di pasticche, hashish e marihuana per
uscire dalla quotidianità, per
sballare, sono spirituali? I vegetariani e i vegani sono spirituali? Questo
è un campionario, assolutamente incompleto, un po’ caricaturale e certo
estremizzato, di altrettante declinazioni della spiritualità. Sono
senz’altro utili e sensate per chi le
pratica, per quanto talune possano anche costituire un pericolo sociale. Se
però la varietà è così grande, tutti sono spirituali e nessuno lo è veramente.
Una nuova spiritualità, in mancanza
di precisazioni, finirebbe solo per assommarsi alle vecchie, aggiungendo
confusione a confusione.
34.
Non ho mai sentito come particolarmente urgente il compito di definire cosa
sia la spiritualità. Dal mio modesto punto di vista, comunque – avanzo qui,
temerariamente, una proposta di definizione operativa, una specie d’imperativo
categorico della spiritualità. Secondo la mia definizione, è spirituale
colui che impiega moltissimo tempo, pazienza e risorse per aumentare le proprie
conoscenze, per divenire più consapevole delle proprie dinamiche emotive e
cognitive interiori, per ampliare la propria inner
complexity. Il tutto per costruire e sviluppare la propria identità
personale. Colui che, inoltre, in termini di ricerca
consapevole, sia in grado di mettere a confronto, nel modo più ampio
possibile, le varie tradizioni di pensiero con cui entra in contatto allo scopo
di costruire un suo punto di vista originale, senza tuttavia assolutizzarlo. È
poi spirituale chi, facendo tutte le cose precedenti, si comporta nella vita
pratica e nel mondo in piena coerenza con i risultati raggiunti. È spirituale
inoltre ancora colui che, pur essendo abituato alla riflessione interiore, sia
nello stesso tempo disponibile al confronto con chiunque altro, usando le armi
pacifiche della argomentazione. Colui, infine, che fa, di questa ricerca e
pratica “spirituale”, lo scopo più importante della propria vita e un impegno
rigoroso verso se stesso e verso gli altri.
35.
Naturalmente la definizione qui sopra riportata è del tutto improvvisata,
senz’altro incompleta e suscettibile
di miglioramenti. Quel che conta comunque è che un simile modello di
spiritualità sarebbe assolutamente pluralistico, e sarebbe a
disposizione di tutti, indipendentemente dal fatto che si sia laici o
religiosi, credenti o miscredenti, teisti o panteisti. Sarebbe questa la base
per una spiritualità del tutto
umana, non necessariamente dipendente dalla religione. Può anche essere che
il fatto di appartenere a una qualche religione sia d’intralcio allo sviluppo di
un simile modello di spiritualità, perché la religione spesso soffoca l’elemento
fondamentale che è costituito proprio dal dubbio
e dalla ricerca. Secondo questa
nostra definizione, temiamo oltretutto che molti sedicenti religiosi starebbero
piuttosto in basso nella scala della spiritualità. Questo modello di
spiritualità è soprattutto un modello di architettura
della mente, dell’interiorità, dell’identità personale. Non è un modello di
perfezione morale. Chi pratica questa ricerca spirituale non è
necessariamente buono o cattivo. Gli spirituali siffatti non sono
necessariamente buoni, anche se forse hanno qualche probabilità in più di
diventare buoni, o di fare buone cose nella loro vita. La spiritualità, per
com’è stata qui definita, non offre neppure particolari vantaggi personali, si
può essere molto spirituali e fare una vita disperatissima.
36.
Qui pongo la domanda risolutiva della mia intera argomentazione. Che vantaggio
può avere una società, qualora essa sia costituita di un gran numero di simili
individui “spirituali”, come li abbiamo definiti? Il vantaggio sarebbe – in
breve - che il nichilismo si dissolverebbe d’un fiato, la qualità media degli
individui avrebbe un’impennata verso l’alto, emergerebbero e si diffonderebbero
numerose e buone idee, ci sarebbe un accrescimento di impegno collettivo e di
conseguenza molti dei problemi che abbiamo, di adeguamento di noi stessi, della
nostra interiorità e della nostra mente, al progresso economico sociale e
culturale e alle trasformazioni sempre più rapide cui siamo sottoposti,
sarebbero presto inquadrati, sia individualmente sia collettivamente, e
sarebbero ben presto messi in via di soluzione.
37.
Non sarà sfuggito al mio interlocutore che l’improbabile costruzione dello Spirito assoluto hegeliano, che doveva
comprendere tutto, in cui gli
individui singoli erano semplici accidentalità, viene qui – in questa mia
modesta e provvisoria elaborazione – condensata e concentrata proprio dentro ai
singoli individui, con la funzione di costruire, artigianalmente e
originalmente, la totalità interiore
di ciascuno. Totalità interiori decisamente ricche, piuttosto che povere.
Totalità interiori che sono però costruzioni del tutto mondane, che non
hanno necessariamente a che fare con la scoperta di un Dio
nascosto dentro di sé, oppure con la maturazione della credenza di essere
Dio. Certo, qualcuno può anche giungere liberamente a crederlo, alla fine
della sua personale ricerca, ma si tratterebbe in quel caso di un’opzione del
tutto personale, una credenza,
appunto, accanto a tante altre, magari da rispettare ma non certo da
assolutizzare. Non certo da usare per costruire a tavolino una religione,
magari anche istituzionalizzata.
Qui, nella totalità interiore di ciascuno e ben
lontani dallo Stato etico, possiamo finalmente parlare di totalità
in senso positivo – anche se, come del tutto prevedibile, ci potranno essere
delle totalità interiori un poco bacate e/o del tutto patologiche.[29]
Ciò semplicemente significa che la mia definizione laica della spiritualità non
pretende di risolvere il problema del male (come fanno invece di solito le
religioni) ma lo lascia in sorte all’orologiaio cieco,[30] il quale è sempre
al lavoro, anche nel campo dell’evoluzione culturale, togliendo di
mezzo a lungo andare, costi quel che costi, gli eventuali rami
secchi dello Spirito. Più o meno come il macellaio della storia di Hegel, ma
in modo forse più incruento.[31]
38.
Comprendo perfettamente come la proliferazione in massa di simili individualità
da taluni potrebbe essere considerata come un incubo. Per me costituirebbe
invece effettivamente una rivoluzione
interiore di massa o, se si vuole, una rivoluzione
spirituale che avrebbe enormi risvolti collettivi. Una società del genere,
dotata di un gran numero di individui spiritualmente virtuosi, si
configurerebbe come una società di spiriti liberi (qui mi riferisco a Kant
e non a Hegel[32]) i quali tuttavia – per come sarebbero costruiti dentro –
sarebbero in grado di armonizzarsi e di interagire costruttivamente con gli
altri spiriti liberi che eventualmente potrebbero incontrare sul loro cammino.
Questa, a mio giudizio, è l’unica repubblica degli spiriti che sia
sensatamente ammissibile ai giorni nostri e nel prossimo futuro. Una repubblica
degli spiriti diffusa a livello di
massa - si potrebbe azzardare - che progressivamente sopravanzerebbe e
prenderebbe il posto di quella società
del cazzeggio di massa che invece stiamo producendo e alimentando. E si
tratterebbe comunque di una repubblica, non di una religione.
Giuseppe Rinaldi
05/02/2020
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1971
Wachtel, Nathan
La vision des vaincus,
Gallimard, Paris. Tr.
it.: La visione dei vinti. Gli indios del
Perù di fronte alla conquista spagnola, Einaudi, Torino, 1977.
NOTE
[1] Questo scritto prende spunto dall’articolo di
Franco Livorsi “Piccolo dialogo con Giuseppe Rinaldi sulla religiosità in Hegel
e Marx”, pubblicato su Città Futura in data 2/01/2020. Franco mi ha coinvolto –
come spiega egli stesso nel suo articolo – in seguito a un mio breve post
di commento a un suo precedente articolo su Marx. Non ho qui cercato di
rispondere punto per punto al suo articolo ma ho cercato piuttosto di costruire
una mia argomentazione intorno ai problemi da lui sollevati. Non sono sicuro di
avere ben compreso tutte le argomentazioni di Franco, per cui saranno sempre
possibili – e senz’altro benvenute – eventuali precisazioni da parte sua. Credo
comunque, in generale, sia utile che su Città Futura si discuta anche di
argomenti come questi che possono sembrare come lontani dall’attualità sociale e
politica, che possono, in altre parole, sembrare come decisamente inattuali.
Dato il carattere di dibattito di quest’articolo, ho ridotto al minimo le note e
le citazioni bibliografiche.
[2] Questa tesi è esposta nell’articolo citato alla
nota precedente.
[3] Cfr. Heidegger 2000.
[4] Cfr. Mueller 1958.
[5] L’espressione risale, per quel che ne so, a Carlo
Augusto Viano. Cfr. Viano 1985.
[6] Cfr. Galimberti 2007.
[7] Cfr. Volpi 1996.
[8] Non ho spazio qui per argomentare circa l’assenza
di fondamenti del nichilismo filosofico. Mi limito, per chi voglia
approfondire, a segnalare l’ottimo e rigoroso D’Agostini 2002.
[9] Segnalo un mio vecchio post sul mio blog
Finestrerotte che affronta esattamente questi problemi. Cfr. L’illusione
necessaria del 5 settembre 2014, all’indirizzo:
https://finestrerotte.blogspot.com/2014/09/lillusione-necessaria.html
[10] A differenza del nichilismo, dell’anomia
sono state date diverse definizioni operative, sono state costruite diverse
misurazioni o scale di anomia e s’è
dato luogo a numerose ricerche empiriche. Per una introduzione, si veda Izzo
1996.
[11] Cfr. Todorov 1982.
[12] Cfr. Wachtel 1971.
[13] Segnalo un post sul mio blog Finestrerotte in cui
ho ripreso la teoria di Riesman. Cfr. L’individuo ben socializzato del 5
febbraio 2017, all’indirizzo:
https://finestrerotte.blogspot.com/2017/02/lindividuo-ben-socializzato.html
.
[14] Un’analisi analoga è stata condotta da Maurizio
Ferraris a proposito della postverità.
[15] Cfr. il concetto di destorificazione
in Tullio-Altan 1992.
[16] La storicità è l’opposto
della destorificazione. Su questo punto non posso che nuovamente rimandare a
de Martino e al suo concetto del rischio
della presenza. Tutte queste questioni sono state sviluppate e approfondite
dall’antropologo Carlo Tullio-Altan. Vedi sempre Tullio-Altan 1992.
[17] Del resto qualche tempo fa si è parlato
esplicitamente di fine della
storia.
[18] Si vedano gli studi di de Martino sulla fine
del mondo. Cfr. Ad esempio, de Martino 1964, oppure de Martino
1977.
[19] Sul postmodernismo rimando al mio articolo Il tramonto annunciato dei profeti del
nulla, pubblicato su Città Futura. Vedi il link all’articolo pubblicato il
18/03/2015 sul mio blog:
https://finestrerotte.blogspot.com/2015/03/il-tramonto-annunciato-dei-profeti-del.html
[20] Cfr. Ferraris 2016.
[21] Cfr. Ferraris 2016.
[22] Con questo non intendo assumere una posizione
antidemocratica. Intendo soltanto che il diritto di voto implicherebbe un dovere
corrispettivo, una vera e propria responsabilità, di sforzarsi di conoscere le
questioni intorno alle quali si sta votando.
[23] La nozione di evoluzione
culturale mi pare che sia ormai ampiamente accettata da molti studiosi. Cfr.
Cavalli Sforza 2004.
[24] Oltre a quest’analisi, che è di carattere
funzionale, cerca cioè di spiegare un fenomeno in base alla sua funzione, sono
oggi disponibili molte teorie piuttosto precise e circostanziate che tendono a
spiegare la predisposizione degli umani a credere nelle più diverse divinità.
Si veda in proposito Stausberg 2009.
[25] La privatizzazione delle religioni costituirebbe –
secondo taluni – la prova che le religioni, oltre a svolgere una funzione di
tipo sociale e istituzionale come quella che abbiamo descritto, risponderebbero
anche a un bisogno innato degli
individui, un bisogno di sviluppare un rapporto con il sacro
e con il soprannaturale. Sulla
questione di una innata predisposizione umana verso il sacro, il soprannaturale
e il divino sono state elaborate teorie molto interessanti. Si veda ad esempio
la teoria cognitiva delle religioni.
Quand’anche si riuscisse a provare che il sacro abbia un qualche fondamento
nella biologia evolutiva, questo riuscirebbe al più a sostenere la prospettiva
delle religioni esistenziali, non
certo delle religioni
istituzionalizzate.
[26] Cfr. Popper 1966.
[27] Questo perché lo Stato repubblicano chiede molto
ai cittadini, in termini di impegno, partecipazione, competenza,
rettitudine.
[28] Capisco, con quest’affermazione, di star
terrorizzando i miei dieci lettori. Vorrei comunque ricordare loro che –
proprio grazie all’illuminismo - siamo in un regime di piena libertà, anche di
non leggere. Magari l’articolo lo scriverò solo se qualcuno si mostrerà
interessato e me lo chiederà.
[29] Qui sento fremere i relativisti e i postmoderni politicamente corretti. Come ti arroghi
di individuare e distinguere ciò che è patologico da ciò che non lo è? Io non mi
arrogo, ma sostenere che «Tutto va bene» è una delle tante forme
dell’imbecillità culturalmente motivata. Ricordo che il relativismo
estremo non è fondamentalmente diverso dal nichilismo.
[30] Cfr. Dawkins 1986.
[31] Ci sono ormai molte teorie che trattano della selezione culturale. Non ho spazio qui
per entrare nel merito. L’evoluzione culturale, a lungo andare, seleziona le
idee. Io sostengo semplicemente che, perché siano sottoposte a selezione
culturale, le idee bisognerebbe prima di tutto avercele. E averne un gran
numero. E metterle a confronto.
[32] Anche Hegel ha parlato dello Spirito
libero nella sua Fenomenologia.
Kant ha prospettato una repubblica degli spiriti morali che ha chiamato Regno dei fini. Kant dice “regno” ma
aveva in mente una repubblica. Sul piano storico filosofico, il Regno dei fini è
storicamente una derivazione sia della filosofia greca sia del
cristianesimo.