1.
Quanto mai estraneo e, allo stesso
tempo, assai familiare appare allo
spettatore il film “Parasite” di Bong Joon-ho, vincitore della Palma d’Oro al
Festival di Cannes 2019. Familiare, perché il regista usa con maestria svariati
generi universalmente noti del linguaggio cinematografico. Estraneo, poiché i
temi e lo stile con cui sono trattati sono indubbiamente assai ancorati a certe
specificità dell’attuale società coreana e della sua cultura. Si tratta dunque
di un film effettivamente sincretico, nel senso che fonde
continuamente elementi che appartengono ormai ineluttabilmente al mondo globale
con gli elementi di una situazione marcatamente locale. La fusione
miracolosamente riesce e lo spettatore ha costantemente l’esperienza di un virtuoso straniamento che lo invita a
coinvolgersi e, nello stesso tempo, a riflettere con un certo distacco. Insomma,
il tutto si colloca alla giusta
distanza, verrebbe da dire. Il film è sostanzialmente uno splendido,
sebbene come si vedrà alquanto problematico, apologo
morale sulle relazioni interpersonali e sulla sociologia della vita
quotidiana, come queste si configurano nell’epoca delle catastrofi ecologiche,
delle diseguaglianze crescenti e dell’inasprimento della competizione tra gli
individui. Proprio per la sua distanza relativa, il film è capace, attraverso
questi temi, di gettare uno sguardo critico sulla nostra contemporaneità, uno
sguardo decisamente insolito, originale e provocatorio. Nel film, oltretutto, è
mostrato abbondantemente lo sconquasso che la penetrazione e diffusione del
mercato globale ha provocato e sta provocando, anche in società lontane come
quella coreana.
2.
Abbiamo accennato alle catastrofi
ecologiche. Il film ci parla senz’altro di ecologia,
specialmente nel senso originario del termine che, notoriamente, ha a che fare
con la “casa” (oikos). Il film,
infatti, è una commedia nera che si svolge quasi esclusivamente in interni, in
due case antitetiche che corrispondono a due famiglie coreane altrettanto
antitetiche. Sono messi in contrapposizione, anche e soprattutto visivamente,
due ecosistemi idealtipici costituiti dalle rispettive case in cui vivono i
protagonisti. Da un lato, il mondo dell’architettura ultra moderna
dell’archistar Namgoong Hyeonja (personaggio del tutto inventato), ideatore e
costruttore della casa dove vive la ricca famiglia Park. Dall’altro, quello del
tugurio, del seminterrato miserabile con finestrella a livello della strada, in
cui vive la povera e sgarrupata famiglia Kim. La contrapposizione è volutamente
paradigmatica, poiché pare che Park e Kim siano i cognomi statisticamente più
diffusi in Corea.
3.
L’avveniristica casa dei Park si ispira alla concezione architettonica
razionalistica occidentale, appena corretta da una sensibilità asiatica per la
presenza di una ampia vetrata su un grande giardino. La casa corrisponde dunque
a un modello culturale d’importazione, come del resto moltissimi altri elementi
che si vedono nel film, tutti ampiamente enfatizzati nelle inquadrature, come
telefonini, automobili, computer, camicie e cravatte sempre impeccabili, merci
da supermarket, e così via. Si tratta tuttavia di una casa fredda, piuttosto
impersonale che rispecchia il vuoto di
vitalità e il vuoto interiore
degli stessi ricchissimi Park. Un vuoto evocato dal numeroso e onnipresente
personale di servizio, dalla formalità e superficialità dei rapporti
interpersonali e dall’alienazione dei disegni malati del piccolo Da-song, il
figlio minore dei Park, che assomigliano un poco al tratto di un Basquiat. Il
piccolo Da-song - che è capriccioso e tirannico, tanto che i genitori lo temono
e lo assecondano in tutto e per tutto - vive dunque in una casa dal disegno
alquanto razionale ma cova, dentro la sua mente, fantasmi oscuri del tutto privi
di logica. Nel corso del film si scoprirà la concreta origine di questi
fantasmi.
4.
La casa dei Kim è invece un povero e piccolo tugurio seminterrato, umido e
puzzolente, pieno di oggetti seriali
sempre di matrice culturale occidentale, dove le modeste cose sono ammassate le
une sulle altre, dove gli ambienti sono assolutamente indistinti e dove, sul
lato strada, troneggia un water
scrostato. I Kim non possono permettersi l’armonia architettonica della casa
dei Park, ma la vita grama cui sono costretti li ha resi solidali, astuti,
iperattivi, costretti continuamente a stare sul chi vive, a barcamenarsi per
soddisfare le esigenze più elementari. Le prime scene del film ce li presentano
mentre cercano di captare il campo telefonico dei vicini di casa. Oppure mentre
cercano di sbarcare il lunario piegando i cartoni delle pizze per pochi soldi.
Oppure, ancora, mentre cercano di difendere il loro entourage
dagli ubriachi che vengono a orinare intorno alle finestre (il loro tugurio ha
piccole finestre a livello della strada).
Il carattere distintivo del loro ambiente, se così si
può definire, è un disordine caotico, dai caratteri magari anche pittoreschi,
dovuto a tante stratificazioni successive. Dovuto alla competizione, alla lotta per la vita e all’esigenza di
soddisfare i bisogni elementari. Tra le prime battute del film, al passaggio in
strada delle squadre di disinfestazione che spargono insetticida, i Kim
discutono se tenere chiuse le finestre, per non respirare l’insetticida, o se
non piuttosto tenerle aperte, per sfruttare gli effetti benefici della
disinfestazione anche nei loro locali infestati. Questo è il primo accenno
all’equiparazione dei Kim ai parassiti. Nello sviluppo del film, la
realtà ecodegradata della casa dei Kim e del quartiere limitrofo sarà
ripetutamente mostrata in maniera anche assai cruda, come ad esempio nel lungo
episodio, davvero eccezionale sul piano visivo, di un nubifragio battente che si
limita a lambire la villa dei Park, che si trova nella parte alta della città,
ma che provoca, nelle contrade dove vivono i Kim, nella parte bassa, una vera e
propria alluvione, con un fiume misto di fango e spazzatura che corre nelle
strade, travolge qualsiasi cosa e penetra ovunque.
5. I
luoghi, le cose, le case, i quartieri in cui si vive – questo sembra essere
l’assunto implicito del film – sono lo specchio del destino dei loro abitanti,
ne determinano le caratteristiche profonde dal punto di vista economico e
sociale, ma anche e soprattutto le caratteristiche psicologiche, i loro
comportamenti, il modo di affrontare la vita e di relazionarsi con il prossimo.
Sbaglieremmo tuttavia se pensassimo di trovare nel film una compiuta “analisi di
classe” economica, sociale e politica della società coreana o, ancor più, del
mondo globale come oggi si prospetta. Qualche critico, secondo noi frettoloso,a
proposito del film ha parlato addirittura di un ritorno della lotta
di classe. C’è più che altro, nel film di Bong Joon-ho, una correlazione
immediata, che saremmo tentati di definire, appunto, come “ecologica”, tra i due
ambienti e le forme di vita che li abitano. Potremmo parlare di una sorta di eco-psico-sociologia. La condizione
sociale determina la casa in cui si abita e, viceversa, la casa in cui si abita
determina la condizione sociale. Si tratta di un teorema indubbiamente alquanto
schematico e semplificatorio, esso tuttavia permette al film di raggiungere un
notevole rigore nella descrizione realistica – talvolta iperrealistica - dei
diversi ambienti e dei tipi umani
che li abitano.
6.
Il corollario inevitabile di questa prospettiva è che ciascuno debba stare
strettamente ancorato all’ambiente dove abita. Si tratta di mondi caratterizzati
da una profonda diversità e destinati dunque a restare tendenzialmente distanti
e separati, ma anche destinati – come si vedrà nella trama – a un pericoloso
rimescolamento, come per una sorta di attrazione fatale. Il film prende infatti
le mosse proprio da una casuale “contaminazione” tra i due ambienti che porta
però ben presto a una situazione di infezione generalizzata. Sotto
questo profilo, il film può, essere anche considerato come un esperimento
mentale in cui si studia – con grande ironia ma anche con estrema freddezza e
lucidità - quel che accade quando avviene una contaminazione
tra mondi che invece dovrebbero stare a distanza. Lo sguardo di Bong Joon-ho,
in questo senso, è del tutto simile – almeno nelle parti più drammatiche – a
quello del ben più duro e austero Kim Ki-duk, peraltro suo conterraneo. Vale in
proposito ricordare – anche dal punto di vista tematico – il film Ferro
3 di Kim Ki-duk, in cui proprio le case momentaneamente vuote diventano il
luogo fisico di una forma equivoca e inconsapevole di convivenza e di scambio
sociale, dove tuttavia non è consentita alcuna contaminazione. Anche lì, quando
la contaminazione avviene, tutto precipita.
7. I
due ecosistemi umani tratteggiati nel film, in seguito alla contaminazione,
diventano dunque il terreno di una brutale lotta
per la vita senza esclusione di colpi. Qui troviamo un altro motivo
conduttore del film e cioè il ruolo del mimetismo e, più in generale, dell’inganno e della menzogna
nella competizione ecologica e sociale. Ci ricorda Bong Joon-ho che l’animale
semiotico per eccellenza, l’uomo, è anche, per eccellenza, l’animale
capace di mentire. Questo accade perché le relazioni sociali sono sempre
vincolate dalla necessità, dai bisogni, dalla concorrenza, dall’egoismo e
dall’interesse. Ciascuno recita una parte, ciascuno recita la parte che gli
conviene, ciascuno cerca di ingannare il prossimo per accaparrarsi una fettina
del prodotto sociale, per avere qualche convenienza, per avere un lavoro o per
godere di prestazioni sessuali. Il tutto avviene con estrema naturalezza, in una
totale assenza di codici morali. Non c’è scrupolo di coscienza, non ci sono
dilemmi, non ci sono rimorsi. I comportamenti, le scelte non sono mai
problematiche, sono sempre ineluttabili, automatiche, generate dalla meccanica
degli interessi. Se forte è la propensione a ingannare, altrettanto forte è la
propensione a farsi ingannare, soprattutto da parte di chi non ha bisogni
particolarmente urgenti da soddisfare, come suggerisce la stupidità di fondo dei
ricchi Park. Il successo nell’inganno non fa che alimentare ulteriori
comportamenti fraudolenti, in un crescendo inarrestabile. In questa lotta per la
vita, i soli legami interpersonali che contano sono ristretti a quelli per la
propria famiglia. Siamo qui in presenza di una sorta di vero e proprio familismo
amorale, perfettamente descritto e decisamente paradigmatico. Nessun
universalismo, dunque. Non c’è neppure, qui, la speranza di redenzione del
buddismo che compare talvolta nei pur crudissimi film di Kim Ki-duk. Così Bong
Joon-ho, grazie a questa visione brutale e meccanica della competizione, ha
buon gioco nell’usare l’inganno come motore delle vicende narrate, le quali
tendono così a volgere spesso verso una sorta di commedia
nera degli equivoci, paradossale, sarcastica, divertente e agghiacciante
nello stesso tempo.
8.
Vediamo ora in sintesi lo svolgimento della trama, che è un passaggio necessario
per la discussione del senso del film, alla faccia di coloro che non sopportano
lo spoiler. Il giovane studente
Ki-woo - la voce narrante che
compare all’inizio e alla fine del film e che, come vedremo, offrirà
esplicitamente una chiave interpretativa del film stesso - appartiene alla
famiglia Kim, quella che vive nel tugurio seminterrato. È raccomandato da un amico per dare lezioni d’inglese alla giovane figlia
(Da-ye) della ricca famiglia Park che abita nella bella villa situata nella
parte alta della città. Il giovane è piuttosto sveglio e intraprendente e riesce
così a farsi accettare dai Park, a compiere una soddisfacente prestazione
professionale e a far anche innamorare di sé la giovane Da-ye. Questo
inaspettato successo però non gli basta. Così, astutamente, uno dopo l’altro,
Ki-woo riesce a introdurre presso i Park, sotto mentite spoglie, tutti gli altri
membri della sua famiglia che sono ovviamente disoccupati.
La sorella Ki-jung, che è esperta di computer –
grafica, viene presentata come una professionista di art-therapy
per seguire il piccolo Da-song - il fratello minore di Da-ye - che ha dei
comportamenti disturbati e alquanto border-line. Il trucco funziona e, dopo
questo secondo successo, l’invasione prosegue in forma ancora più aggressiva.
La governante della casa, con un malvagio espediente ai suoi danni, è fatta
cacciar via e il suo posto è preso da Chung-sook, la madre di Ki-woo. Sempre
con un espediente fraudolento, anche l’autista è allontanato e il suo posto è
preso da Ki-taek che è il capofamiglia dei Kim (padre di Ki-woo e Ki-jung).
Così, in men che non si dica, con una serie d’ingegnosi quanto biechi
espedienti, l’intera famiglia Kim si trova a rimpiazzare tutto personale di
servizio dei Park, i quali si mostrano alquanto sprovveduti, superficiali e
creduloni e non sospettano minimamente che i loro nuovi dipendenti siano tra
loro imparentati e che siano privi delle patenti di professionalità dichiarate.
La logica che vien mostrata è dunque proprio quella del parassitismo,
un parassitismo sociale che
comunque rinvia analogicamente ai rapporti di parassitismo diffusi tra le specie
animali e vegetali.
9.
Quando tutto sembra andare a gonfie vele, la situazione però precipita. In
assenza dei proprietari che hanno portato il bambino in campeggio per il suo
compleanno, i Kim ne approfittano per organizzare - proprio in quella casa che
ormai dominano e considerano come casa propria - una serata nella quale si
gozzoviglia e si festeggia in modo piuttosto rozzo e volgare. Nel bel mezzo
della festa, nottetempo, ricompare però la governante che era stata fatta
licenziare, che bussa alla porta inaspettatamente. La ex governante ha un
torbido segreto. Nel rifugio antiatomico della casa, della cui esistenza i Park
nulla sanno, vive nascosto da anni suo marito, per sfuggire ai creditori.
L’uomo vive lì come un recluso, rifornito e assistito di nascosto dalla moglie.
L’imprevedibile situazione scatena un conflitto tra i nuovi
parassiti (la famiglia Kim) e i vecchi parassiti (la precedente
domestica e il suo marito imboscato). Il conflitto diviene via via uno scontro
violento, alla fine del quale la famiglia Kim riesce, seppure maldestramente, a
imprigionare nel rifugio sotterraneo i due concorrenti. In un tentativo di fuga,
la ex governante, nel parapiglia, fortuitamente muore e il marito, che viene
comunque imprigionato suo malgrado nel rifugio, medita furibondo propositi di
vendetta. È da notare che la trama del film rende bene evidente come i parassiti
siano sempre in aspra concorrenza tra loro, per cui è fuori discussione
qualsiasi forma di alleanza tra loro per un qualche progetto comune. La logica è
sempre quella di occupare tutto quello che si può a vantaggio esclusivo e unico
della propria famiglia, quasi fosse all’opera una sorta di gene
egoista.
10.
I Park ritornano a casa prima del previsto e i Kim devono far fronte alla
situazione, anche se la loro colossale messa in scena si fa sempre più difficile
da sostenere, tanto più che ora sono spuntati i parassiti
concorrenti. I Park organizzano la festa di compleanno del bambino con molti
ospiti, nel giardino della bella casa, e qui avviene il clou
tragico di tutta la vicenda. La
commedia nera volge a questo punto decisamente all’horror.
Il marito della defunta domestica riesce a liberarsi, emerge dal rifugio con le
vaghe sembianze di uno zombie e comincia a menare coltellate per vendicarsi,
finendo però così per essere ucciso dal padrone di casa. Ki-jung, la figlia dei
Kim, la sedicente esperta di art-therapy, è gravemente ferita ed è
in fin di vita. Il piccolo Da-song, alla vista dello zombie che aveva
evidentemente già visto altre volte, è svenuto. A questo punto scoppia il
conflitto decisivo tra il capo famiglia Park e il suo autista, il capo famiglia
Kim, per decidere quale dei loro figli infortunati debba essere trasportato per primo all’ospedale, con l’unica
auto che c’è. Purtroppo Ki-jung, non soccorsa in tempo, muore e così suo padre,
in un accesso di rabbia uccide a sua volta il capo famiglia Park e si dilegua
con le mani piene di sangue. Insomma, fuori di metafora, come spesso accade in
natura, i parassiti finiscono per uccidere gli organismi stessi che hanno
colonizzato. In conclusione, le tre famiglie (compresa quella della ex
domestica) sono così distrutte, tanto che la bella casa viene tosto abbandonata
e resta disabitata. Ki-taek è
sparito, ricercato dalla polizia per l’assassinio compiuto. In chiusura del
film, poco a poco si comprende che Ki-taek si è nascosto proprio nel rifugio
antiatomico, prendendo il posto del
precedente parassita. Il giovane Ki-woo, che è sfuggito al massacro, ha
compreso quale sia ora divenuto il rifugio del padre, e si farà carico per
intanto di rifornirlo del necessario per mantenerlo in vita.
11.
Sono di una certa importanza, per la ricostruzione del senso del film, le
riflessioni finali di Ki-woo che – non dimentichiamolo – è il narratore in prima
persona di tutta la storia. Egli ammette di essere rimasto affascinato dalla
villa nella quale ha potuto soggiornare durante tutta la vicenda. Confessa anche
di avere capito che le scorciatoie
del parassitismo non portano da nessuna parte e producono disastri. Così si
propone, nel prossimo futuro, di studiare e lavorare sodo per arricchirsi e per
riuscire a comprare proprio quella villa e a ricongiungersi così, un giorno, con
il padre rinchiuso nel rifugio. Insomma, par di capire, il contatto
improprio tra i due ecosistemi umani si è rivelato foriero di grandi
sventure, ma quello stesso contatto ha permesso a Ki-woo di apprezzare la
bellezza e il valore della casa e di trovare quindi un serio obiettivo per la
propria vita.
A prima vista, questa conclusione, cioè il progetto di
una bella casa da conquistare con i propri sforzi personali, pare piuttosto
debole, soprattutto dopo la critica corrosiva degli assetti sociali sviluppata
nel corso del film. Si tratta, infatti, di un progetto che rimane completamente
rinchiuso sul piano individuale, esattamente come il progetto di colonizzazione
parassita raccontato nel film. La radicalità della pars
destruens non porta alla fine ad alcuna effettiva eco - trasformazione.
Nessun accenno a regole comuni, diritti e a riforme sociali. L’eventuale
successo di Ki-woo, nel suo progetto di arricchire e comprarsi la bella casa,
lascerebbe comunque intatto il mondo degradato dal quale proviene. Se tutto ciò
è vero, si tratta allora di capire se e come le due anime (lo sviluppo narrativo
e il finale) apparentemente contrastanti del film possano eventualmente
stare insieme.
12.
Azzardiamo qui l’ipotesi che lo spettatore occidentale tenda spontaneamente ad
attribuire al film di Bong un intento politico primario che probabilmente
proprio non ha. Questo è il motivo per cui la conclusione può sembrarci
riduttiva e fuori posto. L’unico modo per conferire al film una sua unitarietà
sta nel mettere in secondo piano il suo
significato politico, che pure è presente e tende talvolta a emergere
prepotentemente. Vediamo meglio la questione. Negli anni Sessanta del secolo
scorso il sociologo nord americano Robert K. Merton aveva elaborato – studiando
la società nord americana del tempo - una famosa teoria della conformità
e della devianza. La sua teoria si
basava sulle due variabili dell’accettazione o del rifiuto,
sia dei fini che la società
prescrive sia dei mezzi ammessi per
raggiungerli. Il conformismo è il
tipo d’azione di colui che accetta fino in fondo sia i fini stabiliti sia i
mezzi consentiti per raggiungerli. Si noti che qui il termine è descrittivo e
non valutativo, come spesso è usato nella lingua comune. L’innovazione,
invece, è l’azione di colui che accetta fino in fondo i fini, ma “innova” per
quel che concerne i mezzi: costui è il
deviante per eccellenza, perché usa
mezzi scorretti e illeciti per avere quello che vogliono tutti. È
esattamente questo il caso del giovane Ki-woo e della famiglia Kim. Il dilemma
che è proposto nel film pare essere proprio quello tra la devianza e il
conformismo, un dilemma principalmente di tipo morale
e non di tipo politico. Non si
discute dunque dei fini ultimi, che sono ignorati o dati per scontati, si
discute piuttosto di quali debbano essere i mezzi.
13.
Il film di Bong potrebbe allora essere interpretato, in definitiva, come la
rappresentazione di una complicata peripezia del parassita che, attraverso
le sue vicissitudini e i suoi errori, giunge progressivamente alla scoperta dei
limiti della sua innovazione
deviante e che, infine, è indotto a scegliere la via più lunga e faticosa,
ma più efficace e meno distruttiva, del conformismo in senso mertoniano. Di
fronte all’attuale confusa situazione globale, sembra dire Bong Joon-ho, la
tentazione che pare a prima vista come la più immediata e la più promettente è
proprio quella del parassitismo. Si tratta della scelta più diffusa. Anche
perché è spinta dall’urgenza del
bisogno e dall’onnipervasiva lotta
per la vita. Nel film d’altronde lo spettatore è indotto a simpatizzare per
gli intraprendenti e devianti parassiti della famiglia Kim e per il loro assalto
implacabile ai ricchi Park.
La scelta del parassitismo, tuttavia, è in ultima
analisi del tutto controproducente, perché porta alla lacerazione, allo scontro,
e soprattutto perché è, in fin dei conti, autodistruttiva.
Allora, come nella fenomenologia hegeliana o, se si preferisce, come in una
sorta di laica via crucis, occorre
passare attraverso tutte le “stazioni” del parassitismo, come fa effettivamente
il giovane protagonista Ki-woo, fino a berne fino in fondo il calice amaro, fino
a provarne direttamente le conseguenze più disastrose, per sé e soprattutto per
i propri familiari. Soltanto questo percorso permetterà al protagonista di
raggiungere, alla fine, una sorta di vera e propria illuminazione
e trasformazione personale. Solo
grazie a questa nuova consapevolezza gli sarà possibile giungere a scartare la
via che immediatamente sembra la più
facile e a intraprendere - con una sorta di spirito
ascetico - la via più
difficile, la via dell’impegno e del sacrificio. Ki-woo diventa capace di
padroneggiare se stesso, impara a differire la soddisfazione immediata dei
bisogni, impara a darsi una meta e a perseverare per raggiungerla. Prende le
distanze dal parassitismo e intraprende un serio impegno nel mondo seguendone
finalmente le regole. Se vogliamo una lettura della stessa questione da un altro
punto di vista, si potrebbe dire in termini lacaniani che Ki-woo comprende, alla
fine della sua amara vicenda, la differenza tra la mera pulsione
e il desiderio.
14.
Ma chi sono oggi i parassiti? Perché può avere un senso riflettere sul
parassitismo? A vedere i poveri Kim disoccupati nel loro tugurio potremmo essere
indotti a pensare che si tratti di questioni da Terzo mondo. In realtà la
questione del parassitismo ci riguarda piuttosto da vicino. Proviamo ad assumere
una definizione provvisoria del fenomeno e cioè che il parassita, nel nostro
mondo sociale, sia semplicemente colui
che vive a spese degli altri. Ebbene, se ci guardiamo intorno, non abbiamo
proprio bisogno di volgerci alle lontane contrade coreane. Facciamo un elenco
esemplificativo, un po’ alla rinfusa, di casi che potrebbero essere rubricati
come parassitismo: tutti i generi di truffatori, da quelli piccoli a quelli
grandissimi. Quelli che si fanno raccomandare. Quelli che non pagano le tasse.
Quelli che praticano l’economia sommersa, o l’economia illegale. Quelli che
corrompono e quelli che si fanno corrompere. I politici che pensano solo alla
loro carriera. Quelli che truccano i concorsi. Quelli che guidano come dei
matti, mettendo a repentaglio la sicurezza della circolazione. Quelli che
parcheggiano dove non si deve. Quelli che non fanno la dovuta manutenzione e
producono distruzione e morte. I falsi invalidi. I fabbricatori di fake
news. Quelli che fanno in finanza le manovre speculative. Gli incompetenti
che producono danni che devono poi essere riparati. Quelli che timbrano il
cartellino e vanno poi per i fatti loro. Quelli che usano mille espedienti per
abbassare la loro produttività sul lavoro. I produttori di merci adulterate. Gli
assenteisti. I saccheggiatori di risorse naturali. Gli inquinatori, i cui danni
vanno poi riparati con grande dispendio. L’elenco potrebbe continuare a lungo.
Noi stessi, in modo intercambiabile, svolgiamo il ruolo di parassiti e di
vittime colonizzate e sfruttate. E, soprattutto, parassiti non sono solo i
ricchi, com’è bene evidenziato dal film. Il parassitismo è certamente
trasversale e riguarda tutte le classi
sociali.
Se tutto questo è vero, allora il merito principale del
film è forse proprio quello di avere portato alla ribalta dell’attenzione una categoria morale come quella del parassitismo. Siamo, infatti, così
circondati dai parassiti che non ce ne accorgiamo neppure e magari li troviamo
pure simpatici. Un film tuttavia non basta. Forse, per aprire gli occhi sul
parassitismo e sul rischio severo che questo comporta per il mondo globale,
abbiamo proprio bisogno di una catastrofe, più o meno analoga a quella accaduta
nella guerra tra i Kim e i Park. Forse solo una grande catastrofe – non si
tratterà questa volta soltanto di una commedia nera - potrà finalmente
produrre, in coloro che riusciranno a sopravvivere, una grande illuminazione.
Giuseppe Rinaldi (18/12/2019)