1.
Se non andiamo errati, è questo il settimo film del giovane regista canadese
Xavier Dolan, che ha a malapena trent’anni e ha ottenuto ormai moltissimi
riconoscimenti. Un ottavo suo film è già stato presentato a Cannes ed è in
attesa di uscita in Italia. Preferiamo di gran lunga il titolo originale - The Death and Life of John F. Donovan –
al titolo con cui il film è uscito nelle sale italiane e cioè l’insensato: La mia vita con John F. Donovan. Le
ragioni non possono che apparire chiare a chi abbia visto il film. Nel
titolo originale la menzione della morte del divo Donovan precede infatti quella
della sua vita. Il che significa banalmente che – secondo le intenzioni
dell’Autore - la vita del “morto” Donovan continua, proprio dopo la sua morte,
nel suo giovane fan Rupert, ormai
divenuto adulto, maturo e consapevole. Divenuto per giunta attore, esattamente come il suo idolo. Si tratta di
un particolare di piccolo conto, ma la dice lunga sull’approssimazione con cui
ormai lavora la distribuzione nel nostro
Paese.
2. È
davvero difficile parlare di questo film senza raccontarne in buona parte la
trama, a dispetto di quegli analfabeti funzionali che temono lo spoiler
e che non vogliono sapere niente di come il film andrà a finire. Via con la
trama, dunque. Il “John F. Donovan” citato nel titolo del film è un divo di una
serie Tv americana di bassa lega, nonché famoso interprete di supereroi del
cinema. Il bambino Rupert, di undici anni, americano trasferitosi a Londra dopo
il divorzio della madre e il suo abbandono della carriera di attrice, è un fan appassionato di Donovan, ai limiti
del fanatismo. Un giorno gli scrive una lettera, cui il divo inaspettatamente
risponde. In forma del tutto inusuale, comincia così una fitta e corrispondenza
nascosta tra i due, durata per molti anni, che avrà importanti conseguenze per
entrambi. La storia della singolare corrispondenza epistolare è raccontata da
Rupert stesso, divenuto ormai adulto, a una giornalista di fama. Rupert infatti
è divenuto attore egli stesso e autore di un libro dove ricostruisce la vicenda
del suo rapporto con il divo Donovan. Si tratta dunque, a quanto pare, di un
vero e proprio romanzo di formazione, dallo stile piuttosto classico, seppure
ambientato ai giorni nostri. Dopo il celebre Mommy,
Dolan ci offre un’altra storia che ha come protagonista un bambino
problematico, seppure di tutt’altro genere rispetto al
precedente.
3.
Nel film, che è decisamente complesso, fino a rischiare di essere un poco
barocco, ci sono diversi piani di narrazione che si intrecciano. La storia
principale – che è il pretesto, la struttura portante che regge l’intera trama
del film – è quella di Rupert, ormai adulto che rilascia una lunga intervista
sul suo libro auto biografico, riguardante il suo giovanile rapporto epistolare
con il divo Donovan, a una giornalista dipinta come un’intellettuale impegnata,
decisamente frettolosa, distratta e poco desiderosa di condurre a termine
l’intervista assegnatale dalla redazione. La giornalista si occupa abitualmente
di questioni politiche e sociali e ritiene che la vicenda del rapporto tra il
bambino Rupert e il suo idolo costituisca poco più che una vicenda di bassi
pettegolezzi appartenente al sottobosco dello spettacolo. L’incontro tra i due è
dunque assai burrascoso. Si assiste tuttavia a una progressiva evoluzione nel
loro rapporto che conduce, da parte della giornalista, a un rovesciamento circa
la valutazione dell’importanza della vicenda. L’intervista, oltre che a fare da
supporto contenutistico al film, contiene alcuni importanti passaggi che
tendono a illustrare, quasi in modo didascalico, il senso stesso del film.
Dolan sembra insomma preoccuparsi seriamente di essere capito fino in
fondo.
Ci sono poi altre due storie, che corrispondono agli
altrettanti “mondi” che vengono messi a confronto nel film. Da una parte, il
mondo del piccolo fan, del bambino
sradicato Rupert, un mondo che coincide quasi esclusivamente con i cattivi
rapporti con la madre e con la scuola, oltre alla sua intensa e totale relazione
epistolare con il divo cui abbiamo accennato. Dall’altro lato, il mondo di John
Donovan, divo dell’intrattenimento televisivo, dapprima in ascesa e poi in
caduta libera, fino a una morte immatura - che potrebbe trattarsi, stando al
testo filmico, di incidente o di suicidio. Attorno a Donovan si srotola da un
lato un mondo familiare assai problematico e dall’altro il fatuo mondo della
produzione e del divismo. Tale è la povertà morale di quel mondo che l’unico
momento di autenticità, per Donovan, pare proprio la relazione epistolare con il
suo fan
bambino.
4. È
senz’altro un paradosso esplicitamente voluto il fatto che i due diversi mondi
della storia siano messi in comunicazione tra loro attraverso la piuttosto
obsoleta arte della scrittura. Rupert ormai adulto scrive un libro, che è in
pratica una specie di romanzo di formazione. La storia viene divulgata
attraverso la intermediazione di una giornalista, che comunque esercita l’arte
della comunicazione attraverso la scrittura. La relazione a distanza di cui si
parla, tra il bambino Rupert e Donovan, comincia con una lettera, cui fanno
seguito altre centinaia di lettere. Intorno alle lettere si sviluppa poi un
dramma: esistono davvero o il bambino Rupert si è inventato tutto? Tanto più
che lo stesso Donovan, in seguito alla diffusione della notizia circa il suo
rapporto col piccolo Rupert, per difendere la sua carriera è costretto a negare
l’esistenza delle lettere e della sua relazione epistolare . In realtà le
lettere ci sono. Sono lettere attraverso cui il divo Donovan, dapprima celebre
e poi sempre più emarginato, sempre più sul viale del tramonto, compie una
sorta di esercizio terapeutico intorno alla propria superficiale esistenza.
Lettere grazie alle quali il bambino Rupert compie il suo apprendistato
identitario e forse, ci vien lasciato intendere, compensa l’assenza del padre.
La scrittura ricompare in un’esercitazione in classe, dove Rupert cerca di
raccontare la cosa che per lui è più importante - la sua relazione con Donovan
- senza essere creduto dai compagni e dagli insegnanti. Gli unici che in un
certo senso ammettono l’esistenza delle lettere sono i compagni bulli che glie
le rubano per prenderlo in giro e torturarlo. Abbiamo poi ancora una
composizione scolastica che Rupert scrive su sua madre e che la professoressa
mostrerà alla stessa madre, determinando una qualche riconciliazione tra i due.
Un film dunque che tratta del rapporto tra un divo e un suo fan,
ma dove non lo spettacolo bensì la scrittura sembra avere un ruolo
fondamentale, insostituibile, di presentazione, di interpretazione e di
costruzione di sé.
Del resto, tutti i film di Dolan sono film in cui la
scrittura – intesa qui in senso lato come scrittura consapevole, come
letteratura - ha una parte sempre assai preponderante e in cui il giovane
regista mostra di avere un notevole retroterra culturale proprio di carattere
letterario. Un retroterra, saremmo tentati di azzardare, tipicamente europeo
(Dolan è franco canadese in termini di formazione). Anche e soprattutto nel caso
del film di cui stiamo parlando, una scrittura classica e ordinatamente composta
contribuisce a costruire dettagliatamente la trama di fondo del film stesso. Si
tratta, forse proprio per questo, di un film estremamente cerebrale dove viene
messa in campo una ingegneria un poco maniacale, sia nella definizione della
storia che nella sceneggiatura. È comprensibile che un film del genere possa non
piacere e che il giovane Dolan, da questo punto di vista, possa addirittura
apparire come il regista di un cinema dei tempi
andati.
5.
Altro tema di notevole rilievo che caratterizza le diverse storie messe in scena
nel film è quello della crisi della famiglia. È un tema che ritorna
insistentemente nei film di Dolan. La famiglia è, nella visione di Dolan,
un universo concentrazionario dove ci si trova gettati e costretti fin dalla nascita, dove ci si scontra, dove
si coltivano relazioni vuote, incomprensioni profonde. Dove si manifestano
bisogni affettivi e relazionali destinati per lo più a rimanere inespressi e o
insoddisfatti. Nel film di cui ci stiamo occupando sono esplorati in dettaglio
due travagliati rapporti tra madre figlio che sono per certi aspetti speculari,
anche se piuttosto diversi fra loro. Come se Dolan volesse avvertirci del ruolo
fondamentale del rapporto con la componente materna nella definizione di quella
che sarà la personalità maturata nella vita adulta. I padri sono per lo più
assenti, come nel caso di Rupert. Quando sono comunque presenti, come nel caso
di Donovan, svolgono un ruolo del tutto negativo. Non manifestano un briciolo di
consapevolezza delle situazioni e del loro ruolo. La famiglia di Donovan
assomiglia assai alla terribile famiglia di È
solo la fine del mondo, dove prevalgono relazioni superficiali, chiacchiere
prive di senso, senza fine, che tuttavia nascondono rapporti sempre sul punto di
sfociare nella violenza, verbale e non solo. La famiglia, per il giovane Dolan,
è il luogo in cui tutti tendono a scaricare sugli altri i fallimenti delle loro
vite. In cui tutti sono così concentrati su se stessi e sui loro problemi da
stravolgere continuamente le intenzioni altrui e da non riuscire a instaurare
alcuna relazione autentica con quelli che hanno
intorno.
6.
Abbiamo poi il motivo della relazione omosessuale. Si tratta notoriamente di un
motivo conduttore del cinema di Dolan, che tuttavia non è al centro del
contenuto di questo film. L’omosessualità compare in un paio di occasioni. Il
divo Donovan finisce per rinunciare, per opportunismo di carriera, a un amore
omosessuale. Secondariamente, solo alla fine del film, proprio nelle ultime
immagini, viene resa palese la tendenza omosessuale di Rupert, il riconoscimento
della quale rappresenta evidentemente l’ultima tappa della sua travagliata e
ormai compiuta maturazione. È questa quasi una confessione circa la
identificazione da parte dello stesso regista con la figura di Rupert. Del resto
è stata resa abbondantemente nota dalla stampa la componente autobiografica del
film: lo stesso Dolan bambino a quanto pare scrisse – senza ottenere risposta – al
suo idolo attoriale del momento, Leonardo di
Caprio.
7.
Si tratta di un film in cui – come del resto accade per gli altri film di Dolan
- il mondo intimo e relazionale viene costantemente focalizzato e messo in primo
piano. Vun mondo che viene accuratamente analizzato e mostrato senza veli in
tutta la sua problematicità. Nel corso del rapporto tra il Rupert adulto e la
giornalista – rapporto che da solo varrebbe la trama di un film - abbiamo lo
sviluppo di una notevole riflessione sulla relativa importanza delle questioni
politico sociali messe a confronto e in concorrenza con le questioni di tipo
intimo. Il tutto condito con una critica sotterranea, ma abbastanza evidente,
nei confronti di una certa intellighenzia della sinistra globale, che tende a
sottovalutare, quando non a misconoscere, l’importanza delle questioni
esistenziali, intime e personali. Se vogliamo la forza del cinema di Dolan, ma
anche una certa sua inattualità, sta proprio nella pervicacia e nella passione
con cui egli rivendica la centralità del suo principale terreno di indagine e
di espressione.
8.
Veniamo ora alla questione centrale del film. Il film non è la solita critica
nei confronti del mondo dei media, considerato come disumano, falso e
ingannatore. O meglio, la critica c’è senza dubbio ma viene svolta da un punto
di vista assai particolare. Secondo Dolan, disumano falso e ingannatore è il
mondo degli affetti e delle relazioni interpersonali in genere. Degli affetti e
delle relazioni abbiamo bisogno, ma è proprio su quel terreno che avvengono i
fallimenti più drammatici e dolorosi. Proprio lì emergono le carenze, le
insufficienze le incapacità. Il mondo dello spettacolo – con tutti i suoi limiti
- costituisce per il giovane Rupert una compensazione per l’assenza del padre e
per il cattivo rapporto con la madre. È il suo unico punto di riferimento
positivo nella sua esistenza di bambino sradicato, solitario, bullizzato dai
compagni, privo della figura paterna, in rotta con la madre e inconsapevolmente
omosessuale. Rupert è folgorato dal suo idolo televisivo che peraltro interpreta
personaggi inverosimili e recita in polpettoni di livello ultra popolare. A
Rupert potrebbe andar bene qualsiasi cosa pur di compensare le proprie mancanze
e le proprie debolezze. Scrive al
suo idolo tentando, con un foglio di carta spedito di nascosto, di togliere la
separazione, di far diventare tangibile quel mondo del tutto immaginario. Solo
per caso – grazie al dialogo instaurato con Donovan – scopre tuttavia che dietro
al mondo sfavillante dello spettacolo possono esserci grandi vuoti e grandi
amarezze. Lì però può anche nascondersi un’amicizia vera, una relazione
autentica, autenticamente “gratuita”, cioè senza secondi fini. Solo
confrontandosi con il lato inconfessabile e privato del suo attore/ eroe, Rupert
riesce a mettere insieme gli sgangherati pezzi della sua vita. Anche quando il
suo eroe massimamente lo delude. Quando, infatti, la faccenda delle lettere vien
resa pubblica e diventa quindi un pettegolezzo internazionale, Donovan, per
motivi di opportunità, negherà ogni suo coinvolgimento. Negherà di avere scritto
lettere personali a un ragazzino di dieci
anni.
L’analisi del rapporto tra il pubblico e i media che è
compiuta nel film non è dunque a senso unico. Non è il solito polpettone
ideologico che ci potremmo attendere. E questo è senz’altro uno dei suoi meriti.
È come se Dolan ci dicesse che nell’attuale deserto affettivo e relazionale,
quello prodotto nell’ambito delle agenzie formative più tradizionali, come la
famiglia e la scuola, anche il mondo dei media può giungere ad assolvere a un
paradossale compito formativo – seppure per vie davvero traverse e
imprevedibili. Due vite parallele dunque, quelle di Rupert e di Donovan – il
divo dello spettacolo e il suo fan –
i cui ruoli vengono rovesciati. Rupert bambino rappresenta il solo autentico
sfogo del disastro morale nascosto di Donovan. D’altro canto, l’eroe divo
Donovan, superficiale, pacchiano, vuoto, rappresenta l’unica consolazione per
l’oscura e triste vita di Rupert. (La madre, esasperata, a un certo punto dice a
Rupert di non pensare a Donovan e di farsi una
ragazza,…).
9.
Dolan ha una certa esperienza del mondo attoriale. Da bambino, dicono le sue
biografie, è stato uno di quei baby divi che hanno lavorato in diverse parti
minori e nella pubblicità. Nel suo film, tutti vogliono fare l’attore. La madre
di Rupert è un’attrice in decadenza. Donovan è attore dapprima celebre e poi,
via via, sempre più emarginato. Sembra, insomma, che quello dell’attore, per
quanto mestiere ambito, sia un mestiere capace di distruggere chi lo fa. Rupert
da bambino vuole fare l’attore e alla fine coronerà il suo sogno. Egli pare il
solo – avendo attraversato il calvario di formazione descritto nel film –
destinato a fare l’attore (e scrittore) il modo consapevole, in modo maturo. In
forma non auto distruttiva. Il film può essere dunque letto come una sorta di
auto purificazione (con pesanti sfondi autobiografici) da parte di chi fa un
mestiere davvero speciale e pericoloso insieme, che comporta grandi promesse a
un pubblico bisognoso di consolazione, ma che, di per sé, non contribuisce alla
maturazione morale e alla crescita personale di chi lo fa. Il mondo dello
spettacolo – ci dice Dolan indirettamente - ha un costante bisogno di mettere in
circolazione spazzatura mediatica come antidoto ai mali del mondo più vasto. Il
problema non sta nel sopprimere lo spettacolo ma sta nel costruire una
maturazione – anche dolorosa - della persona, attraverso e dentro lo spettacolo.
Un invito, insomma, a guardare a fondo dentro/ dietro al bisogno di recitare, di
raccontare storie; un invito a usare positivamente le storie per, sviluppare la
propria consapevolezza. Sia da parte di chi le storie le produce sia da parte di
chi le consuma.
10.
Si tratta dunque – detto in termini veramente sintetici - di una riflessione,
critica e autocritica, sul ruolo che hanno le storie nella costruzione delle
nostre vite. Ha scritto in proposito il filosofo Remo Bodei: «Grazie allo
sviluppo delle nuove tecnologie della comunicazione, ciascuno dispone oggi, fin
dall’infanzia, di un enorme repertorio di modelli di vita e di esperienza,
tratti da differenti culture, che ne modificano le maniere di fantasticare,
pensare e agire. Nel passato, oltre ai genitori e alla limitata cerchia dei
conoscenti, i personaggi esemplari erano relativamente pochi e circonfusi di
gloria: sovrani, condottieri, fondatori di religioni, santi, poeti, filosofi. Da
quando i modelli con cui identificarsi si sono inflazionati, popolandosi di
celebrità, la costruzione di un io autonomo, capace di inglobare l’alterità e di
arricchirsi per suo tramite, è diventata più incerta. L’identità individuale,
ibrido frutto di imitazione e d’invenzione di sé (che si orienta attraverso la
tacita domanda “chi vorrei essere?”), da un lato, si indebolisce allorché i
modelli, diventando effimeri, perdono d’autorità; dall’altro, quasi per
compensazione, esige per il soggetto maggiore visibilità e riconoscimento». E,
ancora, il filosofo aggiunge alcuni interrogativi che sembrano fatti apposta per
commentare il film di Dolan: «Ma, se ognuno è connesso ad altre esistenze e
capace di racchiuderne molte, non corre forse il rischio di perdere la propria
consistenza e di trasformare l’immaginazione, più che in un fattore di crescita,
in un trastullarsi inoperoso o, peggio, in un nocivo strumento di fuga dal mondo
e di paralisi della volontà? […] Come il fatto di immaginare altre vite può
incidere sulla politica in un periodo in cui si acuisce la percezione della
precarietà e vulnerabilità dell’esistenza e in cui si riduce la possibilità di
progettare sensatamente il futuro?». (Tratto da: Remo Bodei, Immaginare
altre vite, Feltrinelli, Milano 2013)
La risposta sta evidentemente – come suggerisce il
perspicace giovane Dolan e con il quale concordiamo perfettamente - nell’arte arcaica, e forse decisamente obsoleta, della
scrittura.
11.
Ancora qualche osservazione, dovuta al lettore per amore di completezza, sulla
fattura del film. Il film è girato – com’è solito fare Dolan - con molti primi
piani, o addirittura primissimi piani, con l’uso abbondante di effetti di luce e
sfocature. Anche se certi sperimentalismi della prima ora sembrano siano stati
un po’ relegati sullo sfondo. Abbandonati anche i primi piani sugli oggetti che,
in altri film di Dolan, assolvevano allo scopo di mettere in risalto l’universo
macchina alienato in connessione con l’alienazione dei personaggi stessi. Il
montaggio che connette le varie storie è decisamente raffinato. Va riconosciuto
tuttavia – come limite inevitabile di un’operazione di questo tipo - che il
cerebralismo della struttura complessiva e la scelta della narrazione della
vicenda tramite intervista da parte del Rupert adulto hanno avuto l’effetto di
rendere il prodotto un poco monotono, piuttosto piatto, privo di quei frizzi
visivi e narrativi a cui Dolan ci aveva abituato in alcuni (non tutti) suoi film
precedenti. Un film di meditazione dunque, dove l’esigenza del messaggio ha
forse nociuto un poco sulla felicità e l’immediatezza dell’espressione.
Il sospetto che abbiamo è che Dolan abbia provato a
uscire dalla nicchia del cinema d’autore per fare un film relativamente più
popolare, appetibile per un pubblico appena più vasto del solito. Di qui anche
l’impiego di attori di un certo peso. Se questo era l’intento, va detto che non
sembra sia del tutto riuscito. Gli attori di peso – che evitiamo qui di elencare
- non debordano più di tanto. Non ce la fanno a prendere in mano il film, ad
avere il sopravvento sui fantasmi mentali di Dolan. Si veda l’esempio della pur
brava Portman, castigata nel suo ruolo di madre fallita e financo un poco
cretina. Straordinario il Rupert bambino (interpretato da Jacob Tremblay) sia
nella scrittura del personaggio che nella recitazione del piccolo attore. Prova
ulteriore della sensibilità di Dolan per il mondo infantile e per l’universo
delle relazioni familiari elementari.
12.
Come si vede, si tratta di un film estremamente ricco dal punto di vista del
contenuto e estremamente rigoroso (forse fin troppo) sul piano formale. Ebbene,
è appena il caso di notare che il film è stato pesantemente stroncato dalla
critica, spesso con motivazioni decisamente ridicole. In rete si trova
un’abbondante rassegna di stupidaggini in proposito. L’abbiamo detto, Dolan è
senz’altro inattuale e l’inattualità si paga. Ci piacerebbe davvero che un
prossimo film di Dolan avesse come protagonista un critico cinematografico
divenuto incapace di capire i film che deve vedere tutti i giorni e messo in
procinto di suicidarsi a causa di gravi problemi non risolti nei confronti della
mamma.
Giuseppe
Rinaldi
30/06/2019