1. Il recentissimo film di Bellocchio può, per certi
aspetti, lasciare sconcertati. Per un regista così abituato a narrare storie di
carattere personale, a sfondo esistenziale, psicosociale, o addirittura
filosofico, in gran parte intessute intorno alla soggettività dei personaggi, la
scelta di un argomento che implica un confronto serrato con la storia recente
del nostro Paese, per di più con la questione della mafia e delle oscure trame
tra mafia e politica, può essere considerata alquanto azzardata e sorprendente.
A parziale correzione di questa impressione, va osservato che Bellocchio non è
nuovo ad affrontare, nella sua filmografia, temi di carattere sociale e civile,
oppure anche temi di carattere storico. Il fatto è che Bellocchio non è certo
divenuto famoso per questo aspetto della sua cinematografia, il quale aspetto ha
piuttosto sempre rappresentato un pretesto per mettere in scena quel che
decisamente gli risulta più congegnale, cioè, per l’appunto, drammi interiori,
questioni esistenziali, questioni di carattere filosofico e
psicoanalitico.
2. Ma veniamo al Traditore.
Il film è senz’altro fedele, per lo meno a grandi linee, allo sfondo storico,
sociale e cronachistico che Bellocchio ha scelto di trattare. La ricostruzione
tuttavia soffre non poco per l’omissione di taluni aspetti della carriera
criminale del mafioso pentito “don Masino” Buscetta, elementi che forse
avrebbero troppo nociuto alla costruzione del personaggio cinematografico. Del
resto il film non pretende di essere opera storiografica, cosa che si evince
anche dalla narrazione che è costantemente giocata attraverso un montaggio non
del tutto lineare, capace di svolazzare agevolmente avanti e indietro, per
aggiunte, precisazioni, chiarimenti. La cadenza del montaggio degli eventi si
adegua costantemente alle tappe della memoria personale e privata del
protagonista che, poco a poco, si riallaccia progressivamente alla cronaca
pubblica, per lo più già nota alla memoria dello spettatore, per lo meno di
quelli di una certa età. Accanto ai mafiosi resi celebri dalle cronache troviamo
il giudice Falcone, troviamo l’ineffabile Andreotti. Ci sono anche alcuni fatti
di sangue, alcuni feroci omicidi della guerra di mafia tra i Palermitani e i
Corleonesi, c’è il sanguinoso attentato a Falcone, rappresentato con una
prospettiva visiva davvero efficace. C’è un Riina davvero credibile e
iconicamente molto somigliante. Chi tuttavia si aspettasse il classico film di
mafia – come siamo stati recentemente abituati dai vari Gomorra, o dai “canari”
& Co. o, ancora, dalle varie serie televisive – potrebbe andare seriamente
deluso. E di ciò va reso merito a Bellocchio. Sullo sfondo della ricostruzione
delle vicende di mafia, quel che viene in primo piano infatti – e non poteva che
essere così in un film di Bellocchio - è la soggettività del traditore.
3. Proprio su questo terreno segnaliamo subito un
problema. Che forse costituisce il
problema del film stesso. Favino è bravissimo nella sua parte, ma, ahimè,
risulta inevitabilmente troppo simpatico, tanto da passare per il mafioso buono
contro i mafiosi cattivi, tanto da diventare una sorta di eroe
civile, tanto da far scivolare in secondo piano la stessa figura del giudice
Falcone. Sul piano dello spettacolo indubbiamente il film guadagna assai dalla
prova attoriale di Favino, a prezzo però di un qualche stravolgimento del
significato complessivo dell’analisi del fenomeno mafioso e dei servitori dello
Stato suoi antagonisti. Il Buscetta di Bellocchio ha una biografia “umana” che
si dispiega compiutamente sotto gli occhi dello spettatore, ha una vita
relazionale complessa, ha un’interiorità, ha dei dilemmi, fa delle scelte.
Sembra perfino intelligente. Appare come un uomo del popolo che si è fatto dal
niente, rischiando sempre in prima persona. È rappresentato come un uomo intriso
della cultura mafiosa classica. È, in altri termini, un uomo d’onore, seppure
vagamente anomalo in quanto preferisce, per sua stessa asserzione, futtiri
piuttosto che cummandari.
Sembrerebbe sostenitore di una certa versione romantica della mafia, che in
quegli anni veniva sempre più messa da parte dalla ferocia e dal bieco
materialismo dei corleonesi, i quali non esitavano a usare le vendette
trasversali, la lupara bianca, e a uccidere indiscriminatamente parenti e
bambini. Su questa mitologia del personaggio Buscetta, che pervade il film,
abbiamo decisamente qualche riserva. La mafia romantica, se mai c’è stata, era
da un pezzo in via di sparizione e don Masino, il boss
dei due mondi, era ben addentro al traffico internazionale di droga e ai
metodi della nuova mafia. Basterebbe ricordare che La
mafia imprenditrice di Arlacchi è del 1983 e che le trasformazioni cui si
riferisce il libro datano almeno a un decennio prima. Le disquisizioni
sull’etica mafiosa che compaiono qua e là nel film appaiono dunque alquanto
pretestuose e sovra dimensionate. La lotta tra la vecchia e la nuova mafia, per
com’è rappresentata da Bellocchio, assomiglia piuttosto al noto motivo della
distruzione del mondo arcaico a opera della modernità e dello sviluppo
economico, come era rappresentata presso certi intellettuali di sinistra degli
anni Sessanta. In realtà don Masino ha fatto anch’egli pienamente parte di
quello stesso mondo che poi, alla resa dei conti, voleva farlo fuori. Non basta
la chiusa del film (dove si vede Buscetta in veste di killer feroce, seppure
riluttante) a rimettere le cose a posto e a smontare l’eroe
civile pazientemente costruito.
4. Pare, quello di Bellocchio, un film sulla famiglia.
Proprio le relazioni interpersonali nell’ambito delle famiglie mafiose sono al
centro del film, a partire dall’iniziale rappresentazione del summit
e della festa, il rito conciliatorio di un fragile equilibrio pacifico trovato
tra le diverse famiglie siciliane prima della tempesta. Equilibrio che sarà ben
presto rotto. È questo senz’altro uno scorcio davvero efficace di vita
quotidiana della mafia. Il tema del film sembra giocato appunto intorno al
conflitto tra la famiglia mafiosa,
organizzata intorno alla brama del potere, e la famiglia
tout court, organizzata intorno al matrimonio, alla vita sessuale e alla
generazione di uno stuolo di figli. Nel momento della pacificazione sembra che
le due dimensioni possano convivere, ma nel momento dello scatenamento della
guerra di mafia (le cui motivazioni peraltro avrebbero meritato, nel testo del
film, un maggiore approfondimento) inevitabilmente la famiglia tout
court – la famiglia del protagonista – viene stritolata. La divaricazione
tra le due obbedienze – oltre a generare delitti efferati – mette costantemente
gli individui di fronte al problema della scelta e alla questione delle
alleanze. In fondo, la ragione ultima della collaborazione di Buscetta con lo
Stato non pare proprio essere stata la riscoperta di una diversa
etica civica, bensì il senso della vendetta per l’offesa alla nozione
arcaica della famiglia, per il tradimento dei legami di solidarietà tra gli
“uomini d’onore”. Allo sconfitto non resta che affidarsi a un altro potere
forte per farsi la vendetta. Insomma, una questione del tutto interna agli
sviluppi della “cultura mafiosa” in un periodo di scontri per il controllo del
territorio e degli affari. Anche l’incontro con il giudice Falcone non pare
andare più in là del rapporto tra uomini d’onore. Un rapporto tra il
servitore dello Stato, ritenuto poco affidabile dallo stesso potere politico, e
il membro della famiglia mafiosa caduto in
disgrazia.
5. Le ricostruzioni dei vari processi in cui Buscetta
ha avuto un ruolo come collaboratore di giustizia costituiscono senz’altro un
pezzo assai efficace del film. Sono ricostruzioni decisamente teatrali, con i
mafiosi, denunciati e fatti imprigionare dallo stesso Buscetta, stipati dietro
alle sbarre che si comportano come animali – la cosa è suggerita nel film anche
visivamente – urlano, imprecano, si denudano, sostengono tesi difensive
paradossali, sfruttano, secondo la loro logica, il diritto a difendersi loro
concesso dalla legge. Sembrano provenire da un altro mondo ed esibiscono una
vitalità e un’irriducibilità straordinaria. Il tutto accade di fronte a dei
giudici privi di qualunque carisma, per lo più burocratici, imbarazzati e
remissivi, che tentano invano di mantenere l’ordine, di far tacere le gabbie.
Di fronte a un folto pubblico di sostenitori che incita e appoggia gli imputati
e di fronte a degli avvocati che appaiono come tecnici senza anima, legulei
asserviti agli interessi dei loro clienti. Giudici e avvocati sono,
evidentemente, il rovescio della figura di Falcone, che ovviamente nel processo
non compare. Falcone è l’unica figura nel film che appare effettivamente degna
di rappresentare lo Stato, la qual figura tuttavia è tirata via un po’ troppo in
fretta, non riesce a brillare di luce propria, non riesce a trovare
effettivamente una propria autonoma fondazione. Forse perché troppo compressa
dall’eroe civile Buscetta.
S’intuisce che Falcone non sta tanto simpatico a Bellocchio. La freddezza tenuta
nei suoi confronti si riscatta soltanto nella sequenza – davvero efficace e
straordinaria sul piano filmico – dell’attentato e della morte del giudice e
della sua scorta. Con il seguito, davvero agghiacciante, di fronte alla notizia
dell’attentato, dei festeggiamenti e degli schiamazzi nelle patrie galere e in
tutto il mondo mafioso.
Così, sotto l’occhio imbarazzato e impotente della
Legge, i due partiti di mafia diventano i veri protagonisti nell’aula bunker.
Negli svariati confronti tra Buscetta e i suoi antagonisti mafiosi non c’è chi
vince o chi perde. Buscetta difende il
particulare della sua famiglia, dei suoi figli assassinati, del codice
d’onore arcaico tradito, mentre i suoi antagonisti difendono l’omertà e gli
interessi dell’organizzazione. Difendono la cultura del popolo
mafioso che plaude rumorosamente dal settore riservato al pubblico. Insomma,
la lotta risoluta alla mafia sembra condotta in prima persona da un pezzo della
mafia stessa, sotto gli occhi svogliati e distratti dello
Stato.
6. Veniamo così al problema fondamentale che emerge dal
film. Bellocchio, forse del tutto inavvertitamente, sembra condividere e
sostenere una concezione primitiva del
potere, di qualunque forma di potere, e cioè quello di un potere inteso
comunque e sempre come forza bruta e prevaricazione. Motori della storia e
fondamento della società sono gli istinti animali, il sesso, la violenza, il
denaro, la forza dei legami di sangue, dei legami parentali, i giochi dello
scambio e delle alleanze che, all’occorrenza, si trasformano e si sublimano nel
potere sottile e mistificatore di un Andreotti o dei politici sostenitori della
mafia, cui spesso si fa allusione nel film. Insomma, non
ci sono poteri buoni. Il potere legittimo è tale non per qualche tipo di
superiorità morale ma soltanto perché ha il monopolio della forza. Falcone non
rappresenta lo Stato in termini positivi, è anch’egli un estraneo al potere
dello Stato, è anch’egli un eroe accidentale, prodotto dalle circostanze,
proprio come Buscetta. Anche Falcone dà fastidio al potere, a quelli della sua
parte, e rischia costantemente di essere eliminato. Anche Falcone, a suo modo, è
un traditore del suo mondo. Nel
testo filmico questa tesi viene sostenuta esplicitamente. In una conversazione
tra Falcone e Buscetta, quest’ultimo afferma che si tratta solo di sapere chi dei due morirà per primo. In
effetti, tra i due sarà proprio Buscetta a farla
franca.
7. Bellocchio, cineasta senz’altro impegnato, sia sul
fronte civile sia sul fronte dell’esplorazione della problematicità
dell’esistenza, mostra qui tutta la debolezza del suo retroterra culturale
che a quanto pare – ci dispiace davvero molto ammetterlo – continua a restare
ancorato a uno schema vagamente ribellistico. Bellocchio, qui, mostra tutti i
limiti delle sue radici anarchiche e rivoluzionarie. Ci ricorda costantemente
che i rapporti tra i soggetti altro non possono essere che rapporti spietati di
potere, a loro volta inscritti nelle loro specifiche matrici sociali e
culturali. Sono i rapporti di potere che costituiscono i vari mondi che
occultamente si organizzano e si scontrano tra di loro. Non esiste ciò che è
giusto o sbagliato. Esiste solo la possibilità della ribellione, la costituzione
contro il potere di quei soggetti che, per qualche motivo, sono “venuti
storti”, si sono trovati nel posto sbagliato, nei panni sbagliati. Buscetta e
Falcone appaiono come vittime predestinate a causa della loro rivolta
individuale. O stai dalla parte del sistema, o ti ribelli a tuo rischio e
pericolo. Un amarissimo Bellocchio, forse un po’ esageratamente foucaultiano. Un
Bellocchio che non lascia intravvedere alcuna via di uscita. Nel film, la sola
giustizia che opera - e che è in grado di ottenere qualche risultato - è quella
di Buscetta, non quella dello Stato. Quella che ha effettivamente successo è una
giustizia che è altrettanto cattiva e feroce dell’ingiustizia che essa stessa
persegue, una giustizia senza formalismi, senza burocrazia, che nasce dai legami
di sangue, dall’odio e dalla vendetta, dall’esigenza di riparare a un torto
inferto a un arcaico codice di onore. Del resto uno Stato che ricorre all’uso
dei “pentiti”, chiamandoli eufemisticamente “collaboratori di giustizia”, mostra
la propria intrinseca debolezza, il proprio istinto a mercanteggiare e a
patteggiare. E questo nel film viene abbondantemente
mostrato.
8. Solo le ribellioni individuali di Buscetta e
Falcone, pur collocate su piani decisamente diversi, permettono che avvenga il processo, il confronto tra i due
mondi capovolti. La cultura dei mafiosi dietro le gabbie e la cultura dello
Stato nell’aula bunker ci vengono mostrate, entrambe nei loro limiti, entrambe
nelle loro miserie. Da un lato la selvaggia “moralità” dell’organizzazione
mafiosa, con tutti i rituali intimidatori e di auto celebrazione, dall’altro la
davvero incerta e malferma moralità dello Stato, simboleggiata da
quell’incredibile figura del giudice che non riesce a far tacere i mafiosi nelle
loro gabbie e quasi li prega di
collaborare nel condurre ordinatamente il processo. Non si può evitare di
concludere che – e forse questa è la cifra autentica del testo del film - che
tra quello Stato inerme e quegli animali dietro le sbarre si dipana la
trama di un unico eterno potere
originario che nella storia assume soltanto diverse parvenze. Certo, ha
ragione da vendere Bellocchio a sottolineare la debolezza dello Stato e le
complicità tra potere mafioso e potere politico. Si tratta di fatti storicamente
fondati e ormai dal tutto assodati. Ma l’esaltazione degli eroi individuali e la
conseguente ritrosia a stare dalla parte
dello Stato, perché lo Stato è comunque sempre sporcato dal sospetto e
dall’ombra del potere, non può che essere la logica conseguenza di una cultura
antiautoritaria coltivata fino all’estremo, fino a fare dello Stato e della
autorità uno stupido fantoccio, smarrito di fronte alle esplosioni di vitalità
che provengono dalle gabbie.
9. La visione di Bellocchio è quella stessa, ahimè, di
una generazione antiautoritaria che continua a identificarsi e a ripetersi nella
propria ribellione individuale, a coltivare il proprio senso di estraneità verso
il potere, e che tuttavia non riesce proprio a intravvedere il percorso
possibile per la costruzione di un qualche tipo di ordine
civile su cui non cali immediatamente il sospetto del malaffare, della
violenza e della repressione. Ancora una volta assistiamo dunque agli effetti di
un astratto rifiuto a “sporcarsi le mani” con la legalità. Così, detto qui
veramente per inciso, a costruire l’ordine e la legalità ci penseranno i Salvini
di turno. Si tratta dunque - questo Traditore di Bellocchio - di un film
forse davvero involontariamente
sincero. Quasi l’autobiografia di una generazione. Quasi la segnalazione di
un limite mentale e culturale divenuto ormai cronico e inemendabile. Bellocchio
sta dalla parte di Buscetta e, seppure un po’ più tiepidamente, dalla parte di
Falcone, perché sono, a loro modo, degli anomali, dei ribelli, ma non riesce
autenticamente a stare dalla parte dello Stato. In quella ben nota visione -
senz’altro fondata sul piano fattuale, ma non altrettanto sul piano morale e su
quello politico – lo Stato altro non può essere che il prolungamento di Totò
Riina. O, se si preferisce, la prosecuzione di Cosa
nostra con altri mezzi.
Giuseppe Rinaldi
06/06/2019