1. Ridendo e scherzando, è passato un anno dal 4 marzo 2018,
la data che ha visto una delle più clamorose sconfitte elettorali che la
sinistra italiana ricordi. È passato un anno e siamo ancora in attesa di
conoscere – da qualche autorevole consesso – un parere condiviso, supportato da
una puntuale analisi dei dati e da coerenti argomentazioni, che ci spieghi con
chiarezza perché abbiamo perso.
Qualcuno ritiene che ciò finalmente avverrà nel corso del prossimo Congresso
del PD, che dovrebbe – forse - aggiornare la linea del Partito e scegliere,
come segretari, tra Giachetti, Martina e Zingaretti. Noi abbiamo qualche dubbio
in proposito, ben contenti se saremo smentiti. Presumibilmente, il prossimo
congresso del PD non potrà fare altro che mettere ulteriormente in mostra il
vuoto che ha contraddistinto questo ormai lungo e inconcludente anno post 4
marzo. In più si profila all’orizzonte la possibilità che i seguaci di Renzi,
se l’esito congressuale non sarà di loro gradimento, abbandonino il partito.
Possiamo poi anche prevedere, con una probabilità molto elevata, che analogo
vuoto sarà esibito dai litigiosi cespugli che si auto collocano alla sinistra
del PD. Tutto ciò, com’è noto, avverrà in prossimità delle elezioni europee,
dove la sinistra italiana (lato sensu)
riceverà, inevitabilmente, un’altra storica batosta. Cantare sulle proprie
rovine pare sia diventata la specialità principale della nostra sinistra.
2. Di fronte a queste assurdità, l’unica domanda veramente
sensata che riusciamo a porci, da umili commentatori quali noi siamo, è la
seguente: come ha fatto la sinistra italiana a ridursi in questo stato? Se
appena si comincia a cercare, con un minimo di onestà intellettuale, una
qualche seria spiegazione ci si trova coinvolti in una catena di cause e
concause che vanno continuamente a ritroso, una catena di insufficienze, di errori,
di scelte miopi e di piccole furbizie che si rincorrono senza fine, sempre più
indietro nel tempo. Dobbiamo in effetti ammettere che un disastro così grave
non può avere un solo colpevole. Tutti, chi più chi meno, hanno dato una mano e
nessuno può sensatamente tirarsi fuori. Non ha forse più neppure alcun senso
andare a cercare di chi è precisamente
la colpa. I colpevoli sarebbero innumerevoli e ciò darebbe luogo soltanto a uno
scarica barile di proporzioni ciclopiche. Si tratta allora, assai più
minimalmente, di cercare di capire cosa è
davvero successo. Perché forse non lo abbiamo mai veramente capito. Solo una
visione complessiva della storia recente, e meno recente, della sinistra
italiana può farci comprendere dove abbiamo sbagliato e se esiste ancora una
strada, o almeno un sentiero, un viottolo, magari accidentato, per uscire dal
pantano in cui siamo immersi. O se invece la sinistra italiana non farebbe bene
a esporre in vetrina un bel cartello con su scritto: «Chiuso per esaurimento».
3. Il punto da cui occorre partire si colloca, a nostro
modesto avviso, effettivamente piuttosto indietro nel tempo. Si tratta di
riandare - visto che cominciamo a disporre ormai di ampie e documentate
ricostruzioni storiche - alla costitutiva
anomalia del sistema politico italiano della Prima repubblica, quella pesante
anomalia dovuta alla Guerra fredda. In quei lontani frangenti, i due principali
partiti italiani (DC e PCI) non ebbero in realtà alcuna effettiva autonomia. Furono
a lungo supportati e finanziati da potenze straniere nei confronti delle quali
essi furono poi del tutto dipendenti, soprattutto per quel che concerne le
scelte politiche di fondo. Grazie alla sudditanza ai due Blocchi dei due
principali partiti, le scelte politiche di fondo del nostro Paese furono
costantemente limitate e condizionate da pressioni e interventi di vario genere,
leciti e, soprattutto, illeciti. Notoriamente, vigeva un patto implicito che
impediva al PCI, il principale partito di opposizione, di andare al governo.
In questa situazione –
che caratterizzò l’intera Prima repubblica – venne a determinarsi quella Repubblica dei partiti – com’è stata acutamente
definita da Scoppola – che conferì ai due principali partiti (DC e PCI), nei
limiti dei ruoli loro assegnati dal contesto internazionale, una vera e propria
egemonia organizzativa e culturale sui loro corrispondenti blocchi sociali.
Andando un po’ oltre Scoppola, bisogna tuttavia oggi riconoscere – gli studi storici
ormai vanno in questa direzione – che tra questi due blocchi sociali fu a lungo
in corso una vera e propria guerra civile
fredda[1] (che talvolta divenne anche calda). Insomma, la spaccatura del
mondo nei due blocchi aveva un immediato corrispettivo nella spaccatura (per
semplificare) in due blocchi della stessa società italiana, due blocchi
egemonizzati da due partiti interni che erano la longa manus delle potenze della Guerra fredda.
4. Com’è noto, nel corso della Prima repubblica, questa
situazione bloccata manifestò qualche elemento di evoluzione in due principali
occasioni: prima con il centro sinistra
e poi con il compromesso storico.
Entrambi questi tentativi di sblocco del sistema politico italiano però
fallirono miseramente a causa di un coacervo di forze e pressioni interne e
internazionali che vi si oppose strenuamente. La particolare collocazione e
sudditanza dell’Italia non permetteva colpi di testa.
Il centro sinistra fallì essenzialmente – a parte le pressioni
internazionali negative e le relative manovre occulte interne – a causa della
situazione anomala della sinistra italiana stessa. Il principale partito della
sinistra italiana, quello che numericamente avrebbe potuto assicurare l’alternanza,
era esplicitamente filosovietico e dunque non candidabile a una posizione di
governo. La famiglia socialista italiana – pur essendo dotata di una
rispettabile tradizione – ha sempre avuto, a partire dal secondo dopoguerra, un
peso esiguo e, soprattutto, ha sempre
avuto innumerevoli divisioni interne.[2]
Il centro sinistra (sviluppatosi a partire dal 1964, a ricostruzione appena
compiuta) nonostante una timida attività riformatrice non è stato in grado di
sbloccare la situazione politica del Paese e ha comunque fatto segnare forti
opposizioni e resistenze da parte di coloro che difendevano l’assetto reale dei
due Blocchi. Ha in sostanza lasciato incancrenire i gravi problemi della
società italiana, tanto che nel Sessantotto i diversi movimenti di protesta
hanno avuto ampio terreno per dilagare in lungo e in largo, senza che fosse
prospettata alcuna soluzione politica.
Il compromesso storico, proposto da Berlinguer nel 1973, in sintonia
con la strategia dell’attenzione di
Aldo Moro, avrebbe dovuto comportare, andando oltre il timido e irresoluto
centro sinistra, un graduale ingresso del PCI nell’area di governo, fino alla
realizzazione di una vera e propria alternanza
tra la destra e la sinistra. Al compromesso storico si opposero strenuamente
sia il Blocco atlantico più retrivo sia il Blocco sovietico, con i relativi
agganci interni delle due forze. L’opposizione più violenta al compromesso
storico e all’alternanza tra destra e sinistra in Italia fu realizzata, grazie
anche a pesanti condizionamenti internazionali leciti e meno leciti, attraverso
quella che chiamiamo oggi strategia della
tensione e attraverso l’assassinio di
Aldo Moro (che nella DC era uno dei principali artefici dell’apertura verso
il PCI).[3] La morte precoce di Berlinguer nel 1984 finì per chiudere del tutto
ogni ulteriore sviluppo di un compromesso storico.
5. Falliti questi due progetti di normalizzazione del sistema
politico, si aprì un lungo periodo di ulteriore blocco del sistema che perdurò
in pratica fino alla fine della Guerra fredda. Un lungo decennio di messa in
mora di ogni cambiamento che ebbe l’effetto di logorare gli stessi due
principali partiti che erano i gestori interni della Guerra fredda. Tutto ciò
ebbe anche l’effetto di logorare i partiti della famiglia socialista e il PSI
in primo luogo, anche se quest’ultimo riuscirà a conquistare una certa
posizione di potere all’interno del pentapartito.[4]
È il caso di ricordare che il PSI di Craxi si era opposto fermamente al
compromesso storico per motivazioni assolutamente particolaristiche e cioè per
il fatto che un allargamento dell’area di governo al PCI avrebbe reso il PSI
meno rilevante. Val la pena di prendere atto dunque che per tutto il periodo
della Prima repubblica la sinistra fu
profondamente divisa e sicuramente non per motivazioni ideali. Ulteriori
divisioni furono indotte dagli eventi del Sessantotto che istituirono un
ulteriore fronte di conflitto tra le sinistre ufficiali e le formazioni
politiche extra parlamentari che nacquero dai movimenti stessi.
6. In generale, possiamo oggi asserire che il sistema dei
partiti italiani della Prima repubblica, anziché reagire all’anomalia della
Guerra fredda – che in Italia produceva un’anomalia anche e soprattutto in
termini di effettiva democrazia – ha prevalentemente cercato i suoi adattamenti
di comodo, mirando a massimizzare le chance
che la situazione offriva di volta in volta. I partiti, cioè, hanno
principalmente cercato di sfruttare la situazione anomala dell’Italia per i
loro tornaconti immediati, invece di
cercare di cambiarla e di normalizzarla. Questi partiti, insomma, hanno sempre
fatto i loro precipui interessi invece degli interessi generali del Paese
stesso. Hanno sempre di fatto occupato le
istituzioni anziché identificarsi con le istituzioni stesse. Forse può
essere ingenuo chiedere alla politica di fare anzitutto gli interessi del
Paese, tuttavia questa corta veduta della nostra politica ha finito per dare
anzitempo l’avvio al degrado della
politica stessa, quel degrado che apparirà sempre più evidente nelle decadi
successive, in seguito al progressivo venir meno delle sovrastrutture
ideologiche. Questa situazione ha contribuito a minare pesantemente il
prestigio delle istituzioni e il senso dell’unità nazionale del nostro Paese,
situazione della quale si prese finalmente coscienza negli anni Novanta, nell’ambito
del dibattito sulla carenza della cultura civica degli italiani. Si trattò
tuttavia di una presa di coscienza del tutto teorica che non ebbe alcun effetto
in campo pratico. Insomma, in una prima approssimazione, possiamo affermare che
il degrado della politica e delle istituzioni, nel nostro Paese, viene davvero
da lontano.
7. La rivoluzione internazionale del 1989-1994, con la fine
del comunismo a Est e della Guerra fredda, comportò finalmente, per l’Italia,
un rivolgimento di quella situazione di sudditanza che si era ormai
incancrenita e che perdurava da decenni. In questa nuova situazione
cominciarono a crollare uno dopo l’altro i vecchi castelli del sistema
politico. A partire dal 1992, attraverso i fatti di tangentopoli, ampiamente diffusi dalle cronache del tempo, gli
italiani scoprirono retrospettivamente tutte le forme improprie attraverso le
quali il mondo della politica aveva messo le mani sul Paese nei decenni
precedenti e aveva gestito la cosa pubblica nell’interesse semi privato dei
partiti stessi. Gli italiani scoprirono di essere stati mobilitati per decenni
in una guerra civile fredda che li
riguardava ben poco e, in cambio, di essere stati a lungo espropriati di un’effettiva
politica democratica. La politica si era preso tutto e a loro era rimasto un
pugno di mosche. In breve tempo, cominciarono a frantumarsi anche i blocchi
politico sociali che avevano a lungo ingessato il Paese. Venne meno il legame
organico della Chiesa con la DC e venne meno il legame organico della sinistra
con gli intellettuali di orientamento marxista. Con il crollo dell’Unione
Sovietica e con la fine della Guerra fredda, nella sinistra italiana si ebbe il
crollo politico del PCI, più o meno nello stesso tempo in cui avveniva il
crollo giudiziario del PSI e di buona parte della DC. La formazione del PDS,
sofferta e invero poco consapevole della svolta storica che si stava
determinando, successore ed erede del PCI, è del 1991. [5]
8. Dopo decenni di ripetizione seppur con qualche variazione
dello stesso schema, nel panorama politico italiano si ebbe così la prima ondata di cambiamento post guerra
civile fredda. Si ebbe con ciò la comparsa del tutto inaspettata di due nuove
forze e/o culture politiche che purtroppo non furono adeguatamente capite e
interpretate dalla sinistra stessa. Da un lato Forza Italia che fu, di fatto,
cosa allora poco riconosciuta, il partito
dei vincitori della Guerra fredda (tanto che Berlusconi continuò a usare a
lungo con successo gli slogan anticomunisti, anche quando di comunismo non c’era
neppur più l’ombra). Fu il primo partito a mettere da parte consapevolmente il linguaggio
ideologico alquanto teatrale dei decenni precedenti e a presentarsi con una
parvenza di pragmatismo. La seconda nuova cultura politica fu quella degli
orfani dell’ideologia, di coloro che si apprestavano ad abbandonare tutti gli
universalismi, compreso quello della
nazione, per concentrarsi sulla micro ideologia della comunità, definita in termini etnici, tanto da far parlare di etno-democrazia. Si ebbe così l’inaspettato
boom della cultura politica separatista della Lega Nord.
9. È davvero significativo, col senno di poi, il fatto che,
almeno alle origini, queste due nuove culture politiche ebbero una spiccata
impronta antipolitica. La fine della
Guerra fredda in Italia aveva, infatti, aperto uno spazio immenso al rifiuto della politica, quella che aveva
gestito il Paese nel precedente lungo periodo di sudditanza internazionale e di
esproprio della democrazia. Insomma, nel 1989-1994 la rivoluzione vera la
fecero Bossi e Berlusconi. L’avvento di queste due nuove culture politiche, con
la loro componente di rottura antipolitica, non fu assolutamente capito dalla
sinistra - o da quel che ne rimaneva – tanto che essa cominciò a subire,
progressivamente, una disarticolazione progressiva sul territorio e enormi
salassi elettorali. Le masse popolari bianche e rosse, che erano rimaste
stabili per decenni, cominciarono così a trasferirsi nelle nuove dimore
politiche. Gli operai del Nord cominciarono a votare per la Lega Nord. Si ebbe
anche un’accentuazione della territorializzazione
della politica. Lo squilibrio tra Nord e Sud, che era un’eredità ben precedente
alla Guerra fredda, ma che durante la Guerra fredda era stato tacitato e
utilizzato per garantire la stabilità, divenne drammaticamente divisivo e la sinistra – tendenzialmente
sempre più territorialmente concentrata nel Centro Italia e nelle altre
limitate “zone rosse” – non seppe adeguarsi alla situazione. Val la pena di
ricordare che le proposte di dare alla sinistra una struttura federale (venute ad esempio da parte di Cacciari) non
furono neppure ascoltate.
Le due nuove culture
politiche post Guerra fredda – nonostante la loro notevole diversità – non
tardarono ad allearsi tra loro e a trovare anche una ulteriore sponda nella nuova destra, ormai liberata anch’essa
dalla esclusione antifascista e così
abilitata a rientrare esplicitamente nel gioco. In questo modo, Forza Italia,
Lega Nord e nuova Destra, pur essendo forze del tutto nuove, diverse tra loro e
talvolta improvvisate, riuscirono a egemonizzare i primi due decenni post
Guerra fredda. L’elenco dei governi di centro destra che si sono succeduti è
impietoso: Berlusconi 1 (1994), Berlusconi 2 (2001-2005), Berlusconi 3
(2005-2006) e Berlusconi 4 (2008-2011). Dopo il Berlusconi 1 c’era già tutto il
tempo per capire quel che stava succedendo e per correre ai ripari.
10. L’aspetto più drammatico di quel periodo è costituito dalle
esili contro mosse dei perdenti della
Guerra fredda. Le forze laiche e progressiste non socialcomuniste – quelle
che maggiormente erano state stritolate proprio dalla Guerra fredda - cercarono
di esprimere una loro voce, ma rimasero sempre divise e con scarso seguito nel
Paese. Il precedente esproprio di sovranità del Paese, la mancanza di
alternanza politica, il discredito delle istituzioni, la scarsa cultura civica
del Paese stesso e le persistenze ideologiche non consentirono lo sviluppo di
una normale cultura politica laica,
progressista e riformista. Andrebbero registrati, in questo campo, i
tentativi dei Radicali, della Rete, dell’Italia dei valori e di alcuni vivaci
gruppi referendari, che tuttavia non riuscirono mai a trasformarsi in forze
generaliste, non divennero mai maggioranza e furono di fatto confinati a
svolgere un ruolo marginale - nonostante anche alcuni momentanei successi, come
nel caso di alcuni referendum. Nonostante la buona volontà, non si improvvisa
una cultura civica che non ha effettivi riscontri nel Paese. Le iniezioni di
cultura laico repubblicana, che pure ci furono, finirono soltanto per aumentare
la frammentazione e non riuscirono a coagulare alcunché di veramente nuovo e
stabile. Dal canto loro, i due maggiori ex-partiti della Guerra fredda,
piuttosto accecati dal loro passato ideologico, andarono soggetti a processi di
decomposizione e riaggregazione che diedero luogo a un fronte d’opposizione
assai instabile, diviso e litigioso.
11. Come fu organizzata, da parte dei perdenti, la resistenza
nei confronti dei vincitori della Guerra fredda? Dopo il primo exploit di Berlusconi nel 1994, tra il
1995 e il 2007 fu promosso il cartello elettorale dell’Ulivo, sospinto anche
dal maggioritario introdotto dal mattarellum
del 1993. In effetti, la nuova legge elettorale avrebbe dovuto spingere il
sistema verso una sorta di bipolarismo. Lo scopo dell’Ulivo era quello di
unire, sotto una unica bandiera, le forze riformiste del centro sinistra – che
altrimenti non avrebbero avuto alcuna possibilità di contrapporsi al nuovo
centro destra. Il cartello tuttavia fu promosso soprattutto dall’esigenza di contrapporsi ai successi del
centro destra, più che da una qualche affinità politico culturale interna.
Si trattò dunque di un’unità contro,
piuttosto che di un’unità per. In
effetti, le sigle politiche e le rispettive culture politiche che, nel corso
del tempo, pur con tormentate aggregazioni e disaggregazioni, si sono
identificate con l’Ulivo sono numerosissime, più di una ventina di cespugli e
cespuglietti (si veda la voce su Wikipedia che ne presenta l’elenco
dettagliato). In gran parte si trattava di gruppetti particolaristici che
promuovevano le carriere politiche di singoli personaggi o gruppi d’interessi
ma che non avevano un vero radicamento territoriale e una qualche prospettiva
universalistica di cultura politica. La sinistra continuava cioè a ragionare
secondo gli schemi del proporzionale: ciascuno poteva sperare di diventare indispensabile nella coalizione,
anche con percentuale irrisoria di voti, purché fosse in grado di inventarsi
una propria narrazione. Per cui l’imperativo era quello di coltivare fino in fondo la propria diversità e poi di contrattare,
con il resto del mondo, il piccolo patrimonio acquisito. La conseguenza di
questo andazzo fu che le maggioranze di governo della sinistra, quando c’erano,
furono sempre traballanti, sempre esposte ai cambiamenti di umore dei capetti
di turno. In questo modo lo spettro delle culture politiche tendeva ad
allargarsi, senza tuttavia procedere ad
alcuna sostantiva integrazione. Del resto gli intellettuali militanti erano
ormai passati di moda. Come segnala burocraticamente Wikipedia: «Così per la
prima volta in Italia si creava un unico blocco che oltre ai tradizionali eredi
delle culture socialista, socialdemocratica, cattolico-popolare e liberale,
coinvolgeva anche i post-comunisti e gli ambientalisti».[6] Chi più ne ha, più
ne metta.
12. È accaduto spesso – e accade tuttora - che il cartello dell’Ulivo
fosse mitizzato ed esaltato. Visti forse i disastri sopravvenuti nel periodo successivo.
Il ché è dovuto soprattutto ad alcune relativamente buone prestazioni elettorali, cui tuttavia corrispose, purtroppo,
una assai limitata capacità di governo.
Visto col senno di poi, in prospettiva storica, l’Ulivo fu la migliore
testimonianza dell’incapacità del riformismo italiano post Guerra fredda di
dare vita a una cultura politica unitaria, consapevole, stabile, radicata,
capace di contrastare efficacemente le nuove forze concorrenti. Per fare con
successo un’aggregazione di centro destra, bastava in effetti seguire l’andazzo
globale e il gioco era fatto. Per fare un nuovo centro sinistra riformista
bisognava metterci quel qualcosa in più che invece è sempre mancato o che –
quando c’era – è stato sistematicamente marginalizzato e boicottato. La Prima
Repubblica aveva davvero fatto scuola: la fedeltà alla propria parte, grande o
piccola che fosse, quand’anche fosse di matrice straniera, non poteva che
venire prima di qualsiasi interesse comune. Inoltre, anche gli impresentabili,
pur di far numero, andavano bene e venivano accolti e mandati avanti.
13. Non crediamo che la nostra sia una valutazione
esageratamente pessimistica, come sarà invece forse parsa ai nostri dieci
lettori. Uno sguardo empirico ai governi dell’Ulivo, col senno di poi, mostra
un panorama davvero straordinario d’improvvisazione, superficialità,
personalismi e particolarismi. Dal 1996 al 2001, in seguito a una risicata
vittoria elettorale dell’Ulivo, si succedettero piuttosto confusamente ben
quattro governi (Prodi I, D’Alema I, D’Alema II e Amato II). Il governo Prodi I
cadde per il ritiro dell’appoggio esterno da parte di Rifondazione comunista
(che per conseguenza si spaccò a sua volta). Il governo D’Alema I finì per
rimpasti interni, mentre il successivo D’Alema II cadde per le dimissioni da
parte dello stesso D’Alema in seguito alla sconfitta elettorale alle elezioni
amministrative. Amato II si ritirò per fine legislatura e successiva sconfitta
elettorale.
Dopo la non brillante
prestazione complessiva del primo Ulivo e dopo il Berlusconi II, si ebbe
nuovamente un governo ulivista con il Prodi II (2006-2008). Wikipedia osserva
che questo: «Fu il primo governo repubblicano a vedere la partecipazione
diretta dei partiti Rifondazione Comunista e Radicali Italiani, divenendo così
l’unico governo della cosiddetta Seconda Repubblica sostenuto dall’intera
sinistra parlamentare». Il problema fu che, poiché dentro c’erano tutti, tutti
volevano contare e tutti tendevano a debordare. Prodi, che non aveva un partito
suo che lo sostenesse, fu in pratica l’ostaggio dei suoi ministri che dicevano
e facevano quel che volevano. Il governo fu praticamente affossato dalla
defezione dell’UDEUR di Mastella. In quella occasione passò alla storia il
famoso senatore Turigliatto, che votò contro il governo “da sinistra”.
14. L’esperienza di governo dell’Ulivo – l’abbiamo già
osservato - è stata spesso sopravvalutata.
In realtà spesso l’Ulivo si limitò per lo più a porre rimedio ad alcuni
specifici disastri dei governi di centro destra e poi a mostrare una
sorprendente conflittualità interna attorno ai pochi progetti di riforma che
furono poi effettivamente portati avanti. Un’analoga tendenza a lavorare per tappare le falle lasciate
in campo dal centro destra si ripresenterà poi con il governo Monti (2011-2013)
sostenuto anche dal centro sinistra. Ci si dimentica troppo facilmente del
fatto che la costituzione del PD (avvenuta il 14 ottobre 2007) era stata
promossa proprio a partire dalla estrema debolezza mostrata dall’opposizione
dell’Ulivo nei confronti del centro destra. Il PD, nelle migliori intenzioni,
avrebbe dovuto costituire il superamento
dell’Ulivo, dell’accozzaglia litigiosa e piena di particolarismi, e avrebbe
dovuto costituire il nuovo partito
organico dei riformisti di centro sinistra. Avrebbe dovuto dunque essere un
partito aperto, attrattivo, in grado di federare tutti i progressisti e, con
ciò, di consolidare e accrescere la forza dispersa del centro sinistra. Si
trattava di un progetto nuovo, per il quale occorrevano, in effetti, idee
nuove. Si trattava di fondare finalmente una nuova prospettiva riformista
unitaria di sinistra.
15. La casa dei nuovi riformisti progressisti non poteva più
ovviamente – nella specifica situazione italiana – andare a riprendere le fila
della famiglia socialista, la quale si era suicidata al tempo di Craxi. Del
resto quella socialista era soltanto una delle culture politiche preesistenti
che avrebbero dovuto confluire nel PD. Si ebbe così la tentazione di
sperimentare il modello veltroniano
americano. Il nuovo partito democratico fu concepito per certi aspetti sul
modello dei democratici americani, il
partito dell’asinello. Tale era la miopia post ideologica che, piuttosto di
guardare alla tradizione liberaldemocratica di casa nostra (ciò avrebbe
significato dare qualche sostantivo attestato di riconoscimento alle tradizioni
dei radicali, repubblicani, azionisti, ambientalisti, ma anche a esperienze
come La rete o l’Italia dei valori), si preferì importare, forse in termini un
po’ modaioli e retorici, una tradizione piuttosto lontana che si dimostrò, alla
prova dei fatti, davvero dura da digerire. Ancora oggi il PD non ha digerito le primarie, che pure in USA funzionano
benissimo e nessuno lì si sogna di cambiarle. La stessa indigeribilità si è
manifestata per il partito leggero,
il partito che non possiede una sua macchina organizzativa stabile e che si
mobilita soltanto in occasione delle scadenze elettorali. Si pensava che il
partito leggero potesse essere la risposta di sinistra al partito azienda di Berlusconi, ma le cose non funzionarono più di
tanto.
16. Questo non significa che il progetto veltroniano fosse in
sé del tutto fuori luogo: si doveva tuttavia avere la consapevolezza che una
trasformazione così profonda doveva essere accompagnata da una operazione di
cambiamento politico - culturale di grande portata. Scriveva Giorgio Ruffolo,
non certo un’estremista, due o tre anni dopo la fondazione del PD, già nel
2010: «Il nobile e ambizioso proposito di realizzare la
confluenza in una nuova forza politica di due grandi correnti sociali, una
sinistra laica e una sinistra cattolica, avrebbe richiesto la elaborazione di
un progetto di società come fondamento ideologico del nuovo partito. […] Ora,
non si ha neppure la minima traccia, nella breve e tormentata vita del Partito
democratico, di un investimento culturale e politico inteso a costruire una
ideologia moderna, una proposta di società, un progetto di riforme economiche,
istituzionali e sociali capace di concretarla. Niente di tutto questo. Al suo
posto c’è una azione incapace di allargare il nostro spazio politico angusto
proponendo temi; un’azione intenta soltanto a contrastare o a emendare le
iniziative della parte avversa, restringendo la propria strategia politica alla
scelta contingente delle alleanze. Non si discute su che cosa ci si deve
impegnare, ma con chi bisogna stare. Ora mi chiedo: c’è da stupirsi se la gente
non si appassiona alle vicende del Partito democratico? Se perde consensi e
simpatie?».[7]
Presto la questione
delle alleanze cui accenna Ruffolo, si trasformò in un lungo ed estenuante
conflitto tra le correnti interne. Il nuovo partito era così leggero che
ciascuno pensò bene di prendersene un pezzo da adoperare per il proprio uso e
consumo. Ben presto nel PD ciascuno pensò a costruire la propria corrente e a
usarla contro le altre. La tormentata vita interna del PD della XVII
legislatura terminerà, com’è noto, con la scissione di LeU, dopo anni continui
di scontri su qualsiasi decisione si dovesse prendere. Del resto, il compito
principale del prossimo Congresso sembra ancora finalizzato a tenere insieme i pezzi e a marcare i
distinguo con i nemici giurati.
17. Al di là dei difetti costitutivi originari, vediamo ora qualcosa
in più sull’effettivo rendimento politico del PD. L’Ulivo raffazzonato di cui
abbiamo detto – quello che si era dimostrato poi nei fatti poco capace di governare – sul piano elettorale aveva avuto alcuni
momenti di gloria con il 42,2% nel 1996 (con oltre 15,5 milioni di voti) e con
il 43,7% nel 2001 (con 16 milioni di voti). È appena il caso di ricordare che,
nonostante l’elevato numero di voti raccolti, nel 2001 l’Ulivo fu comunque sconfitto
elettoralmente. Fu proprio il 2 febbraio del 2002 che si ebbe la famosa uscita
di Nanni Moretti: «Con questi dirigenti non vinceremo mai!». Moretti, già
allora, aveva espresso un sentire comune assai diffuso nei confronti dell’Ulivo,
proprio quel sentire comune che avrebbe condotto, qualche anno dopo, alla
fondazione del PD. Ebbene, se diamo ora un’occhiata alle prestazioni elettorali
del nuovo PD c’è di che rimanere esterrefatti. Esaminando l’andamento
elettorale, abbiamo il 33,18% alla Camera nel 2008 (12 milioni di voti, con
Veltroni in segreteria), il 25,42% alla Camera nel 2013 (8,5 milioni di voti,
con Bersani in segreteria), 18,76% alla Camera nel 2018 (6 milioni di voti, con
Renzi in segreteria). Gli ultimi sondaggi del 2019 sono ancora più ingenerosi,
poiché attestano il PD mediamente intorno al 15%. Insomma, in dieci anni di attività il PD ha perso la metà dei propri elettori. Se
si prendono in considerazione i migliori risultati dell’Ulivo, il PD odierno ha perso quasi due terzi degli elettori
dell’Ulivo.
Questo sconcertante trend negativo dovrebbe preoccupare alquanto
gli esponenti del PD, dai capi corrente ai semplici iscritti, dai grandi
signori delle tessere agli ultimi peones
delle poche sezioni rimaste ancora in piedi. Dovrebbe suscitare qualche domanda
di ben più ampia portata, rispetto a chiedersi se è meglio la mozione di Giachetti,
di Martina o di Zingaretti. Il problema, a quanto pare, non è neppure e soltanto
di spiegare perché il PD ha perso il
referendum o perché ha perso le elezioni del 2018 (domande cui peraltro cui non
è ancora stata data alcuna seria risposta). Il problema vero, a quanto pare, è quello di
comprendere che fine ha fatto il progetto
originario del PD, ammesso che qualcuno se lo ricordi ancora. Se si
guardano le cose in prospettiva storica, come abbiamo cercato di fare, dovrebbe
essere evidente che il progetto di cui si erano fatti promotori Romano Prodi e Michele
Salvati, il progetto di una casa inclusiva
dei riformatori della sinistra è oggi fallito miseramente. Senza appello.
18. Anche qui, il nostro giudizio potrebbe apparire forse
troppo drastico. Ma vediamo. Abbiamo osservato che nel 1994 le sinistre non avevano
capito nulla della prima ondata delle
nuove culture politiche post Guerra fredda e avevano risposto con il timido e
scombinato Ulivo. A partire dal 2008, e soprattutto nel periodo 2013 – 2018, purtroppo
non hanno capito nulla (qui il soggetto è costituito dal PD e dai vari cespugli
alla sua sinistra) della seconda ondata
delle nuove culture politiche post Guerra fredda. Si trattava – si badi bene - di
un’ondata ben diversa, un’ondata questa volta anti liberista e anti
globalizzazione, protezionista e sovranista, tanto che la Lega di Bossi è
sparita (il partito di Salvini è molto diverso dalla vecchia Lega Nord) e il liberista Berlusconi sta oggi all’opposizione,
ridotto ai minimi termini. Forse l’unico elemento effettivo di continuità è
stato quello della antipolitica. In
particolare, il PD – quello che voleva «smacchiare il giaguaro» - non ha capito
nulla del M5S che, per tutta la XVII legislatura, ha proliferato proprio grazie
alla superficialità, alle insufficienze e agli errori dei governi guidati dal PD
stesso. Osservammo lo scorso anno, all’indomani della sconfitta del 4 marzo,
che di fronte alla nuova situazione la sola opportunità di sopravvivenza
politica per il PD sarebbe stata quella di entrare subito a costituire un
governo proprio con il M5S. Oggi, al posto della Lega di Salvini, al governo con
il M5S ci sarebbe il PD. Chi aveva fatto il Patto del Nazareno con Berlusconi non
avrebbe dovuto fare troppo lo schizzinoso di fronte a un patto con il M5S. Il
M5S a tutt’oggi sta ingoiando qualsiasi cosa pur di continuare a stare al
governo e avrebbe ingoiato qualsiasi cosa anche pur di stare al governo con il
PD. Si è trattato di un’occasione irripetibile, perché oggi il M5S non è più esattamente
quello di un anno fa.
Insomma, per chiudere il
nostro ragionamento, le sinistre nel nostro Paese, in un periodo lungo di trent’anni,
sono riuscite a non capire tutte e due le nuove ondate politiche della post
Guerra fredda e, di conseguenza, ridendo e scherzando, sono riuscite a farsi ridurre
ai minimi termini sul piano elettorale.
19. Al di là delle specifiche vicende, l’esperienza degli
ultimi governi del PD suscita una domanda di ordine generale che val la pena di
porsi. Perché il riformismo di sinistra sembra oggi diventato impossibile?
Perché ogni progetto di riforma incontra ampie schiere di oppositori e
detrattori, interni ed esterni, che riescono in pratica a bloccare tutto?
Perché le riforme hanno l’effetto principale di fare arrabbiare ampie schiere
di elettori? Perché il riformismo non paga sul piano elettorale? Perché certe
riforme le fanno invece (magari a modo loro) i partiti di centro destra, con
gli applausi corali? Perché i gialloverdi hanno vinto le elezioni con un
programma incentrato quasi esclusivamente intorno allo smontaggio delle “riforme”
fatte dal centro sinistra?
A queste domande sono
possibili, in linea di principio, due tipi di risposte di fondo: a) è avvenuto
nella società e nella politica odierne un qualche cambiamento epocale per cui
il riformismo oggi non è più seriamente praticabile; oppure, b) quello che è
stato messo in cantiere nelle ultime tornate nelle quali la sinistra ha
governato non era un autentico riformismo. O, se si vuole, non era il
riformismo che sarebbe stato necessario, che avrebbe invece avuto successo.
Entrambe le due interpretazioni hanno qualche elemento di plausibilità e, proprio
per questo, la questione richiederebbe di essere esaminata assai attentamente,
ben oltre questo nostro breve articolo.
20. Se si propende per la soluzione a) bisognerebbe anzitutto
spiegare bene in cosa consisterebbe la svolta epocale che avrebbe determinato
la nuova situazione, che avrebbe cioè reso impossibile il riformismo. Ciò
dovrebbe valere per l’Italia ma anche per le altre democrazie occidentali. Le
teorie in merito sono numerose. Ad esempio, a sentire taluni, sarebbe cambiato
il rapporto tra le élite e le masse - come sostiene Baricco - e questo
cambiamento sarebbe dovuto soprattutto all’introduzione delle nuove tecnologie.
Le masse oggi tendono a contestare tutto quello che viene dalle élite, riforme
comprese. Oppure, si potrebbe sostenere che il populismo abbia reso impossibile
qualunque tipo di riforma organica, poiché le mobilitazioni del popolo sono del
tutto caotiche e imprevedibili e i leader non possono che seguire gli umori estemporanei
del popolo. Se non lo fanno, perdono. Oppure, ancora, si può sostenere che nell’epoca
della postverità qualunque politica riformista seria può essere facilmente
demolita dagli avversari a colpi di tweet
e di bufale. La questione è complessa e
non si può qui affrontare in poche righe. Chi però vuol continuare ancora a fare
il riformista, qualche idea in proposito ce la dovrebbe avere. In ogni caso, se questa fosse la soluzione, se
il riformismo oggi fosse diventato strutturalmente impossibile, allora il PD (e
il suo progetto originario) sarebbe soltanto un anacronismo e di ciò bisognerebbe prendere atto.
21. Se si propende invece per la soluzione b) allora la
prosecuzione di una esperienza politica riformista come quella del PD potrebbe
avere un senso solo a costo di una spregiudicata riflessione su quale debba
essere il senso odierno di una politica
riformista e, in conseguenza, di una profonda
autocritica per il mancato, insufficiente o errato riformismo finora
realizzato. Tutto ciò dovrebbe implicare una profonda innovazione nei termini della propria cultura politica. Bisognerebbe
cioè costruire finalmente quella visione
della cui mancanza si lamentava già Ruffolo nel 2010.
Non pare proprio che i
tre candidati alla segreteria nell’attuale dibattito congressuale del PD stiano
affrontando questi problemi. Nei documenti delle tre mozioni non compare alcuna
lucida retrospettiva storica, non compare alcuna seria spiegazione delle
ragioni delle sconfitte, non compare alcuna articolata delineazione di un nuovo
modello di riformismo capace di risalire la china e di un nuovo modello di
partito capace di praticarlo con successo. Accanto, sparpagliati qua e là,
compaiono continue invocazioni all’ottimismo e disordinati elenchi di vaghi
obiettivi. Nel suo libro recente,[8] Renzi a tutte queste questioni dà
spiegazioni invero frammentarie e poco soddisfacenti: sostiene che il suo
governo è stato effettivamente riformista, che ha compiuto numerose e buone
riforme, ma che i suoi risultati sono stati oscurati dalle fake-news e, soprattutto, che la sua attività di governo è stata continuamente
minata dalle fazioni interne. Il corollario del ragionamento di Renzi è che si
debbano eliminare le fazioni interne – il come non viene detto – e che quando
le falsità emergeranno, cioè quando il governo gialloverde porterà il Paese
allo sfascio, allora non potrà che esserci un ritorno di consenso per la sua
prospettiva riformista. Siamo evidentemente ancora piuttosto lontani dal
livello di rigore e di approfondimento che sarebbe richiesto dalla situazione.
22. Oltre alle questioni di strategia, delle quali abbiamo
lungamente discusso, possiamo ora, in chiusura, tanto per non farci mancare
proprio nulla, dare uno sguardo anche alla tattica. Anche sul piano tattico, il
PD oggi sembra essersi cacciato in un vero e proprio cul-de-sac, in una strada senza uscite. Per fare una politica
riformista ci vuole la maggioranza, anzi, una solida maggioranza. Il PD è ridotto al 15% più o meno. Oggi è dato
al 17%. Alla sua sinistra ci sono formazioni che pare non abbiano alcuna
intenzione di allearsi col PD o confluire nel PD; alcune, come LeU, non sono
gradite neppure al PD stesso. I tre aspiranti nuovi segretari del PD hanno
tutti confermato, a quanto pare, che con il M5S non sarà possibile alcuna
alleanza. Renzi rivendica nel suo libro di avere fatto bene a impedirla (se n’è
assunto egli stesso la responsabilità). Un’alleanza con Berlusconi sarebbe
inutile, cioè insufficiente sul piano dei numeri. Quand’anche Renzi e i suoi lasciassero
il PD per fare una formazione più spostata al centro, ci sarebbe sempre un
problema di numeri – e ciò ovviamente comporterebbe ulteriori problemi di
rapporto con lo stesso PD.
Da un simile quadro, l’unica
tattica che risulta attualmente praticabile per il PD (e per il resto della
sinistra) è quella di stare ad aspettare.
In altri termini, un sano attendismo.
Che poi è esattamente quello che il PD sta praticando da un anno. Stare ad
aspettare (sperando) che il governo gialloverde sfasci tutto quello che può,
che si determini una grave crisi, simile a quella del 2011, quella che ha
portato alla formazione del governo Monti. Aspettare, insomma, di entrare tutti
in un governo di emergenza. Magari in
cui il PD sia di nuovo costretto a votare un qualche equivalente della legge
Fornero. Oppure si può sperare in una crisi politica interna dei gialloverdi e nelle
eventuali elezioni anticipate,
sperando a questo punto in un improvviso rinsavimento dell’elettorato che dia finalmente
al PD la maggioranza per governare e fare finalmente le riforme che il Paese
vuole. Anche se è più probabile che le elezioni anticipate le determinerà
Salvini, ma soltanto quando avrà la ragionevole certezza di poterle vincere. C’è
proprio bisogno di un Congresso, se poi le effettive possibilità di manovra politica
cui ci si vincola sono queste?
23. Appaiono poi davvero un po’ buffe, sempre sul piano tattico
ma anche su quello strategico, quelle nuove posizioni, sempre più diffuse, che
avanzano come soluzione del futuro per la
sinistra un ritorno a qualche tipo di patto federativo tra tutte le forze
sopravvissute che sono rimaste ancora in campo, cespugli e cespuglietti. La
filosofia sarebbe questa: meglio che si dividano tutti quelli che devono
dividersi e poi ci si può federare per combattere il centro destra. Un patto
federativo così fatto sarebbe ahimè più o meno come il vecchio Ulivo. Sembra proprio il caso di dire «Come si
stava bene quando si stava peggio». Tanto vale ammettere, col senno di poi,
visti i risultati, che proprio non si doveva fare il PD. Abbiamo in effetti udito
alcuni commentatori, felici per gli esiti del PD nelle recenti elezioni
abruzzesi, esaltare come fosse una scoperta epocale la nuova indicazione che
sarebbe emersa dalle urne, per la sinistra riformista, di produrre una ampia politica di alleanze. Lo stesso
Zingaretti è spesso esaltato per avere tenuto una linea simile nel Lazio
(sembra questa essere stata la sua unica prodezza degna di nota). Tuttavia,
nonostante tutto questo vento ulivista
che torna a fischiare, nonostante tutto questo parlare di alleanze, la proposta
recentemente avanzata da Calenda per le elezioni europee, cioè quella di una
specie di patto federativo che richiederebbe a forze che comunque si
riconoscono come tra loro diverse di mettersi sotto un comune ombrello
europeista, magari rinunciando a una eccessiva visibilità individuale, pare non
abbia avuto alcun corso. Per cui, alle elezioni europee probabilmente cespugli
e cespuglietti si presenteranno nuovamente in ordine sparso. Intanto c’è il
proporzionale. Parafrasando sempre Nanni Moretti: «Mi si nota di più se vado da
solo o se mi apparento con quelli che ci stanno?».
22/02/2019
NOTE
[1] Il termine guerra civile fredda è stato usato variamente, con significati
anche assai diversi. C’è anche chi ha parlato di guerra civile a bassa intensità. La fonte più nota è Fasanella
& Pellegrino 2005 (Fasanella, Giovanni & Pellegrino, Giovanni, La guerra civile, RCS Libri, Milano,
2005). Giovanni Pellegrino è stato presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle
cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi attiva tra
il 1988 e il 2001.
[2] Non c’è mai stata nel socialismo italiano un’evoluzione
socialdemocratica simile a quella realizzata nelle socialdemocrazie nordiche e
simile a quella realizzata dal SPD a Bad Godesberg. Non è il caso qui di
seguire tutte le spaccature e ricomposizioni della famiglia socialista, fino
all’auto distruzione del socialismo italiano a opera di Bettino Craxi.
[3] Non entriamo qui nei dettagli relativi agli
esecutori e ai mandanti, sia della strategia della tensione sia dell’assassinio
di Moro. Esiste ormai un’ampia letteratura di inchiesta e di storiografia in
proposito.
[4] Nei primi anni Ottanta tenne banco il pentapartito tra PSI, DC, PSDI, PLI e
PRI, che con alterne vicende ebbe una lunga vita tra il 1981 e il 1991. Il PSI
sviluppò al massimo la propria influenza con i governi Craxi I (1983-1986) e
Craxi II (1986-1987). Il logoramento del PSI di Craxi (segretario dal 1976) fu
dovuto alla esigenza di avere una fonte assicurata di finanziamento che la
situazione internazionale garantiva agli altri due partiti ma non al PSI.
[5] Per la cronaca, il PDS fu attivo dal 1991 al
1998. Esso rappresentava il PCI post sovietico. Al PDS fecero seguito i DS,
Democratici di Sinistra, dal 1998 fino al 2007. Questo costituiva una sorta di
tardiva unificazione della famiglia socialista e comunista. Può essere definito
come partito socialdemocratico, sebbene non abbia saputo darsi effettivamente
una cultura socialdemocratica. Segue, nel 2007 la formazione del PD, cioè del
Partito democratico, che unificava i DS con la Margherita e con altre
formazioni minori.
[6] Wikipedia in italiano.
[7] Cfr. Giorgio Ruffolo, Pd, la crisi di un partito senza identità, su La Repubblica del 22
settembre 2010.
[8] Cfr. Renzi, Matteo, Un’altra strada. Idee per l’Italia di domani, Marsilio, Venezia,
2019.
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