1. Se c’è un film di fantascienza[1] che,
nell’immaginario popolare, ha segnato un periodo della nostra storia recente,
questo non può essere che Blade
Runner di Ridley Scott. Che l’abbia segnato è abbastanza certo, ma non è
facile spiegare il perché. In quest’articolo che, come si vedrà, si occupa di
filosofia piuttosto che di critica cinematografica, cercherò di spiegare, a me
stesso e ai miei dieci lettori, perché Blade Runner ha parlato e parla
tutt’oggi al nostro senso comune in modo così immediato da non avere bisogno di
dichiarazioni esplicite. E di spiegare anche perché l’attrazione che proviamo
per questo film è in realtà una specie di attrazione perversa, che può limitarsi
ad alimentare in noi un atteggiamento malinconico e pessimistico, da catastrofe
incombente, ma che può anche rischiare di portarci su strade filosofiche
decisamente accidentate e perigliose.
2. Prima di procedere, affronterò alcune questioni
preliminari. Notoriamente, Blade
Runner[2] è tratto da un racconto di Philip K. Dick dal titolo Gli
androidi sognano pecore elettriche?[3] Non mi occuperò tuttavia del rapporto
tra il testo letterario e quello filmico. Peraltro il film è soltanto ispirato
al racconto e diverge in molti aspetti rilevanti dal testo letterario. Comunque
Dick, che non ha potuto vedere il risultato finale, pare abbia seguito la
lavorazione del film e che ne fosse, alla fine, piuttosto
soddisfatto.
Scott ha dichiarato esplicitamente che Blade Runner è
una pura opera di intrattenimento e
che, quindi, non ha alcuna velleità d’altro genere. Tuttavia com’è noto ormai –
la consapevolezza dell’autore può anche essere molto diversa da quanto l’opera
intrinsecamente dice. Per capire l’effetto di Blade
Runner sul pubblico, per chiarire il suo rapporto con la sua epoca, si
tratta allora di farne una lettura testuale, eventualmente anche al di là delle
intenzioni dell’autore. Ci si accorgerà allora che una filosofia implicita (o se
si vuole per lo meno uno stile
filosofico) è sistematicamente ben presente. Si tratta di una filosofia che
ben decodificabile, anche se non può avere quella coerenza che si richiede a un
trattato accademico. Del resto, molti filosofi hanno elaborato delle pure
fantasie intorno alle quali hanno costruito interi sistemi filosofici. La
distanza tra la filosofia e la fiction è minore di quanto non sembri a
prima vista.
Data la relativa complessità della questione, dividerò
l’analisi in due parti. In una prima parte cercherò di compiere un’operazione
analitica, andando a rileggere, in forma sparsa, quegli aspetti del film che
abbiano un qualche interesse di natura filosofica. In una seconda parte cercherò
invece di identificare, con nome e cognome, alcune matrici filosofiche presenti
nel film e cercherò di darne una formulazione esplicita e un inquadramento
critico. Poiché del film sono state prodotte diverse versioni, preciso che mi
riferirò al final cut del 2007,
l’unico in cui Scott pare abbia avuto la piena libertà autoriale.
3. Filosoficamente, l’opera appartiene alla categoria
delle distopie, cioè delle utopie
negative. Sono quelle opere che leggono nel nostro presente, piuttosto che i
segni di un progresso, di un futuro radioso o di un mondo paradisiaco, i segni
di una catastrofe incombente. Proprio in relazione al suo carattere distopico,
Blade Runner si fa anzitutto notare
per il particolarissimo trattamento del tempo. Il tempo non è il tempo lineare
cui siamo abituati. Il futuro che vi è rappresentato si colloca in un tempo
privo di direzione, dove passato, presente e futuro sono completamente
appiattiti. Si tratta dunque di un film di fantascienza che, per prima cosa,
sembra voler proporre una diversa
nozione del tempo, una specie di fine del tempo così come comunemente lo
conosciamo. Ciò è evidente anzitutto nella fotografia e nella scenografia ove si
mescolano elementi di un futuro tecnologicamente assai progredito con elementi
di un passato polveroso (le ventole onnipresenti, i fumi, la nebbia, le case
decadenti, l’atmosfera da suk o da
quartiere cinese, i computer che assomigliano a vecchie telescriventi, lugubri
edifici gotici e palazzi che evocano piramidi egizie). Passato, presente e
futuro sono compresenti, completamente inchiodati in un’attualità
decadente che incombe e opprime.
4. Veniamo ora ad alcuni accenni essenziali al contesto
storico sociale della narrazione. Nel futuro 2019 – si tenga presente che il
film è uscito nel 1982 - gli umani hanno ormai colonizzato altri mondi. Coloro
che possono permetterselo e sono stati autorizzati hanno ormai abbandonato la
Terra verso le colonie nello spazio. Nel film si vede più volte una specie di
velivolo che fa propaganda e raccoglie le adesioni per andare nel new
world. Si noti l’inversione dei ruoli: il “nuovo mondo” americano è ormai
imputridito, è diventato decisamente vecchio, e la popolazione fugge verso un
altro “nuovo mondo” collocato ora nello spazio. Nelle città terrestri c’è una
grave crisi demografica e gran parte degli edifici sono ormai in abbandono. Una
periferia putrida contrasta con enormi aggregati urbani iper moderni, la cui
architettura richiama però modelli arcaici. Nei quartieri bassi di Los Angeles,
dove la storia del film è per lo più ambientata, c’è una spiccata orientalizzazione
demografica e culturale. Ciò si vede dalle facce, dalle insegne, dalla lingua
parlata. In giro si parla uno slang
misto di inglese e cinese di cui nel film vengono esibiti alcuni divertenti
campioni. Los Angeles sembra diventato un enorme quartiere cinese. Il film ci ha
fornito una visione profetica della colonizzazione dell’Occidente da parte
dell’Oriente, cosa che sembra stia effettivamente consumandosi in questi ultimi
tempi.
5. L’ipotesi da cui prende il via il film è che il
progresso tecnico abbia permesso a una bioindustria denominata Tyrell
Corporation (il cui motto è «Più umano dell’umano!») la fabbricazione di
androidi biologici del tutto simili agli
uomini, seppure con certe facoltà fisiche aumentate. Nel film sono chiamati
replicanti. Sono in pratica
indistinguibili dagli umani ma completamente subordinati. Sono usati come
schiavi, guerrieri o oggetti sessuali. Tuttavia, i replicanti dell’ultima
generazione Nexus 6, dislocati soprattutto nelle colonie, hanno sviluppato una
loro autonomia, si sono ribellati e ciò ha prodotto una specie di guerra civile
tra umani e replicanti. In conseguenza di ciò, la Terra è stata interdetta ai
replicanti ed è stato organizzato un particolare corpo di polizia, i Blade
Runner, per scovare e ritirare
(un eufemismo che sta per uccidere) gli eventuali replicanti intrusi. Il caso a
tutti gli effetti poliziesco che muove la vicenda del film è costituito appunto
dalla penetrazione a Los Angeles di un gruppo di replicanti di ritorno dallo
spazio.
Centri e periferie, colonizzazione, schiavitù,
ribellione e guerra civile. Come si può ben vedere, si tratta di un cupo
condensato della storia del mondo,
dalla preistoria ai giorni nostri, che è proiettato – come si diceva - in un
futuro del tutto appiattito e senza tempo. Tutto
il possibile è già accaduto e dunque tutto può soltanto ripetersi. Il futuro
assomiglia tanto al passato che conosciamo già, amplificato e deformato come in
un incubo. Questa impostazione è del tutto consona – sto anticipando – alla
visione postmoderna del mondo.
6. Il film inizia con un’immagine emblematica: un
occhio misterioso, inquadrato in primissimo piano, in cui si riflette il mondo
esterno, una Los Angeles del 2019 rappresentata come un mostro
tecnologico dotato di una vita propria, che produce boati assordanti, con
torri che sbuffano fiammate e fumi in un cielo sempre buio. Un paesaggio
apocalittico. L’occhio probabilmente (non è detto esplicitamente) appartiene al
primo replicante intruso destinato a entrare in scena, quello di Leon. Il tema
dell’occhio è un tormentone che sarà ripetuto più volte. L’occhio è, infatti, il
luogo fisico dove si rispecchia il mondo
esterno, ma anche il luogo dove si cela la verità o il tentativo di
dissimulazione della verità circa il proprio mondo
interno. Il motivo dell’occhio tornerà spesso in tutto il film, ad esempio a
proposito di Hannibal Chew, il fabbricante genetico di occhi, oppure a proposito
del gufo artificiale del palazzo della Tyrell, e così via.
7. L’occhio è il protagonista nel test cui viene
sottoposto, da parte di un agente della Blade Runner, il replicante in
incognito Leon, uno dei Nexus 6 fuggitivi, che si è fatto assumere alla Tyrell
Corporation come uomo di fatica. Il test accuratamente descritto, detto di Voight-Kampff, serve a smascherare i replicanti e
prevede l’utilizzo di una macchina, una specie di
poligrafo,[4] in grado di misurare vari parametri biometrici, tra cui la
dilatazione dell’iride. Il che avviene durante la somministrazione di un certo
numero di domande atte a creare una forte tensione emotiva.
L’esame cui è sottoposto Leon pone, fin dall’inizio, il
problema della sottile differenza tra gli umani e i replicanti. Costoro, dal
punto di vista biologico, sono perfettamente uguali agli umani e dunque
indistinguibili. La sola differenza apprezzabile – così si sostiene - sarebbe
costituita da una diversa capacità di controllo delle reazioni
emotive. I replicanti sono privi di esperienza e di storia personale per cui
non sanno controllare bene le loro reazioni emotive e così falliscono il test.
L’esame condotto dall’agente della Blade
Runner nei confronti di Leon è assai formale e psicologicamente piuttosto
invasivo. Leon è già di per sé un po’ fuori di testa e non si intende affatto
con l’esaminatore. Finché, in seguito a una domanda non gradita concernente sua
madre, tira fuori una pistola nascosta, gli spara e l’ammazza. E riesce a
dileguarsi.
Il caso dell’assassinio del poliziotto e della fuga di
Leon – che pare avere altri complici - inducono il capitano Bryant a richiamare
in servizio Rick Deckard, un leggendario terminatore di replicanti, il quale
tuttavia è assai riluttante. Deckard viene scovato in una specie di quartiere
cinese dal claudicante poliziotto Gaff e viene da lui accompagnato alla centrale
di polizia, dove – sotto la minaccia di un ricatto - sarà costretto a tornare in
servizio e a farsi carico della missione. Gaff è una figura ambigua, un
personaggio secondario, che però starà sempre alle costole di Deckard, per tutto
il film, senza tuttavia mai intervenire, limitandosi ad abbandonare in giro
diversi piccoli origami di carta che
commentano le vicende. Solo alla fine Gaff si rivelerà un personaggio rilevante
ai fini della comprensione dell’intera vicenda.
8. Poiché Leon e gli altri androidi fuggitivi
appartengono al nuovo modello Nexus 6, il primo intervento di Deckard avviene
proprio alla Tyrell Corporation, per sperimentare l’efficacia del test Voight-Kampff anche su quel tipo di modello. Qui
Deckard incontra prima la bella Rachael, collaboratrice di Tyrell, e poi lo
stesso Tyrell in persona. Tyrell chiede espressamente a Deckard di provare prima
il test sulla sua collaboratrice, intendendo che questa sia umana, per avere,
dice, una prova in negativo. Assistiamo così a una seconda ampia e dettagliata
esecuzione del test Voight-Kampff, questa volta
condotto su un umano. Deckard tuttavia, dopo poche domande, in separata
sede rivela a Tyrell che la sua collaboratrice è un replicante. Tyrell spiega a
sua volta che lei non lo sa, poiché la Tyrell, con un esperimento, le ha
impiantato falsi ricordi. La Tyrell Corporation, infatti, nell’intento di
incrementare la somiglianza dei suoi androidi con gli umani, ha progettato di
dotare i suoi nuovi modelli di ricordi
artificiali. Il test comunque turba alquanto Rachael che, evidentemente,
aveva già qualche sospetto circa la propria natura di replicante. Proprio questo
sospetto darà origine al complesso rapporto di Rachael con Deckard, che sarà uno
dei motivi conduttori del film.
Le due vicende di Leon e Rachael con il poligrafo
servono a introdurre i personaggi e a definire la situazione di partenza della
storia. La questione filosofica che è posta con chiarezza, fin dall’inizio, è
quella della differenza tra ciò che
è compiutamente umano (considerato come unico e irriproducibile) e ciò che è
meramente biologico (e dunque tecnicamente riproducibile). Se vogliamo, si
tratta di chiarire se esista qualcosa come un’identità
umana separata dalla componente biologica. Filosoficamente, si tratta di una
domanda circa la natura ultima di ciò che i filosofi continentali hanno chiamato
Spirito.[5]
9. Non seguiremo nel dettaglio la trama del film che,
nella lettura più superficiale, è costituita dalla caccia, da parte di Deckart,
ai diversi replicanti tornati sulla Terra. Si tratta di Leon, di cui abbiamo già
detto, delle due donne Zhora e Pris, e di Roy Batty che è definito come un
“modello da combattimento”. I replicanti sono capeggiati da Roy e sono venuti
sulla Terra, cercando di penetrare nella Tyrell Corporation, perché vogliono
«più vita», cioè vogliono trovare il modo di togliere la scadenza (di quattro
anni) che è stata immessa nel loro corredo genetico quando sono stati
fabbricati. Nel corso del film tuttavia, come si vedrà, il numero dei replicanti
è destinato ad aumentare.
10. Oltre alla difficoltà di dominare le emozioni, di
cui s’è detto, l’altro elemento correlato che distingue gli umani dai replicanti
è la memoria. È questa una delle
tematiche più interessanti del film. La memoria personale va oltre il livello
del mero biologico e, in un certo senso, garantisce l’unicità della persona. Le
esperienze immagazzinate nella memoria e rielaborate sono un unicum
che rende unica la persona stessa. È
la persona così costruita che si rapporta con le emozioni e con la sua base
biologica. Per questo la Tyrell Corporation, nell’intento di rendere i
replicanti sempre più simili agli umani, ha provato a dotarli di falsi
ricordi e di relativi documenti
falsi (come nel caso di Rachael). La possibilità tecnica di riprodurre le
memorie individuali non può che creare una situazione d’incertezza generalizzata
circa le diverse identità dei diversi soggetti. I singoli non possono più essere
completamente certi di essere autentici, dell’autenticità dei propri stessi
ricordi e dei propri documenti. L’ontologia dei singoli individui è così messa
radicalmente in discussione. Questa nuova situazione di incertezza identitaria
fa anche sì che i ricordi – quelli creduti autentici - siano tenuti nella
massima considerazione, come un bene prezioso cui aggrapparsi per non smarrirsi.
Il film è pieno di riferimenti alla questione della
memoria e della sua riproducibilità. Il rude operaio replicante Leon è legato
alle foto che testimoniano del suo passato e sarà proprio grazie a queste che
Deckard riuscirà a pedinare lui e a identificare e a ritirare
la sua amica Zhora. L’identificazione di Zhora in una delle foto di Leon
avviene, tra l’altro, con un procedimento d’ingrandimento fotografico del tutto
simile a quanto avviene in Blow – up
di Antonioni. Il che resta pur sempre una questione di memoria, seppur
registrata attraverso la fotografia. Rachael a sua volta basa la sua ferma
convinzione di essere umana su un pacchetto di foto che la ritraggono nella sua
infanzia e su una serie di ricordi privati d’infanzia che non ha mai rivelato a
nessuno. Ricordi che tuttavia Deckard mostra di conoscere nei minimi dettagli,
essendo notoriamente ricordi che la Tyrell impianta nei suoi androidi.
11. La problematica dei ricordi coinvolge tuttavia
inaspettatamente anche Deckard. Nella sua stanza, Deckard ha un pianoforte e sul
leggio, assieme a uno spartito musicale, ha una serie di vecchie fotografie in
bianco e nero, disposte in maniera quasi religiosa. Si presume riguardino il
passato familiare di Deckard. Rachael, quando si trova in casa di Deckard, dopo
l’eliminazione di Leon, decide di imitare la pettinatura di una giovane donna
ritratta in una delle foto. In un momento successivo Rachael si mette a suonare
il pianoforte – forse suona la musica dello spartito – dicendo però poi che lei
non sapeva di saper suonare. Si noti che il pianoforte, che è così assurto a una
specie di luogo della memoria, è lo
stesso luogo in cui Deckard aveva sognato, a occhi aperti, un unicorno in corsa
attraverso una foresta. Unicorno che tornerà platealmente nel finale. Le foto
che si trovano sul pianoforte, i ricordi personali di Deckard e i suoi sogni
sono davvero suoi o sono ricordi impiantati? Il film fa dunque nascere
progressivamente il sospetto che Deckard, che conosce così bene la mente dei
replicanti, possa essere anch’egli un replicante.
Avere una vivida memoria del proprio passato e avere
anche a disposizione dei reperti materiali di supporto non fornisce dunque
alcuna certezza di essere davvero un umano e di non essere un replicante. Sul
piano filosofico una simile eventualità ha notevoli conseguenze. Se anche la
memoria individuale si può fabbricare e impiantare, allora tutto
il passato può essere fabbricato come qualsiasi altra cosa. Il passato
diventa merce. In una bella battuta Rachael afferma: «Io sono il business».
I fabbricanti del passato diventano dunque i veri fabbricanti
della storia e non esiste più alcun processo storico oggettivo o
oggettivabile. È questo un altro argomento che sostiene l’ipotesi della fine della storia per com’è stata
normalmente conosciuta. Tutto ciò richiama certi dettagli della trama del
formidabile 1984 di Orwell. Là c’era
addirittura un piano elaborato di ricostruzione sistematica della storia, con
tanto di produzione di documenti falsi, a uso e consumo del sistema di potere
vigente.
12.
Il progettista genetico J. F. Sebastian è anch’egli un replicante – anche se la
notizia ci vien data molto di sfuggita – dunque un prodotto della Tyrell
Corporation. Egli tuttavia vive in città mescolato agli umani e pare non essere
soggetto ad alcun controllo o restrizione. Come replicante ha anch’egli dei
problemi con il tempo, soffre cioè di una forma d’invecchiamento fisico precoce.
Viene presentato come un tecnico obbediente, complice e addirittura amico di
Tyrell,[6] con il quale Tyrell ha buoni rapporti e con cui ama giocare a
scacchi. Il film suggerisce che Sebastian, poiché è gentile, inoffensivo e
ingenuo, sia una vittima, sia cioè strumentalizzato dal suo padrone. Nel
suo tempo libero si comporta come un bambino dotato di grande fantasia, produce
buffi giocattoli animati, che riempiono la sua casa e lo distolgono dalla
solitudine. Manifesta insomma un lato umano assai marcato. Impersona abbastanza
chiaramente il complice involontario
del sistema. Ignorando di avere già Roy sulle sue tracce, Sebastian
rimorchia Pris, incontrata per caso, e la conduce a casa sua, non sospettando
neppure di chi si tratti. Ma poi, quando a Pris si aggiunge Roy, non fa fatica a
riconoscere che si tratta di replicanti. Del resto lui è uno del mestiere. Sarà
proprio Sebastian a svolgere inconsapevolmente il ruolo del traditore, cioè il
ruolo di consegnare il proprio stesso “padre” Tyrell alla vendetta delle sue
creature. Una specie di Giuda sui
generis. I complici involontari
del sistema spesso presentano una natura ambigua.
13. Pris, pur essendo un modello Nexus 6, è stata
progettata per fare la prostituta d’alto bordo. Appare confusa, smarrita,
talvolta stupida, governata da emozioni elementari. Ciò nonostante è munita di
grande prestanza fisica ed è anche capace di pronunciare, di fronte alla
richiesta di Sebastian di mostrargli cosa sa fare, una classica citazione
filosofica: «Penso dunque sono». Morirà impallinata da Deckart, non prima però
di avere dato vita a una scena estremamente significativa sul piano filosofico
che ci interessa.
Pris è rimasta sola nella casa di Sebastian, in mezzo
ai suoi numerosi vivaci e chiassosi pupazzi meccanici. Deckart, intento a
perquisire l’appartamento di Sebastian dopo la sua morte, entra con la pistola
in pugno e si trova immerso in un mondo mitologico e fiabesco. In questo
frangente del film, non solo il tempo è appiattito, ma entra prepotentemente in
scena anche ilmondo dei miti e delle
favole. Pris, che si è dipinta una mascherina nera sugli occhi, è ferma,
immobile, con un velo in testa, sembra una sposa o una ballerina classica,
bambola tra le altre bambole. Deckard si aggira nella stanza in mezzo ai pupazzi
fantastici che sono mostrati accuratamente allo spettatore. Quando,
insospettito, alza il velo di Pris, all’improvviso scatta la
colluttazione.
I giocattoli meccanici di Sebastian, e la stessa Pris -
sembra suggerire a questo punto il film - fanno dunque parte dell’eterno sogno
dell’uomo di produrre delle copie di sé. È il sogno, o l’illusione, della rappresentazione mimetica. In questo
senso, le favole, i miti, i personaggi dei romanzi e – perché no? – quelli del
cinema sono soltanto degli antenati dei replicanti. Si trovano tutti sulla
stessa linea evolutiva dei replicanti biologici della Tyrell Corporation. La
replicazione biologica degli umani attraverso la scienza non sarebbe altro che
una specie di espressione ultima, e aberrante, della perversione mimetica
coltivata in passato dagli umani, attraverso la poesia, la letteratura e l’arte
in generale. La mimesi alla fine
finisce per diventare realtà, creando seri problemi di distinzione e fagocitando
i suoi stessi creatori. Tornerò più avanti sulla questione del rapporto tra mito
e realtà.
14. Una parte consistente del film è impegnata dal
confronto di Roy Batty con due diversi importanti antagonisti, Tyrell e lo
stesso Deckard. Il primo confronto avviene con Tyrell. È un confronto carico di
significati psicologici, morali e religiosi, con qualche elemento di critica
della scienza e della tecnica. Tyrell è il fabbricante degli androidi, quindi
metaforicamente un padre delle sue
creature. Siccome creatore è anche una specie di Dio. Come scienziato
rappresenta Sisifo che ha donato la luce agli uomini, ma anche l’Adamo peccatore
che ha mangiato i frutti proibiti dell’albero del bene e del male. Durante il
loro incontro/ scontro, i sentimenti che intercorrono tra i due sono
ambivalenti. Tyrell non si ribella più di tanto all’incontro con Roy. Roy sembra
provare, all’inizio, un certo affetto o per lo meno un certo rispetto verso il
suo creatore. Il padre/ Dio ha tuttavia i suoi limiti. Tyrell spiega a Roy che
ciò che è stato stabilito all’atto della fabbricazione non si può cambiare. Non
si può in alcun modo allungare la vita degli androidi programmati. Quando Roy
capisce di non avere alcuna possibilità di prolungare la propria vita, uccide
Tyrell in modo feroce. E qui abbiamo un’altra occorrenza del motivo degli occhi.
Anche il povero Sebastian, che ha introdotto Roy all’incontro con il padre/ Dio
farà la stessa fine.
Qui i riferimenti filosofici si sprecano. L’uccisione
del padre è ovviamente un celebre tema psicoanalitico. La morte
di Dio è un altrettanto celebre motivo filosofico nicciano. Volendo,
possiamo anche riconoscere il motivo letterario della creatura che si ribella al
creatore, da Prometeo e dal Satana biblico fino al Golem e al Mostro di
Frankenstein. Durante lo scontro con Tyrell, Roy che è una macchina biologica
mostra tuttavia di avere una coscienza morale superiore rispetto a quella del
suo fabbricatore. Dice infatti Roy: «Ho fatto cose discutibili. Cose per cui il
Dio della biomeccanica non ti farebbe entrare in paradiso». L’idea che qui si
suggerisce, di un mondo creato da un Dio malvagio è, se non andiamo errati, di
origine gnostica.
15. Il secondo confronto del replicante Roy avviene
proprio con Deckard. Mentre il confronto con Tyrell aveva posto problemi morali
e religiosi, il confronto con Deckard pone una serie di problemi, legati al
rapporto con l’altro, alla memoria e alla morte. Secondo il plot,
i due non si conoscono. Roy sa soltanto che Deckard ha “ritirato” i suoi
compagni Leon, Zhora e Pris e vuole vendicarsi. Va sottolineato, a questo
proposito, che Roy mostra una inaspettata pietà, del tutto umana, per i suoi
compagni morti. È noto, detto qui incidentalmente, che il culto dei morti è per
gli antropologi uno dei segnali della presenza di una coscienza riflessiva e di
una cultura già del tutto umana.
Data la superiorità fisica di Roy su Deckard, il
cacciatore diventa cacciato. Roy rimugina tutte le sofferenze dalla sua vita
e vuole che Deckard capisca cosa vuol dire essere cacciato, vivere continuamente
nel timore, per cui si diverte con Deckard come il gatto con il topo. Ma il vero
tema che qui vien posto è quello della morte. Roy sente che le forze gli
vengono a mancare e che la morte è vicina. Il perfetto replicante modello Nexus
6 è prossimo alla scadenza. Nell’atmosfera gotica del palazzo in cui si svolge
il confronto, dopo un lungo e violento inseguimento dell’ormai frastornato
Deckard, Roy si presenta con una colomba bianca in mano che ha scovato sul
tetto. Ha una delle mani trafitta da un chiodo. Quando Deckard sta
precipitando, Roy con le sue ultime forze lo afferra e lo tira su di peso.
Mette da parte dunque la vendetta e questo poiché ha bisogno di un testimone
della sua esistenza e, soprattutto, della sua morte. Il famoso ultimo monologo
«Ho visto cose, …» è anch’esso incentrato sul motivo dell’identità personale e
della memoria, poiché così conclude: «E tutti quei momenti andranno perduti nel
tempo. Come lacrime nella pioggia». Alla Tyrell Corporation che fabbrica ricordi falsi, Roy Batty contrappone i
suoi ricordi autentici, destinati
però all’oblio.
La morte di Roy è un po’ appesantita da una sorta di
sovraccarico simbolico fin troppo pop. La colomba che vola via - simbolo
di un’anima che non avrebbe dovuto esserci e che forse c’era tuttavia - e la
mano trafitta da un chiodo, che ricorda il martirio di Cristo. Ma anche certe
sottolineature horror, come quando Roy sbuca beffardo sfondando un muro con la
testa, impersonando la bestia irriducibile che bracca il perseguitato. Tuttavia
Roy è un personaggio compiuto, forse il più compiuto del film.
Il replicante Roy è stato da molti commentatori
accostato al superuomo nicciano.
L’accostamento è del tutto plausibile ma non perché – come ci è capitato ahimè
di leggere – in quanto androide è bello e perfetto. Roy può essere avvicinato al
superuomo di Nietzsche perché la sua vita è collocata in un luogo fisico e
morale che si trova ormai al di là del
bene e del male, perché dopo la morte di Dio (l’assassinio del padre)
egli non ha più alcun vincolo morale, è assolutamente libero e padrone della sua
volontà. È la manifestazione pura della volontà. Tanto che accetta la sua morte
(cioè niccianamente vuole il proprio
destino) e per di più, alla fine, fa quello che ritiene di dover fare, mette
da parte la vendetta salvando Deckard. Ciò non
per altruismo – si badi bene - ma per mostrare la propria nobiltà, secondo
un codice aristocratico che sarebbe certamente piaciuto a Nietzsche. E per
lasciare una scintilla della propria memoria. Un gesto che deve durare per tutta
l’eternità, nello spirito dell’eterno
ritorno. La morte di Roy è dunque anche e soprattutto un
gesto estetico. Con ciò Roy esce dalla serialità dell’androide e entra
nell’umano o – se si è nicciani – nel regno misterioso dell’oltre
uomo.
16. Rick Deckard, il ritiratore di replicanti, sarebbe
tutto sommato il personaggio meno interessante del film. È tipicamente un
antieroe. Ha buone doti di investigatore ma non ha grande prestanza fisica.
Spesso si prende un sacco di botte e si salva soltanto perché altri (guarda
caso, si tratta per due volte di replicanti) decidono di salvarlo. Compie
malvolentieri la sua missione, costretto dallo spregevole capitano Bryant che
praticamente lo ricatta. Fa quel che deve fare perché non può farne a meno. Ciò
che lo rende simpatico è la sua profonda malinconia. Anche lui è costretto a
condividere il mondo degradato in cui si rifugiano coloro cui dà la caccia,
anche lui vive quell’aria malsana in senso fisico e in senso morale. Anche lui –
personaggio romantico per
eccellenza - sogna un altrove che non è neppure in grado di figurarsi, finché
non incontra la replicante Rachael, che gli salva la vita e che alla fine
fuggirà con lui.
Sarebbe il personaggio meno interessante se non fosse
per il fatto che anch’egli pare abbia un grave problema di identità cui abbiamo
già accennato. Mentre è concentrato nelle sue indagini, seduto nei pressi del
suo pianoforte/ altare dei ricordi personali, ha una visione, una specie di
sogno ad occhi aperti. Un unicorno
bianco che galoppa in una foresta. Cosa c’entra l’unicorno? Il collega
poliziotto Gaff, che sembra seguire attentamente da vicino le indagini di
Deckard, ha il vezzo di fabbricare origami di carta e di abbandonarli nei posti
più vari. Questi origami sembrano proprio costituire un commento a quanto sta
accadendo a Deckard. Ebbene, nel finale, il pupazzetto abbandonato da Gaff
davanti all’ascensore dove avviene la fuga di Deckard e di Rachael rappresenta
proprio un unicorno. Questo significa – e Ridley Scott pare lo abbia
esplicitamente ammesso – che anche Deckard, il coatto e malinconico cacciatore
di replicanti, è un replicante. Ciò poiché Gaff mostra di conoscere i suoi
sogni.
Quel che interessa qui, sul piano filosofico, è che
questa ipotesi o questa possibilità – che lo stesso Deckard sia un replicante -
introduce un particolare supporto alla tesi della identità tra umani e
replicanti che sembra essere tuttavia in contrasto con la prima parte del film,
dove si sottolineavano gli elementi di differenza. Ora, umani e replicanti sono
così simili da finire per essere la medesima cosa. Siamo tutti umani ma potremmo
essere tutti replicanti. E potremmo avere dimenticato la chiave distintiva.
Semplicemente perché una chiave distintiva non c’è. Ma questo il film si guarda
bene dal dirlo.
17.
Il finale del film è stato riscritto rispetto alla prima versione, dove invece
Deckard e Rachael potevano fuggire romanticamente verso una nuova vita. Ciò
oltretutto era reso possibile dal fatto che Rachael era presentata come una
replicante priva di scadenza. Nel final cut le cose sono assai più
problematiche. Nulla si dice circa una non scadenza di Rachael. Dopo la morte
di Roy, arriva il claudicante Gaff - la polizia nei film arriva sempre in
ritardo - che lancia al malconcio Deckard una pistola (forse quella che aveva
perduto nella colluttazione con Roy) e si complimenta con lui per avere finito il lavoro.
In realtà noi sappiamo che il “lavoro” non è finito,
perché anche Rachael è ricercata dalla Blade Runner. Gaff, andandosene via,
aggiunge una frase equivoca di difficile comprensione. Nel doppiaggio italiano
è «Peccato che lei non vivrà. Sempre che questo sia vivere!». La versione
inglese suona più o meno così: «Peccato che lei non vivrà. Ma del resto chi è
che vive veramente?».[7] Con questa frase criptica Gaff – che mostra di sapere
molte più cose di quanto non appaia - intanto ricorda che Rachael è un androide
a scadenza e che quindi morirà. Intende tuttavia qualcosa in più. Qualcosa che,
in un certo senso, vorrebbe esprimere il contenuto esistenziale dell’intero
film. Vuol dire che, poiché abbiamo perduto, se mai c’è stato, il senso
autentico della vita (si pensi agli individui replicati e alle memorie
contraffatte), allora vite artificiali e vite autentiche ormai non hanno più
alcuna distinzione. Vivere o morire dunque è lo stesso, poiché anche la vita è
diventata una specie di morte. Salvare la propria vita biologica significa
comunque essere condannati a una non
vita. La distopia rappresentata è ormai un mondo morto, una casa di morti.
La conciliazione tra umani e replicanti, che il film sembra più volte suggerire,
viene risolta da Gaff, con una conciliazione sì, ma in totale negativo. I vivi
sono uguali ai morti.
Deckard perplesso non capisce più di tanto (e lo
spettatore con lui), raccatta la pistola che tiene bene in vista e torna dove
aveva lasciato Rachael e la trova sotto un telo. Sembrerebbe morta, magari
scovata e forse uccisa da Gaff. Così si spiegherebbe il messaggio secondo cui
“Il lavoro è finito”. In realtà non è morta, è solo addormentata e i due si
apprestano a fuggire. Mentre sta uscendo, Rachael davanti all’ascensore calpesta
un piccolo origami a forma di unicorno. Deckard vede l’origami, lo raccatta e a
questo punto ricorda la frase di Gaff. Capisce che Gaff era stato lì e aveva
risparmiato Rachael, forse per dare loro la possibilità di fuggire e sparire, o
forse (comprendiamo noi a questo punto) in virtù della considerazione che tra la
vita e la morte ormai non fa più nessuna differenza.
18. Gaff dunque, oltre a Roy Batty, si conferma come il
secondo effettivo superuomo nicciano
del film. Lui che finora era stato solo un commentatore, compie una scelta
morale assolutamente autonoma, come pura volontà di potenza, al
di là del bene e del male. A partire da una considerazione del tutto
personale sulla svalorizzazione totale dell’esistente e sulla coincidenza della
vita e della morte, decide che non vale la pena di ritirare/ ammazzare Rachael,
denunciando anche così – cosa non secondaria - l’inconsistenza della missione
della Blade Runner.
Anche Deckard viene messo di fronte alla domanda
fondamentale: chi è che vive veramente? Domanda che per lui vorrebbe dire: chi è
davvero umano e chi è replicante? Nell’origami con l’unicorno sta probabilmente
la risposta circa la vera identità di Deckard. Egli tuttavia sembra non
accorgersi della profondità della questione, sembra non riuscire a decifrare del
tutto la metafora dell’unicorno, accenna con lo sguardo di avere capito la
scelta di Gaff e si appresta a scappare con Rachael. Non sapremo mai se Rachael
ha davvero una scadenza e se Deckard è davvero un replicante e, soprattutto, se
ne è consapevole. Del resto, le vite degli umani presentano più o meno le stesse
incertezze di quelle dei replicanti.
19. Com’è stato ampiamente mostrato, nel testo filmico
ci sono molti temi filosofici, seppure non sempre coerentemente sviluppati – del
resto siamo di fronte a un’opera di pura fiction. È legittimo tuttavia
domandarsi se i diversi temi filosofici di cui il film è zeppo non finiscano
per configurare una o più tesi filosofiche compiute, dotate di una qualche
coerenza. In tal caso, si potrebbe fare qualche sforzo per esplicitarle. Il
rischio di una simile operazione è sempre quello della sovra interpretazione.
Tuttavia il successo dell’opera e il suo perdurare nell’interesse da parte del
pubblico suggeriscono che un qualche messaggio nascosto ci sia e che, per di
più, abbia funzionato, sia arrivato e continui ad arrivare al destinatario.
Procederò per gradi, identificando alcune tesi filosofiche di medio raggio,
cercando poi di formulare una qualche sintesi.
19.1. Una prima tesi, che è forse la tesi di fondo,
concerne palesemente la struttura
temporale, di cui abbiamo già detto. Nel film di Scott il futuro e il
passato si sovrappongono continuamente, la freccia del tempo lineare è
annullata. Il tempo diventa piatto (o, se vogliamo, circolare).
Con questo è dato il benservito a una visione della storia che ha retto per
secoli, e cioè la visione giudaico - cristiana. La prospettiva temporale del
film è la stessa prospettiva dell’angelo
della storia di Benjamin[8] che non ha più alcuna direzione dove andare, che
ha lo sguardo rivolto al passato e che vede solo e sempre i cumuli delle rovine.
Non c’è più alcun futuro, alcuna speranza, possiamo contemplare soltanto la
miseria del passato che si accumula e ci soverchia. In questo senso, il film
rappresenta una specie d’introduzione implicita al tema della «fine della
storia» e dell’assenza di una qualsiasi redenzione. La fine della storia è stato
un tema filosofico assai popolare, almeno a partire da Hegel. Tuttavia la
questione della fine della storia è stata posta assai più recentemente e in modo
esplicito proprio nell’ambito del pensiero postmoderno. Fukuyama, nel 1992, ha
scritto il famoso saggio La fine della
storia e l’ultimo uomo.[9]
19.2. Una seconda tesi, assai diffusa nel film,
concerne la concezione negativa della
conoscenza, un tema davvero classico, risalente addirittura alla Bibbia. Lo
sviluppo della conoscenza umana rappresenta un turbamento del cosmo, un male in sé, un peccato contro Dio e
finisce per ritorcersi contro la tracotanza dell’uomo stesso. La negatività
dell’impresa conoscitiva raggiunge poi il suo massimo quando essa è asservita al
profitto e perde qualsiasi senso del
limite. Il motto della Tyrell Corporation è «Più umano dell’umano». Si
tratta di un tema filosofico assai diffuso. In origine era un tema di natura
prettamente religiosa, poi negli ultimi secoli si è solidamente impiantato tra
i filosofi continentali. La polemica contro la tecnica, la scienza e la
cosiddetta ragione strumentale è stato un luogo comune dell’anti
illuminismo,da Herder fino ai
giorni nostri. In proposito possiamo citare - tra gli altri - Hegel, Marx,
Schopenhauer, Nietzsche, Husserl, Heidegger, Spengler, Lukács, Marcuse,
Horkheimer e Adorno.
Il film sembra riferirsi proprio a una di queste
correnti in particolare. Si sostiene nel film che il progredire della
conoscenza, guidato dall’impulso del dominio e del profitto, genera un
paradosso. Esso, invece di liberare l’uomo, invece di tradursi in
un’umanizzazione dell’uomo, si traduce nel suo contrario. Si traduce in un
asservimento dell’uomo, nella sua alienazione e nella sua rovina (e
particolarmente nella rovina della civiltà occidentale). L’unica soluzione
dunque è fermarsi, anzi tornare indietro, in quella lontana epoca in cui la
ragione umana non era ancora stata eclissata dalla ragione strumentale. Ci si
ricordi, in particolare, della figura di Sebastian nella quale, oltre al
peccato originale della sua origine, troviamo fusi insieme l’elemento del mito (le figure che abitano in casa sua
e che egli costruisce) e l’elemento della ragione
strumentale (è lui il progettista genetico al servizio della Tyrell
Corporation).
Queste concezioni assomigliano in modo impressionante
alle tesi contenute nella Dialettica
dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno[10] e in altri simili lavori della
scuola di Francoforte. Volendo, si può citare esplicitamente anche L’uomo
a una dimensione di Marcuse.[11] Sono tesi di matrice hegelo – marxista
che, elaborate negli anni Quaranta, sono state riprese e rilanciate dal
movimento del Sessantotto e sono state fatte proprie – pur con sfumature assai
diverse – dalle filosofie postmoderne. Sono tesi che sono penetrate a fondo
nella cultura di massa contemporanea e ne costituiscono ora quasi un sostrato
inconsapevole. Comunque, tesi non dissimili si trovano nella tradizione
heideggeriana, dove la tecnica rappresenta il destino perverso dell’Occidente
che ha occultato il proprio rapporto con l’Essere, rappresenta il destino della
metafisica occidentale e con ciò la sua fine. Una certa interpretazione
storiografica ha posto il giovane Lukács alle origini sia della visione
heideggeriana sia delle teorie di Horkheimer, Adorno e Marcuse.
19.3. Ma c’è di più. Sempre sulla scia di una dialettica
dell’illuminismo, nel film troviamo una puntuale evocazione analogica della
dialettica del servo e del signore
di hegeliana memoria. La storia e la società sono luogo di perpetuo
conflitto. L’uomo tracotante, eccedendo ogni limite, vuole il dominio assoluto,
si erge a signore del creato, si crede Dio. Diventa egli stesso creatore e
padrone dei suoi servi. Ma, come raccontava Hegel, i servi sottomessi si
ribellano al loro signore, poiché il signore, che ha creato i suoi servi e li
domina, ha bisogno dei servi e finisce per dipendere da essi. Nelle intenzioni
di Hegel, tuttavia, la vicenda avrebbe dovuto portare a una sintesi, cioè a un
reciproco riconoscimento del servo e
del signore. Nel film invece non c’è
alcuna conciliazione. Il servo Roy Batty si ribella, uccide il signore e in
tal modo uccide anche se stesso, pur in forma nobile e nichilista come s’è
visto.[12] Il film dunque sembra prendere partita per l’impossibilità della
conciliazione. Dopo Hegel, la storia della mancata
conciliazione è stata raccontata più volte. Basti pensare all’annuncio della
morte di Dio da parte dello
Zarathustra nicciano, oppure alla freudiana uccisione
del padre. Anche il vecchio Edipo ne sapeva già qualcosa. Una dialettica
senza conciliazione è del resto il fulcro della confusa dialettica
negativa di Adorno. Ciò in altri termini vuol dire che, nel contesto di una
fine della storia, il conflitto ha perso
qualsiasi funzione costruttiva e si accontenta di marcare una guerra senza
fine, una guerra perduta in anticipo, una guerra suicida contro
l’esistente.
19.4. Un altro tema filosofico di fondo, senz’altro
collegato ai precedenti, è costituito dalla minaccia della sparizione
della individualità. Se si preferisce, la disarticolazione
del soggetto. È un tema su cui i filosofi hanno sempre lavorato, con
soluzioni alquanto difformi. Si tratta cioè di capire se il processo di individualizzazione, che si è
sviluppato particolarmente in Occidente, sia da considerarsi un bene o un male,
se sia da considerarsi un peccato contro Dio (al pari della conoscenza) oppure
una liberazione e un progresso. Su questa alternativa molti filosofi hanno
esitato, come ad esempio Freud e Max Weber. Anche Nietzsche ha oscillato
alquanto.
In una sua versione standard, la tesi sostiene, in modo
invero assai discutibile, che un’individualità autentica forse sia esistita, in
un tempo passato, quando però questa si trovava in una spontanea relazione con
la natura, con la vita, con la società, con la totalità cosmica. Insomma, un’armonia originaria del soggetto con
l’oggetto, variamente sostenuta e argomentata. Con l’ingresso nella storia e/o
con la razionalizzazione, l’armonia
originaria è andata perduta. La causa del tracollo è sempre la brama di
conoscenza e di dominio, la tecnica, che hanno reso l’individuo isolato,
astratto (in senso hegeliano), riproducibile, seriale.[13] L’individuo
ha così perso il rapporto con la totalità ed è stato mercificato o reificato,
come avrebbe detto Lukács. Se si possono riprodurre i corpi, le emozioni e le
memorie, allora l’originalità individuale è destinata a venir meno. «Io sono il
business!» dice la replicante
Rachael. Insomma, il processo di individualizzazione tipico dell’occidente è
considerato come una progressiva catastrofe dell’umano.
Le tesi sull’individualità presenti nel film sembrano
richiamare in particolare la Teoria del
Romanzo di Lukács[14] e L’opera
d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica di Benjamin.[15] La
produzione ripetitiva dell’oggetto (simboleggiata nel film dai replicanti)
tipica dell’industria e della merce impedisce ogni individuale autenticità,
proprio come aveva teorizzato Benjamin. L’aura dell’opera individuale è perduta
per sempre, nessuno può più pensare di essere un originale
unico. Anche se ci pensiamo presuntuosamente come originali unici, corriamo
pur sempre il rischio di essere dei replicanti (e questa è proprio la
situazione di Deckard). Nella post-modernità, nonostante noi continuamente
rimpiangiamo o sogniamo un’unicità perduta, non possiamo che essere dei
replicanti, magari inconsapevoli, che ingannano sistematicamente se stessi.
Tutto ciò è rappresentato come una perdita, anche se non è mai ben
spiegato in cosa consista esattamente l’oggetto unico irrimediabilmente perduto
(se non una delle molteplici metamorfosi dello Spirito).
20. In sintesi, ricapitolando, abbiamo la fine della
storia, una concezione negativa della conoscenza, una dialettica senza
conciliazione e la crisi dell’individualità. Sono tutti motivi tipici della
filosofia continentale e che sono sati ampiamente ripresi nell’ambito della
filosofia postmoderna. In questo quadro siamo in grado di comprendere perché il
conflitto tra umani e replicanti, che pure è l’elemento principale della trama
del film, resti privo di soluzione.
Il conflitto si configura come un conflitto tra l’uomo e la sua immagine
degradata, l’uomo e la sua mimesi,
alla quale l’uomo stesso ha conferito realtà e vita. Nel film, il conflitto tra
umani e replicanti è messo in scena con una grande accuratezza analitica. Esso
tuttavia – come s’è visto - prende la forma di una dialettica senza
conciliazione. Umani e replicanti, nonostante il lavorio dell’intreccio
narrativo, non riescono a stabilire con chiarezza i reciproci confini e si
scambiano continuamente i ruoli. Gli umani perdono progressivamente la loro
umanità, mentre i replicanti, in talune situazioni, mostrano maggiore umanità
degli umani stessi. Questo scambio continuo sarebbe una prova in più del fatto
che essi sono effettivamente interscambiabili. Essi potrebbero essere la stessa
cosa, però non si può o non si vuole ammettere che siano la stessa cosa. L’esito
finale resta così un nodo privo di soluzione. Del resto sembra proprio che,
nell’impossibilità di una soluzione, Gaff, con la sua finale equivalenza tra il
vivere e il morire, evochi la «comune rovina delle parti in lotta», secondo una
nota battuta di Marx.
Il finale privo
di soluzione (a parte la consolatoria ma del tutto aperta fuga di Rachael e
di Deckard) può essere valutato in maniera assai diversa, come un ammirevole
caso di opera aperta che lascia
completamente allo spettatore il suo duro lavoro interpretativo, oppure come la
confessione di un fallimento del
complesso meccanismo narrativo messo in cantiere. Un fallimento che, in tal
caso, sarebbe dovuto anche alla stessa matrice filosofica che è stata
continuamente evocata e utilizzata nel film. In una battuta, come il film non
porta alla fine da nessuna parte, anche la filosofia continentale che sta dietro
al film non porta da nessuna parte.
21. La problematica profonda che sta dietro al
conflitto tra umani e replicanti – e che sembra tuttavia sfuggire totalmente
alla consapevolezza del film - è quella dell’accettazione o del rifiuto di
Darwin e della sua teoria
evoluzionistica. La teoria di Darwin, unita ai risultati odierni della
genetica e delle neuroscienze, sostiene esattamente che noi
siamo dei replicanti. Non siamo certo stati prodotti dalla Tyrell
Corporation ma siamo stati effettivamente prodotti attraverso un meccanismo
elementare di prova ed errore
dall’Orologiaio cieco dell’evoluzione.[16]
Posto che sia divenuto possibile replicare esattamente
un essere umano dal punto di vista
biologico, cervello compreso, con tutti gli annessi e connessi,[17] che
differenza ci sarebbe tra un umano normale e un umano replicato? Sarebbe
possibile distinguerli? Se la risposta fosse «No», allora bisognerebbe dare
ragione a Darwin, dunque umani e replicanti sarebbero esattamente la stessa
cosa. Se la risposta fosse invece «Sì», allora si dovrebbe dare ragione alla
filosofia pre darwiniana, l’uomo sarebbe qualcosa di altro,
oltre l’elemento biologico genetico e culturale. Si dovrebbe tornare così alla
questione dell’anima, al dualismo cartesiano tra la materia e lo Spirito. Allora
dovrebbe però essere possibile costruire un qualche test (magari come il Voight-Kampff!) capace di rilevare le differenze.[18]
Nel quadro ipotetico assunto dal film, gli elementi in
base ai quali rilevare la differenza tra umani e replicanti sono davvero deboli
e – peraltro – nello stesso contesto narrativo se ne fa rilevare
l’inconsistenza. Il primo criterio – come s’è visto - è quello di una supposta
incapacità di governare le emozioni
da parte dei replicanti. Il secondo sarebbe il fatto di possedere o meno ricordi personali. Entrambe le ipotesi
sono smantellate dallo stesso plot
narrativo, poiché al disordine emotivo degli androidi si può sopperire
attraverso la fornitura di ricordi e alla deficienza di ricordi personali si può
sopperire attraverso la loro fabbricazione o il loro impianto in laboratorio.
Più banalmente, usando il senso comune, per uguagliare androidi e replicanti
basterebbe lasciare che gli androidi potessero nascere e poi fare le loro
esperienze e memorizzarle, come chiunque altro. La pecora Dolly è nata e ha
fatto le sue brave esperienze da pecora, come qualunque altra pecora. e non è
successo nulla di strano. Ha fatto la sua bella vita da pecora.
22. Nonostante la debolezza delle argomentazioni atte a
distinguere gli umani dagli androidi, il presupposto dato per scontato dal film
resta pur sempre quello che ci sia una
differenza tra umani e replicanti, che gli umani abbiano qualcosa di
diverso, una loro essenza che i
replicanti non possono avere. Nello stesso tempo tuttavia l’indeterminatezza del
finale e i continui interscambi tra umani e replicanti insinuano nello
spettatore che quell’essenza, se mai c’è stata, è sempre più inafferrabile e
precaria. Insomma, quell’essenza umana ideale che dovrebbe essere a tutti i
costi difesa e salvaguardata non è mai mostrata.
Il fatto è che, nel corso stesso del film, ci si rende
conto che quell’elemento umano distintivo, speciale ed essenziale, non può più
essere mostrato, non ha più alcun fondamento. Nel mondo di Blade
Runner l’autentico e l’inautentico sono ormai un unico blob.
La colomba che vola via rappresenta l’anima improbabile
di un replicante. Piuttosto che ammettere una qualche specificità umana
positiva, una qualche forma di essenza, di anima o di Spirito, Gaff non riesce a
fare altro che dichiarare la perfetta equivalenza della vita e della morte. Gaff
dunque dichiara la morte di Dio,
dichiara l’impraticabilità fattuale di ogni umanesimo, ma non sa guardare
oltre.
C’è dunque nel film un’impossibile conciliazione, un
nichilismo di fondo, proprio perché il suo orizzonte - come quello del pubblico
cui si rivolge - è pre darwiniano. È cioè un orizzonte dove comunque lo Spirito
è ancora in strenua lotta contro la materia. Guarda caso, questo è proprio
l’orizzonte della filosofia continentale degli ultimi secoli. L’ossessivo test
Voight-Kampff è
un test che in realtà mira a identificare il nemico, a trovare il punto di
separazione tra la materia e lo Spirito, come faceva Cartesio quando discettava
della ghiandola pineale. Ebbene, Darwin ci ha mostrato che quel punto di
separazione proprio non c’è. E quindi siamo tutti macchine biologiche, siamo
tutti progettati geneticamente e, come gli androidi del film, abbiamo tutti dei
ricordi innestati, derivanti cioè dalla interiorizzazione della cultura, abbiamo
anche noi una data di scadenza e non avremo alcuna vita eterna. Per Darwin, i
replicanti siamo noi.
Non abbiamo ancora digerito Darwin, per questo abbiamo
così paura dell’oggetto e, in particolare, dell’oggetto biologico
sconosciuto[19], e non ci rendiamo conto che proprio noi siamo
quell’oggetto tanto temuto e bandito. Noi in realtà – sostiene Darwin - siamo un
prodotto tecnico dell’Orologiaio
cieco. Noi siamo la tecnica nella
sua espressione più alta. Un automatismo tecnico che non ha intelligenza (alla
faccia dell’intelligent design) e
che tuttavia riesce a produrre una qualche intelligenza che in qualche modo
funziona. Solo in certa filosofia contemporanea di orientamento analitico si sta
facendo qualche passo avanti verso una conciliazione effettiva del soggetto e
dell’oggetto, il che comporta però un superamento del dualismo in una visione
compiutamente naturalistica. Ciò
permetterebbe un riconoscimento pieno della nostra natura
seriale e, nel contempo, della nostra relativa unicità
individuale. Passando però per Darwin. Ma tutto ciò è ancora di là da
venire.
23. Il film dunque,
inconsapevolmente, fa propria una tradizionale folk
philosophy religiosa e romantica che dà per scontata la distinzione tra lo
Spirito e la materia o, se si preferisce, che vuole subordinare la materia allo
Spirito. Una materia sempre vituperata che prende di volta in volta le sembianze
del meccanico, del biologico, del tecnologico, del seriale, della ragione
strumentale, del calcolo, della logica formale, del dominio, della merce e così
via. La popolarità del film è evidentemente dovuta alla sua capacità indubbia di
mettere in scena questo conflitto
d’altri tempi che riesce ad appassionare il vasto pubblico solo perché,
nonostante Darwin, siamo rimasti ancora radicalmente dualisti. Il film, a onor
del vero, pone rigorosamente il problema dell’insufficienza del dualismo, mostra
tutta la sua implausibilità, ma poi si arresta sull’orlo della soluzione.
Preferisce uccidere lo Spirito e contemplarne le membra sparse, come nel
nichilismo finale di Gaff, piuttosto che ammettere che lo Spirito è il prodotto
ultimo di una macchina biologica, genetica e
culturale.
24. Blade
Runner è dunque un’opera postmoderna per eccellenza. Un’opera
decisamente anti moderna, direi.
Forse un’opera anche filosoficamente reazionaria, rivolta al passato. Ha
saputo rappresentare e divulgare in modo popolare quei temi tipici del
postmoderno che, in fin dei conti, costituiscono l’ultima spiaggia della
filosofia continentale, la quale ormai si esprime sempre più soltanto come
narrazione della decadenza dello
Spirito, come consapevolezza della fine di un’epoca. Tutto ciò agitando
sconsolatamente temi come la fine della comunità, la fine del sacro, la fine del
progresso, la fine delle rivoluzioni, la fine delle ideologie, la fine della
storia, la fine del soggetto, la fine dei valori. La fine, insomma, di una certa
idea pre darwiniana dell’uomo.
Il film ha avuto l’indubbia capacità di fare da
specchio a un’epoca, a un modo di
sentire dell’epoca. Un’epoca in cui la cultura popolare, diventata cultura
di massa egemone, non è stata in grado accogliere, elaborare e padroneggiare i
cambiamenti e le trasformazioni indotti e resi possibili dal progresso tecnico.
Non è stata in grado, in altri termini, di farsene
una ragione e li ha rifiutati come fossero una cattiva ragione. Forse è
proprio in seguito a questa costatata incapacità che è stata riesumata la
metafora dei barbari e della barbarie. In questa nostra epoca, le visioni della decadenza ci parlano
intimamente perché noi stessi ci
sentiamo decaduti, perché l’immagine che ci è stata innestata
(come si dice nel film) dalla cultura che ci ha formati è divenuta logora troppo
in fretta. È un film che ci parla diffusamente della perdita
di un mondo, ma non ci aiuta in alcun modo a costruire
un nuovo mondo. Anzi, fa di tutto per mantenerci
a contemplare le rovine dello
Spirito in una specie di sospensione ipnotica, mantenendoci così anche fuori dalla storia.
Storicamente, nei termini di una storia della cultura,
è un film che rispecchia in pieno la colonizzazione che, proprio in quegli anni
Ottanta, stava avvenendo, in America, ad opera delle filosofie continentali,
secondo l’asse Nietzsche, Heidegger, Gadamer e secondo le varie espressioni del
post strutturalismo.[20] È davvero curioso che nel film ci siano quasi
esclusivamente riferimenti alle filosofie del vecchio
mondo! A quei movimenti filosofici stranieri che portarono alla
diffusione, nelle facoltà umanistiche americane, dei cosiddetti Cultural
Studies, uno strano pastrocchio di arte, scienza e letteratura, venduto come
cultura umanistica e che oggi sempre più spesso è preso come esempio del degrado
della cultura americana (e non solo). Sono quelle correnti che sono state
giustamente satireggiate da Sokal.[21] Anche qui possiamo riconoscere una bella
dialettica che però sembra abbia funzionato al contrario di quella di Horkheimer
e Adorno. Quella cultura che ha diffuso e reso popolare, in tutto l’Occidente,
la narrazione della decadenza è oggi
fortunatamente sempre più spesso presa come un caso
di decadenza. Oggi, di tutta quella fioritura rimane ben poco. Rimangono
senz’altro molte macerie. Ma questa è un’altra storia.
Giuseppe Rinaldi
4/10/2017
OPERE CITATE
1955 Benjamin, Walter
Schriften, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main. Tr. it.: Angelus Novus. Saggi e frammenti,
Einaudi, Torino, 1995.
2008 Benjamin, Walter
The Work of Art in the Age of Its Technological
Reproducibility, and Other Writings on Media (Eds.: Michael
W. Jennings, Brigid Doherty, and Thomas Y. Levin), The Belknap Press of Harward
University Press, Cambridge, Mass..
1986 Dawkins, Richard
The Blind Watchmaker, Longman
Scientific and Technical, UK. Tr. it.: L'orologiaio cieco. Creazione o
evoluzione?, Rizzoli, Milano, 1988.
1992 Fukuyama, Francis
The End of History and the Last
Man,
The Free Press, Glencoe. Tr.
it.: La fine della storia e l’ultimo
uomo, Rizzoli, Milano, 1996.
1944 Horkheimer, Max & Adorno, Theodor
W.
Dialektik der Aufklärung. Philosophische
Fragmente, S. Fischer
Verlag GmbH, Frankfurt am Main. Tr. it.: Dialettica dell'illuminismo, Einaudi,
Torino, 2010.
1916 Lukács, Gyorgy
Die Theorie des Romans, Berlino.
Tr. it.: Teoria
del romanzo, SE SRL, Milano, 1999.
1979 Lyotard, Jean-François
La
condition postmoderne, Les Éditions de Minuit, Paris.
Tr. it.: La
condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano, 1981.
1964 Marcuse, Herbert
One-Dimensional Man. Studies in the Ideology of the
Advanced Industrial Society,
Beacon Press, Boston. Tr.
it.: L'uomo a una dimensione.
L'ideologia della società industriale avanzata, Einaudi, Torino,
1967.
1997 Sokal, Alan & Bricmont, Jean
Impostures intellectuelles,
Odile Jacob, Paris. Tr. it.:
Imposture intellettuali, Garzanti,
Milano, 1999.
1983
Vattimo, Gianni & Rovatti, Pier Aldo (a cura di)
Il pensiero debole,
Feltrinelli, Milano.
NOTE
[1] La stesura di questo articolo è avvenuta prima
dell’uscita del sequel, ad opera di
Denis Villeneuve, Blade Runner 2049.
Mi riservo eventualmente di tornare sull’argomento dopo avere visionato il nuovo
film.
[2] Il film è uscito nel 1982. Non ebbe un grande
successo. Nel corso del tempo ne furono confezionate diverse edizioni. Nel 2007
– così spiega Wikipedia - in occasione del 25º anniversario dell’uscita della
pellicola, la Warner Bros. ha pubblicato The Final Cut, una versione
digitalmente rimasterizzata e l’unica su cui Scott ha avuto totale libertà
artistica.
[3] Il racconto di Philip K. Dick Do
Androids Dream of Electric Sheep? è uscito nel 1968. Questa è una data
piuttosto emblematica. Tra il 1968 e il 1982 – data dell’uscita del film – si
era consumata, in molti Paesi del mondo, una vera e propria utopia
rivoluzionaria e si erano sperimentati la sconfitta e il riflusso.
[4] Il test evoca chiaramente la ben nota macchina
della verità o poligrafo,
strumento dalle dubbie prestazioni, che è sempre stato connotato come strumento
invasivo da parte del potere nei confronti dei singoli individui.
[5] Uso qui questo termine in senso del tutto generale
e dunque necessariamente impreciso.
[6] Anche Tyrell è un uomo solo. Un caso esemplare di
etica calvinista e di spirito
del capitalismo. Ma anche un caso esemplare del tipo della solitudine
del tiranno, circondato da gufi meccanici e da belle replicanti che non
sanno neppure di esserlo. È così solo che ha bisogno della compagnia
dell’infantile Sebastian, che tuttavia è un buon giocatore di scacchi. La
partita a scacchi con Sebastian segnerà indirettamente la fine di Tyrell, per
mano del figlio illegittimo, il replicante Roy, che ha seguito Sebastian
all’appuntamento.
[7] Nel testo inglese: «It’s
too bad she won’t live. But then again, who does?».
[8] Cfr. Benjamin 1955.
[9] Cfr. Fukuyama 1992.
[10] Cfr. Horkheimer & Adorno 1944.
[11] Cfr. Marcuse 1964.
[12] Il finale della fuga di Deckard (sospetto di
essere anche lui un replicante) e di Rachael è troppo poco per pensare a una
conciliazione tra gli umani e i replicanti.
[13] C’è ovviamente una diversa versione dello sviluppo
dell’individualità, legata alla nozione illuministica della emancipazione e
della liberazione del soggetto individuale. Questa narrazione è tuttavia
piuttosto estranea alla filosofia continentale.
[14] Cfr. Lukács 1916.
[15] Cfr. Benjamin 2008.
[16] La metafora dell’orologiaio
cieco si trova in Dawkins 1986.
[17] Una cosa analoga è effettivamente avvenuta qualche
decennio fa – non esattamente nel modo descritto dal film – con la clonazione
della pecora Dolly.
[18] In questo senso il film sembra uno di quegli
esperimenti mentali cui ci ha abituato la filosofia analitica, la quale si è
domandata piuttosto seriamente cosa significa essere un pipistrello, oppure se
sia possibile che noi siamo un cervello in una vasca. La questione è chiaramente
metafisica e più precisamente ontologica.
[19] Su questa paura, lo stesso Ridley Scott ha
costruito la fortuna della saga di Alien.
[20] Il film è uscito nel 1982. Nel 1979 Lyotard
pubblicava il suo rapporto dal titolo La condition postmoderne, che è
considerato una specie di manifesto del postmodernismo. Nel 1983 usciva in
Italia Il pensiero debole di Vattimo
& Rovatti, considerato anch’esso come il manifesto italiano del
postmodernismo.
[21] Cfr. Sokal & Bricmont 1997.