1. Se c’è un film di fantascienza[1] che, 
nell’immaginario popolare, ha segnato un periodo della nostra storia recente, 
questo non può essere che Blade 
Runner di Ridley Scott. Che l’abbia segnato è abbastanza certo, ma non è 
facile spiegare il perché. In quest’articolo che, come si vedrà, si occupa di 
filosofia piuttosto che di critica cinematografica, cercherò di spiegare, a me 
stesso e ai miei dieci lettori, perché Blade Runner ha parlato e parla 
tutt’oggi al nostro senso comune in modo così immediato da non avere bisogno di 
dichiarazioni esplicite. E di spiegare anche perché l’attrazione che proviamo 
per questo film è in realtà una specie di attrazione perversa, che può limitarsi 
ad alimentare in noi un atteggiamento malinconico e pessimistico, da catastrofe 
incombente, ma che può anche rischiare di portarci su strade filosofiche 
decisamente accidentate e perigliose.
2. Prima di procedere, affronterò alcune questioni 
preliminari. Notoriamente, Blade
 Runner[2] è tratto da un racconto di Philip K. Dick dal titolo Gli 
androidi sognano pecore elettriche?[3] Non mi occuperò tuttavia del rapporto 
tra il testo letterario e quello filmico. Peraltro il film è soltanto ispirato
 al racconto e diverge in molti aspetti rilevanti dal testo letterario. Comunque
 Dick, che non ha potuto vedere il risultato finale, pare abbia seguito la
 lavorazione del film e che ne fosse, alla fine, piuttosto 
soddisfatto.
Scott ha dichiarato esplicitamente che Blade Runner è 
una pura opera di intrattenimento e 
che, quindi, non ha alcuna velleità d’altro genere. Tuttavia com’è noto ormai – 
la consapevolezza dell’autore può anche essere molto diversa da quanto l’opera 
intrinsecamente dice. Per capire l’effetto di Blade 
Runner sul pubblico, per chiarire il suo rapporto con la sua epoca, si 
tratta allora di farne una lettura testuale, eventualmente anche al di là delle 
intenzioni dell’autore. Ci si accorgerà allora che una filosofia implicita (o se 
si vuole per lo meno uno stile 
filosofico) è sistematicamente ben presente. Si tratta di una filosofia che 
ben decodificabile, anche se non può avere quella coerenza che si richiede a un
 trattato accademico. Del resto, molti filosofi hanno elaborato delle pure
 fantasie intorno alle quali hanno costruito interi sistemi filosofici. La
 distanza tra la filosofia e la fiction è minore di quanto non sembri a 
prima vista. 
Data la relativa complessità della questione, dividerò 
l’analisi in due parti. In una prima parte cercherò di compiere un’operazione 
analitica, andando a rileggere, in forma sparsa, quegli aspetti del film che 
abbiano un qualche interesse di natura filosofica. In una seconda parte cercherò 
invece di identificare, con nome e cognome, alcune matrici filosofiche presenti 
nel film e cercherò di darne una formulazione esplicita e un inquadramento 
critico. Poiché del film sono state prodotte diverse versioni, preciso che mi 
riferirò al final cut del 2007, 
l’unico in cui Scott pare abbia avuto la piena libertà autoriale.
3. Filosoficamente, l’opera appartiene alla categoria 
delle distopie, cioè delle utopie 
negative. Sono quelle opere che leggono nel nostro presente, piuttosto che i 
segni di un progresso, di un futuro radioso o di un mondo paradisiaco, i segni 
di una catastrofe incombente. Proprio in relazione al suo carattere distopico, 
Blade Runner si fa anzitutto notare 
per il particolarissimo trattamento del tempo. Il tempo non è il tempo lineare 
cui siamo abituati. Il futuro che vi è rappresentato si colloca in un tempo 
privo di direzione, dove passato, presente e futuro sono completamente 
appiattiti. Si tratta dunque di un film di fantascienza che, per prima cosa, 
sembra voler proporre una diversa 
nozione del tempo, una specie di fine del tempo così come comunemente lo 
conosciamo. Ciò è evidente anzitutto nella fotografia e nella scenografia ove si 
mescolano elementi di un futuro tecnologicamente assai progredito con elementi 
di un passato polveroso (le ventole onnipresenti, i fumi, la nebbia, le case 
decadenti, l’atmosfera da suk o da 
quartiere cinese, i computer che assomigliano a vecchie telescriventi, lugubri
 edifici gotici e palazzi che evocano piramidi egizie). Passato, presente e
 futuro sono compresenti, completamente inchiodati in un’attualità 
decadente che incombe e opprime.
4. Veniamo ora ad alcuni accenni essenziali al contesto 
storico sociale della narrazione. Nel futuro 2019 – si tenga presente che il 
film è uscito nel 1982 - gli umani hanno ormai colonizzato altri mondi. Coloro 
che possono permetterselo e sono stati autorizzati hanno ormai abbandonato la 
Terra verso le colonie nello spazio. Nel film si vede più volte una specie di 
velivolo che fa propaganda e raccoglie le adesioni per andare nel new 
world. Si noti l’inversione dei ruoli: il “nuovo mondo” americano è ormai 
imputridito, è diventato decisamente vecchio, e la popolazione fugge verso un 
altro “nuovo mondo” collocato ora nello spazio. Nelle città terrestri c’è una 
grave crisi demografica e gran parte degli edifici sono ormai in abbandono. Una 
periferia putrida contrasta con enormi aggregati urbani iper moderni, la cui 
architettura richiama però modelli arcaici. Nei quartieri bassi di Los Angeles, 
dove la storia del film è per lo più ambientata, c’è una spiccata orientalizzazione 
demografica e culturale. Ciò si vede dalle facce, dalle insegne, dalla lingua 
parlata. In giro si parla uno slang 
misto di inglese e cinese di cui nel film vengono esibiti alcuni divertenti 
campioni. Los Angeles sembra diventato un enorme quartiere cinese. Il film ci ha 
fornito una visione profetica della colonizzazione dell’Occidente da parte 
dell’Oriente, cosa che sembra stia effettivamente consumandosi in questi ultimi 
tempi.
5. L’ipotesi da cui prende il via il film è che il 
progresso tecnico abbia permesso a una bioindustria denominata Tyrell 
Corporation (il cui motto è «Più umano dell’umano!») la fabbricazione di 
androidi biologici del tutto simili agli 
uomini, seppure con certe facoltà fisiche aumentate. Nel film sono chiamati 
replicanti. Sono in pratica 
indistinguibili dagli umani ma completamente subordinati. Sono usati come 
schiavi, guerrieri o oggetti sessuali. Tuttavia, i replicanti dell’ultima 
generazione Nexus 6, dislocati soprattutto nelle colonie, hanno sviluppato una 
loro autonomia, si sono ribellati e ciò ha prodotto una specie di guerra civile 
tra umani e replicanti. In conseguenza di ciò, la Terra è stata interdetta ai 
replicanti ed è stato organizzato un particolare corpo di polizia, i Blade 
Runner, per scovare e ritirare 
(un eufemismo che sta per uccidere) gli eventuali replicanti intrusi. Il caso a 
tutti gli effetti poliziesco che muove la vicenda del film è costituito appunto 
dalla penetrazione a Los Angeles di un gruppo di replicanti di ritorno dallo 
spazio. 
Centri e periferie, colonizzazione, schiavitù, 
ribellione e guerra civile. Come si può ben vedere, si tratta di un cupo 
condensato della storia del mondo, 
dalla preistoria ai giorni nostri, che è proiettato – come si diceva - in un 
futuro del tutto appiattito e senza tempo. Tutto 
il possibile è già accaduto e dunque tutto può soltanto ripetersi. Il futuro 
assomiglia tanto al passato che conosciamo già, amplificato e deformato come in 
un incubo. Questa impostazione è del tutto consona – sto anticipando – alla 
visione postmoderna del mondo.
6. Il film inizia con un’immagine emblematica: un 
occhio misterioso, inquadrato in primissimo piano, in cui si riflette il mondo 
esterno, una Los Angeles del 2019 rappresentata come un mostro 
tecnologico dotato di una vita propria, che produce boati assordanti, con 
torri che sbuffano fiammate e fumi in un cielo sempre buio. Un paesaggio 
apocalittico. L’occhio probabilmente (non è detto esplicitamente) appartiene al 
primo replicante intruso destinato a entrare in scena, quello di Leon. Il tema 
dell’occhio è un tormentone che sarà ripetuto più volte. L’occhio è, infatti, il 
luogo fisico dove si rispecchia il mondo 
esterno, ma anche il luogo dove si cela la verità o il tentativo di 
dissimulazione della verità circa il proprio mondo 
interno. Il motivo dell’occhio tornerà spesso in tutto il film, ad esempio a 
proposito di Hannibal Chew, il fabbricante genetico di occhi, oppure a proposito 
del gufo artificiale del palazzo della Tyrell, e così via.
7. L’occhio è il protagonista nel test cui viene 
sottoposto, da parte di un agente della Blade Runner, il replicante in 
incognito Leon, uno dei Nexus 6 fuggitivi, che si è fatto assumere alla Tyrell 
Corporation come uomo di fatica. Il test accuratamente descritto, detto di Voight-Kampff, serve a smascherare i replicanti e 
prevede l’utilizzo di una macchina, una specie di 
poligrafo,[4] in grado di misurare vari parametri biometrici, tra cui la 
dilatazione dell’iride. Il che avviene durante la somministrazione di un certo 
numero di domande atte a creare una forte tensione emotiva. 
L’esame cui è sottoposto Leon pone, fin dall’inizio, il 
problema della sottile differenza tra gli umani e i replicanti. Costoro, dal 
punto di vista biologico, sono perfettamente uguali agli umani e dunque 
indistinguibili. La sola differenza apprezzabile – così si sostiene - sarebbe 
costituita da una diversa capacità di controllo delle reazioni 
emotive. I replicanti sono privi di esperienza e di storia personale per cui 
non sanno controllare bene le loro reazioni emotive e così falliscono il test. 
L’esame condotto dall’agente della Blade 
Runner nei confronti di Leon è assai formale e psicologicamente piuttosto 
invasivo. Leon è già di per sé un po’ fuori di testa e non si intende affatto 
con l’esaminatore. Finché, in seguito a una domanda non gradita concernente sua 
madre, tira fuori una pistola nascosta, gli spara e l’ammazza. E riesce a 
dileguarsi. 
Il caso dell’assassinio del poliziotto e della fuga di 
Leon – che pare avere altri complici - inducono il capitano Bryant a richiamare 
in servizio Rick Deckard, un leggendario terminatore di replicanti, il quale 
tuttavia è assai riluttante. Deckard viene scovato in una specie di quartiere 
cinese dal claudicante poliziotto Gaff e viene da lui accompagnato alla centrale 
di polizia, dove – sotto la minaccia di un ricatto - sarà costretto a tornare in 
servizio e a farsi carico della missione. Gaff è una figura ambigua, un 
personaggio secondario, che però starà sempre alle costole di Deckard, per tutto 
il film, senza tuttavia mai intervenire, limitandosi ad abbandonare in giro 
diversi piccoli origami di carta che 
commentano le vicende. Solo alla fine Gaff si rivelerà un personaggio rilevante 
ai fini della comprensione dell’intera vicenda.
8. Poiché Leon e gli altri androidi fuggitivi 
appartengono al nuovo modello Nexus 6, il primo intervento di Deckard avviene 
proprio alla Tyrell Corporation, per sperimentare l’efficacia del test Voight-Kampff anche su quel tipo di modello. Qui 
Deckard incontra prima la bella Rachael, collaboratrice di Tyrell, e poi lo 
stesso Tyrell in persona. Tyrell chiede espressamente a Deckard di provare prima 
il test sulla sua collaboratrice, intendendo che questa sia umana, per avere, 
dice, una prova in negativo. Assistiamo così a una seconda ampia e dettagliata 
esecuzione del test Voight-Kampff, questa volta 
condotto su un umano. Deckard tuttavia, dopo poche domande, in separata 
sede rivela a Tyrell che la sua collaboratrice è un replicante. Tyrell spiega a 
sua volta che lei non lo sa, poiché la Tyrell, con un esperimento, le ha 
impiantato falsi ricordi. La Tyrell Corporation, infatti, nell’intento di 
incrementare la somiglianza dei suoi androidi con gli umani, ha progettato di 
dotare i suoi nuovi modelli di ricordi 
artificiali. Il test comunque turba alquanto Rachael che, evidentemente, 
aveva già qualche sospetto circa la propria natura di replicante. Proprio questo 
sospetto darà origine al complesso rapporto di Rachael con Deckard, che sarà uno 
dei motivi conduttori del film. 
Le due vicende di Leon e Rachael con il poligrafo 
servono a introdurre i personaggi e a definire la situazione di partenza della 
storia. La questione filosofica che è posta con chiarezza, fin dall’inizio, è 
quella della differenza tra ciò che 
è compiutamente umano (considerato come unico e irriproducibile) e ciò che è 
meramente biologico (e dunque tecnicamente riproducibile). Se vogliamo, si 
tratta di chiarire se esista qualcosa come un’identità 
umana separata dalla componente biologica. Filosoficamente, si tratta di una 
domanda circa la natura ultima di ciò che i filosofi continentali hanno chiamato 
Spirito.[5]
9. Non seguiremo nel dettaglio la trama del film che, 
nella lettura più superficiale, è costituita dalla caccia, da parte di Deckart, 
ai diversi replicanti tornati sulla Terra. Si tratta di Leon, di cui abbiamo già 
detto, delle due donne Zhora e Pris, e di Roy Batty che è definito come un 
“modello da combattimento”. I replicanti sono capeggiati da Roy e sono venuti 
sulla Terra, cercando di penetrare nella Tyrell Corporation, perché vogliono 
«più vita», cioè vogliono trovare il modo di togliere la scadenza (di quattro 
anni) che è stata immessa nel loro corredo genetico quando sono stati 
fabbricati. Nel corso del film tuttavia, come si vedrà, il numero dei replicanti 
è destinato ad aumentare.
10. Oltre alla difficoltà di dominare le emozioni, di 
cui s’è detto, l’altro elemento correlato che distingue gli umani dai replicanti 
è la memoria. È questa una delle 
tematiche più interessanti del film. La memoria personale va oltre il livello 
del mero biologico e, in un certo senso, garantisce l’unicità della persona. Le 
esperienze immagazzinate nella memoria e rielaborate sono un unicum 
che rende unica la persona stessa. È 
la persona così costruita che si rapporta con le emozioni e con la sua base 
biologica. Per questo la Tyrell Corporation, nell’intento di rendere i 
replicanti sempre più simili agli umani, ha provato a dotarli di falsi 
ricordi e di relativi documenti 
falsi (come nel caso di Rachael). La possibilità tecnica di riprodurre le 
memorie individuali non può che creare una situazione d’incertezza generalizzata 
circa le diverse identità dei diversi soggetti. I singoli non possono più essere 
completamente certi di essere autentici, dell’autenticità dei propri stessi 
ricordi e dei propri documenti. L’ontologia dei singoli individui è così messa 
radicalmente in discussione. Questa nuova situazione di incertezza identitaria 
fa anche sì che i ricordi – quelli creduti autentici - siano tenuti nella 
massima considerazione, come un bene prezioso cui aggrapparsi per non smarrirsi. 
Il film è pieno di riferimenti alla questione della 
memoria e della sua riproducibilità. Il rude operaio replicante Leon è legato 
alle foto che testimoniano del suo passato e sarà proprio grazie a queste che 
Deckard riuscirà a pedinare lui e a identificare e a ritirare 
la sua amica Zhora. L’identificazione di Zhora in una delle foto di Leon 
avviene, tra l’altro, con un procedimento d’ingrandimento fotografico del tutto 
simile a quanto avviene in Blow – up 
di Antonioni. Il che resta pur sempre una questione di memoria, seppur 
registrata attraverso la fotografia. Rachael a sua volta basa la sua ferma 
convinzione di essere umana su un pacchetto di foto che la ritraggono nella sua 
infanzia e su una serie di ricordi privati d’infanzia che non ha mai rivelato a 
nessuno. Ricordi che tuttavia Deckard mostra di conoscere nei minimi dettagli, 
essendo notoriamente ricordi che la Tyrell impianta nei suoi androidi. 
11. La problematica dei ricordi coinvolge tuttavia 
inaspettatamente anche Deckard. Nella sua stanza, Deckard ha un pianoforte e sul 
leggio, assieme a uno spartito musicale, ha una serie di vecchie fotografie in 
bianco e nero, disposte in maniera quasi religiosa. Si presume riguardino il 
passato familiare di Deckard. Rachael, quando si trova in casa di Deckard, dopo 
l’eliminazione di Leon, decide di imitare la pettinatura di una giovane donna 
ritratta in una delle foto. In un momento successivo Rachael si mette a suonare 
il pianoforte – forse suona la musica dello spartito – dicendo però poi che lei 
non sapeva di saper suonare. Si noti che il pianoforte, che è così assurto a una 
specie di luogo della memoria, è lo 
stesso luogo in cui Deckard aveva sognato, a occhi aperti, un unicorno in corsa 
attraverso una foresta. Unicorno che tornerà platealmente nel finale. Le foto 
che si trovano sul pianoforte, i ricordi personali di Deckard e i suoi sogni 
sono davvero suoi o sono ricordi impiantati? Il film fa dunque nascere 
progressivamente il sospetto che Deckard, che conosce così bene la mente dei 
replicanti, possa essere anch’egli un replicante. 
Avere una vivida memoria del proprio passato e avere 
anche a disposizione dei reperti materiali di supporto non fornisce dunque 
alcuna certezza di essere davvero un umano e di non essere un replicante. Sul 
piano filosofico una simile eventualità ha notevoli conseguenze. Se anche la 
memoria individuale si può fabbricare e impiantare, allora tutto 
il passato può essere fabbricato come qualsiasi altra cosa. Il passato 
diventa merce. In una bella battuta Rachael afferma: «Io sono il business». 
I fabbricanti del passato diventano dunque i veri fabbricanti 
della storia e non esiste più alcun processo storico oggettivo o 
oggettivabile. È questo un altro argomento che sostiene l’ipotesi della fine della storia per com’è stata 
normalmente conosciuta. Tutto ciò richiama certi dettagli della trama del 
formidabile 1984 di Orwell. Là c’era 
addirittura un piano elaborato di ricostruzione sistematica della storia, con 
tanto di produzione di documenti falsi, a uso e consumo del sistema di potere 
vigente. 
 12. 
Il progettista genetico J. F. Sebastian è anch’egli un replicante – anche se la 
notizia ci vien data molto di sfuggita – dunque un prodotto della Tyrell 
Corporation. Egli tuttavia vive in città mescolato agli umani e pare non essere 
soggetto ad alcun controllo o restrizione. Come replicante ha anch’egli dei 
problemi con il tempo, soffre cioè di una forma d’invecchiamento fisico precoce. 
Viene presentato come un tecnico obbediente, complice e addirittura amico di 
Tyrell,[6] con il quale Tyrell ha buoni rapporti e con cui ama giocare a 
scacchi. Il film suggerisce che Sebastian, poiché è gentile, inoffensivo e 
ingenuo, sia una vittima, sia cioè strumentalizzato dal suo padrone. Nel
 suo tempo libero si comporta come un bambino dotato di grande fantasia, produce
 buffi giocattoli animati, che riempiono la sua casa e lo distolgono dalla
 solitudine. Manifesta insomma un lato umano assai marcato. Impersona abbastanza
 chiaramente il complice involontario 
del sistema. Ignorando di avere già Roy sulle sue tracce, Sebastian 
rimorchia Pris, incontrata per caso, e la conduce a casa sua, non sospettando 
neppure di chi si tratti. Ma poi, quando a Pris si aggiunge Roy, non fa fatica a
 riconoscere che si tratta di replicanti. Del resto lui è uno del mestiere. Sarà
 proprio Sebastian a svolgere inconsapevolmente il ruolo del traditore, cioè il
 ruolo di consegnare il proprio stesso “padre” Tyrell alla vendetta delle sue
 creature. Una specie di Giuda sui 
generis. I complici involontari 
del sistema spesso presentano una natura ambigua.
13. Pris, pur essendo un modello Nexus 6, è stata 
progettata per fare la prostituta d’alto bordo. Appare confusa, smarrita, 
talvolta stupida, governata da emozioni elementari. Ciò nonostante è munita di 
grande prestanza fisica ed è anche capace di pronunciare, di fronte alla 
richiesta di Sebastian di mostrargli cosa sa fare, una classica citazione 
filosofica: «Penso dunque sono». Morirà impallinata da Deckart, non prima però 
di avere dato vita a una scena estremamente significativa sul piano filosofico 
che ci interessa.
Pris è rimasta sola nella casa di Sebastian, in mezzo 
ai suoi numerosi vivaci e chiassosi pupazzi meccanici. Deckart, intento a 
perquisire l’appartamento di Sebastian dopo la sua morte, entra con la pistola 
in pugno e si trova immerso in un mondo mitologico e fiabesco. In questo 
frangente del film, non solo il tempo è appiattito, ma entra prepotentemente in 
scena anche ilmondo dei miti e delle 
favole. Pris, che si è dipinta una mascherina nera sugli occhi, è ferma, 
immobile, con un velo in testa, sembra una sposa o una ballerina classica, 
bambola tra le altre bambole. Deckard si aggira nella stanza in mezzo ai pupazzi 
fantastici che sono mostrati accuratamente allo spettatore. Quando, 
insospettito, alza il velo di Pris, all’improvviso scatta la 
colluttazione.
I giocattoli meccanici di Sebastian, e la stessa Pris - 
sembra suggerire a questo punto il film - fanno dunque parte dell’eterno sogno 
dell’uomo di produrre delle copie di sé. È il sogno, o l’illusione, della rappresentazione mimetica. In questo 
senso, le favole, i miti, i personaggi dei romanzi e – perché no? – quelli del 
cinema sono soltanto degli antenati dei replicanti. Si trovano tutti sulla 
stessa linea evolutiva dei replicanti biologici della Tyrell Corporation. La 
replicazione biologica degli umani attraverso la scienza non sarebbe altro che 
una specie di espressione ultima, e aberrante, della perversione mimetica 
coltivata in passato dagli umani, attraverso la poesia, la letteratura e l’arte 
in generale. La mimesi alla fine 
finisce per diventare realtà, creando seri problemi di distinzione e fagocitando 
i suoi stessi creatori. Tornerò più avanti sulla questione del rapporto tra mito 
e realtà.
14. Una parte consistente del film è impegnata dal 
confronto di Roy Batty con due diversi importanti antagonisti, Tyrell e lo 
stesso Deckard. Il primo confronto avviene con Tyrell. È un confronto carico di 
significati psicologici, morali e religiosi, con qualche elemento di critica 
della scienza e della tecnica. Tyrell è il fabbricante degli androidi, quindi 
metaforicamente un padre delle sue 
creature. Siccome creatore è anche una specie di Dio. Come scienziato 
rappresenta Sisifo che ha donato la luce agli uomini, ma anche l’Adamo peccatore 
che ha mangiato i frutti proibiti dell’albero del bene e del male. Durante il 
loro incontro/ scontro, i sentimenti che intercorrono tra i due sono 
ambivalenti. Tyrell non si ribella più di tanto all’incontro con Roy. Roy sembra 
provare, all’inizio, un certo affetto o per lo meno un certo rispetto verso il 
suo creatore. Il padre/ Dio ha tuttavia i suoi limiti. Tyrell spiega a Roy che 
ciò che è stato stabilito all’atto della fabbricazione non si può cambiare. Non 
si può in alcun modo allungare la vita degli androidi programmati. Quando Roy 
capisce di non avere alcuna possibilità di prolungare la propria vita, uccide 
Tyrell in modo feroce. E qui abbiamo un’altra occorrenza del motivo degli occhi. 
Anche il povero Sebastian, che ha introdotto Roy all’incontro con il padre/ Dio 
farà la stessa fine. 
Qui i riferimenti filosofici si sprecano. L’uccisione 
del padre è ovviamente un celebre tema psicoanalitico. La morte 
di Dio è un altrettanto celebre motivo filosofico nicciano. Volendo, 
possiamo anche riconoscere il motivo letterario della creatura che si ribella al 
creatore, da Prometeo e dal Satana biblico fino al Golem e al Mostro di 
Frankenstein. Durante lo scontro con Tyrell, Roy che è una macchina biologica 
mostra tuttavia di avere una coscienza morale superiore rispetto a quella del 
suo fabbricatore. Dice infatti Roy: «Ho fatto cose discutibili. Cose per cui il 
Dio della biomeccanica non ti farebbe entrare in paradiso». L’idea che qui si 
suggerisce, di un mondo creato da un Dio malvagio è, se non andiamo errati, di 
origine gnostica.
15. Il secondo confronto del replicante Roy avviene 
proprio con Deckard. Mentre il confronto con Tyrell aveva posto problemi morali 
e religiosi, il confronto con Deckard pone una serie di problemi, legati al 
rapporto con l’altro, alla memoria e alla morte. Secondo il plot, 
i due non si conoscono. Roy sa soltanto che Deckard ha “ritirato” i suoi 
compagni Leon, Zhora e Pris e vuole vendicarsi. Va sottolineato, a questo 
proposito, che Roy mostra una inaspettata pietà, del tutto umana, per i suoi 
compagni morti. È noto, detto qui incidentalmente, che il culto dei morti è per 
gli antropologi uno dei segnali della presenza di una coscienza riflessiva e di 
una cultura già del tutto umana.
Data la superiorità fisica di Roy su Deckard, il 
cacciatore diventa cacciato. Roy rimugina tutte le sofferenze dalla sua vita 
e vuole che Deckard capisca cosa vuol dire essere cacciato, vivere continuamente 
nel timore, per cui si diverte con Deckard come il gatto con il topo. Ma il vero
 tema che qui vien posto è quello della morte. Roy sente che le forze gli
 vengono a mancare e che la morte è vicina. Il perfetto replicante modello Nexus
 6 è prossimo alla scadenza. Nell’atmosfera gotica del palazzo in cui si svolge
 il confronto, dopo un lungo e violento inseguimento dell’ormai frastornato
 Deckard, Roy si presenta con una colomba bianca in mano che ha scovato sul
 tetto. Ha una delle mani trafitta da un chiodo. Quando Deckard sta
 precipitando, Roy con le sue ultime forze lo afferra e lo tira su di peso.
 Mette da parte dunque la vendetta e questo poiché ha bisogno di un testimone
 della sua esistenza e, soprattutto, della sua morte. Il famoso ultimo monologo 
«Ho visto cose, …» è anch’esso incentrato sul motivo dell’identità personale e
 della memoria, poiché così conclude: «E tutti quei momenti andranno perduti nel
 tempo. Come lacrime nella pioggia». Alla Tyrell Corporation che fabbrica ricordi falsi, Roy Batty contrappone i
 suoi ricordi autentici, destinati
 però all’oblio.
La morte di Roy è un po’ appesantita da una sorta di 
sovraccarico simbolico fin troppo pop. La colomba che vola via - simbolo
 di un’anima che non avrebbe dovuto esserci e che forse c’era tuttavia - e la
 mano trafitta da un chiodo, che ricorda il martirio di Cristo. Ma anche certe
 sottolineature horror, come quando Roy sbuca beffardo sfondando un muro con la
 testa, impersonando la bestia irriducibile che bracca il perseguitato. Tuttavia
 Roy è un personaggio compiuto, forse il più compiuto del film.
Il replicante Roy è stato da molti commentatori 
accostato al superuomo nicciano. 
L’accostamento è del tutto plausibile ma non perché – come ci è capitato ahimè 
di leggere – in quanto androide è bello e perfetto. Roy può essere avvicinato al 
superuomo di Nietzsche perché la sua vita è collocata in un luogo fisico e 
morale che si trova ormai al di là del 
bene e del male, perché dopo la morte di Dio (l’assassinio del padre) 
egli non ha più alcun vincolo morale, è assolutamente libero e padrone della sua 
volontà. È la manifestazione pura della volontà. Tanto che accetta la sua morte 
(cioè niccianamente vuole il proprio 
destino) e per di più, alla fine, fa quello che ritiene di dover fare, mette 
da parte la vendetta salvando Deckard. Ciò non 
per altruismo – si badi bene - ma per mostrare la propria nobiltà, secondo 
un codice aristocratico che sarebbe certamente piaciuto a Nietzsche. E per 
lasciare una scintilla della propria memoria. Un gesto che deve durare per tutta 
l’eternità, nello spirito dell’eterno 
ritorno. La morte di Roy è dunque anche e soprattutto un
 gesto estetico. Con ciò Roy esce dalla serialità dell’androide e entra
 nell’umano o – se si è nicciani – nel regno misterioso dell’oltre 
uomo.
16. Rick Deckard, il ritiratore di replicanti, sarebbe 
tutto sommato il personaggio meno interessante del film. È tipicamente un 
antieroe. Ha buone doti di investigatore ma non ha grande prestanza fisica. 
Spesso si prende un sacco di botte e si salva soltanto perché altri (guarda 
caso, si tratta per due volte di replicanti) decidono di salvarlo. Compie 
malvolentieri la sua missione, costretto dallo spregevole capitano Bryant che 
praticamente lo ricatta. Fa quel che deve fare perché non può farne a meno. Ciò 
che lo rende simpatico è la sua profonda malinconia. Anche lui è costretto a 
condividere il mondo degradato in cui si rifugiano coloro cui dà la caccia, 
anche lui vive quell’aria malsana in senso fisico e in senso morale. Anche lui – 
personaggio  romantico per 
eccellenza - sogna un altrove che non è neppure in grado di figurarsi, finché 
non incontra la replicante Rachael, che gli salva la vita e che alla fine 
fuggirà con lui.
Sarebbe il personaggio meno interessante se non fosse 
per il fatto che anch’egli pare abbia un grave problema di identità cui abbiamo 
già accennato. Mentre è concentrato nelle sue indagini, seduto nei pressi del 
suo pianoforte/ altare dei ricordi personali, ha una visione, una specie di 
sogno ad occhi aperti. Un unicorno 
bianco che galoppa in una foresta. Cosa c’entra l’unicorno? Il collega 
poliziotto Gaff, che sembra seguire attentamente da vicino le indagini di 
Deckard, ha il vezzo di fabbricare origami di carta e di abbandonarli nei posti 
più vari. Questi origami sembrano proprio costituire un commento a quanto sta 
accadendo a Deckard. Ebbene, nel finale, il pupazzetto abbandonato da Gaff 
davanti all’ascensore dove avviene la fuga di Deckard e di Rachael rappresenta 
proprio un unicorno. Questo significa – e Ridley Scott pare lo abbia 
esplicitamente ammesso – che anche Deckard, il coatto e malinconico cacciatore 
di replicanti, è un replicante. Ciò poiché Gaff mostra di conoscere i suoi 
sogni. 
Quel che interessa qui, sul piano filosofico, è che 
questa ipotesi o questa possibilità – che lo stesso Deckard sia un replicante - 
introduce un particolare supporto alla tesi della identità tra umani e 
replicanti che sembra essere tuttavia in contrasto con la prima parte del film, 
dove si sottolineavano gli elementi di differenza. Ora, umani e replicanti sono 
così simili da finire per essere la medesima cosa. Siamo tutti umani ma potremmo 
essere tutti replicanti. E potremmo avere dimenticato la chiave distintiva. 
Semplicemente perché una chiave distintiva non c’è. Ma questo il film si guarda 
bene dal dirlo.
17.
 Il finale del film è stato riscritto rispetto alla prima versione, dove invece 
Deckard e Rachael potevano fuggire romanticamente verso una nuova vita. Ciò 
oltretutto era reso possibile dal fatto che Rachael era presentata come una 
replicante priva di scadenza. Nel final cut le cose sono assai più
 problematiche. Nulla si dice circa una non scadenza di Rachael. Dopo la morte
 di Roy, arriva il claudicante Gaff - la polizia nei film arriva sempre in
 ritardo - che lancia al malconcio Deckard una pistola (forse quella che aveva
 perduto nella colluttazione con Roy) e si complimenta con lui per avere finito il lavoro. 
In realtà noi sappiamo che il “lavoro” non è finito, 
perché anche Rachael è ricercata dalla Blade Runner. Gaff, andandosene via,
 aggiunge una frase equivoca di difficile comprensione. Nel doppiaggio italiano
 è «Peccato che lei non vivrà. Sempre che questo sia vivere!». La versione
 inglese suona più o meno così: «Peccato che lei non vivrà. Ma del resto chi è
 che vive veramente?».[7] Con questa frase criptica Gaff – che mostra di sapere
 molte più cose di quanto non appaia - intanto ricorda che Rachael è un androide
 a scadenza e che quindi morirà. Intende tuttavia qualcosa in più. Qualcosa che,
 in un certo senso, vorrebbe esprimere il contenuto esistenziale dell’intero
 film. Vuol dire che, poiché abbiamo perduto, se mai c’è stato, il senso
 autentico della vita (si pensi agli individui replicati e alle memorie
 contraffatte), allora vite artificiali e vite autentiche ormai non hanno più
 alcuna distinzione. Vivere o morire dunque è lo stesso, poiché anche la vita è
 diventata una specie di morte. Salvare la propria vita biologica significa
 comunque essere condannati a una non 
vita. La distopia rappresentata è ormai un mondo morto, una casa di morti. 
La conciliazione tra umani e replicanti, che il film sembra più volte suggerire,
 viene risolta da Gaff, con una conciliazione sì, ma in totale negativo. I vivi
 sono uguali ai morti. 
Deckard perplesso non capisce più di tanto (e lo 
spettatore con lui), raccatta la pistola che tiene bene in vista e torna dove 
aveva lasciato Rachael e la trova sotto un telo. Sembrerebbe morta, magari 
scovata e forse uccisa da Gaff. Così si spiegherebbe il messaggio secondo cui 
“Il lavoro è finito”. In realtà non è morta, è solo addormentata e i due si 
apprestano a fuggire. Mentre sta uscendo, Rachael davanti all’ascensore calpesta 
un piccolo origami a forma di unicorno. Deckard vede l’origami, lo raccatta e a 
questo punto ricorda la frase di Gaff. Capisce che Gaff era stato lì e aveva 
risparmiato Rachael, forse per dare loro la possibilità di fuggire e sparire, o 
forse (comprendiamo noi a questo punto) in virtù della considerazione che tra la 
vita e la morte ormai non fa più nessuna differenza. 
18. Gaff dunque, oltre a Roy Batty, si conferma come il 
secondo effettivo superuomo nicciano 
del film. Lui che finora era stato solo un commentatore, compie una scelta 
morale assolutamente autonoma, come pura volontà di potenza, al 
di là del bene e del male. A partire da una considerazione del tutto 
personale sulla svalorizzazione totale dell’esistente e sulla coincidenza della 
vita e della morte, decide che non vale la pena di ritirare/ ammazzare Rachael, 
denunciando anche così – cosa non secondaria - l’inconsistenza della missione 
della Blade Runner. 
Anche Deckard viene messo di fronte alla domanda 
fondamentale: chi è che vive veramente? Domanda che per lui vorrebbe dire: chi è 
davvero umano e chi è replicante? Nell’origami con l’unicorno sta probabilmente 
la risposta circa la vera identità di Deckard. Egli tuttavia sembra non 
accorgersi della profondità della questione, sembra non riuscire a decifrare del 
tutto la metafora dell’unicorno, accenna con lo sguardo di avere capito la 
scelta di Gaff e si appresta a scappare con Rachael. Non sapremo mai se Rachael 
ha davvero una scadenza e se Deckard è davvero un replicante e, soprattutto, se 
ne è consapevole. Del resto, le vite degli umani presentano più o meno le stesse 
incertezze di quelle dei replicanti. 
19. Com’è stato ampiamente mostrato, nel testo filmico 
ci sono molti temi filosofici, seppure non sempre coerentemente sviluppati – del 
resto siamo di fronte a un’opera di pura fiction. È legittimo tuttavia
 domandarsi se i diversi temi filosofici di cui il film è zeppo non finiscano
 per configurare una o più tesi filosofiche compiute, dotate di una qualche
 coerenza. In tal caso, si potrebbe fare qualche sforzo per esplicitarle. Il
 rischio di una simile operazione è sempre quello della sovra interpretazione.
 Tuttavia il successo dell’opera e il suo perdurare nell’interesse da parte del
 pubblico suggeriscono che un qualche messaggio nascosto ci sia e che, per di
 più, abbia funzionato, sia arrivato e continui ad arrivare al destinatario.
 Procederò per gradi, identificando alcune tesi filosofiche di medio raggio,
 cercando poi di formulare una qualche sintesi.
19.1. Una prima tesi, che è forse la tesi di fondo, 
concerne palesemente la struttura 
temporale, di cui abbiamo già detto. Nel film di Scott il futuro e il 
passato si sovrappongono continuamente, la freccia del tempo lineare è 
annullata. Il tempo diventa piatto (o, se vogliamo, circolare). 
Con questo è dato il benservito a una visione della storia che ha retto per 
secoli, e cioè la visione giudaico - cristiana. La prospettiva temporale del 
film è la stessa prospettiva dell’angelo 
della storia di Benjamin[8] che non ha più alcuna direzione dove andare, che 
ha lo sguardo rivolto al passato e che vede solo e sempre i cumuli delle rovine. 
Non c’è più alcun futuro, alcuna speranza, possiamo contemplare soltanto la 
miseria del passato che si accumula e ci soverchia. In questo senso, il film 
rappresenta una specie d’introduzione implicita al tema della «fine della 
storia» e dell’assenza di una qualsiasi redenzione. La fine della storia è stato 
un tema filosofico assai popolare, almeno a partire da Hegel. Tuttavia la 
questione della fine della storia è stata posta assai più recentemente e in modo 
esplicito proprio nell’ambito del pensiero postmoderno. Fukuyama, nel 1992, ha 
scritto il famoso saggio La fine della 
storia e l’ultimo uomo.[9] 
19.2. Una seconda tesi, assai diffusa nel film, 
concerne la concezione negativa della 
conoscenza, un tema davvero classico, risalente addirittura alla Bibbia. Lo 
sviluppo della conoscenza umana rappresenta un turbamento del cosmo, un male in sé, un peccato contro Dio e 
finisce per ritorcersi contro la tracotanza dell’uomo stesso. La negatività 
dell’impresa conoscitiva raggiunge poi il suo massimo quando essa è asservita al 
profitto e perde qualsiasi senso del 
limite. Il motto della Tyrell Corporation è «Più umano dell’umano». Si
 tratta di un tema filosofico assai diffuso. In origine era un tema di natura
 prettamente religiosa, poi negli ultimi secoli si è solidamente impiantato tra
 i filosofi continentali. La polemica contro la tecnica, la scienza e la
 cosiddetta ragione strumentale è stato un luogo comune dell’anti 
illuminismo,da Herder fino ai 
giorni nostri. In proposito possiamo citare - tra gli altri - Hegel, Marx, 
Schopenhauer, Nietzsche, Husserl, Heidegger, Spengler, Lukács, Marcuse, 
Horkheimer e Adorno.
Il film sembra riferirsi proprio a una di queste 
correnti in particolare. Si sostiene nel film che il progredire della 
conoscenza, guidato dall’impulso del dominio e del profitto, genera un 
paradosso. Esso, invece di liberare l’uomo, invece di tradursi in
 un’umanizzazione dell’uomo, si traduce nel suo contrario. Si traduce in un
 asservimento dell’uomo, nella sua alienazione e nella sua rovina (e
 particolarmente nella rovina della civiltà occidentale). L’unica soluzione
 dunque è fermarsi, anzi tornare indietro, in quella lontana epoca in cui la
 ragione umana non era ancora stata eclissata dalla ragione strumentale. Ci si
 ricordi, in particolare, della figura di Sebastian nella quale, oltre al 
peccato originale della sua origine, troviamo fusi insieme l’elemento del mito (le figure che abitano in casa sua
 e che egli costruisce) e l’elemento della ragione
 strumentale (è lui il progettista genetico al servizio della Tyrell
 Corporation). 
Queste concezioni assomigliano in modo impressionante 
alle tesi contenute nella Dialettica 
dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno[10] e in altri simili lavori della 
scuola di Francoforte. Volendo, si può citare esplicitamente anche L’uomo
 a una dimensione di Marcuse.[11] Sono tesi di matrice hegelo – marxista
 che, elaborate negli anni Quaranta, sono state riprese e rilanciate dal
 movimento del Sessantotto e sono state fatte proprie – pur con sfumature assai
 diverse – dalle filosofie postmoderne. Sono tesi che sono penetrate a fondo
 nella cultura di massa contemporanea e ne costituiscono ora quasi un sostrato
 inconsapevole. Comunque, tesi non dissimili si trovano nella tradizione
 heideggeriana, dove la tecnica rappresenta il destino perverso dell’Occidente
 che ha occultato il proprio rapporto con l’Essere, rappresenta il destino della
 metafisica occidentale e con ciò la sua fine. Una certa interpretazione
 storiografica ha posto il giovane Lukács alle origini sia della visione
 heideggeriana sia delle teorie di Horkheimer, Adorno e Marcuse.
19.3. Ma c’è di più. Sempre sulla scia di una dialettica
 dell’illuminismo, nel film troviamo una puntuale evocazione analogica della 
dialettica del servo e del signore 
di hegeliana memoria. La storia e la società sono luogo di perpetuo 
conflitto. L’uomo tracotante, eccedendo ogni limite, vuole il dominio assoluto, 
si erge a signore del creato, si crede Dio. Diventa egli stesso creatore e 
padrone dei suoi servi. Ma, come raccontava Hegel, i servi sottomessi si 
ribellano al loro signore, poiché il signore, che ha creato i suoi servi e li 
domina, ha bisogno dei servi e finisce per dipendere da essi. Nelle intenzioni 
di Hegel, tuttavia, la vicenda avrebbe dovuto portare a una sintesi, cioè a un 
reciproco riconoscimento del servo e 
del signore. Nel film invece non c’è 
alcuna conciliazione. Il servo Roy Batty si ribella, uccide il signore e in 
tal modo uccide anche se stesso, pur in forma nobile e nichilista come s’è 
visto.[12] Il film dunque sembra prendere partita per l’impossibilità della 
conciliazione. Dopo Hegel, la storia della mancata 
conciliazione è stata raccontata più volte. Basti pensare all’annuncio della 
morte di Dio da parte dello 
Zarathustra nicciano, oppure alla freudiana uccisione 
del padre. Anche il vecchio Edipo ne sapeva già qualcosa. Una dialettica 
senza conciliazione è del resto il fulcro della confusa dialettica 
negativa di Adorno. Ciò in altri termini vuol dire che, nel contesto di una 
fine della storia, il conflitto ha perso 
qualsiasi funzione costruttiva e si accontenta di marcare una guerra senza 
fine, una guerra perduta in anticipo, una guerra suicida contro 
l’esistente.
19.4. Un altro tema filosofico di fondo, senz’altro 
collegato ai precedenti, è costituito dalla minaccia della sparizione 
della individualità. Se si preferisce, la disarticolazione
 del soggetto. È un tema su cui i filosofi hanno sempre lavorato, con
 soluzioni alquanto difformi. Si tratta cioè di capire se il processo di individualizzazione, che si è 
sviluppato particolarmente in Occidente, sia da considerarsi un bene o un male, 
se sia da considerarsi un peccato contro Dio (al pari della conoscenza) oppure 
una liberazione e un progresso. Su questa alternativa molti filosofi hanno 
esitato, come ad esempio Freud e Max Weber. Anche Nietzsche ha oscillato 
alquanto.
In una sua versione standard, la tesi sostiene, in modo 
invero assai discutibile, che un’individualità autentica forse sia esistita, in 
un tempo passato, quando però questa si trovava in una spontanea relazione con 
la natura, con la vita, con la società, con la totalità cosmica. Insomma, un’armonia originaria del soggetto con 
l’oggetto, variamente sostenuta e argomentata. Con l’ingresso nella storia e/o 
con la razionalizzazione, l’armonia 
originaria è andata perduta. La causa del tracollo è sempre la brama di 
conoscenza e di dominio, la tecnica, che hanno reso l’individuo isolato, 
astratto (in senso hegeliano), riproducibile, seriale.[13] L’individuo 
ha così perso il rapporto con la totalità ed è stato mercificato o reificato,
 come avrebbe detto Lukács. Se si possono riprodurre i corpi, le emozioni e le
 memorie, allora l’originalità individuale è destinata a venir meno. «Io sono il 
business!» dice la replicante
 Rachael. Insomma, il processo di individualizzazione tipico dell’occidente è
 considerato come una progressiva catastrofe dell’umano.
Le tesi sull’individualità presenti nel film sembrano 
richiamare in particolare la Teoria del 
Romanzo di Lukács[14] e L’opera 
d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica di Benjamin.[15] La 
produzione ripetitiva dell’oggetto (simboleggiata nel film dai replicanti) 
tipica dell’industria e della merce impedisce ogni individuale autenticità, 
proprio come aveva teorizzato Benjamin. L’aura dell’opera individuale è perduta 
per sempre, nessuno può più pensare di essere un originale
 unico. Anche se ci pensiamo presuntuosamente come originali unici, corriamo
 pur sempre il rischio di essere dei replicanti (e questa è proprio la
 situazione di Deckard). Nella post-modernità, nonostante noi continuamente
 rimpiangiamo o sogniamo un’unicità perduta, non possiamo che essere dei
 replicanti, magari inconsapevoli, che ingannano sistematicamente se stessi.
 Tutto ciò è rappresentato come una perdita, anche se non è mai ben 
spiegato in cosa consista esattamente l’oggetto unico irrimediabilmente perduto 
(se non una delle molteplici metamorfosi dello Spirito).
20. In sintesi, ricapitolando, abbiamo la fine della 
storia, una concezione negativa della conoscenza, una dialettica senza 
conciliazione e la crisi dell’individualità. Sono tutti motivi tipici della 
filosofia continentale e che sono sati ampiamente ripresi nell’ambito della 
filosofia postmoderna. In questo quadro siamo in grado di comprendere perché il 
conflitto tra umani e replicanti, che pure è l’elemento principale della trama 
del film, resti privo di soluzione. 
Il conflitto si configura come un conflitto tra l’uomo e la sua immagine 
degradata, l’uomo e la sua mimesi,
 alla quale l’uomo stesso ha conferito realtà e vita. Nel film, il conflitto tra
 umani e replicanti è messo in scena con una grande accuratezza analitica. Esso 
tuttavia – come s’è visto - prende la forma di una dialettica senza 
conciliazione. Umani e replicanti, nonostante il lavorio dell’intreccio 
narrativo, non riescono a stabilire con chiarezza i reciproci confini e si 
scambiano continuamente i ruoli. Gli umani perdono progressivamente la loro 
umanità, mentre i replicanti, in talune situazioni, mostrano maggiore umanità 
degli umani stessi. Questo scambio continuo sarebbe una prova in più del fatto 
che essi sono effettivamente interscambiabili. Essi potrebbero essere la stessa 
cosa, però non si può o non si vuole ammettere che siano la stessa cosa. L’esito 
finale resta così un nodo privo di soluzione. Del resto sembra proprio che, 
nell’impossibilità di una soluzione, Gaff, con la sua finale equivalenza tra il 
vivere e il morire, evochi la «comune rovina delle parti in lotta», secondo una 
nota battuta di Marx. 
Il finale privo 
di soluzione (a parte la consolatoria ma del tutto aperta fuga di Rachael e 
di Deckard) può essere valutato in maniera assai diversa, come un ammirevole 
caso di opera aperta che lascia 
completamente allo spettatore il suo duro lavoro interpretativo, oppure come la 
confessione di un fallimento del 
complesso meccanismo narrativo messo in cantiere. Un fallimento che, in tal 
caso, sarebbe dovuto anche alla stessa matrice filosofica che è stata 
continuamente evocata e utilizzata nel film. In una battuta, come il film non 
porta alla fine da nessuna parte, anche la filosofia continentale che sta dietro 
al film non porta da nessuna parte.
21. La problematica profonda che sta dietro al 
conflitto tra umani e replicanti – e che sembra tuttavia sfuggire totalmente 
alla consapevolezza del film - è quella dell’accettazione o del rifiuto di 
Darwin e della sua teoria
 evoluzionistica. La teoria di Darwin, unita ai risultati odierni della
 genetica e delle neuroscienze, sostiene esattamente che noi 
siamo dei replicanti. Non siamo certo stati prodotti dalla Tyrell 
Corporation ma siamo stati effettivamente prodotti attraverso un meccanismo 
elementare di prova ed errore
 dall’Orologiaio cieco dell’evoluzione.[16]
Posto che sia divenuto possibile replicare esattamente 
un essere umano dal punto di vista 
biologico, cervello compreso, con tutti gli annessi e connessi,[17] che 
differenza ci sarebbe tra un umano normale e un umano replicato? Sarebbe 
possibile distinguerli? Se la risposta fosse «No», allora bisognerebbe dare 
ragione a Darwin, dunque umani e replicanti sarebbero esattamente la stessa 
cosa. Se la risposta fosse invece «Sì», allora si dovrebbe dare ragione alla 
filosofia pre darwiniana, l’uomo sarebbe qualcosa di altro, 
oltre l’elemento biologico genetico e culturale. Si dovrebbe tornare così alla 
questione dell’anima, al dualismo cartesiano tra la materia e lo Spirito. Allora 
dovrebbe però essere possibile costruire un qualche test (magari come il Voight-Kampff!) capace di rilevare le differenze.[18] 
Nel quadro ipotetico assunto dal film, gli elementi in 
base ai quali rilevare la differenza tra umani e replicanti sono davvero deboli 
e – peraltro – nello stesso contesto narrativo se ne fa rilevare 
l’inconsistenza. Il primo criterio – come s’è visto - è quello di una supposta 
incapacità di governare le emozioni 
da parte dei replicanti. Il secondo sarebbe il fatto di possedere o meno ricordi personali. Entrambe le ipotesi 
sono smantellate dallo stesso plot 
narrativo, poiché al disordine emotivo degli androidi si può sopperire 
attraverso la fornitura di ricordi e alla deficienza di ricordi personali si può 
sopperire attraverso la loro fabbricazione o il loro impianto in laboratorio. 
Più banalmente, usando il senso comune, per uguagliare androidi e replicanti 
basterebbe lasciare che gli androidi potessero nascere e poi fare le loro 
esperienze e memorizzarle, come chiunque altro. La pecora Dolly è nata e ha 
fatto le sue brave esperienze da pecora, come qualunque altra pecora. e non è 
successo nulla di strano. Ha fatto la sua bella vita da pecora.
22. Nonostante la debolezza delle argomentazioni atte a 
distinguere gli umani dagli androidi, il presupposto dato per scontato dal film 
resta pur sempre quello che ci sia una 
differenza tra umani e replicanti, che gli umani abbiano qualcosa di 
diverso, una loro essenza che i 
replicanti non possono avere. Nello stesso tempo tuttavia l’indeterminatezza del 
finale e i continui interscambi tra umani e replicanti insinuano nello 
spettatore che quell’essenza, se mai c’è stata, è sempre più inafferrabile e 
precaria. Insomma, quell’essenza umana ideale che dovrebbe essere a tutti i 
costi difesa e salvaguardata non è mai mostrata. 
Il fatto è che, nel corso stesso del film, ci si rende 
conto che quell’elemento umano distintivo, speciale ed essenziale, non può più 
essere mostrato, non ha più alcun fondamento. Nel mondo di Blade 
Runner l’autentico e l’inautentico sono ormai un unico blob.
 La colomba che vola via rappresenta l’anima improbabile 
di un replicante. Piuttosto che ammettere una qualche specificità umana 
positiva, una qualche forma di essenza, di anima o di Spirito, Gaff non riesce a 
fare altro che dichiarare la perfetta equivalenza della vita e della morte. Gaff 
dunque dichiara la morte di Dio, 
dichiara l’impraticabilità fattuale di ogni umanesimo, ma non sa guardare 
oltre.
C’è dunque nel film un’impossibile conciliazione, un 
nichilismo di fondo, proprio perché il suo orizzonte - come quello del pubblico 
cui si rivolge - è pre darwiniano. È cioè un orizzonte dove comunque lo Spirito 
è ancora in strenua lotta contro la materia. Guarda caso, questo è proprio 
l’orizzonte della filosofia continentale degli ultimi secoli. L’ossessivo test 
Voight-Kampff è 
un test che in realtà mira a identificare il nemico, a trovare il punto di 
separazione tra la materia e lo Spirito, come faceva Cartesio quando discettava 
della ghiandola pineale. Ebbene, Darwin ci ha mostrato che quel punto di 
separazione proprio non c’è. E quindi siamo tutti macchine biologiche, siamo 
tutti progettati geneticamente e, come gli androidi del film, abbiamo tutti dei 
ricordi innestati, derivanti cioè dalla interiorizzazione della cultura, abbiamo 
anche noi una data di scadenza e non avremo alcuna vita eterna. Per Darwin, i 
replicanti siamo noi.
Non abbiamo ancora digerito Darwin, per questo abbiamo 
così paura dell’oggetto e, in particolare, dell’oggetto biologico 
sconosciuto[19], e non ci rendiamo conto che proprio noi siamo 
quell’oggetto tanto temuto e bandito. Noi in realtà – sostiene Darwin - siamo un 
prodotto tecnico dell’Orologiaio 
cieco. Noi siamo la tecnica nella 
sua espressione più alta. Un automatismo tecnico che non ha intelligenza (alla 
faccia dell’intelligent design) e 
che tuttavia riesce a produrre una qualche intelligenza che in qualche modo 
funziona. Solo in certa filosofia contemporanea di orientamento analitico si sta 
facendo qualche passo avanti verso una conciliazione effettiva del soggetto e 
dell’oggetto, il che comporta però un superamento del dualismo in una visione 
compiutamente naturalistica. Ciò 
permetterebbe un riconoscimento pieno della nostra natura 
seriale e, nel contempo, della nostra relativa unicità 
individuale. Passando però per Darwin. Ma tutto ciò è ancora di là da 
venire.
23. Il film dunque, 
inconsapevolmente, fa propria una tradizionale folk 
philosophy religiosa e romantica che dà per scontata la distinzione tra lo 
Spirito e la materia o, se si preferisce, che vuole subordinare la materia allo 
Spirito. Una materia sempre vituperata che prende di volta in volta le sembianze 
del meccanico, del biologico, del tecnologico, del seriale, della ragione 
strumentale, del calcolo, della logica formale, del dominio, della merce e così 
via. La popolarità del film è evidentemente dovuta alla sua capacità indubbia di 
mettere in scena questo conflitto 
d’altri tempi che riesce ad appassionare il vasto pubblico solo perché, 
nonostante Darwin, siamo rimasti ancora radicalmente dualisti. Il film, a onor 
del vero, pone rigorosamente il problema dell’insufficienza del dualismo, mostra 
tutta la sua implausibilità, ma poi si arresta sull’orlo della soluzione. 
Preferisce uccidere lo Spirito e contemplarne le membra sparse, come nel 
nichilismo finale di Gaff, piuttosto che ammettere che lo Spirito è il prodotto 
ultimo di una macchina biologica, genetica e 
culturale.
24. Blade 
Runner è dunque un’opera postmoderna per eccellenza. Un’opera 
decisamente anti moderna, direi. 
Forse un’opera anche filosoficamente reazionaria, rivolta al passato. Ha 
saputo rappresentare e divulgare in modo popolare quei temi tipici del 
postmoderno che, in fin dei conti, costituiscono l’ultima spiaggia della 
filosofia continentale, la quale ormai si esprime sempre più soltanto come 
narrazione della decadenza dello 
Spirito, come consapevolezza della fine di un’epoca. Tutto ciò agitando 
sconsolatamente temi come la fine della comunità, la fine del sacro, la fine del 
progresso, la fine delle rivoluzioni, la fine delle ideologie, la fine della 
storia, la fine del soggetto, la fine dei valori. La fine, insomma, di una certa 
idea pre darwiniana dell’uomo.
Il film ha avuto l’indubbia capacità di fare da 
specchio a un’epoca, a un modo di 
sentire dell’epoca. Un’epoca in cui la cultura popolare, diventata cultura 
di massa egemone, non è stata in grado accogliere, elaborare e padroneggiare i 
cambiamenti e le trasformazioni indotti e resi possibili dal progresso tecnico. 
Non è stata in grado, in altri termini, di farsene 
una ragione e li ha rifiutati come fossero una cattiva ragione. Forse è 
proprio in seguito a questa costatata incapacità che è stata riesumata la 
metafora dei barbari e della barbarie. In questa nostra epoca, le visioni della decadenza ci parlano 
intimamente perché noi stessi ci
 sentiamo decaduti, perché l’immagine che ci è stata innestata 
(come si dice nel film) dalla cultura che ci ha formati è divenuta logora troppo 
in fretta. È un film che ci parla diffusamente della perdita 
di un mondo, ma non ci aiuta in alcun modo a costruire 
un nuovo mondo. Anzi, fa di tutto per mantenerci 
a contemplare  le rovine dello 
Spirito in una specie di sospensione ipnotica, mantenendoci così anche fuori dalla storia. 
Storicamente, nei termini di una storia della cultura, 
è un film che rispecchia in pieno la colonizzazione che, proprio in quegli anni 
Ottanta, stava avvenendo, in America, ad opera delle filosofie continentali, 
secondo l’asse Nietzsche, Heidegger, Gadamer e secondo le varie espressioni del 
post strutturalismo.[20] È davvero curioso che nel film ci siano quasi 
esclusivamente riferimenti alle filosofie del vecchio 
mondo! A quei movimenti filosofici stranieri che portarono alla 
diffusione, nelle facoltà umanistiche americane, dei cosiddetti Cultural 
Studies, uno strano pastrocchio di arte, scienza e letteratura, venduto come 
cultura umanistica e che oggi sempre più spesso è preso come esempio del degrado 
della cultura americana (e non solo). Sono quelle correnti che sono state 
giustamente satireggiate da Sokal.[21] Anche qui possiamo riconoscere una bella 
dialettica che però sembra abbia funzionato al contrario di quella di Horkheimer 
e Adorno. Quella cultura che ha diffuso e reso popolare, in tutto l’Occidente, 
la narrazione della decadenza è oggi 
fortunatamente sempre più spesso presa come un caso 
di decadenza. Oggi, di tutta quella fioritura rimane ben poco. Rimangono 
senz’altro molte macerie. Ma questa è un’altra storia.
Giuseppe Rinaldi
4/10/2017
 OPERE CITATE
1955 Benjamin, Walter
Schriften, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main. Tr. it.: Angelus Novus. Saggi e frammenti, 
Einaudi, Torino, 1995.
2008 Benjamin, Walter
The Work of Art in the Age of Its Technological
 Reproducibility, and Other Writings on Media (Eds.: Michael 
W. Jennings, Brigid Doherty, and Thomas Y. Levin), The Belknap Press of Harward 
University Press, Cambridge, Mass..
1986 Dawkins, Richard
The Blind Watchmaker, Longman 
Scientific and Technical, UK. Tr. it.: L'orologiaio cieco. Creazione o 
evoluzione?, Rizzoli, Milano, 1988.
1992 Fukuyama, Francis
The End of History and the Last 
Man, 
The Free Press, Glencoe. Tr. 
it.: La fine della storia e l’ultimo 
uomo, Rizzoli, Milano, 1996.
1944 Horkheimer, Max & Adorno, Theodor 
W.
Dialektik der Aufklärung. Philosophische 
Fragmente, S. Fischer 
Verlag GmbH, Frankfurt am Main. Tr. it.: Dialettica dell'illuminismo, Einaudi,
 Torino, 2010.
1916 Lukács, Gyorgy
Die Theorie des Romans, Berlino. 
Tr. it.: Teoria 
del romanzo, SE SRL, Milano, 1999.
1979 Lyotard, Jean-François
La
 condition postmoderne, Les Éditions de Minuit, Paris. 
Tr. it.: La 
condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano, 1981.
1964 Marcuse, Herbert
One-Dimensional Man. Studies in the Ideology of the 
Advanced Industrial Society, 
Beacon Press, Boston. Tr. 
it.: L'uomo a una dimensione. 
L'ideologia della società industriale avanzata, Einaudi, Torino, 
1967.
1997 Sokal, Alan & Bricmont, Jean
Impostures intellectuelles, 
Odile Jacob, Paris. Tr. it.: 
Imposture intellettuali, Garzanti,
 Milano, 1999.
1983
 Vattimo, Gianni & Rovatti, Pier Aldo (a cura di)
Il pensiero debole, 
Feltrinelli, Milano.
NOTE
[1] La stesura di questo articolo è avvenuta prima 
dell’uscita del sequel, ad opera di 
Denis Villeneuve, Blade Runner 2049. 
Mi riservo eventualmente di tornare sull’argomento dopo avere visionato il nuovo 
film.
[2] Il film è uscito nel 1982. Non ebbe un grande 
successo. Nel corso del tempo ne furono confezionate diverse edizioni. Nel 2007 
– così spiega Wikipedia - in occasione del 25º anniversario dell’uscita della 
pellicola, la Warner Bros. ha pubblicato The Final Cut, una versione 
digitalmente rimasterizzata e l’unica su cui Scott ha avuto totale libertà 
artistica.
[3] Il racconto di Philip K. Dick Do 
Androids Dream of Electric Sheep? è uscito nel 1968. Questa è una data 
piuttosto emblematica. Tra il 1968 e il 1982 – data dell’uscita del film – si 
era consumata, in molti Paesi del mondo, una vera e propria utopia 
rivoluzionaria e si erano sperimentati la sconfitta e il riflusso.
[4] Il test evoca chiaramente la ben nota macchina 
della verità o poligrafo, 
strumento dalle dubbie prestazioni, che è sempre stato connotato come strumento 
invasivo da parte del potere nei confronti dei singoli individui.
[5] Uso qui questo termine in senso del tutto generale 
e dunque necessariamente impreciso.
[6] Anche Tyrell è un uomo solo. Un caso esemplare di 
etica calvinista e di spirito 
del capitalismo. Ma anche un caso esemplare del tipo della solitudine
 del tiranno, circondato da gufi meccanici e da belle replicanti che non
 sanno neppure di esserlo. È così solo che ha bisogno della compagnia
 dell’infantile Sebastian, che tuttavia è un buon giocatore di scacchi. La
 partita a scacchi con Sebastian segnerà indirettamente la fine di Tyrell, per
 mano del figlio illegittimo, il replicante Roy, che ha seguito Sebastian
 all’appuntamento. 
[7] Nel testo inglese: «It’s 
too bad she won’t live. But then again, who does?».
[8] Cfr. Benjamin 1955. 
[9] Cfr. Fukuyama 1992.
[10] Cfr. Horkheimer & Adorno 1944.
[11] Cfr. Marcuse 1964.
[12] Il finale della fuga di Deckard (sospetto di 
essere anche lui un replicante) e di Rachael è troppo poco per pensare a una
 conciliazione tra gli umani e i replicanti.
[13] C’è ovviamente una diversa versione dello sviluppo 
dell’individualità, legata alla nozione illuministica della emancipazione e 
della liberazione del soggetto individuale. Questa narrazione è tuttavia 
piuttosto estranea alla filosofia continentale. 
[14] Cfr. Lukács 1916.
[15] Cfr. Benjamin 2008.
[16] La metafora dell’orologiaio 
cieco si trova in Dawkins 1986.
[17] Una cosa analoga è effettivamente avvenuta qualche 
decennio fa – non esattamente nel modo descritto dal film – con la clonazione 
della pecora Dolly.
[18] In questo senso il film sembra uno di quegli 
esperimenti mentali cui ci ha abituato la filosofia analitica, la quale si è 
domandata piuttosto seriamente cosa significa essere un pipistrello, oppure se 
sia possibile che noi siamo un cervello in una vasca. La questione è chiaramente 
metafisica e più precisamente ontologica.
[19] Su questa paura, lo stesso Ridley Scott ha
 costruito la fortuna della saga di Alien.
[20] Il film è uscito nel 1982. Nel 1979 Lyotard
 pubblicava il suo rapporto dal titolo La condition postmoderne, che è 
considerato una specie di manifesto del postmodernismo. Nel 1983 usciva in 
Italia Il pensiero debole di Vattimo 
& Rovatti, considerato anch’esso come il manifesto italiano del 
postmodernismo.
[21] Cfr. Sokal & Bricmont 1997.
