lunedì 28 settembre 2015

Trascendentalismo e ontologia

ontologia-image[1]
1. Il termine[1] ontologia è stato coniato all’incirca nel Seicento. Sul piano della storia della filosofia si tratta dunque di un termine relativamente recente, anche se, all’inizio, è stato usato per indicare concetti vecchi. Da quel momento l’ontologia ha vissuto una breve stagione e, dopo Kant, è stata praticamente dimenticata o, piuttosto, assimilata alla metafisica. A tutt’oggi tra i due concetti esiste una gran confusione e le sovrapposizioni tra metafisica e ontologia sono all’ordine del giorno. Queste sovrapposizioni hanno, tra l’altro, favorito, da parte degli storici della filosofia, l’attribuzione di un’ontologia ad autori della filosofia antica o medievale, senza sentirsi in dovere di precisare che costoro sarebbero stati ontologi a loro insaputa.[2] Del resto anche Aristotele è stato considerato, di fatto, un metafisico a sua insaputa.
 
2. Il dizionario di filosofia che da noi va per la maggiore, l’Abbagnano – Fornero,[3] registra questa strana situazione che è sopravvenuta, dedicando all’ontologia poco più di una colonna (neanche una pagina intera). Nel breve articolo, firmato da Fornero, sono fornite due accezioni fondamentali del termine. Secondo la prima, l’ontologia sarebbe «La dottrina dell’essere e delle sue forme»; secondo l’altra, si sostiene che, dopo Wolff e Kant «il termine è stato usato, per lo più, come sinonimo di metafisica». È vero che nel resto dell’articolo si forniscono maggiori delucidazioni e precisazioni, ma il tutto resta davvero assai misero e riduttivo. A sentire l’Abbagnano – Fornero sembrerebbe dunque che non ci sia un futuro per l’ontologia.
 
3. Intanto, se ci concentriamo per un attimo sulla prima definizione, non possiamo che rimarcare la solita tendenza nostrana a pasticciare con l’essere, dovuta al fatto che, nella lingua italiana, il participio presente del verbo essere è poco o nulla usato (anzi, si può dire che non esiste). Fornero avrebbe dovuto dire in realtà “La dottrina dell’ente e delle sue forme”. In effetti, il termine corretto è poi recuperato nel resto dell’articolo asserendo che, all’inizio del Seicento, quella che era chiamata metafisica (di derivazione aristotelica) fu divisa in due sezioni: a) un’ontologia o metaphysica generalis, che aveva il compito di studiare l’ente in quanto ente; b) una metaphysica specialis, che aveva il compito di studiare Dio. Si aggiunge poi che quest’ultima, per opera di Wolff, fu ulteriormente suddivisa in cosmologia generale, psicologia razionale e teologia naturale.[4] Quindi l’ontologia dovrebbe studiare l’essere ma poi evidentemente finisce per accontentarsi dell’ente in quanto ente.
La seconda parte della definizione rileva che «il termine è stato usato, per lo più, come sinonimo di metafisica». La cosa è senz’altro vera in termini di descrizione dei fatti, lo è assai meno in termini di diritto, poiché l’uso di metafisica finisce invariabilmente per suggerire che ci si stia occupando della metaphysica specialis, ai danni della metaphysica generalis, la quale ha invece, ha un campo assai più ampio e d’interesse assai più generale (soprattutto se si ritiene che essa debba occuparsi dell’ente anziché dell’essere). Insomma, si tratta di un’implicita ma impropria valutazione dell’importanza dell’oggetto che viene surrettiziamente mantenuta in sottofondo. Così tutti sono contenti.
 
4. Vediamo meglio il significato del termine. Ontologia, s’è detto, è un neologismo seicentesco e come tale è stato ricavato artificiosamente dal greco antico. In greco antico la nozione di essere era espressa con il verbo eimíμί] cioè il verbo “sono”. Il termine eimí è la prima persona singolare del presente indicativo, che è comunemente usata per denominare il verbo stesso. Di particolare interesse per la letteratura filosofica è la forma esti [στι], cioè la terza persona singolare del presente indicativo. L’infinito presente di eimí è eînai [εναι]. Il participio presente di genere neutro è ón [ν]. Con la sostantivazione, esso diventa tò ón. Poiché esso è declinabile rispetto al genere, avremo il participio presente maschile ōn [ν] e quello femminile oûsa [οσα]. Il participio greco è poi ulteriormente declinabile secondo i vari casi. Nella declinazione del participio di eimí ci interessa qui il genitivo óntōs che è quello che è entrato nel termine composto ontologia.
Il participio presente del verbo essere in italiano semplicemente non c’è. Dovrebbe essere qualcosa come essente, oppure sente, ente o stante. La cosa è sempre stata ben nota. Il problema era stato da tempo affrontato e aggiustato nel corso della scolastica medievale, ancora in latino, quando si sentì l’esigenza di marcare la distinzione tra il participio presente e l’infinito presente. Nacque così la storica distinzione tra ente e essere (pur legata a problematiche filosofiche assai specifiche). Quindi, come minimo, il significato corretto di ontologia è «discorso dell’ente» e non dell’essere. In inglese, dove l’uso del participio presente del verbo essere è più vivo che mai, si ritiene che l’ontologia abbia a che fare con lo studio del being e non di un davvero improbabile «to be». Pensando a Parmenide, se dico «l’ente è e non può non essere» dico una cosa, se invece dico «l’essere è e non può non essere» ne dico un’altra o, comunque, ingenero un bel po’ di confusione.
Questa banale questione terminologica ha tuttavia il potere di allargare o restringere drasticamente il campo d’azione associato all’ontologia: se pensiamo retrospettivamente, i filosofi dei quali si può dire che si siano occupati dell’“essere” in senso stretto, come s’intende nella tradizione italica, non sono poi molti, mentre sono davvero molti quelli che si sono occupati dell’ente o degli enti (mettendo il termine al plurale, il campo si allarga ancor di più). C’è qualche filosofo che non si sia pronunciato, implicitamente o esplicitamente, circa la natura degli enti? Secondo quest’accezione, Talete, per quel po’ che ne sappiamo, doveva essere stato senz’altro un ontologo.
 
5. La storia dell’ontologia è stata recentemente ricostruita nel volume omonimo curato da Maurizio Ferraris.[5] Il primo uso consapevole del neologismo ontologia risalirebbe alla Ontosofia di Clauberg nella edizione del 1664. Così spiega Kobau: «L’uso del neologismo – va sottolineato – ha qui un valore sostanziale, che non si ritrova negli esempi precedenti, dove ci si limitava ad assegnare una denominazione retoricamente più efficace a discipline già consegnate tutte dalla tradizione. Clauberg, infatti, già variando i titoli delle riedizioni della sua Ontosofia, tiene presto a sottolineare che tale disciplina è impropriamente denominata metafisica: rispetto a questo nome, il neologismo vale a sottolineare come il suo oggetto non sia l’universo esaminato in una prospettiva transfisica, o oltrefisica, o altrimenti “astratta”, bensì l’ente inteso nel suo senso più generale, considerabile tuttavia sotto tre diverse prospettive. Si parla di ente, innanzitutto, in quanto semplicemente pensabile, ma poi, più precisamente, in quanto è un “qualcosa” (a cui si oppone il “nulla”); e, infine, nel senso più ristretto, in quanto equivale alla “cosa (res)” che “esiste di per sé”, ovvero è inteso come sostanza (cui si oppongono gli accidenti)».[6] E precisa inoltre: «L’ontosofia di Clauberg è, dunque, parecchio diversa dalla scienza dell’ente ovvero dalla metafisica generale della tradizione scolastica: semmai, Clauberg – pur ritenendo della tradizione scolastica i contenuti che sceglie di salvare – riprende il nome nuovo di ontologia per denominare qualcosa di altrettanto nuovo rispetto alla tradizione, ossia un sistema metafisico (e latamente enciclopedico) di impianto cartesiano».[7]
Il massimo sviluppo dell’ontologia così intesa – in questa fase pionieristica si avrà con l’Ontologia di Wolff del 1729, che comprende la nuova sistematizzazione che è citata nel dizionario e di cui abbiamo già detto. Wolff ebbe grande influenza su diverse generazioni di studiosi. Da Wolff prese le mosse anche Kant.
 
6. Tuttavia, come si è visto anche dalla nostra breve ricognizione dell’Abbagnano – Fornero, ben presto il termine ontologia fu messo da parte o, comunque il suo specifico contenuto fu dileguato e sottoposto a varie peripezie. La responsabilità fondamentale di questa prematura emarginazione dell’ontologia è imputabile alla diffusione della filosofia kantiana. O, meglio, alla cosiddetta svolta trascendentale della filosofia kantiana. Questa è almeno la tesi sostenuta con argomentazioni piuttosto convincenti da Ferraris e dai suoi collaboratori.[8]
La questione ontologica dibattuta tra Seicento e Settecento, che aveva dato motivo per la costruzione del neologismo stesso, verteva intorno alla problematica, certo non nuova, relativa alla natura degli enti: «Quali tipi di enti ci sono?». Per citare lo stesso problema con un’espressione assai più recente: «Che cosa c’è?».[9] In quel periodo si assisteva alla contrapposizione tra empiristi e razionalisti che, nella nostra tradizione storiografica, è stata spesso considerata come un dibattito di tipo epistemologico, cioè un dibattito intorno ai meccanismi della conoscenza. In realtà possiamo ben dire, col senno di poi, sulla scorta dei ragionamenti sviluppati poc’anzi, che si trattasse di un dibattito di tipo ontologico. Anche Berkeley, Locke e Hume, sotto questo rispetto, sarebbero da considerarsi come degli ontologi, interessati a discutere intorno a «Che cosa c’è?». Certo, le loro tesi erano provocatorie e distruttrici di tutta una tradizione, poiché sostenevano, in modo più o meno accentuato, che esse est percipi. La tradizione empirista non ha così sentito il bisogno di coniare e utilizzare un termine come “ontologia” poiché la teoria empirista sembrava aver lasciato alle spalle proprio l’ente in quanto ente della tradizione scolastica.
La generazione del neologismo e la sua repentina sparizione sono avvenuti dunque prevalentemente sul terreno della corrente razionalistica. La sparizione dell’ontologia come specifico settore d’indagine sembra sia dovuta alla svolta trascendentale kantiana, la quale, con la sua rivoluzione copernicana, ha di fatto ridotto l’ontologia a gnoseologia trascendentale. La mossa kantiana è stata quella di accogliere in modo paradossale la tesi degli empiristi, tanto da vanificarla: la realtà è così diventata una rappresentazione del soggetto o, meglio ancora, in prospettiva un prodotto del soggetto. Da allora in poi il compito della filosofia non avrebbe più dovuto essere quello di indagare su «Che cosa c’è?» ma di indagare le forme (categorie, schemi) attraverso cui la mente del soggetto produce quel che appare (il fenomeno o rappresentazione). Si tratta insomma di studiare la logica della macchina mentale soggettiva più che il suo prodotto. La “scienza” è così tutta incentrata a enumerare le categorie della mente e gli oggetti della realtà ne sono soltanto una pallida conseguenza. L’ontologia è diventava così del tutto inutile o superflua.
Questa mossa ha dato vita al cosiddetto idealismo trascendentale kantiano e a tutti i suoi sviluppi successivi. Ma soprattutto ha cambiato radicalmente la nozione stessa di realtà, la quale ora veniva ripartita in diversi domini i cui rapporti reciproci apparivano fin dall’inizio problematici: a) il dominio delle formae mentis, che diventerà il vero oggetto della “scienza” filosofica; b) il dominio del fenomeno (rappresentazione, apparenza) che una volta fondato in base alle forme trascendentali verrà lasciato alle singole scienze e c) il dominio della cosa in sé (inconoscibile sul piano fisico, ma costituibile in ambito morale).
La filosofia continentale sarà pesantemente segnata, fino ad oggi, da questa ripartizione (e da questa conseguente nozione, invero alquanto bizzarra, di realtà). La definizione delle forme trascendentali, la considerazione della realtà come fenomeno[10] e la questione della cosa in sé genereranno una montagna di problemi e faranno scorrere fiumi di inchiostro. È un dato di fatto che una serie di problematiche, successivamente assai diffuse nella filosofia continentale, come il nichilismo, il relativismo, l’assolutismo, il volontarismo sono tutte intimamente legate alla svolta trascendentale (e, infatti, non hanno avuto storicamente alcun corrispettivo nelle filosofie che non sono state influenzate dalla svolta trascendentale stessa).
 
7. Ferraris ritiene che gli ultimi due secoli della filosofia continentale siano stati dominati dal trascendentalismo e che le difficoltà nelle quali si dibatte oggi la filosofia continentale (testimoniate dalla deriva postmoderna) siano determinate proprio da questa scelta di fondo. Secondo Ferraris, la filosofia continentale degli ultimi due secoli sarebbe stata dominata dalla fallacia trascendentale, che consiste nella sistematica riduzione dell’ontologia a gnoseologia trascendentale. Occorre allora tornare ad ammettere che ci sia una realtà indipendente dalla mente o dallo Spirito, che è pur sempre una mind. Questo significa in gran parte ritornare a una nozione precategoriale di esperienza immediata, prima di qualunque “scienza” kantianamente prodotta dall’intelletto.
Afferma Ferraris: «A mio parere, […], il colpevole è Kant, e il reato è più semplice, consistendo per l’appunto nella confusione tra ciò che sappiamo delle cose e il fatto che le cose ci siano. […] Il nocciolo della fallacia consiste, infatti, nel pensare che la scienza costituisca un’esperienza più raffinata, e che l’esperienza sia una scienza in potenza».[11] E ancora: «Per quanto riguarda il problema della teoria dell’esperienza, il primo gesto è riconoscere quei caratteri nativi dell’esperienza che sono irriducibili alla scienza, e in particolare il fatto di essere inemendabile e in larga parte impermeabile all’azione degli schemi concettuali. Questa circostanza, ben lungi dal depotenziare la scienza, ne costituisce il vero fondamento: si ha scienza quando si ha scienza di qualcosa, e non autoreferenza di schemi concettuali. D’altra parte, riconoscere un’esperienza indipendente dalla scienza ci permette anche di risolvere il problema, altrimenti insolubile, del fatto che possiamo avere un rapporto soddisfacente con il mondo anche con conoscenze molto modeste, o addirittura sbagliate».[12]
Il trascendentalismo ha vincolato le nostre conoscenze (e gli oggetti della conoscenza) agli schemi della mente o alle funzioni del linguaggio, cioè ai limiti del soggetto. Per questo è stata messa da parte l’ontologia. Si tratta dunque di relegare gli schemi e le categorie in secondo piano e di tornare a rispondere alla domanda «Che cosa c’è?» che è la domanda tipica dell’ontologia. Si tratta di analizzare la natura degli oggetti e produrre innanzitutto dei cataloghi, delle descrizioni. Anche perché così si potrebbe scoprire la possibilità di “oggetti” che le consunte categorie trascendentali non potevano ammettere.
«C’è qualcosa lì fuori, anzi, il mondo è pieno di oggetti che non si risolvono semplicemente nel linguaggio, ci sono fatti che non si dissolvono nelle interpretazioni. Ed è qui che il percorso filosofico si imbatte nello stesso problema dell’informatica, ossia nella necessità, non tanto di una fondazione (che non sempre è possibile e in molti casi non è neppure necessaria o auspicabile) ma piuttosto di una classificazione e di una organizzazione del mondo e dei suoi oggetti. Di fronte a questa esigenza, che era stata spesso trascurata dalla filosofia del Novecento, si scoprono due cose interessanti sebbene ovvie, e cioè, in primo luogo, che non si può classificare e organizzare se si muove da presupposti scettici, sicché un assunto realistico è indispensabile se non altro per ragioni pragmatiche. In secondo luogo, si scopre che se non ci pensiamo noi a classificare, altri lo faranno per noi, e non è detto che i risultati saranno poi soddisfacenti».[13]
La categorie entro cui si può suddividere la realtà sono generate dagli oggetti e non risiedono a priori dentro ai soggetti: «Se la koiné postmoderna asseriva che nulla esiste al di fuori degli schemi concettuali, il ritorno dell’ontologia consiste proprio nell’affermare che il mondo ha le sue regole e le fa osservare. Dopo due secoli di primato dei soggetti e degli schemi concettuali, […], l’iniziativa ritorna agli oggetti e alle categorie che essi stessi generano. Insomma, Aristotele si rifà vivo dopo Kant».[14]
 
8. I limiti del trascendentalismo in effetti non sono difficili da mostrare e nei contributi di Ferraris questo lavoro critico è stato svolto con grande accuratezza e dettaglio.[15] Meno facile è rendersi conto delle conseguenze di una piena assunzione di una critica radicale al trascendentalismo. Proviamo a prendere in esame due o tre conseguenze ad ampio spettro della svolta trascendentale sulla cosiddetta filosofia continentale.
In primo luogo, il trascendentalismo ha portato strutturalmente con sé lo scetticismo nei confronti del mondo esterno (e dunque l’ostilità preconcetta contro la conoscenza sensoriale). Kant, con la sua svolta, riteneva di avere messo sotto controllo lo scetticismo humiano ma ha prodotto, dopo di lui, forme di scetticismo nei confronti del mondo esterno ancora più gravi e generalizzate.[16]
In secondo luogo, il trascendentalismo (in tutti quei casi in cui si ammette una pluralità di soggetti) ha portato facilmente con sé il relativismo. La parentela del trascendentalismo col relativismo è davvero assai stretta. Il relativismo, semplicemente ammette che ci siano diversi (molteplici, addirittura infiniti) centri produttivi, ognuno legittimato a produrre la realtà a suo modo. In un mondo dove ogni singolo Io/ Soggetto produce, ad esempio, i suoi ricordi personali, non ci sarebbe davvero nulla da eccepire. Ma quando ogni singolo Io pretende di produrre le sue regole morali (senza tener conto del resto) si comincia a eccepire qualcosa. Se poi ogni singolo io pretende di produrre da sé le sue “conoscenze”, allora ogni credenza può pretendere di diventare scienza.
In terzo luogo, se si ritiene che ci sia un Io/ Soggetto sovra individuale, allora questo sarà dotato di forme universali che s’impongono a tutti i singoli individui, avremo cioè dei sistemi assolutistici o totalitari. Gli esempi più classici sono costituiti dallo Spirito, dal popolo, dalla razza o dalla classe che sovrastano i singoli. Anche la volontà schopenhaueriana in fin dei conti è assolutistica. In tutti questi sistemi abbiamo cioè la produzione di un’oggettività condivisa (Hegel è il classico esempio, il singolo non può sfuggire allo Spirito hegeliano) che però è di fatto arbitraria, poiché dipende dalle categorie che sono state attribuite dal filosofo alla Totalità.[17] Se la Totalità è considerata, per definizione, dialettica, allora tutto sarà visto e praticato in termini di dialettica. Se la Totalità è divina, allora tutto sarà divino, se la Totalità è volontà, allora tutto sarà effetto della volontà, e così via.
Lo scetticismo, il relativismo e l’assolutismo (totalitarismo o fondamentalismo che dir si voglia) sono dunque solo due facce opposte degli esiti del trascendentalismo, cioè sono tutte manifestazioni analoghe della tracotanza dell’Io trascendentale, come è stata realizzata, storicamente, nelle varie filosofie trascendentali, come Io individuale o Io totale considerati come entità produttrici e/ creatrici. Solo per quest’ultima differenza di dettaglio nella filosofia continentale si sono avuti due filoni che si è preteso fossero in opposizione: il filone del sistema (Hegel, Marx) e il filone anti sistema (Kierkegaard, Nietzsche,…). Sono stati raccontati come la battaglia tra l’individualità e il sistema. In realtà si era sempre all’interno del trascendentalismo.
 
 9. Alla sua nascita, il trascendentalismo non aveva spiccati pregiudizi antiscientifici, anche se il mondo esterno era già considerato come una rappresentazione e veniva postulato un primato della ragion pratica. Kant aveva accordato la sua analitica delle forme della mente con i risultati della scienza newtoniana, per cui era stato possibile determinare, come conseguenza, un’ontologia del mondo fisico che era, di fatto, costituita dai principi dell’intelletto puro. La vita di quest’ontologia di seconda mano fu tuttavia assai precaria, sia perché la scienza della natura venne a trovarsi alquanto sacrificata dentro le strettoie delle categorie kantiane, sia perché, nelle filosofie trascendentali e idealiste che seguirono Kant, si prese a elaborare una gran varietà di analoghi sistemi. Questi nuovi sistemi, dato anche il clima romantico in cui erano stati elaborati, non mantennero più alcuna cura nel raccordarsi con i risultati delle scienze della natura (si veda ad esempio la stupida polemica anti newtoniana di Hegel). Le filosofie trascendentali persero così ogni rapporto con la scienza galileiana, pretesero di ignorarla, di condizionarla o addirittura di sottometterla. La tendenza è chiarissima in Hegel, ma anche e soprattutto in Marx, il cui materialismo “hegeliano” è prettamente antiscientifico e antitecnologico. La metafisica di Schopenhauer è del tutto indifferente rispetto ai risultati della scienza galileiana, che sono assunti con un atteggiamento puramente strumentale. Ancor peggio è la posizione di Nietzsche, il quale ha cominciato a suggerire che qualunque tipo di logos costituisca, per ciò stesso, una forma di decadenza e di ottundimento degli spiriti vitali.
Se si vuol un esempio della pervicacia antiscientifica del trascendentalismo lo si può ritrovare nella fenomenologia husserliana, senz’altro il sistema filosofico continentale più distante dal kant – hegelismo. Ebbene, ne La crisi delle scienze europee, scritto peraltro in un periodo di fiorentissimo sviluppo scientifico, vengono ribaditi tutti i pregiudizi nei confronti della scienza galileiana e si tenta di porla sotto la fondazione della filosofia trascendentale. Heidegger, dal canto suo, rappresenterà la sintesi di tutte queste tendenze, in piena consonanza del resto con gli hegelo - marxiani Lukács, Horkheimer e Adorno.
Il fatto è che le analisi deduttive delle categorie della mente prodotte dagli idealisti, dai fenomenologi o dai neo kantiani mal si accordavano con i risultati rivoluzionari della scienza galileiana del primo novecento. Le varie analitiche divennero sempre più confuse e difficili da sostenere, tanto da determinare la lunga crisi delle filosofie sistematiche. Nel caso di Marx e di pressoché tutti i suoi seguaci, è la dialettica a costituire l’elemento logico categoriale che governa la realtà storico sociale (e per qualcuno dei suoi seguaci anche il mondo fisico). La nozione della Totalità sostituisce abbondantemente lo Spirito o l’Io trascendentale
 
10. L’introduzione da parte di Ferraris della cosiddetta fallacia trascendentale, di cui s’è detto, si presta a rilevare il permanere nella filosofia continentale di una seconda fallacia – che pur essendo molto antica è stata conservata e riprodotta inconsapevolmente dal trascendentalismo. Mi riferisco a una fallacia che può essere definita come fallacia scolastico - essenzialista. Vediamo brevemente di che si tratta.
La tradizione trascendentale, accettando il principio per cui sono le categorie della mente (in inglese, mind traduce anche Spirito) a conformare o a produrre la realtà fenomenica, è rimasta schiava del linguaggio platonico aristotelico scolastico che da sempre era stato usato per descrivere quelle stesse categorie. È risaputo che le categorie kantiane (per ammissione stessa di Kant) risalgono addirittura alla logica aristotelica. Il termine stesso “trascendentale” risale ai trascendentali di Tommaso d’Aquino.[18] Gira e rigira, pur cambiando talvolta la terminologia, le formae mentis sono sempre le stesse: idee, essenze, sostanze, identità, concetti, contraddizioni, cause, potenze, attuazioni e poche altre cose. Basta scorrere l’indice della Scienza della logica[19] hegeliana e si troverà un bel riassunto della filosofia platonico aristotelico scolastica condito con qualche concessione al vitalismo romantico. Secondo i trascendentalisti la realtà (il mondo come ci appare) è ordinata, filtrata, informata da questi schemi o categorie assunti a priori. Quando qualcosa non rientra, la forza dello schema è tale da costringerlo o da escluderlo. Se non c’è niente che corrisponda allo schema supposto, ebbene, lo si inventa di sana pianta. È lo spirito di sistema, la contemplazione dell’ordine che risiede nella mind e che quindi si proietta all’esterno. Quest’operazione d’incasellamento viene applicata – violando ovviamente le rigorose ma deboli distinzioni kantiane – alla totalità della realtà, dal mondo fisico e biologico, al mondo sociale, alla storia, all’arte, al mondo morale, alla religione, perfino alla filosofia stessa. L’inglobamento del tempo storico (del mutamento) ha implicato perfino l’accettazione della contraddizione.[20] Il sistema di Schopenhauer è leggermente diverso da quello degli idealismi, ma è ugualmente dominato dal trascendentalismo e dallo spirito di sistema (tanto che il suo autore, dopo averlo prodotto in giovane età – mal copiando Kant a man bassa – si è dedicato soltanto al suo perfezionamento). Anche le filosofie antisistema, come quelle di Kierkegaard e di Nietzsche (e poi di Heidegger) hanno combattuto le loro battaglie contro i sistemi (e contro la scienza galileiana) usando comunque sempre gli stessi arnesi del linguaggio platonico aristotelico scolastico.
Manco a dirlo, l’arnese tradizionale più utilizzato è stato l’essenzialismo. Intendo qui l’essenzialismo scolastico, non la teoria delle proprietà essenziali di cui si parla in filosofia analitica. Le filosofie che promanano dal trascendentalismo non possono che essere essenzialiste in senso scolastico, poiché qualsiasi oggetto (inteso in senso lato) non può che essere, in qualche modo, sintesi di un elemento essenziale trascendentale (ideale, mentale, categorico, formale, comunque sia definito) e di un qualche elemento empirico. Quando non è sintesi allora è un degrado dell’essenza (il non io, l’alterità, l’antitesi,…). Anche nel “materialista” Marx, l’alienazione è la perdita dell’essenza umana e l’emancipazione è il recupero dell’essenza umana; oppure l’essenza della merce è il lavoro, e così via. Anche Husserl, la cui filosofia è fondata sul trascendentalismo, ha fatto ampio uso delle essenze. Anche Heidegger – pur pasticciando alquanto – ha mantenuto la differenza tra essenza (cioè l’essere) e esistenza[21] – del resto conosceva alquanto la filosofia scolastica.
Le essenze che popolano la mind dei trascendentalisti godono per definizione di proprietà ontologiche privilegiate che non sono possedute dagli oggetti dell’esperienza bruta, dalle brute individualità: le essenze sono le matrici delle cose, costituiscono la vera natura di ciò che è artistico, costituiscono i protagonisti della storia come le classi o i popoli, definiscono le istituzioni umane, sono il fondamento delle religioni, sono la vera realtà del soggetto individuale o di quello sovra individuale, e così via. Quando le essenze non siano così evidenziate, allora resta la loro nostalgia, il senso della perdita, della separazione, della loro sparizione, come nelle filosofie anti sistematiche, esistenziali o nel cosiddetto pensiero negativo.
 
11. Grazie alla critica di Ferraris al trascendentalismo, oggi siamo anche in grado di comprendere assai meglio, sul piano storiografico, come il trascendentalismo abbia contribuito a produrre la nozione dell’inconscio. Non sto parlando qui dell’inconscio in senso specifico (freudiano, junghiano, lacaniano e simili) ma della generica nozione di inconscio che ha popolato molta filosofia ottocentesca e novecentesca.
In precedenza si aveva, ovviamente, la nozione di un’individualità suddivisa e lacerata, si pensi al platonismo o al cristianesimo e alla sua nozione del male. Il trascendentalismo tuttavia ha fatto di più, ha messo al centro il soggetto, la sua mind, e l’ha dotato di una serie di meccanismi formali assai elaborati che sono in grado di operare implacabilmente, spesso al di là della consapevolezza soggettiva, e che necessitano di una analitica per essere esplicitati. All’inizio questi meccanismi interni erano quelli di tipo logico ereditati dall’aristotelismo, ma le filosofie romantiche hanno delogicizzato questa mind e ne hanno fatto una specie di principio vitalistico o volontaristico, talvolta anche illogico o irrazionale. Dunque ogni individuo si è trovato al proprio interno un altro da sé, un principio di vita / volontà di cui poteva non avere piena padronanza. Si è avanzata dunque la possibilità che una parte del soggetto potesse possedere dei desideri, dei contenuti culturali o simbolici, elementi linguistici. Spesso nella cultura romantica tutto ciò poteva essere definito come il lato oscuro, oppure come il doppio di sé.
Sul piano filosofico non va dimenticato che anche le filosofie trascendentali sistematiche hanno dato il loro contributo. Si pensi soltanto alla filosofia della storia di Hegel, da cui emerge che la storia dell’umanità è guidata da una specie di processo inconscio (ci riferiamo alla nota astuzia della Ragione) che può essere compreso solo dopo, attraverso un’analisi. Il contributo maggiore alla nozione dell’inconscio è stato tuttavia dato dalle filosofie anti sistematiche come quelle di Schopenhauer o Nietzsche.
Tutto ciò conferisce nuova luce alle cosiddette filosofie del sospetto che, secondo Ricoeur, accomunerebbero Marx, Nietzsche e Freud. Nell’idea di sospetto è intrinseca una dicotomia tra apparenza e realtà autentica. Ora, si può legittimamente asserire che le dottrine concernenti la coppia concettuale apparenza/ realtà autentica siano ben più antiche (basti pensare a Platone, ma anche a Eraclito). Tuttavia, con la svolta trascendentale, questa dicotomia è stata posta dentro agli individui. In superficie sta la rappresentazione, in profondità sta la verità, una verità che va ricostruita con un’analitica. Dunque, non una rivelazione che giunge dall’esterno, come nelle teologie tradizionali, ma una rivelazione cui si può accedere scavando nell’interno.[22]
Di conseguenza le oggettive limitazioni del soggetto (che possono essere anche assai diverse da cultura a cultura, da società a società) sono interpretate come dovute a una spaccatura interna tra una rappresentazione illusoria di sé e una essenza veritiera nascosta. Questa essenza veritiera nascosta è spesso stata anche presa in considerazione nella spiegazione dei fenomeni artistici e della creatività. Se tutto ciò è vero, allora potremmo anche accusare il trascendentalismo di una fallacia del sospetto.
 
12. Come si esce dalla fallacia trascendentale che, come abbiamo visto, ha portato con sé anche la fallacia essenzialista (e probabilmente anche una fallacia del sospetto)? Come s’è visto, la fallacia trascendentale (e quelle che l’accompagnano) riguarda strutturalmente la filosofia continentale degli ultimi due secoli e corrisponde ormai addirittura a un modo tipico di pensare, a uno stile filosofico. La filosofia empirista del Settecento e dell’Ottocento si è tenuta per lo più lontana dal trascendentalismo e quindi anche dalle sue fallacie. Lo stesso si può dire per la filosofia analitica che comunque è in gran parte una filiazione dell’empirismo. Indubbiamente chi intenda rifiutare la fallacia trascendentale non può oggi che guardare con interesse alla filosofia analitica.
La filosofia analitica è sempre stata caratterizzata da un rifiuto delle assunzioni metafisiche e quindi è sempre stata diffidente nei confronti dell’impiego a man bassa delle categorie o forme trascendentali. Nello stesso modo ha sempre rifiutato l’essenzialismo scolastico e la nozione di inconscio. D’altro canto la filosofia analitica oggi è ben lungi dal costituire un blocco compatto come la filosofia continentale, è piuttosto un ambito d’indagine molto pluralistico, tenuto insieme da alcuni elementi metodologici di fondo e da un certo stile d’indagine. Si può dire che ci siano molte filosofie analitiche.
L’obiezione comunemente rivolta ai filosofi analitici è quella di costituire un ambito di discorso astruso, tecnicistico e sterile. Questi difetti ci sono senz’altro, ma ormai la filosofia analitica ha conseguito un cumulo di risultati che sono diventati imprescindibili per chiunque intenda la filosofia come un campo aperto di ricerca e non solo il luogo delle dispute ideologiche.
La filosofia analitica in più non ha alcun pregiudizio strutturale nei confronti dei risultati della scienza galileiana, per cui si sta assistendo sempre più a un’interazione feconda tra i due campi (quell’interazione che sul continente è venuta meno subito dopo Kant). Gli imponenti sviluppi delle scienze cognitive sono legate anche a un’interazione del mondo della ricerca con la filosofia analitica. Per di più, per quel che ci interessa, negli ultimi decenni, nell’ambito analitico, c’è stata una significativa ripresa delle problematiche relative all’ontologia e anche alla metafisica, le quali sono trattate però secondo lo stile analitico.
È chiaro che l’attuale situazione di profonda crisi del panorama filosofico continentale non può che comportare la possibilità di un’apertura e di un confronto con la tradizione analitica, la quale può portare un notevole contributo in termini di chiarificazione delle questioni. D’altro canto le desiecta membra della filosofia continentale possono offrire alla filosofia analitica un ampliamento di prospettiva, sia nella direzione di questioni che concernono il senso comune sia nella direzione di questioni di ordine più generale, legate alla ontologia e alla metafisica. A favore di una ripresa del dialogo tra questi due stili filosofici si è recentemente pronunciata Franca D’Agostini.[23]
 
13. Secondo D’Agostini peraltro, l’attuale battaglia intorno al realismo, l’unica novità nel piatto panorama filosofico del nostro Paese,[24] rischia di risultare una questione periferica e ancora debitrice di una attenzione indebita nei confronti della degenerazione postmoderna. Il rischio in effetti, avendo preso coscienza della fallacia trascendentale, è quello di portare il dibattito indietro di due secoli, di tornare a Locke e a Hume, ed è in fondo quel che fa Ferraris quando propone il suo divertente esperimento della ciabatta.[25] In realtà non ha senso tornare indietro, anche perché la filosofia analitica ha nel frattempo accumulato molti importanti risultati.
Ma non solo per questo. I recenti sviluppi della ricerca scientifica stanno ponendo una dura sfida alla filosofia che sarà vinta solo da quelle correnti che meglio sapranno meglio raccordarsi con i nuovi risultati. Gli sviluppi delle neuroscienze e delle scienze cognitive negli ultimi due o tre decenni stanno assestando la botta finale alla filosofia trascendentale così com’è stata praticata negli ultimi due secoli.[26] Il dualismo tra materia e forma (e tutti quelli analoghi) sono ormai impossibili da sostenere nei termini tradizionali. Per quel che riguarda il mind-body problem i dualisti sono rimasti veramente in pochi ed è probabile che le prossime scoperte ne ridurranno ancora ulteriormente la schiera.
Se ci sono schemi o categorie questi non potranno che essere legati al funzionamento del cervello e quindi dovranno essere direttamente o indirettamente indagabili dalle neuroscienze (e non saranno mai più un prodotto di strategie analitiche in senso kantiano, cioè non saranno più decisi dai filosofi). Continuare a mettere un Io trascendentale accanto a un Io empirico non potrà che rivelarsi come un inutile e patetico doppione volto a salvare un’improbabile nozione di anima.
Le neuroscienze stanno apportando chiarificazioni decisive in campi che fino a ieri erano terreno di caccia della filosofia trascendentale. Si veda ad esempio quel che si è acquisito sulle nozioni di coscienza e di inconscio.[27] Si veda quel che si è acquisito per quel che riguarda un settore come la matematica[28]. Le nostre valutazioni e addirittura il nostro comportamento morale sono stati chiariti dalla psicologia sperimentale.[29] Anche in settori come quelli della creatività artistica le neuroscienze hanno mostrato di avere molto da dire.
Un altro campo estremamente interessante e promettente è legato allo studio della mente degli animali. È sempre più chiaro che non ci sono salti, che l’uomo si trova in diretta continuità con gli altri viventi. Se ci sono schemi, questi sono biologici e connaturati alla specie. Come gli animali manifestano forme di credenza, così gli umani hanno un cervello predisposto a credere. Ormai è piuttosto avanti l’antropologia cognitiva della religione che è in grado di spiegare l’universale diffusione della religione e delle credenze.
Se tutto questo è vero, ciò significa che il linguaggio, la ragione, la logica, la matematica, l’ontologia, la metafisica dovranno, in prospettiva, essere analizzate e collocate in un contesto evolutivo. Non è lontano il tempo in cui avremo un’ontologia e una metafisica evolutive (la cosa non piacerà agli heideggeriani, ma se ne faranno una ragione).
 
14. Di fronte a questi sviluppi, la filosofia analitica risulta essere la meno dogmatica, la più pluralista, la più aperta al dibattito, all’indagine e al confronto con i nuovi risultati delle scienze. Gli analitici non hanno alcuna difficoltà a ragionare con cose come i qualia, i mondi possibili o come le logiche para consistenti, con lo stesso atteggiamento con cui i fisici teorici discutono delle vibrazioni del vuoto. Ai continentali impenitenti lasciamo volentieri l’angoscia, le deiezioni, il declino dell’Occidente, la fine della metafisica, la dialettica e la dialettica dell’illuminismo, la Totalità, la reificazione, il pensiero negativo, il nichilismo, le fondazioni trascendentali, l’eclisse della ragione, l’inconscio, l’occultamento dell’essere, l’evento, il pensiero liquido e quant’altro.
 
Giuseppe Rinaldi
15/09/2015
 
 
 
OPERE CITATE
 
1998 Abbagnano, Nicola
Dizionario di filosofia (Terza edizione, aggiornata e ampliata da Giovanni Fornero), UTET, Torino.
 
2013 D’Agostini, Franca
Realismo? Una questione non controversa, Bollati Boringhieri, Torino.
 
2010 Damasio, Antonio R.
Self Comes to Mind. Constructing the Conscious Brain, Pantheon Books, New York.
 
1997 Dehaene, Stanislas
La bosse des Maths, Odile Jacob, Paris. Tr. it.: Il pallino della matematica. Scoprire il genio dei numeri che è in noi, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2010.
 
2014 Dehaene, Stanislas
Consciousness and the Brain. Deciphering How the Brain codes Our Thoughts, Viking Penguin Inc.. Tr. it.: Coscienza e cervello. Come i neuroni codificano il pensiero, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2014.
 
2004 Ferraris, Maurizio
Goodbye Kant! Cosa resta oggi della Critica della ragion pura, Bompiani, Milano.
 
2008 Ferraris, Maurizio (a cura di)
Storia dell’ontologia, Bompiani, Milano.
 
2012 Ferraris, Maurizio
Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Bari.
 
2006 Hauser, Marc D.
Moral Minds. How Nature Designed Our Universal Sense of Right and Wrong, Ecco. Tr. it.: Menti morali. Le origini naturali del bene e del male, Il Saggiatore, Milano, 2007.
 
2011 Kahneman, Daniel
Thinking, Fast and Slow, Penguin. Tr. it.: Pensieri lenti e veloci, Mondadori, Milano, 2012.
 
 
 
NOTE
 
[1] Questo scritto è composto soprattutto da una serie di appunti e riflessioni, non è definitivo e non è destinato a una qualche pubblicazione esterna; ha soprattutto la funzione di articolare un programma di lavoro per ulteriori approfondimenti.
[2] Secondo la vulgata, Parmenide sarebbe stato il primo filosofo a occuparsi di ontologia.
[3] Cfr. Abbagnano 1998.
[4] Cfr. Abbagnano 1998: 779.
[5] Cfr. Ferraris (a cura di) 2008.
[6] Cfr. Kobau in Ferraris (a cura di) 2008: 112-113.
[7] Cfr. Kobau in Ferraris (a cura di) 2008: 115.
[8] Cfr. Ferraris (a cura di) 2008.
[9] Il riferimento è a un noto articolo di Quine.
[10] Si badi che nella tradizione empirista l’uso del termine fenomeno aveva immediatamente un taglio polemico nei confronti di coloro che si attardavano a concentrarsi sulle cose in sé, giudicate ora di nessun interesse. Nella tradizione kantiana, avendo egli ammesso la cosa in sé, il fenomeno assume la connotazione di una mera apparenza.
[11] Cfr. Ferraris (a cura di) 2008: 16-17.
[12] Cfr. Ferraris (a cura di) 2008: 19.
[13] Cfr. Ferraris (a cura di) 2008: 9.
[14] Cfr. Ferraris (a cura di) 2008: 12.
[15] Si veda soprattutto Ferraris 2004.
[16] Lo scetticismo humiano derivava dall’eliminazione radicale delle categorie innate nella mente del soggetto per lasciare spazio all’elemento sensoriale. Lo scetticismo prodotto dal trascendentalismo deriva invece dalla proliferazione delle categorie nella mente del soggetto che si sovrappongono al mondo esterno o addirittura pretendono di generare il mondo esterno.
[17] È curioso che il singolo – che è parte della sua totalità – possieda le categorie per conoscere la struttura della totalità: la pretesa di Hegel filosofo di avere rappresentato lo Spirito nella sua mente (nella sua filosofia) è davvero curiosa e comunque finisce per avere un analogo nei platonici che ritenevano di poter ripetere l’iperuranio nella loro mente (attraverso la dialettica).
[18] Per Tommaso, secondo la dottrina dell’analogia dell’essere, i trascendentali sono le proprietà essenziali che sono possedute in primis da Dio e che Dio condivide, seppure con gradi diversi, con tutte le sue creature. Queste proprietà sono tre e sono uno, vero e buono. Dio dunque sarebbe l’Essere (uno), la Verità e il Bene.
[19] Si noti che, dopo Kant, nella tradizione continentale, il termine “Scienza” viene applicato alle categorie della mente (spirito compreso) piuttosto che al mondo empirico.
[20] Su questo punto, si veda il mio saggio Contraddizioni del terzo tipo sul blog Finestrerotte.
[21] So bene che Heidegger parla di essere, ma nel suo sistema l’essere ha lo stesso ruolo che in altre filosofie ha l’essenza. Heidegger talvolta usa anche il termine essenza ma lo usa in modo assolutamente non univoco. Nel suo sistema c’è posto per una sola essenza (l’essere) e tutto il resto è apparenza resa possibile dall’essere.  Questo perché tutto quel che sta nel mondo fenomenico è apparenza precategoriale. Così l’essenza viene per lo più assimilata all’essere.
[22] Anche in Marx il culmine della rivelazione si ha scavando dentro alla natura della merce.
[23] Cfr. D’Agostini 2013.
[24] Si veda Ferraris 2012 e il dibattito che ne è seguito.
[25] Cfr. Ferraris 2004.
[26] Si veda sempre Ferraris 2004.
[27] Si veda ad esempio Damasio 2010 e Dehaene 2014.
[28] Si veda Dehaene 1997.
[29] Si veda ad esempio Kahneman 2011, oppure Hauser 2006.