domenica 13 settembre 2015

Nietzsche tra individuazione e individualità

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1. Sicuramente[1] Nietzsche non è stato un costruttore di sistemi come alcuni suoi predecessori. La sua ontologia più nota, quella della volontà di potenza, che è anche in un certo senso il suo punto di arrivo, è costruita intorno a elementi o entità che sono, in un certo senso, individuali (anche se ciò non contribuisce a fare di lui un filosofo dell’individualità nello stesso senso di un Locke o di un Mill). Nonostante molte delle sue speculazioni filosofiche abbiano ruotato intorno alla questione dell’individualità, nelle sue opere non si trova alcuna riflessione esplicita su questo tema. Spesso Nietzsche è stato addirittura considerato come il teorico del flusso eracliteo, della continua trasformazione, e vari interpreti hanno negato che nella sua filosofia ci sia spazio per qualcosa come l’individualità.
Al contrario, ha affermato Nabais che: «Contrary to this view, I want to show that Nietzsche does have a theory of individuation. The development of Nietzsche’s work over a 17-year period represents a positive search for an adequate conception of the individual».[2] Il saggio di Nabais cui stiamo facendo riferimento è davvero prezioso poiché permette di gettare nuova luce sulla questione del rapporto tra la filosofia di Nietzsche e la questione dell’individualità. Questo anche perché una certa vulgata ha fatto di Nietzsche il difensore strenuo dell’individuo nei confronti di qualunque sovrapposizione o sistema. Una specie di profeta dell’anarchismo, d’individualista rivoluzionario o giù di lì. Ma anche un demolitore della stessa nozione di individualità. Vedremo in chiusura in che senso ciò possa avere qualche fondamento.
 
2. Per chiarire opportunamente la questione, seguendo da vicino le argomentazioni di Nabais, è opportuno distinguere almeno due periodi nello sviluppo filosofico di Nietzsche. Avremo un primo periodo, fino al 1885, in cui egli si ritrova principalmente sotto l’influenza delle teorie di Schopenhauer, e un secondo periodo successivo, che ruota intorno alla nozione della volontà di potenza, nel quale egli cerca di superare alcuni limiti o paradossi della fase precedente. La definizione del primo periodo proposta da Nabais ci pare tuttavia fin troppo ampia e noi avremmo preferito qualche ulteriore suddivisione, per apprezzare in pieno gli sviluppi del pensiero di Nietzsche, soprattutto in relazione a quello di Schopenhauer. Nabais ne tiene ovviamente conto, anche se ha evitato di sovraccaricare la sua periodizzazione.
 
3. La tesi di Nabais ruota intorno al fatto che Schopenhauer avrebbe lasciato in eredità al giovane Nietzsche un pasticcio irrisolto relativo alla teoria dell’individualità, un pasticcio che non ha avuto gravi ripercussioni sulla teoria di Schopenhauer, ma che può diventare davvero assai problematico appena ci si allontani dalla sua dottrina. È noto del resto che Schopenhauer non curava troppo la coerenza interna delle sue teorie, fatto dovuto forse alla sua considerazione della filosofia come attività espressiva, artistico – letteraria.
Il motivo conduttore principale della dottrina schopenhaueriana dell’individualità è noto anche agli studenti liceali. La volontà schopenhaueriana, erede della cosa in sé kantiana, è rigorosamente una ed è collocata al di là dello spazio e del tempo. Essa si manifesta anzitutto nella molteplicità delle idee, anch’esse in un certo senso eterne e immutabili, e poi finalmente, grazie alle forme trascendentali dello spazio, del tempo e della causalità (anche queste mere eredità kantiane), si manifesta nel complesso dei fenomeni, cioè nei singoli individui. Schopenhauer ha chiamato principium individuationis questo processo di generazione dei singoli individui. Com’è noto tuttavia, il fenomeno, l’individuazione nello spazio e nel tempo, per Schopenhauer, non è la vera realtà; essa altro non è che rappresentazione o, se si vuole, mera illusione. La vera realtà è la volontà noumenica. La conseguenza di questa teoria è che anche gli individui generati dall’individuazione vanno considerati come un’illusione. L’esito finale della filosofia schopenhaueriana sarà proprio quello di riconoscere il carattere illusorio delle rappresentazioni e addirittura di giungere a sopprimere le rappresentazioni stesse. Gli individui sono una manifestazione della volontà, ma questi, poiché determinano soltanto un ciclo del dolore, dovranno alla fine essere soppressi.
 
4. Questa almeno è una parte della storia. Quella più nota. La parte meno nota della storia – che serve tuttavia a meglio comprenderla – ha ancora radici nella filosofia di Kant, cui Schopenhauer si era abbondantemente ispirato. Kant, nella Critica della ragion pura discute una questione assai specifica ma densa di conseguenze circa il tema che ci interessa. Essa riguarda i confini tra il mondo fenomenico e il mondo morale o mondo noumenico. L’uomo, nella filosofia di Kant, com’è noto, si ritrova in entrambi i mondi: in quanto immerso nel mondo fenomenico, esso è soggetto alle leggi della natura e in particolare alle leggi della causalità. Noi diremmo che nel mondo fenomenico l’uomo è condizionato. D’altro canto, l’uomo abita anche nel mondo morale, che per Kant notoriamente è noumenico, ovvero extra fenomenico e incondizionato. In campo morale dovrebbe essere l’uomo a determinare il dover essere. Il problema che si pone Kant è come sia possibile che lo stesso uomo sia, contemporaneamente, soggetto alla causalità dentro al mondo fenomenico e, nello stesso tempo, autonomo legislatore e produttore della legge morale nel mondo noumenico.
Kant si era tolto dall’impiccio distinguendo tra due tipi di carattere della persona: un carattere empirico, corrispondente alle azioni causali, ai condizionamenti che l’individuo subisce nel mondo fenomenico in cui abita e, d’altro canto, un carattere intelligibile corrispondente ai requisiti implicati dalla legge morale. Si poteva così presumere che il carattere intelligibile potesse sopravanzare o comunque influenzare il carattere empirico nella determinazione del comportamento.
Tutto ciò poteva funzionare nel momento in cui si manteneva una netta distinzione tra fenomeno e noumeno. Com’è noto, questa distinzione venne invece completamente eliminata da Schopenhauer, con esiti imprevedibili. Il momento fenomenico divenne quindi la rappresentazione, l’apparenza, mentre il momento noumenico divenne la volontà. Quindi, il carattere intelligibile (la volontà) si trovava ora a determinare l’apparenza in tutto e per tutto. Il singolo individuo non aveva più da realizzare alcun compito morale universale, bensì doveva realizzare il suo preciso carattere intelligibile, che era quello determinato dalla volontà. Così nel sistema di Schopenhauer l’individuo non era più il libero interprete della legge morale (come in Kant) bensì l’esecutore di un destino che la volontà noumenica aveva prescritto per lui. La volontà determinava il destino fenomenico e l’individuo non poteva sottrarsi.
Ciò dava così origine al ciclo della sofferenza e del dolore, cui ci si poteva sottrarre solo eliminando la fonte della volontà stessa e quindi eliminando anche l’individualità. Il percorso della liberazione secondo Schopenhauer altro non era se non una progressiva soppressione della individualità, in tutti i sensi.
 
5. Ma vediamo meglio la questione. Nell’individuazione, secondo Schopenhauer, le piante e gli animali, come individui, corrispondono esattamente all’idea della loro specie. Questo perché c’è un’unica idea per ogni specie, poiché tutti gli individui della stessa specie hanno esattamente lo stesso comportamento. Ciò non vale per gli umani, ove Schopenhauer riconosce che i singoli individui siano entità uniche, assai diverse tra loro. Ciò significa che ogni singolo individuo umano è “la manifestazione di un’idea”, ovvero esso è strettamente determinato in tutte le sue caratteristiche individuali dalla volontà stessa. Ne consegue allora che, all’interno del singolo individuo, si abbia la distinzione tra il carattere intelligibile (identificato con l’idea stessa del singolo individuo) e il carattere empirico, che corrisponde all’agire dell’uomo nel mondo fenomenico in risposta ai meccanismi della ragion sufficiente. Il carattere intelligibile quindi diventa l’idea di un singolo individuo, una specie di predisposizione, di modello ideale di noi stessi, che portiamo in noi fin dalla nascita e che è espressione immediata della volontà. Nella nostra vita empirica altro non facciamo che comprendere sempre meglio il nostro carattere e tentare di realizzarlo.[3] Il destino di ciascun individuo è dunque già scritto nel suo carattere intelligibile, cioè nell’impulso di fondo che lo governa. Si tratta dunque, come ognun vede, di una concezione fortemente deterministica, nella quale all’individualità, comunque sia concepita, non resta alcuna libertà.
Il fatto che talvolta ci sentiamo responsabili delle nostre azioni (come in Kant) è dunque una pura illusione e non ha a che fare con la libertà. Ci sentiamo responsabili proprio perché noi siamo la volontà intera che ci muove e quindi vogliamo la realizzazione completa del nostro carattere. Così ha spiegato questo punto G. Invernizzi: «La dottrina della libertà trascendentale spiega il senso di responsabilità che ciascuno prova in sé. Posto che la volontà è per intero in ogni individuo, ovvero che ogni individuo è per intero la volontà, se ne deduce che l’atto (fuori dal tempo) che costituisce il carattere intelligibile, oltre ad essere libe­ro, può essere considerato come compiuto da ogni individuo: come per Pla­tone, cui Schopenhauer si richiama, ognuno è dunque responsabile moral­mente del proprio carattere, che si esplica poi con inflessibile necessità nel mondo fenomenico. Questa teoria è sintetizzata nella formula operari sequi­tur esse. L’agire (fenomenico) dell’individuo dipende dal suo essere transfeno­menico, il quale però, a ben vedere, è esso stesso un agire. Questa soluzione appare a Schopenhauer in grado di coniugare libertà e necessità in un modo rispettoso dell’esperienza. Inoltre essa rende l’uomo moralmente responsabi­le, in quanto creatore di se stesso, cosa che non avviene se si presenta l’uomo come la creatura di un’entità superiore».[4]
Dunque la responsabilità morale individuale (su cui era fondata l’intera etica kantiana) diventa ora soltanto la realizzazione completa della volontà, cioè del carattere intelligibile, che tuttavia non deriva dalle scelte individuali bensì dal destino che ciascuno ha ricevuto. È chiaro che quest’onnipotenza del noumeno determina l’esito finale stesso della filosofia schopenhaueriana e il destino negativo dell’individuo.
 
6. Nella filosofia di Schopenhauer, quindi, nel momento in cui ciascun individuo uomo, deterministicamente, altro non potesse fare se non realizzare per intero il proprio carattere (la volontà che è in lui) non si avrebbe alcun margine per sfuggire alla volontà. Gli uomini altro non sarebbero se non burattini nelle mani della volontà. Tuttavia secondo Schopenhauer – e qui ci spostiamo su un terreno più noto - è possibile non tanto costruire positivamente un altro diverso carattere, quanto sottrarsi all’imperativo della realizzazione del proprio carattere. Ciò può avvenire soltanto attraverso lo sviluppo della consapevolezza (ovvero attraverso la filosofia). Spiega Schopenhauer: «Ma la chiave per comporre queste contraddizioni consiste in ciò, che lo stato in cui il carattere è sottratto al potere dei motivi non proviene immediatamente dalla volontà, bensì da un mutato modo di conoscere. Finché cioè la conoscenza non è altra che quella prigioniera del principium indivi­duationis, che segue senz’altro il principio di ragione, anche la forza dei motivi è irresistibile; ma quando il principium individuationis viene trapassato, le idee, anzi l’essenza delle cose in sé, come la stessa volontà presente in tutto, vengono conosciute direttamente, e da questa conoscenza scaturisce un quietivo generale del volere; allora i singoli motivi divengono inefficaci, perché il tipo di conoscenza ad essi corrispondente è oscurato e scalzato da uno tutto diverso. È vero quindi che il carattere non può mai mutare parzialmente e deve invece di volta in volta esplicare, con la consequenzialità di una legge di natura, la volontà, di cui è nel suo complesso il fenomeno; ma proprio questo complesso, il carattere medesimo, può essere del tutto soppresso dal suddetto mutamento della conoscenza».[5]
L’unica manifestazione di libertà del volere concessa all’uomo sta appunto nel sottrarsi ai motivi che, attraverso il nostro carattere, pesano su ciascuno di noi. Dice Schopenhauer che: «Essa subentra solo quando la volontà, pervenuta alla conoscenza della propria essenza in sé, ne riceve un quietivo, venendo in tal modo appunto sottratta all’azione dei motivi, che opera nel dominio di un altro tipo di conoscenza, i cui oggetti sono soltanto fenomeni. La possibilità della libertà che così si manifesta è il più grande privilegio dell’uomo, all’animale esso mancherà in eterno, perché ne è condizione la facoltà riflessiva della ragione, che consente di abbracciare con lo sguardo l’insieme della vita, indipendentemente dall’impressione del presente. L’animale non ha alcuna possibilità di libertà, come neanche ha la possibilità di una scelta vera e propria, cioè meditata, dopo un perfetto conflitto dei motivi, che dovrebbero essere a tal fine rappresentazioni astratte».[6]
Insomma, qualora l’individuo riesca a conoscere (attraverso la filosofia) la sua condizione illusoria e qualora comprenda fino in fondo i meccanismi attraverso cui la volontà lo condiziona, allora l’uomo può riuscire a sottrarsi ai condizionamenti della volontà; può, nel linguaggio di Schopenhauer, trasformare i motivi in quietivi, aprendo così la strada della liberazione che tuttavia implica anche la soppressione dell’individualità.
 
7. La teoria schopenhaueriana dell’identità personale risulta dunque alquanto problematica. Da un lato, gli individui in genere sono tali solo ed esclusivamente sulla base dell’individuazione, cioè della moltiplicazione della loro singola idea nello spazio e nel tempo. Tutti i gatti sono copie illusorie dell’unica idea del gatto. Il gatto A si distingue dal gatto B solo per la sua collocazione nello spazio e nel tempo, secondo la ragion sufficiente.
D’altro canto, però, nel caso degli umani, ogni singolo individuo umano corrisponde a un’idea specifica prodotta dalla volontà, cioè al suo carattere intelligibile. Come c’è l’idea del gatto, così c’è l’idea di Tizio, di Caio e di Sempronio. Gli individui umani possiedono dunque un complesso distintivo di particolarità sul piano ideale che non sono semplicemente dovute all’individuazione secondo la ragion sufficiente. Caio ha un carattere intelligibile diverso da quello di Tizio. Questo specifico carattere rappresenta la meta, il destino già previsto, che Caio è spinto a realizzare dalla sua stessa volontà. L’essere umano singolo dunque è duplice, è anzitutto un individuo ideale vincolato al proprio destino caratteriale, diverso dagli altri, e poi è anche la sua individuazione illusoria nello spazio e nel tempo. Ciascun carattere empirico tuttavia è spinto a seguire il proprio impulso vitale, realizzare cioè il proprio carattere intelligibile. La volontà e l’illusione devono in altri termini incontrarsi nella vita del singolo.
La differenza tra l’uomo e gli altri animali e piante sta nel fatto che per gli animali c’è un unico destino previsto dalla specie. Per gli uomini invece, ciascun uomo ha già il suo destino atemporale, previsto dal suo specifico carattere intelligibile. Dunque ogni singolo uomo ha il proprio impulso noumenico determinato dal carattere intelligibile che lo contraddistingue. Tutti gli individui umani sono dunque diversi, per quanto asserviti al loro specifico destino.
L’identità umana individuale, in un certo senso, non ci appartiene del tutto, essa viene progressivamente scoperta e realizzata. Il singolo uomo individualizzato si trova dunque originariamente nello spazio e nel tempo, ma, alla stregua dell’animale, non conosce chi veramente è. Cioè non conosce il proprio destino, cioè non conosce il suo carattere intelligibile. Allora bisogna che l’individuo intraprenda un processo di scoperta, di riconoscimento di quello che già è (cioè, di cosa vuole la volontà che è in lui). Ciò può avvenire soltanto lasciandosi agire, cioè lasciando che il modello, che è già in lui, affiori, si perfezioni e si affermi, quale che sia. La scoperta e la realizzazione del proprio carattere equivale alla realizzazione dell’opera d’arte, poiché è pur sempre un recupero dell’idea che avviene mentre ci si trova nel flusso della ragion sufficiente. La tragedia peraltro insegna che ciascuno va inconsapevolmente incontro al suo destino, ciascuno cioè scopre il suo destino.
Come si vede, la mossa azzardata di Schopenhauer di sopprimere la differenza tra noumeno e fenomeno nella filosofia kantiana, tra l’altro, ha avuto il risultato di trasferire il determinismo dal mondo della natura al mondo morale e di sottoporre il mondo morale a una totalità arbitraria e irrazionale come la volontà. L’individuo diventa così il terreno d’azione di una volontà che esso non ha scelto, diventa il protagonista di una vita illusoria e dolorosa, per cui non gli resta che sopprimersi in quanto individuo, attraverso le pratiche ascetiche ampiamente descritte da Schopenhauer stesso.
 
8. Quella che abbiamo sintetizzato era la gabbia teorica nella quale era imprigionato il giovane Nietzsche rispetto alla questione dell’individualità, più o meno all’epoca del suo primo approccio alla filosofia del Maestro. Com’è noto, Nietzsche non seguirà Schopenhauer nel tentativo di trasformare i motivi in quietivi. Per Nietzsche , contra Schopenhauer, occorreva accettare il dolore come parte della vita, occorreva addirittura volere il proprio destino. Che egli non abbia del tutto seguito la prospettiva del Maestro non gli ha tuttavia fornito ipso facto una nuova teoria dell’individualità. A lungo egli continuerà a mantenere il dualismo tra noumeno e fenomeno e ancor più a lungo continuerà a mantenere la nozione di un’individuazione illusoria nell’ambito della ragion sufficiente. Una nuova teoria – che poi culminerà nella volontà di potenza – si farà strada poco per volta, nel progressivo distanziarsi dal Maestro, anche se poi rimarrà incompiuta per le note complicazioni dell’ultima fase della biografia di Nietzsche.
9. Nei suoi primi lavori Nietzsche adotta in pieno la prospettiva metafisica schopenhaueriana, con tutte le sue incongruenze relative alla questione della individualità. Così ha affermato Nabais: «The works of Nietzsche’s rst period (1872–6) are profoundly marked by this paradox of individuality of Schopenhauer’s metaphysics: they adopt the fundamental distinction between the thing-in-itself and the phenomenon, in much the same way as Schopenhauer, in his fashion (constituting it as the paradigm for a series of oppositions – one/multiple, essence/existence, reality/appearance), had taken it over from Kant».[7] Tuttavia – sempre seguendo Nabais - Nietzsche non è semplicemente un ripetitore di Schopenhauer e fin dalle prime opere si scorge il tentativo di differenziarsi dal Maestro e di trovare un qualche fondamento per l’esistenza empirica individuale.
Come afferma Nabais: «Nietzsche does not follow Schopenhauer in proposing a process of ascetic negation of the individual will but endeavors to justify the plane of appearance itself, and, therefore, the empirical existence of each individual. If the Dionysian ecstasy represents the state of ascetic fusion with the “primal One” (das Ur-Eine), which, as Schopenhauer had said, is attained through the disinterested contemplation of the Whole beyond all individual motivation, that same ecstasy is nonetheless counterbalanced by the gure of Apollo, “the magnicent divine image [Götterbild] of the principium individuationis,” as Nietzsche signicantly calls him, who represents the endeavor, through apology for the forms of appearance and dream, to justify the individualized character of human existence. For Nietzsche, the mystery of Greek tragedy lies in the presence within it of that tension between the One, manifested in mystic union with the universe in the Dionysiac delirium, and the multiple, embodied in the characters’ struggle for the heroic afrmation of their individuality».[8]
Sono questi i temi presenti ne La nascita della tragedia (di cui qui si dà per scontata la conoscenza da parte del lettore).
 
10. Un momento di netta differenziazione di Nietzsche nei confronti delle teorie schopenhaueriane si ha a partire dal 1878. Con Umano troppo umano, egli tende ad abbandonare la prospettiva dualistica noumeno/ fenomeno che era implicita nel sistema schopenhaueriano. Sparisce (o vien lasciata nello sfondo) dunque la cosa in sé e l’unico mondo effettivo diventa quello della rappresentazione fenomenica. Nietzsche comincia dunque ad ammettere che c’è un solo piano di realtà e che ci sono soltanto individui.
Il fatto è che Nietzsche continua a considerare l’unico piano di realtà che gli è rimasto, cioè la rappresentazione, esattamente nello stesso modo in cui l’aveva definita Schopenhauer, cioè come il regno della ragion sufficiente. L’eliminazione del principio noumenico getta così l’individuo umano completamente all’interno della rappresentazione e lo assoggetta completamente alle leggi della causalità (si ricordi che spazio, tempo e causalità erano le categorie schopenhaueriane della rappresentazione). Si passa quindi dal determinismo rigido della cosa in sé sul mondo della rappresentazione a un altro determinismo, altrettanto rigido, all’interno del mondo della rappresentazione.
Spiega in proposito Nabais: «The concept of the individual occupies a key position in Nietzsche’s works of this period. Nietzsche attempts to determine the historical conditions which permitted the appearance of sovereign individuals who fight for their own individuality, in accordance with the model which he discovers in Italy’s “Renaissance man.” […] However, this autonomy of representation compromises the basis of the individuality of each singular being. In fact, to reject the possibility of an unconditioned world constituting the principle of intelligibility of the empirical world means to deprive individuality of the status of an immutable law underlying both the identity of each individual in time and the very internal principle of individual differentiation. On the strict level of representation, the individuality of human action is necessarily diluted by the empirical constraints of a given life-history. Nietzsche goes so far as to argue that the biographical sequence of each individual’s life is determined across the long chain of empirical causality […]. On the level of representation, any internal law of action disappears. The individual can no longer live according to his own law, can no longer be himself. The only law that remains is that which governs the multiplicity of individual life-histories: the principle of causality which mechanically determines all events within the “wheel of the world” on the basis of their position in the order of simultaneity and succession».[9]
La conseguenza di questa situazione è che non esiste più alcuna possibilità di un’individualità interna, di un destino, di un carattere intelligibile da realizzare. L’individualità è ora completamente un prodotto meccanico che proviene dall’esterno, in diretta conseguenza della sparizione della cosa in sé, e per di più le caratteristiche di illusorietà e di esteriorità della rappresentazione, in cui Nietzsche continua fermamente a credere, impediscono qualsiasi generazione di un principio sostitutivo. Quindi ora qualsiasi progetto di l’individualità diventa un compito davvero impossibile.
Ha osservato in proposito Nabais: « He now sees individuality as a model to be constructed and realized by each individual […]. Nonetheless, this conception of individuality is clearly incompatible with Nietzsche’s reduction of all reality to the level of representation, which is governed by mechanical causality. […] Nietzsche, inverting Schopenhauer’s position and guided by the project of justifying individuality within empirical individuation itself, saves the forms of representation by converting them into the sole real plane. However, he thus reduces individuality to an appearance, a mere representation made of itself by an “ego” petried within the causal chain of events in time. Nietzsche is still the prey of Schopenhauer’s metaphysics, even in the form in which he rejects it».[10]
 
11. È chiaro così che la fondazione di una qualche individualità in base alla mera esteriorità delle leggi causali (cosa che sarebbe stata, per così dire, un mero disastroso “capovolgimento” di Schopenhauer) non poteva che essere destinata a fallire. Il fatto di restare fermamente ancorato al mondo della rappresentazione fornisce a Nietzsche un feroce apparato critico atto per demolire ogni pretesa rappresentazione dell’individualità (e dei valori), ma non gli fornisce alcun aggancio per la costruzione di un nuovo modello d’individualità. Queste considerazioni permettono di comprendere a fondo come la cosiddetta “fase illuministica” di Nietzsche non fosse affatto effettivamente illuministica e si basasse invece su un assunto metafisico schopenhaueriano e cioè sulla convinzione pregiudiziale dell’illusorietà del mondo.[11] Nietzsche sa già che tutto è illusorio e perciò ha buon gioco a “mostrare” questa illusorietà a proposito di qualsiasi questione. Evviva il filosofo del sospetto! È, questo, il meccanismo tipico del pensiero esistenzialista per cui, avendo perduto l’essenza, non resta che mostrare l’ignominia dell’esistenza.[12]
 
12. Nietzsche permane per alcuni anni su queste posizioni, cioè, detto in soldoni, continua a rifiutare una parte del sistema di Schopenhauer (la cosa in sé) continuando tuttavia disastrosamente a mantenere l’altra (la rappresentazione). I primi segni di un cambiamento di posizione si scorgono nel 1881. Afferma in proposito Nabais: «Nietzsche’s first attempt to resolve this aporia – this tension between individuality without individuation and individuation without individuality – takes the form of the idea of eternal recurrence».[13] L’eterno ritorno dell’identico costituirebbe dunque una tappa del cammino di Nietzsche volto a superare la gabbia in cui la metafisica di Schopenhauer lo aveva confinato, suo malgrado. Sull’eterno ritorno nicciano sono stati scritti fiumi di parole. Nietzsche in effetti non è del tutto chiaro in proposito. Tuttavia la chiave interpretativa che stiamo sviluppando permette abbastanza agevolmente di comprenderne il senso (o, se si preferisce, di decifrarne con relativa sicurezza almeno uno dei molteplici sensi).
Il mondo della rappresentazione bruta (caratterizzato dallo spazio, tempo e causalità) in cui Nietzsche si era confinato, aveva la caratteristica di rinviare all’infinito, in avanti e indietro, la catena delle cause e degli effetti che agivano sui destini dei singoli individui. L’individuo era rimasto soltanto un effetto. In una simile situazione, ogni individualità dotata di qualche fondamento interno, di qualche autonomia o di qualche permanenza era ormai divenuta del tutto impossibile. Ogni evento individuale non poteva che risultare spietatamente come il frutto irripetibile di una cieca catena causale. Nietzsche, insomma, stava imparando a sue spese come il determinismo assoluto potesse trasformarsi in cieca casualità e quindi come l’individualità potesse diventare priva di ogni fondamento e consistenza.
 L’eterno ritorno, in questo contesto, ha la funzione di ripristinare qualcosa di simile al carattere intelligibile (cioè l’idea di una specifica individualità) senza però fare riferimento al noumeno, alla volontà o alla cosa in sé, che ormai erano stati esclusi (e collocati essi stessi tra le illusioni).Questo sostituto del carattere intelligibile si colloca ora dentro alla rappresentazione stessa e si fonda su una caratteristica della stessa ragion sufficiente. L’argomentazione di Nietzsche in proposito è, invero, debolissima ma serve perfettamente al suo impellente bisogno del momento. Gli eventi sul piano spazio temporale sarebbero in numero finito, per cui in un tempo infinito, questi non possono che ripetersi.[14] Un evento che si ripete, pur nel flusso continuo, acquisisce una sua permanenza oltre il tempo, una sua stabilità, una sua eternità. Il carattere intelligibile così riemerge, non più paracadutato dall’esterno ma ora proveniente da dentro la rappresentazione stessa. La ripetizione assicura una qualche stabilità, pur nel flusso continuo.
 Come afferma Nabais: «The idea of the eternal recurrence of all events now makes it possible to conceive the basis of the individuality of each individual in a form which is innovative and, at the same time, the locus of a terrible paradox».[15] Così spiega ulteriormente: «The access of each individual to his individuality no longer happens through the mediation of a subtraction from his empirical conditions as a means of becoming a transparent expression of an atemporal law; nor does it occur through the pursuit of an individual model constituting a sublime form. Individuality is no longer conceived as residing either on the hither side of each individual’s empirical existence, or beyond it: it is in it, and merges with it in an absolute fashion in each moment. To accede to one’s individuality – offered as it is in each moment to each individual as an original given, conferred on him eternally in an immanent fashion – is to reply in the affirmative to the question: “Do you want this once more, and also for innumerable times?”».[16]
Peraltro, una simile soluzione non era nuova nella storia della filosofia: essa si ritrova già, seppure in una forma grezza, nella fisica stoica, ove si sostiene la teoria dei mondi che si succedono sempre uguali, poiché sono retti dal logos. In fondo Nietzsche sta cercando un logos che possa fungere da principio esplicativo.
Così commenta Nabais: «The notion of eternal recurrence finds Nietzsche extracting the most radical consequences possible from his “anti-metaphysical” decision to remain on the plane of representation, refusing the categories of “reason,” “beginning,” or “finality.” Returning eternally on themselves, spatio-temporal relations have become self-subsistent, conferring on themselves, in circular fashion, sufficient reason for the fact that they are what they are rather than something else. In this universe, then, each individual partakes of the privilege of being able to display his raison d’être in the fact of existing in a particular space and at a particular time. Nonetheless, the idea of eternal recurrence still requires a complement: it needs to be doubled by an internal perspective on the individuality of each individual. It was precisely such a perspective that Nietzsche attained from 1885 onwards, with the elaboration of the theory of the will to power».[17]
 
13. L’eterno ritorno comunque non elimina l’universale dipendenza di tutto dalla catena causale e dallo spazio tempo. Semplicemente conferisce una individualità (fondata sull’ipotesi dell’eternità della ripetizione)[18] a ciascun elemento che venga a determinarsi nel continuum causale e spazio temporale. Tuttavia ciò non basta, poiché si ritornerebbe alla situazione dell’universale determinismo e quindi agli opposti atteggiamenti dell’amor fati oppure del quietivo di Schopenhauer.[19] L’individuo che ne deriva, comunque, continua a non avere nulla di libero, nulla di soggettivamente articolato.
Si noti che il mondo della rappresentazione ,entro il quale avvengono tutte queste cose, non è il mondo della natura che veniva raccontato dalla fisica dell’Ottocento, bensì il mondo come veniva raccontato dalle categorie kant-schopenhaueriane, il mondo della Quadruplice radice del principio di ragion sufficiente. Se Nietzsche avesse accettato la visione della fisica del suo tempo avrebbe potuto cominciare a occuparsi di fisiologia, di teorie della percezione, di rapporti tra fisico e psichico e simili.[20]
L’eterno ritorno, peraltro frutto di un’intuizione più che di una solida argomentazione, può al più alimentare un atteggiamento di amor fati, ma lascia le cose esattamente come stanno, lascia l’individuo disperso all’interno della rappresentazione. Nietzsche a questo punto cercherà di costruire una nuova teoria dell’individualità con le poche risorse concettuali che gli erano rimaste, dopo la potatura del pensiero negativo, cioè dopo la denuncia della generale illusorietà di tutta la realtà. Egli si trova ora così di fronte all’esigenza di introdurre qualche elemento di libertà o almeno di spontaneità e di spiegare la costituzione delle identità complesse, come le identità personali.
 
14. Nel 1885 Nietzsche ha cominciato a lavorare attorno al progetto della volontà di potenza e, con ciò, ha tentato di svolgere un successivo passo avanti verso lo sviluppo di una teoria dell’individualità. Ciò tuttavia ha comportato una ripresa della metafisica e un nuovo ricorso all’intuizione per individuare qualche tipo di entità essenziale che potesse costituire un principio fondativo ed esplicativo di ordine generale. La novità essenziale di questo nuovo corso è che il principio fondativo è ora cercato all’interno e nel profondo di ciò che è individuale.
Così ha osservato Nabais: «The main innovation represented by the theory of the will to power is Nietzsche’s abandonment of the plane of representation as the sole means of access to the real. It follows that his principal target is now the mechanistic view of the world – precisely because of its rejection of meta-empirical categories of any kind. […] He radically inverts his perspective on the interpretation of the real, abandoning the decision to reject any “intuition” beyond the plane of representation. It is now precisely the internal, that which escapes all representation, which has to become the explicative principle of observable external relations. All movements, all phenomena or laws, will now have to be seen as a manifestation, as a “symptom” of processes of which they are merely an expression».[21]
 Andando ora alla ricerca di qualche tipo di substrato elementare che potesse fungere da essenza e quindi anche da elemento individuale, Nietzsche rifiuta caparbiamente sia le unità elementari della fisica, sia le diverse unità elementari che erano state proposte dalle filosofie precedenti, come atomi, monadi, e così via. Al loro posto Nietzsche pone dei quanti di potenza, delle entità dinamiche energetiche e vitali. Spiega Nabais in questo modo: «To the notion of “atom” or “thing” he now opposes a conception of the “dynamic quanta”: “no things remain but dynamic quanta, in a relation of tension to all other dynamic quanta: their essence lies in their relation to all other quanta, in their ‘effect’ upon the same” […]. The essence of these ultimate units is action – an action in which it is impossible to distinguish the agent from the action’s effects, since it invariably takes place inside a structure made up of a multiplicity of elements, themselves also active, which simultaneously occupy, in relation to each other, the positions of object and obstacle. To these “dynamic quanta” Nietzsche gives the name of the will to power: they are the primal element of the universe, its homogeneous dynamic, the sea of forces out of which individuation arises».[22]
È abbastanza chiaro, dalla sintesi di Nabais, come Nietzsche cerchi di evitare accuratamente gli scogli opposti del materialismo meccanicistico e dell’idealismo (anche se non è certo stato il primo ad avere questa bella ambizione). La sua posizione è sicuramente una specie di pluralismo di tipo naturalistico i cui elementi (i quanta, impulsi, drive,…) sono qualcosa di analogo all’energia e all’attività. Essa comporta ora il rifiuto del meccanicismo della ragion sufficiente e implica l’accettazione di una forma di energetismo, di un nuovo principio dinamico che tuttavia è disegnato sempre sulla falsariga delle precedenti filosofie romantiche della natura. La terminologia usata da Nietzsche, in effetti, sembra ricalcare solo in apparenza quella della fisica del suo tempo, nei cui confronti egli continua a sferrare attacchi polemici.
Parallelamente allo sviluppo di questa nuova concezione relativa alle sostanze elementari, si ha la persistenza dell’accusa di illusione nei confronti della individualità soggettiva come questa è esperita nella vita quotidiana. Solo scardinando l’illusione del soggetto, di un’unità del soggetto, si può giungere a esplicitare il meccanismo energetico plurale che regge tutti i fenomeni vitali: «Everything that happens in us is in itself something other».[23] Nabais prosegue poco oltre: «What Nietzsche essentially denounces in this imaginary notion of the “individual” is the presupposition of unity. To this he opposes the idea of the individual as a plurality, as “a plurality of animated beings which, partly struggling with one another, partly integrating and subordinating one another, in the affirmation of their individuality, also involuntarily affirm the whole”».[24] La dicotomia noumeno / fenomeno così si riproduce ora all’interno del singolo individuo uomo: la consapevolezza soggettiva che abbiamo di noi stessi è pura illusione, pura rappresentazione, mentre l’autentica realtà vitale è quel something other che ci determina, senza che ce ne accorgiamo.
 
15. Il processo di individuazione (di generazione degli individui) avviene ora grazie al dinamismo della massa dei quanta, delle volontà di potenza. Spiega Nabais: «Within the universe of force there exists an essential continuity between all its forms, which enables a process of continual metamorphosis of one into another. However, this continuum cannot be an undifferentiated whole. Nietzsche conceives it at all moments as exhibiting variations in intensity, with at least two orders of potency (when force accumulates at one point, it dissolves at another). These variations in potency presuppose the existence of points or singularities that constitute both poles of condensation and principles of differentiation; in Nietzsche’s words: “Mere variations of power could not feel themselves to be such: there must be present something that wants to grow and interprets the value of whatever else wants to grow”. […]What is this “something which wants to grow,” this minimum element of the universe of force? […] Nietzsche denes it in terms of two key determinations: the will to growth, and an interpreting being».[25]
Spiega ulteriormente Nabais: «The minimum elements that make up the totality of the movement of force, and form the internal principle of its differentiation, are conceived on the basis of four determinations: (a) they are differently located; (b) they exist in a relation of tension with all the other elements; (c) they struggle to achieve their own growth; and (d) they interpret systems of difference in terms of their own value. The main innovation here is to conceive individuality as the principle of differentiation of force, and thence of the process of constitution of individuals as “systems-of-life.” If individuation precedes differentiation as of right, then individuation itself must be constituted by individuals endowed with individuality – with an internal quality which enables them to interpret variations in potency and construct them as oppositions. It is thanks to the existence in the universe of a multiplicity of individualized singularities, each with its own individuality, that it is possible to create differences, establish relations of tension between dynamic quanta, and constitute individuals as organic totalities».[26]
Circa la natura di questi elementi, Nietzsche sembra alquanto oscillare tra una definizione estrinseca, che vede i singoli elementi come il puro prodotto delle relazioni in cui sono coinvolti, e una definizione intrinseca, che vede invece i singoli elementi come dotati di qualità loro proprie che fanno valere nel conflitto con gli altri elementi. In questo caso i singoli elementi sarebbero dotati di peculiarità loro proprie e quindi sarebbero non solo individuati ma anche individualizzati.
Questo ultimo Nietzsche presenta quindi un’ambiguità di fondo tra il primato dell’elemento (con il rischio di sconfinare in una sorta di atomismo) e il primato della relazione (con il rischio di dissolvere il carattere individuale delle entità). Queste difficoltà non sono davvero nuove nella storia della filosofia, basti pensare alla dottrina agostiniana della Trinità.
Secondo Nabais: «While not systematic in its scope the solution adopted to deal with the antinomy concerning the ontological status of relation entails: (1) dening all dynamic relations as essentially perspectivist; (2) afrming the superiority of the internal dynamism of each singularity vis-à-vis its external relations». Il risultato è che: «The concept of perspective indicates the basic principle of the physics of the will to power: an individual is not something primordially functional but something absolutely spontaneous. Any transformation of power occurring within an individual is the result of his perspective, of his internal activity. The global shifts in power within the force field or system in which that individual operates are an expression, or “symptom,” of that activity, and not the reverse. As Nietzsche puts it, “the force within is infinitely superior; much that looks like external influence is merely its adaptation from within”».[27]
Le caratteristiche sistematiche di questa visione che Nietzsche è andato elaborando, senza riuscire per altro a concludere in maniera convincente, sono state accuratamente ricostruite in Richardson 1996.[28]
 
16. Il progetto di costruzione di una teoria dell’individualità nella filosofia di Nietzsche si rivela così un progetto impossibile, non perché Nietzsche rispecchiasse la crisi della società borghese - come ha sostenuto qualcuno - ma per la gabbia metafisica ereditata, di cui egli non riesce a disfarsi completamente, nonostante i suoi lodevoli tentativi. La maldestra semplificazione della filosofia kantiana operata da Schopenhauer avrebbe richiesto non un capovolgimento ma un deciso abbandono, con un conseguente cambio di campo. Nietzsche dunque non esce mai dalla prospettiva metafisica, neppure nel suo periodo intermedio, nel quale egli pare ne prenda maggiormente le distanze.
Nel primo periodo subisce fortemente l’influenza della dicotomia noumeno/ fenomeno di Schopenhauer, all’interno della quale una teoria dell’individualità risulta assai difficoltosa. Nel secondo periodo, il periodo “illuministico”, egli è impegnato sul piano della “rappresentazione”, quasi come se fosse diventato un fenomenista, ma non riesce mai a diventarlo compiutamente, perché continua a considerare il fenomeno sempre secondo la vecchia prospettiva, cioè continua a far riferimento alla coppia noumeno/ fenomeno, pur con un pezzo mancante.
Alla fine, dopo l’eterno ritorno, non gli resta altro che tornare a costruire una metafisica che tuttavia porta con sé tutti i veti, le recinzioni, i paletti costruiti nelle fasi precedenti. A questo punto, l’unico posto dove si poteva nascondere il noumeno (o la cosa in sé) sono i quanta, i drive, gli impulsi energetici della volontà di potenza. Chiaramente Nietzsche non poteva più recuperare l’idea kantiana del soggetto morale (che ormai considerava come illusoria); d’altro canto non era neanche più possibile recuperare qualcosa che fosse simile al carattere intelligibile di Schopenhauer, per cui egli deve ora fare a meno di una idea di individuo dotata di qualche strutturazione o compiutezza. Il soggetto illuministico kantiano viene così ridotto a un campo di battaglia di forze oscure, cioè viene ridotto a un mero sintomo dei conflitti e delle gerarchie che si instaurano tra i quanta, tra i will to power.
La strada finale scelta da Nietzsche è ancora tutta dentro al vitalismo o all’energetismo romantico, dentro alla scia della volontà schopenhaueriana: forse l’unica autentica novità – che avrà importanti ripercussioni successive – sarà quella di postulare una attività pre-soggettiva da parte di entità che sono dotate di direzione e di forza, ma che sono destinate per lo più ad agire inconsciamente. L’individuo allora si appresterà a diventare, appunto, un sintomo di forze oscure nascoste nei meandri della psiche. Nascerà così quella torbida visione che accompagnerà la cultura europea per più di un secolo, di un individuo menomato, privo di consapevolezza, spinto dagli impulsi, incapace di controllarsi.[29] L’individualità mancata, derivante dal fallimento teorico della filosofia nicciana, sarà considerata come un’accurata descrizione empirica delle individualità della società di massa. È stata proprio questa la visione del soggetto che è diventata assai popolare nella cultura di massa del secondo Novecento. Nietzsche sarebbe senz’altro rabbrividito se avesse potuto immaginare che la sua filosofia avrebbe contribuito a sviluppare un sostituto ideologico di quella religione che egli tanto aborriva. Sviluppatosi come critica radicale della rappresentazione, il sistema di Nietzsche sarebbe diventato così uno degli elementi portanti di una rappresentazione ideologica vecchia e sorpassata.
 
Giuseppe Rinaldi
10/09/2015
 
 
OPERE CITATE
 
2006 Nabais, Nuno
The Individual and Individuality in Nietzsche, in Ansell Pearson, Keith (a cura di), A Companion to Nietzsche, Blackwell Publishing Ltd, Oxford, UK.
 
1996 Richardson, John
Nietzsche’s System, Oxford University Press, Inc., New York - Oxford.
 
2002 Schopenhauer, Arthur
Il mondo come volontà e rappresentazione (a cura di Sossio Giametta), Rizzoli, Milano. [1819]
 
 
 
 
NOTE
 
[1] Questo saggio si basa fondamentalmente sulla lettura e sul commento di Nabais 2006.
[2] Cfr. Nabais 2006: 76. Come già spiegato, evito di tradurre perché questi saggi, per ora, non sono destinati al pubblico, avendo io smesso di collaborare con la rivista Città Futura.
[3] Questa concezione potrebbe essere considerata simile a quella degli antichi stoici, se non fosse che gli stoici pensavano a una ragione universale, un ordine universale, mentre Schopenhauer invoca i capricci di una volontà assolutamente disordinata.
[4] Cfr. G. Invernizzi, in P. Rossi, A. Viano (a cura di), Storia della filosofia, vol. 5, pp. 318-319.
[5] Cfr. Schopenhauer 2002 [1819], § 70  p. 696 (trad. Giametta).
[6] Cfr. Schopenhauer 2002 [1819], § 70  p. 696 (trad. Giametta).
[7] Cfr. Nabais 2006: 78.
[8] Cfr. Nabais 2006: 79.
[9] Cfr. Nabais 2006: 81.
[10] Cfr. Nabais 2006: 82.
[11] Tutto ciò, tra l’altro, dimostra, se ce ne fosse ancora stato bisogno, che il cosiddetto “pensiero negativo” tanto negativo non è, poiché, comunque, si basa su un assunto metafisico.
[12] Su questo punto, vedi il mio articolo Il pensiero continentale nell’«Isola che non c’è», su questo stesso blog Finestrerotte.
[13] Cfr. Nabais 2006: 82.
[14] Questo modo di ragionare è stato inventato, per quel che ne so, da Platone, con la figura della «immagine mobile dell’eterno». Comunque, che gli eventi siano finiti e che il tempo sia infinito valgono al più come intuizioni e Nietzsche non ne dà alcuna giustificazione.
[15] Cfr. Nabais 2006: 83.
[16] Cfr. Nabais 2006: 84. La citazione, notissima, è di Nietzsche.
[17] Cfr. Nabais 2006: 85.
[18] Nietzsche pensa che un assurdo reiterato per l’eternità diventi, per ciò stesso, qualcosa di sensato.
[19] Che l’amor fati costituisca esattamente l’opposto del quietivo schopenhaueriano è stato invero poco notato.
[20] Il primo laboratorio di psicologia sperimentale fu realizzato a Lipsia nel 1879 da Wundt.
[21] Cfr. Nabais 2006: 85-86.
[22] Cfr. Nabais 2006: 88.
[23] Cfr. Nabais 2006: 87. L’espressione è citata da Nietzsche.
[24] Cfr. Nabais 2006: 87. La citazione virgolettata è di Nietzsche.
[25] Cfr. Nabais 2006: 88.
[26] Cfr. Nabais 2006: 88-89.
[27] Cfr. Nabais 2006: 92. La citazione virgolettata è da Nietzsche.
[28] Mi sono occupato della ricostruzione di Richardson in un altro articolo Nietzsche e la metafisica, pubblicato su questo blog Finestrerotte.
[29] La famosa proposizione freudiana secondo la quale la psicoanalisi avrebbe assestato un duro colpo al narcisismo dell’uomo, dopo quello di Copernico e quello di Darwin, è profondamente sbagliata. I primi due hanno prodotto risultati scientifici, mentre il terzo ha prodotto – Freud poteva ancora illudersi – un complesso di discutibili proposizioni derivanti da una corrente filosofica oscurantista, pessimista e misantropica.