giovedì 24 luglio 2014

Quel nazista che «è» in te (1.1)–Prima parte

 
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La Lettera sull’«umanismo» di Heidegger, inviata al suo sostenitore francese Jean Beaufret, è stata scritta nel dicembre del 1946. La Lettera costituisce, di fatto, il primo intervento rivolto all’opinione pubblica occidentale da parte del pensatore[1] tedesco dopo il più che decennale silenzio e la crisi finale seguiti alle travagliate vicende biografiche conseguenti la sua collaborazione con il nazismo. Nella storiografia filosofica, la Lettera è anzitutto considerata dagli studiosi come la prima documentazione sulla «svolta» ontologica - la cosiddetta Kehre - del pensiero di Heidegger rispetto alle posizioni espresse in Sein und Zeit nel 1927. È anche considerata, nell’ambito della storia dell’esistenzialismo, come una presa di posizione da parte di Heidegger nei confronti delle interpretazioni del suo pensiero che ormai circolavano un po’ ovunque e nelle quali egli non si riconosceva più. Non era infatti ancora passato un anno dalla famosa conferenza pubblica di Sartre intitolata L’esistenzialismo è un umanismo (tenuta a Parigi il 29 ottobre 1945) in cui lo stesso Sartre aveva citato l’Heidegger di Sein und Zeit come uno dei filosofi di riferimento dell’esistenzialismo. Queste due interpretazioni costituiscono una vulgata decisamente riduttiva e sempre meno sostenibile sulla base di quanto la ricerca storiografica sta faticosamente portando in luce, tra molte reticenze, omissioni e complicità.[2]

Per una corretta contestualizzazione e interpretazione della Lettera occorre precisare che Jean Beaufret si era presentato, per iscritto, a Heidegger nell’ottobre del 1945, cominciando a intavolare con lui un rapporto di corrispondenza. Il 10 novembre 1946 gli aveva inviato alcuni quesiti circa la questione dell’umanismo, che era alquanto dibattuta nella Francia del dopoguerra, anche per la diffusione dell’esistenzialismo sartriano. La risposta di Heidegger avvenne appunto in dicembre. La lettera venne parzialmente pubblicata in Francia sulla Revue Fontaine, con una introduzione di Beaufret stesso. Attorno alla Revue si trovava un gruppo di sostenitori francesi di Heidegger (tra cui un giovanissimo Edgar Morin), i quali avevano già tentato di prendere dei contatti con lui nell’autunno del 1945, offrendogli l’opportunità di pubblicare articoli o saggi in Francia. La Lettera venne poi rivista da Heidegger per una pubblicazione più ufficiale nel 1947 e venne poi pubblicata come opera singola nel 1949. È stata poi ancora collocata dallo stesso Heidegger nella sua raccolta intitolata Segnavia.[3]

Nello stesso periodo in cui veniva elaborata e diffusa la Lettera, si era consumato uno dei periodi più drammatici della vita di Heidegger. Il 22 aprile 1945 le truppe alleate francesi entravano a Friburgo, mentre Heidegger era ancora sfollato. Il 25 aprile il corpo accademico dell’università si era ricostituito come istituzione autonoma sopprimendo l’ordinamento nazista che era stato varato proprio sotto il famoso rettorato di Heidegger negli anni 1933-34. Nel luglio del 1945 le Autorità francesi di occupazione avevano insediato una Commissione presso l’Università che aveva lo scopo di procedere all’epurazione di chi aveva collaborato col regime. A Friburgo il personaggio più in vista e suscettibile di essere accusato di collaborazione era indubbiamente proprio lo stesso Heidegger. In un primo tempo, nel mese di maggio, a titolo cautelare, la casa e la biblioteca di Heidegger furono poste sotto sequestro, provvedimenti che egli riuscì, con fatica, poi a far rientrare. Il 23 luglio del 1945 Heidegger comparve per la prima volta di fronte alla Commissione che iniziò a istruire una pratica che andrà piuttosto per le lunghe. Il verdetto fu emesso il 19 gennaio 1946 e comportava il pensionamento obbligatorio (come peraltro aveva chiesto lo stesso Heidegger) e la proibizione di insegnare. Nella primavera del 1946 Heidegger fu curato da von Gebsattel nella sua clinica specializzata per i disturbi psicosomatici. Il 28 dicembre del 1946 la delibera della Commissione fu ufficialmente ratificata dal Governo militare. L’11 marzo del 1947 Heidegger ricevette il provvedimento ufficiale del governo del Baden, che ribadiva nei suoi confronti lo stesso provvedimento del Governo militare.

La Lettera va dunque inquadrata, ben oltre la Kehre o il dibattitto intorno all’esistenzialismo, nel tentativo, da parte dei sostenitori di Heidegger, sia tedeschi sia francesi, di presentarlo al mondo come un uomo di cultura completamente concentrato sul pensiero e di avallare la sua linea di difesa, tesa a minimizzare la collaborazione con il nazismo. Era la tesi della grösste Dummheit, cioè della «colossale stupidaggine» che ha ancora oggi moltissimi sostenitori, particolarmente in Italia.[4] La Lettera aveva dunque il compito di rappresentare all’opinione pubblica occidentale, nelle sue linee fondamentali, le «nuove» tesi filosofiche che erano state maturate da Heidegger nel decennio dopo la pubblicazione di Sein und Zeit nel 1927. Dopo l’adesione al nazismo di Heidegger, avvenuta agli inizi degli anni Trenta, dei suoi sviluppi intellettuali in effetti si sapeva piuttosto poco. Ora la Lettera, nella sostanza, costituiva, senza ombra di dubbio, il tentativo di presentare l’Heidegger del periodo nazista in una versione che fosse digeribile per il pubblico internazionale.[5] Il resto dell’attività filosofica di Heidegger, fino alla sua morte avvenuta nel 1976, sarà caratterizzato proprio da questo tentativo di occultamento delle sue responsabilità e di riciclaggio delle sue opere più discutibili prodotte durante il decennio nazista. Il tentativo ebbe tanto successo che oggi molti considerano Heidegger come «il più grande filosofo del XX secolo».

In effetti, i difensori e promotori francesi di Heidegger ebbero davvero un grande successo, nonostante fossero legati agli ambienti dell’estrema destra. Ha osservato in proposito Faye: «… è profondamente inquietante vedere che due dei principali difensori di Heidegger, Jean Beaufret e François Fédier, i quali hanno svolto un ruolo importante nella diffusione della sua dottrina in Francia, sono arrivati l’uno sino a far proprio il negazionismo di Robert Faurisson e l’altro a scrivere a favore di Ernst Nolte».[6] Va precisato che una parte consistente del mondo heideggeriano francese (compreso Roger Munier, il traduttore francese di Heidegger) ha preso le distanze proprio da Beaufret. Così ha complessivamente commentato queste vicende lo storico Hugo Ott, autore di un’importante biografia di Heidegger: «La delibera del 28 dicembre 1946, periodo in cui già veniva alla luce la Brief über den Humanismus indirizzata a Jean Beaufret, rimase giuridicamente valida e vincolante. Heidegger si levò, come l'araba fenice, dalla cenere del rogo allestito dal governo militare francese per penetrare nella vita spirituale della Francia con un impatto filosofico decisivo; il pensiero di Heidegger cominciò così la propria marcia trionfale nell'area delle lingue neolatine».[7] Da allora, a quanto pare, non si è più fermato.

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In questo articolo, procederemo a un elementare esercizio di analisi puntuale della Lettera, convinti che si tratti di un’operazione assai utile per la comprensione sia delle autentiche radici del pensiero heideggeriano, sia dei motivi dell’accoglienza trionfale che ha ricevuto, dal dopoguerra in poi, negli ambienti religiosi come negli ambienti della cultura laica, sia di destra che di sinistra. Lasceremo che sia lo stesso Heidegger a guidarci, con un’ampia serie di citazioni, convinti che la Lettera abbia rappresentato, in quel frangente, una sorta di calcolata mediazione tra ciò che per lui era ormai divenuto irrinunciabile, grazie anche e soprattutto al decennio d’intensa militanza nazista, e ciò che invece egli poteva concedere, grazie a un’accurata operazione di occultamento e maquillage, alle aspettative del nuovo pubblico dell’Occidente post bellico, cui ora necessariamente si rivolgeva.

Pur essendo stata rielaborata rispetto alla copia originale inviata a Jean Beaufret, la Lettera non ha una struttura organica. Procede per proposizioni apodittiche e per ampliamenti e precisazioni successive, con svariate digressioni. Lo stile dunque la rende un’opera piuttosto complessa e contorta, nelle cui pieghe poteva quindi avvenire una certa dissimulazione. Nello scritto heideggeriano, vengono progressivamente introdotti alcuni concetti di ordine generale che mirano a chiarire i fondamenti della sua nuova impostazione filosofica[8] che, tuttavia, secondo l’Autore, risalirebbero coerentemente fino ai tempi di Sein und Zeit. Questi concetti dovrebbero servire come punto di riferimento per il suo confronto con le posizioni degli esistenzialisti francesi e di Sartre in particolare (cosa che, come è stato detto, doveva essere l’obiettivo manifesto della missiva). Le prime due pagine della lettera sono particolarmente interessanti, poiché, in un certo senso, costituiscono una densissima seppur criptica sintesi della «nuova» posizione filosofica maturata da Heidegger che verrà poi successivamente ribadita e sviluppata, diventando così la posizione caratteristica del cosiddetto «secondo Heidegger».[9]

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Il fatto che lo spunto di partenza sia costituito proprio da una riflessione sull’azione non fa che confermare la collocazione della riflessione di Heidegger nell’ambito delle filosofie attivistiche. In apertura il pensatore afferma risolutamente che: «Noi non pensiamo ancora in modo abbastanza decisivo l’essenza dell’agire. […] L’essenza dell’agire, invece, è il portare a compimento (Vollbringen). Portare a compimento significa: dispiegare qualcosa nella pienezza della sua essenza, condurre-fuori a questa pienezza, producere. Dunque può essere portato a compimento in senso proprio solo ciò che già è. Ma ciò che prima di tutto «è», è l’essere».[10]

La frase d’inizio presenta svariate difficoltà interpretative, legate all’uso davvero insolito delle nozioni di essenza e di attuazione. Parafrasando, secondo Heidegger, dunque, l’essenza dell’agire, del generico agire[11] - poiché non si dà altra specificazione, non è di tipo strumentale, come tutti credono e praticano comunemente, e cioè il produrre un effetto che sia ritenuto utile da qualcuno per qualche motivo. Non consiste, cioè, nel mettere in atto dei mezzi per un fine. Per il nostro Autore, l’agire è invece l’effettiva realizzazione di ciò che già è. Infatti, a suo dire, solo ciò che già è può essere portato a compimento. Un simile linguaggio suona come del tutto assurdo e incomprensibile alla mentalità contemporanea. Che senso ha portare a compimento ciò che già è?

Anzitutto, Heidegger dà completamente per scontato che l’agire debba avere un’essenza. Nella storia della filosofia, una buona metà dei filosofi ha negato risolutamente che esistano essenze. Se una simile terminologia può essere genericamente ammessa nel linguaggio comune, non può esserlo tuttavia nel linguaggio filosofico, poiché ciò implica l’adesione a una precisa visione della realtà, a una metafisica delle essenze, in altre parole a un qualche essenzialismo.[12] La concezione delle essenze di Heidegger è di derivazione husserliana, il quale l’aveva a sua volta mutuata da Aristotele. Essa tuttavia ha subito una semplificazione radicale da parte dello stesso Heidegger. Mentre in Aristotele e in Husserl l’essenza è la quidditas, è la forma, la definizione della cosa, in Heidegger l’essenza è l’essere immanente in un ente che viene alla presenza. Le essenze dunque sono tutte uguali, sono il marchio che l’essere impone all’ente, a qualsiasi ente.

Il lettore contemporaneo di fronte a una domanda circa l’essenza dell’agire pensa che si stia cercando una definizione dell’agire. Per Heidegger si tratta invece di intuire l’agire in quanto manifestazione dell’essere. Ebbene, l’intuizione dell’essenza dell’agire suggerisce al pensatore che l’agire non sia l’agire strumentale (portare a compimento ciò che ancora non è) ma sia piuttosto l’agire tautologico (portare a compimento ciò che già è). Questo tipo di agire ha qualche parentela con il classico passaggio dalla potenza all’atto nella filosofia aristotelica e scolastica. Si ricorderà che in Aristotele avevamo una curiosa situazione per cui ciò che già era in potenza poteva poi diventare effettivamente in atto. Dunque si poteva attuare solo ciò che era già in potenza. In fondo l’essenza era definita come quod quid erat esse (to ti en einai). Il problema è che Heidegger aveva inteso fare la distruzione fenomenologica di Aristotele, il ché non poteva che portare alla eliminazione delle essenze aristoteliche. Cosa sono allora le essenze heideggeriane? Sono enti dotati di significato che si manifestano da sé (vengono alla presenza) e ciò vuol dire che mostrano la loro essenza in quanto fatti comparire dall’essere. L’essenza è sempre intuita immediatamente e quindi non c’è alcun problema di definizione razionale. L’essenza è sempre un evento fatto avvenire dall’essere (la verità dell’essere). Poiché tutti gli enti sono manifestazioni dell’essere, tutti gli enti mostrano una essenza essenziale nel momento in cui si manifestano.

Va segnalato comunque che l’espressione “portare a compimento l’essere” è un’assurdità per chiunque abbia un minimo di pratica col linguaggio della metafisica occidentale. Aristotele, senz’altro più rigoroso di Heidegger, non avrebbe concordato con il fatto che l’essere stesso debba essere portato a compimento. In Aristotele sono le forme che debbono essere portate a compimento. L’essere aristotelico, banalmente, non è una forma da attuare. Al più, secondo le più recenti interpretazioni, può essere considerato, guarda un po’, proprio come una specie di attività allo stato puro.[13] Heidegger invece considera tutti gli enti come manifestazioni immediate dell’essere, la cui essenza non sta nella loro quidditas, ma è riconducibile (non è chiaro come) all’essere. Esempi di strane cose simili si trovano nel vecchio neoplatonismo. Che le cose stiano così è dimostrato dall’uso del tutto casuale che vien fatto della nozione di essenza da parte di Heidegger. Poiché gli enti si mostrano nella radura dell’essere, la loro essenza non può che essere intuita (sarebbe questa la famosa ερμηνεία dell’ermeneutica).

Con la sua fulminea dichiarazione d’apertura, Heidegger si è comunque collocato immediatamente agli antipodi della posizione di Sartre: se per Sartre l’esistenza precede l’essenza,[14] è evidente, già fin da queste prime battute, che per Heidegger è l’essere (ancorché non ben definito e comunque inteso in modo vagamente aristotelico e scolastico) che precede sia l’essenza (in tal caso dell’agire) che l’esistenza. Con le poche righe iniziali della Lettera siamo così tornati indietro di secoli nella storia della filosofia. Come è noto – è ampiamente spiegato sui manuali liceali di storia della filosofia – l’essenzialismo è entrato in crisi tra il XII e il XIII secolo, almeno dai tempi di Roscellino di Compiégne, e la crisi è continuata fino alla nascita della scienza moderna e ha proseguito ben oltre. Solo i tedeschi e i teologi hanno continuato a giocare con le essenze.[15] Prima di Heidegger, la tradizione essenzialista aveva visto all’opera, proprio in Germania, filosofi del calibro di Hegel e Marx. Molti romantici avevano adottato un’impostazione essenzialistica. Lo stesso vale, ahimè, per i filosofi della razza che non potevano fare a meno di essere essenzialisti.[16] Lo stesso vale per Husserl, il maestro di Heidegger. L’essenza di Heidegger costituisce tuttavia una regressione alla filosofia presocratica, è un’essenza primordiale, precategoriale, che ha il solo compito di mostrare la parentela con l’essere della cosa. Nulla più. Qualunque ammissione di essenze intese come idee platoniche o come forme aristoteliche costituirebbe già una degenerazione metafisica. Se Heidegger avesse voluto essere filologicamente fedele ai presocratici, avrebbe dovuto abolire il termine essenza dal suo vocabolario. Il fatto che l’abbia mantenuto ha finito per conferire all’ermeneutica una smisurata libertà di interpretazione, poiché nel mostrarsi l’essenza viene interpretata con un atto che è lo stesso atto che fa essere l’ente. Il pensiero heideggeriano è “pensiero dell’essere” perché esso genera l’ente nel momento stesso in cui lo interpreta (vedi oltre).

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La definizione iniziale dell’essenza dell’agire aveva tuttavia il compito di introdurre una ben più centrale questione. Infatti, Heidegger fa ora entrare in scena il pensiero che, a suo dire, rappresenterebbe un tipico agire nei termini essenzialistici or ora discussi (ciò si evince poiché vien detto che il pensiero porta a compimento). Che cosa dunque compie o attua il pensiero? Esso attua ciò che prima era già, ma che evidentemente era solo in potenza e cioè attua «il riferimento (Bezug) dell’essere all’essenza dell’uomo».[17] La frase non è di nuovo molto chiara[18] e il suo significato si basa tutto sull’interpretazione della nozione di «riferimento». Bezug in questo caso significa «mettere in collegamento», «riguardare qc.», «riferirsi a qc.». Nel pensiero, dunque, avverrebbe l’attuazione del riferimento dell’essere all’essenza dell’uomo.[19]

Poiché ci accontentiamo di capire poco per volta, emerge intanto che, evidentemente, anche l’uomo ha una sua essenza, anche se Heidegger, a differenza di Aristotele, non spiega quali requisiti occorre avere per possedere un’essenza. Trattandosi di una lettera sull’umanismo, possiamo comunque intanto acquisire che c’è un’essenza umana. Secondariamente, dall’affermazione citata possiamo dedurre che l’Autore escluda che ci possa essere un riferimento tra essere ed essenza umana al di fuori del pensiero. Questo riferimento, se c’è, si attua esclusivamente nel pensiero. L’impostazione generale del ragionamento diventa comunque ancora più oscura. Non è ben chiaro poi chi sia il protagonista effettivo di tutto ciò: il pensiero attua, ma il riferimento è dell’essere, il destinatario, l’effetto, sembra l’essenza dell’uomo.

Andando avanti e indietro sul testo, tuttavia si evince ben presto che il pensiero di cui parla Heidegger è un pensiero sui generis, che non ha nulla a che fare con il comune pensiero discorsivo a cui è avvezzo il lettore contemporaneo. Non ha la caratteristica di un intelletto attivo aristotelico o di una forma trascendentale kantiana. Insomma, non ha nulla a che fare con quel che si agita nella scatola cranica dei singoli individui.

Esso sembra poi espletare una funzione piuttosto passiva. Si premura, infatti, di spiegare Heidegger: «Non che esso produca o provochi questo riferimento. Il pensiero lo offre all’essere soltanto come ciò che gli è stato consegnato dall’essere. Questa offerta consiste nel fatto che nel pensiero l’essere viene al linguaggio».[20] Notiamo che qui il discorso di Heidegger, che prima era di tipo vagamente argomentativo, è ora diventato improvvisamente allusivo e metaforico. Il pensiero sembra insomma svolgere il ruolo di una sorta di passacarte. Esso ha ricevuto una consegna dall’essere (cioè il famoso riferimento, che possiamo supporre fosse in potenza, cioè da attuare) e ora a sua volta lo offre all’essere, si suppone come riferimento compiuto, attuato, avvenuto. L’ultima riga della citazione introduce una questione inedita, precisando che l’offerta sta nel fatto che «nel pensiero l’essere viene al linguaggio». Tradotto in parole povere, sembra che tutto ciò possa significare che, in generale, senza pensiero e senza linguaggio, comunque questi possano essere intesi, non ci può essere un riferimento dell’essere all’essenza dell’uomo e viceversa. Che cosa però siano effettivamente pensiero e linguaggio e cosa significhi che l’essere si riferisce all’essenza dell’uomo resta tutto da spiegare.

Il mistero permarrebbe fino alla fine se non si adottasse una strategia esplicativa che emerge abbastanza evidentemente da un’attenta considerazione della biografia del pensatore e delle sue dichiarazioni, nonché di autorevoli interpretazioni degli studiosi.[21] Le vaghe espressioni heideggeriane diventerebbero immediatamente comprensibili ammettendo che il linguaggio di cui egli parla sia in realtà una lingua[22] e che sia costituito in realtà dal tedesco e, in subordine, dal greco antico e, ugualmente, ammettendo che il pensiero vada inteso come la visione del mondo di un popolo o di una civiltà.[23] Heidegger dunque, pur lasciandolo intendere, non sta parlando di ciò che può avvenire a livello individuale, sta parlando di popoli e civiltà, di lingue e visioni del mondo.

Heidegger, in effetti, non aveva alcun interesse per i processi psicologici relativi al linguaggio e al pensiero a livello di singoli individui. Insieme a Husserl aveva sempre condannato lo psicologismo. Aveva invece molto interesse per il tedesco e il greco antico. Pensava che i tedeschi, grazie alla loro lingua, fossero gli autentici eredi del pensiero greco. Com’è noto, Heidegger, nello scrivere, rifiutava sistematicamente di usare termini che fossero di origine non germanica. È famosa una sua battuta in cui aveva seriamente sostenuto che i francesi, a causa della loro lingua, non sono in grado di pensare come i tedeschi. Il tedesco originario e il greco antico erano considerate da Heidegger come le uniche due lingue che erano capaci per la loro natura intrinseca di ospitare l’essere.

Allora, l’affermazione secondo cui «…nel pensiero l’essere viene al linguaggio» non riguarda un generico pensiero e un linguaggio individuali, bensì il pensiero e la lingua collettivi, di un popolo o di una civiltà, come nel caso della cultura tedesca o nel caso della cultura dei greci antichi. Tutto ciò rende le proposizioni oracolari di Heidegger immediatamente comprensibili e apre però una quasi ovvia prospettiva interpretativa che, ahimè, impone di collegare il «nuovo» Heidegger della Kehre con il nient’affatto nuovo pensiero völkisch, tipico dell’epoca tra le due guerre e particolarmente tipico dell’ideologia nazista.

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Heidegger, resosi forse conto della vaghezza in cui stava intrattenendo l’interlocutore, tenta di chiarire quale sia secondo lui il rapporto tra l’essere e il linguaggio/ lingua, e se ne esce però con una sfilza di metafore: «Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora. Il loro vegliare è il portare a compimento la manifestatività dell’essere; essi, infatti, mediante il loro dire, la conducono al linguaggio e nel linguaggio la custodiscono».[24] Dopo aver preso fiato, ci troviamo dunque di fronte a una messa in scena, con una terminologia altamente metaforica e poetica, di una casa/ linguaggio/ lingua abitata sia dall’uomo che dall’essere – una specie di condominio - con dei sorveglianti, che sono i pensatori e i poeti, il cui vegliare costituisce nientemeno che la capacità di manifestazione dell’essere, la quale capacità accede così al linguaggio/ lingua e viene anche custodita dal linguaggio/ lingua.

Si conferma perlomeno nettamente che il pensiero e il linguaggio cui si alludeva in apertura non erano proprio da considerarsi a livello individuale. Si parla dell’«uomo», dei pensatori e dei poeti. Va anzitutto notato che, in questa visione metaforica, il linguaggio sovrasta nettamente l’uomo (noi diremmo più prosaicamente «gli uomini») poiché gli uomini abitano dentro il linguaggio. Come dire che il linguaggio/ lingua precede i singoli individui, i quali lo ereditano, lo custodiscono e lo tramandano. Dalle cime abissali della metafisica siamo così precipitati nell’ambito di una disquisizione sulle funzioni e sui vizi e le virtù delle lingue nazionali. A questo punto però diventa per lo meno un po’ più chiaro cosa voglia dire che l’essere compare nel linguaggio. L’essere evidentemente compare nella lingua nazionale (tedesca ed eventualmente greca) di un popolo (il popolo tedesco, evidentemente) o di una civiltà (la civiltà greca). L’essere compare altresì nel pensiero, il quale pensiero ora può essere inteso, più o meno, come una Weltanschauung, come uno Spirito del tempo di hegeliana memoria che prende corpo  grazie a una lingua nazionale.

C’è di più. Il linguaggio/ lingua attraverso il quale si manifesta l’essere non è quello della gente comune, bensì quello di speciali funzionari del linguaggio che sono i poeti e i pensatori.[25] Si badi bene, non si tratta dei poeti e dei pensatori dell’umanità, come la vaghezza del testo lascerebbe intendere: si tratta sempre di tedeschi (ed eventualmente greci antichi), per quel che abbiamo detto poc’anzi. La relazione con l’essere tramite il linguaggio/ lingua è dunque una faccenda che non è alla portata di chiunque e che richiede una qualche particolare abilità, un vero e proprio ruolo ad hoc, da parte dei poeti e pensatori, in un contesto linguistico specifico e appropriato.

Quanto al pensiero, Heidegger ci tiene a ribadire che esso non ha a che fare con un qualche progetto utilitaristico, da realizzare in termini di mezzi e di fini. Non è il famoso pensiero separato dalla vita, che elabora progetti e poi resta nell’attesa penosa della loro realizzazione; il pensiero tanto criticato da Nietzsche. Il pensiero autentico è quello che «agisce in quanto pensa»,[26] cioè compie ed esaurisce la sua azione nel suo stesso pensare. Una specie di performativo del pensiero, direbbero i linguisti. Sembra un altro paradosso, ma anche questa citazione diventa facilmente spiegabile: Heidegger si sta occupando della perfetta identità di pensiero e azione, riferita a una collettività d’individui che condivide una specifica lingua di tipo precategoriale. È un altro modo per dire che questo pensiero collettivo, espresso da poeti e pensatori, va concepito come un atto immediato, un atto assoluto che determina immediatamente l’attuazione del proprio contenuto. Tutto ciò non è davvero nulla di nuovo e appartiene a una tradizione attivistica, anti pragmatistica, che va per lo meno da Hegel a Nietzsche e a Gentile.

Se ce ne fosse ancor bisogno, Heidegger precisa che: «Questo agire è probabilmente il più semplice e nello stesso tempo il più alto, perché riguarda il riferimento dell’essere all’uomo. […] Il pensiero […] si lascia reclamare dall’essere per dire la verità dell’essere. Il pensiero porta a compimento questo lasciare».[27] Ciò che cambia, rispetto a Hegel, Nietzsche e Gentile, è il soggetto dell’atto: qui è l’essere stesso (mai ben definito) che si manifesta nell’identità di pensiero e attività (quello che sarà definito altrove come evento). Dunque, il pensiero collettivo di un popolo o di una civiltà, a partire da quanto detto in apertura, attua attivamente la sua passività, (!) in modo che l’essere possa entrare sulla scena del mondo e proferirsi in quanto verità. Davvero non molto diverso dallo Spirito hegeliano. Se l’«uomo» heideggeriano nasconde poi in realtà l’uomo tedesco, avremo una situazione in cui l’essere compare motu proprio nella lingua e nel pensiero tedeschi, attraverso i funzionari del linguaggio tedeschi, e si proferisce in quanto verità nella cultura tedesca, forse proprio attraverso lo stesso pensiero di Heidegger, e magari attraverso la poesia di Hölderlin.

La verità dell’essere di cui si parla non va dunque evidentemente intesa come un contenuto cognitivo, un complesso di proposizioni che siano logicamente vere o false, ma piuttosto come l’avvento di ciò che è vero, nello stesso senso in cui Hegel intendeva l’avvento necessario dello Spirito del mondo. Non facciamo fatica a intravedere una visione fatalistica della storia, la quale si svolge sul terreno dell’essere (più tardi Heidegger dirà «nella radura dell’essere») e che viene considerata alla stregua di un destino impersonale che determina la vita o la morte di interi popoli e civiltà. Fin da Sein und Zeit il fato o il destino è per Heidegger l’autentica chiave interpretativa della storia.

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Tutto quel che è stato esposto finora è però solo la regola generale di quanto dovrebbe accadere se non sopravvenissero degli ostacoli. In ogni storia che si rispetti, ci sono sempre degli ostacoli. Purtroppo, secondo Heidegger, attualmente il pensiero è precipitato in una condizione di oscurità. Non si tratta tanto di errori o deficienze individuali, quanto di un decadimento collettivo, sempre a livello di popolo o di civiltà.[28] Si tratta – spiega Heidegger – di una conseguenza necessaria dovuta alla corruzione del linguaggio/ lingua che l’ha reso incapace di ospitare adeguatamente la manifestività (così traduce Volpi) dell’essere. Insomma, il linguaggio/ lingua ha smesso di essere la casa dell’essere, l’essere non può più manifestarsi tramite la lingua per portare a compimento l’essenza dell’uomo (che è un dono dell’essere). Gli uomini odierni dunque, avendo smarrito il linguaggio autentico, sono diventati uomini senza essenza (sono cioè come animali – questo sarà detto in dettaglio più in là).

Heidegger spiega accuratamente che il linguaggio/ lingua attuale (si riferisce qui probabilmente all’intera civiltà occidentale) non è più capace di esprimere uno stato d’indistinzione tra soggetto e oggetto (se si preferisce, di fusione). Quest’affermazione non deve sorprendere più di tanto, poiché se si vuole che ci sia l’identità di pensiero e azione, deve necessariamente esserci un’identità tra soggetto e oggetto. Spiega, infatti, accuratamente, il nostro Autore: ««Soggetto» e «Oggetto» sono infatti denominazioni improprie della metafisica, che fin dall’inizio si è impossessata dell’interpretazione del linguaggio nella forma della «logica» e della «grammatica» occidentali. […] La liberazione del linguaggio dalla grammatica per una strutturazione più originaria della sua essenza tocca al pensare e al poetare. […] Se vogliamo imparare a esperire nella sua purezza, e cioè nello stesso tempo a portare a compimento, la suddetta essenza del pensiero, dobbiamo liberarci dall’interpretazione tecnica del pensiero i cui inizi risalgono fino a Platone e ad Aristotele».[29]

Se l’essere non riesce più (o non è riuscito, come Heidegger invece sperava, nel decennio nazista) immediatamente a mostrarsi nel linguaggio dei pensatori tedeschi, e a tradursi in azione, tutto ciò è colpa della metafisica (cioè della logica e della grammatica) e della scomposizione avvenuta tra soggetto e oggetto.[30] Questo tra l’altro è un motivo conduttore che Heidegger conosceva bene, avendolo usato come attenuante per giustificare la mancata continuazione di Sein un Zeit. Disse che gli era venuto meno proprio il linguaggio.[31] Dunque, affinché il pensiero «porti a compimento questo lasciare», affinché cioè il pensiero si lasci compenetrare dall’essere, occorre rivoluzionare completamente il linguaggio o, meglio, occorre tornare a un linguaggio/ lingua ancestrale, originario,[32] come quello che esisteva prima dello sviluppo della metafisica, quando ancora non erano comparse la logica e la grammatica, quel che è definito come pensiero pre-categoriale. Il pensare è affine al poetare proprio perché, per pensare nella maniera giusta, occorre fare a meno della grammatica e della logica. Solo così sarà possibile «portare di nuovo il pensiero nel suo elemento».[33] Si noti bene che Heidegger non propone una riforma individuale del linguaggio, o del pensiero, bensì una colossale e rivoluzionaria metamorfosi collettiva, che costituisca contemporaneamente un ritorno alle origini e un nuovo inizio.

Poiché non era possibile, neanche per un rivoluzionario conservatore come Heidegger, pretendere che tutti si mettessero a parlare e pensare in greco arcaico, è evidente che questa ripresa del linguaggio ancestrale, originario, precategoriale (antilogico e anti grammaticale) poteva avvenire solo in Germania, grazie proprio alle particolarità straordinarie attribuite alla lingua tedesca. Si ricordi che l’essere aveva parlato per bocca di Hölderlin e il pensatore Heidegger lo aveva compreso adeguatamente. L’ultimo dei metafisici, secondo Heidegger, era stato proprio un tedesco (Nietzsche) e ora, grazie alla distruzione fenomenologica, sempre opera di un tedesco, si poteva prospettare un nuovo inizio del pensiero e del linguaggio.

Questa visione, ben lungi dal costituire soltanto una teoria storiografica, sarà usata da Heidegger anche per interpretare i fatti della storia recente. Il nazionalsocialismo aveva fallito la propria missione (e questa è la sola scarna analisi su questo argomento effettuata dal pensatore dopo la sconfitta del nazismo) proprio a causa della sua arrendevolezza nei confronti della tecnica. Cioè, esso non aveva saputo essere tanto radicale quanto sarebbe stato necessario, non aveva saputo superare i guasti della metafisica, non aveva saputo realizzare l’identità di soggetto e oggetto, non aveva saputo essere sufficientemente antilogico e anti grammaticale e, dunque, non aveva saputo realizzare, sul piano storico, la coincidenza di pensiero e azione nel linguaggio e nella cultura tedesca.[34] Così l’essere, che era così disponibile a irrompere nella storia (si veda oltre, dove si dice che l’essere «vuol bene»), era rimasto tagliato fuori. Sarà per la prossima volta.

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Eppure la connessione con l’essere, per quanto nascosta, dimenticata, difficoltosa a causa della corruzione del linguaggio, a causa della tecnica, a causa della metafisica, è tuttavia fondamentale, per Heidegger, poiché per lui è indiscutibile il fatto che: «Il pensiero è l’engagement per e attraverso la verità dell’essere, la cui storia non è mai passata, ma sta sempre per venire. La storia dell’essere sostiene e determina ogni condition et situation humaine».[35]

Qui si chiarisce un aspetto importante, e cioè che la sparizione dell’essere dall’orizzonte dell’Occidente e un nuovo avvento dell’essere (il nuovo «inizio») sono strettamente correlativi, poiché, come dice la citazione, la storia dell’essere non è mai passata ma sta sempre per venire. Ogni celarsi dell’essere annuncia la possibilità di un nuovo avvento. Solo in relazione all’avvento dell’essere (Heidegger parlerà altrove proprio di «evento») viene a determinarsi la storia, cioè ogni condizione e situazione umana. La situazione esistenziale dunque, non è la situazione individuale tanto cara a Sartre, bensì la situazione collettiva di un popolo o di una civiltà nella sua dipendenza dall’essere. È così che l’essere determina e sostiene l’essenza umana, che così è sempre un’essenza situata. Qui è abbastanza chiaro l’intento di colpire immediatamente il fondamento individualistico dell’esistenzialismo sartriano che si basa su un engagement del soggetto nel mondo. L’esistenzialista sartriano crede di fare la storia attraverso la sua praxis; in realtà, attraverso il pensiero heideggerianamente inteso, se questo fosse correttamente praticato, è la storia dell’essere che si appalesa tanto da sostenere e determinare ogni condizione e situazione umana. La situazione esistenziale dunque non è altro che il destino collettivo deciso sul piano dell’essere.

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Heidegger afferma dunque, ma non ritiene di dover spiegare nei dettagli, che l’essere determina la storia. Del resto, l’argomento fondamentale di Sein und Zeit riguardava proprio il rapporto tra essere e tempo. Heidegger in quel contesto aveva affrontato in dettaglio le questioni relative all’analisi fenomenologica della temporalità (il Dasein) e si era fermato proprio alla soglia della trattazione dell’essere. Per comprendere meglio la sua concezione del rapporto tra l’essere e la storia, sarà opportuno riesumare uno dei concetti che hanno contribuito a generare Sein und Zeit e cioè il concetto di mondo della vita (Lebenswelt). I mondi della vita, nella filosofia tedesca dell’epoca,[36] erano entità strutturate che erano creazioni dello Spirito (cioè costrutti culturali) e che erano dotate di una loro specifica forma, irriducibili le une alle altre). I mondi della vita erano, di fatto, mondi di significato e dunque si reggevano grazie a uno specifico pensiero e linguaggio. Secondo la prospettiva essenzialistica, entro ciascun mondo della vita si dava luogo, dunque, allo sviluppo di una specifica essenza dell’uomo, appunto un’essenza situata. In una situazione simile, i singoli individui non possono, dunque, che interiorizzare il mondo della vita in cui vengono a ritrovarsi (in cui sono gettati). I mondi vitali nascono, si sviluppano e poi spariscono: anche questa era una nozione assai comune nella filosofia tedesca dell’epoca. I tedeschi dell’epoca erano affascinati dalla cultura della Grecia antica proprio perché ritenevano che essa costituisse un mondo della vita paradigmatico.

Heidegger, invece di considerare il mondo della vita in termini empirici, come una cultura in senso antropologico, non ha fatto altro che considerarlo come un’essenza, andando così ad aggiungerlo ad altre essenze di cui si discuteva a quel tempo: classi sociali, razze, popoli. L’interesse naturalmente poteva vertere sulla descrizione di un determinato mondo della vita (Heidegger ha compiuto ciò in parte in Sein und Zeit) oppure poteva vertere sui meccanismi di passaggio da un mondo della vita all’altro. Una volta costatato che un certo mondo della vita era giunto alla fine, avendo perso la sua specifica essenza che è un dono dell’essere, si poteva dunque cercare un «nuovo inizio». Essendo tuttavia i mondi della vita delle galassie conchiuse di significato, era chiaro che non si poteva dare inizio a qualcosa di nuovo senza rompere completamente con tutto l’insieme dei significati del mondo precedente (logiche e grammatiche comprese).

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L’essere dunque non svolge altro, nella filosofia di Heidegger che la funzione del terreno originario, del fondamento, sul quale si generano e poi scompaiono, come eventi dell’essere, i diversi mondi della vita. Per questo l’essere sta al di là di ogni definizione, poiché stando noi sempre dentro a un mondo della vita, ogni definizione dell’essere è sempre relativa al nostro mondo. L’essere è invece ciò che non è riducibile, è appunto il fondamento originario, ciò che è così originario da essere intraducibile nelle lingue dei vari mondi e dunque può solo mostrarsi esso stesso nella sua potenza (ai poeti e ai pensatori greci e tedeschi), può solo erompere. Per questo, vedremo, occorre operare la distruzione fenomenologica del linguaggio e del pensiero correnti. L’aspetto interessante (e tragico per quelli che ci credono) della distruzione fenomenologica è che essa sa sempre che cosa distrugge ma non sa mai quel che costruisce, poiché il senso della distruzione è quello di togliere gli impedimenti per lasciare che l’essere si sveli, compaia, si manifesti da sé stesso. Per questo non è possibile costruire il nuovo mondo della vita attraverso un progetto razionale, poiché la razionalità stessa è già marchiata dalle tare del vecchio mondo. Tutti i tentativi di razionalizzazione sono solo tentativi di mantenere in piedi il vecchio mondo. Per questo occorre una situazione in cui atto, linguaggio e pensiero coincidono, insieme alla potenza, per lasciare venire alla luce la nuova essenza vitale, una nuova essenza umana situata.

Ogni nuovo mondo della vita – e qui sta la questione fondamentale – viene dunque concepito come un oggetto fenomenologico, come un oggetto che «si mostra da se stesso».[37] Il poeta e il pensatore non sono attivi in prima persona, sono coloro attraverso i quali si mostra ciò che è radicalmente nuovo e diverso. Niente di veramente nuovo rispetto a Hegel che credeva di avere visto aggirarsi lo Spirito del mondo a cavallo per le strade di Jena. Il nazismo rappresentava dunque per Heidegger la nuova apertura dell’essere, il nuovo inizio, da cui avrebbe preso il via un cambiamento totale. Si sarebbe originato un nuovo mondo della vita all’interno della quale si sarebbe originata una nuova essenza umana. Si poteva dunque lasciar perdere la prosecuzione di Sein un Zeit e impiegare le proprie energie per dar voce, come pensiero, a ciò che l’essere veniva da sé mostrando in tutta la sua potenza. Heidegger ha passato il decennio nazista cercando di fare il suo meglio per essere il megafono, peraltro poco ascoltato, dell’essere.[38] L’affermazione di un nuovo mondo della vita non poteva essere arrestato da considerazioni razionali, etiche, moralistiche, essa era considerata da Heidegger come un destino ineluttabile. Al singolo non restava che, come in Nietzsche, volere il proprio destino.

È chiaro che, in questa prospettiva, qualsiasi umanesimo non poteva che essere considerato come roba vecchia, strutturalmente legata a un vecchio mondo. I criteri del bene e del male che valgono in una forma di vita possono benissimo non valere più in un’altra forma di vita. Il nuovo inizio doveva necessariamente collocarsi al di là del bene e del male. Date idee come queste, l’adesione al nazismo non poteva essere una casuale grösste Dummheit, come ha sostenuto Heidegger, bensì una conseguenza del tutto ovvia. E’ chiaro che la separazione tra l’uomo e il pensiero, come sostengono certi apologeti, nel caso Heidegger non ha davvero alcun senso.    

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È interessante il fatto che i funzionari del linguaggio/ lingua (cioè i poeti e i pensatori - tedeschi) abbiano il compito, attraverso il loro vegliare, di attuare (cioè, sempre, di portare a compimento) la manifestatività dell’essere e di custodirla. Dunque i funzionari del linguaggio non possiedono in realtà alcuna loro particolare creatività: essi si limitano a vegliare e a custodire una manifestatività che è d’iniziativa altrui (dell’essere), la quale accade come evento. Sono dei meri effetti dell’iniziativa dell’essere. Insomma, essi sono parlati, detti dall’essere. Questa sconcertante concezione del ruolo degli intellettuali è nota per essere una concezione molto diffusa nelle epoche arcaiche, ma anche nell’epoca classica. I poeti ma anche i pensatori non erano considerati creatori di una qualche verità poiché non c’era nulla da esprimere in una forma particolare o individuale (come pensavano invece i romantici). Essi semplicemente avevano il compito di rispecchiare quello che è. Al più di contemplare quello che è. Essi erano soltanto un mezzo per un fine che stava altrove. L’arte nel mondo antico non era mai espressione ma sempre mimesis. Ebbene, i funzionari del linguaggio di Heidegger svolgono la stessa funzione: «Il pensiero […] si lascia reclamare dall’essere per dire la verità dell’essere. Il pensiero porta a compimento questo lasciare».[39] Insomma, se evitiamo di fare un uso strumentale del linguaggio e ci mettiamo, come intende Heidegger, a pensare, allora l’essere potrà affiorare spontaneamente. Questo affioramento non avviene attraverso un procedimento di significazione chiaro e distinto, ma attraverso una sorta di auto disvelamento. Il pensiero non è cognizione, è praxis.

È evidente che - Heidegger non lo dice esplicitamente - il modello umano che viene proposto non è quello di chi vive nella deiezione, bensì quello di colui che poeta e che pensa, lasciandosi invasare dall’essere. Non è naturalmente un modello per tutti gli uomini, poiché queste attività sono molto difficili, ed è facile smarrirsi. I funzionari del linguaggio di Heidegger aspirano a essere riconosciuti come gli esploratori di un cammino difficoltoso che non è adatto a tutti. Aspirano a essere riconosciuti come guida. Da questa situazione deriva un linguaggio oscuro, ripetitivo, profetico. Deriva - nonostante le affermazioni contrarie, nonostante la convinzione di avere superato qualsiasi soggettività - il ricorso a metodi completamente soggettivi e non comunicabili per vie normali.[40] Deriva il rifiuto di qualunque verifica in termini logici o in termini scientifici. Il pensiero è considerato solo come un lasciare. Heidegger evidentemente per una decina d’anni si è lasciato pensare dall’essere.

Anche per quel che concerne il metodo stesso della Lettera, Heidegger ritiene che il linguaggio più appropriato per la ricerca e la comunicazione non sia quello razionale argomentativo (considerato schematico). Ciò si capisce da come cerca il dialogo con il suo interlocutore Beaufret: «Le questioni sollevate nella Sua lettera potrebbero essere meglio chiarite in un dialogo diretto. Nella scrittura il pensiero perde facilmente la sua mobilità, ma soprattutto riesce difficilmente a tenere quella specifica pluralità di dimensioni che è propria del suo ambito. A differenza di quanto accade nelle scienze, il rigore del pensiero non consiste semplicemente nell’esattezza artificiale, cioè tecnico-teoretica, dei concetti. Esso riposa nel fatto che il dire rimane puramente nell’elemento della verità dell’essere, e lascia dominare ciò che, nelle sue molteplici dimensioni, è il semplice».[41]

Evidentemente, i funzionari del linguaggio stanno dalla parte della parola detta, più che della parola scritta. La parola scritta è sospetta di rigorismo tecnico e di decadenza. Anche qui non possiamo che tornare alla cultura greca degli esordi e alla diffidenza nei confronti della parola scritta che vi si può trovare. Lo scopo del dire starebbe nella sua capacità di cogliere la verità dell’essere nella sua semplicità. È chiaro che qui si fa riferimento alla parola profetica (o alla parola poetica). Si fa riferimento a un’epoca arcaica (del tutto immaginaria) in cui c’erano poeti e profeti che attingevano direttamente e senza difficoltà alla verità dell’essere (meglio: acconsentivano che l’essere si mostrasse loro attraverso il linguaggio/lingua). Una sorta di rinvio a una comunità profetica dove si comunichi con semplicità grazie all’intuizione immediata e non all’argomentazione o alla scrittura.[42] Ma se il passato e il futuro non possono che coincidere a livello dell’essere, se «la storia dell’essere non è mai passata ma sta sempre per venire», allora i discorsi del Führer non potevano che essere recepiti come una potente manifestazione di questo dire semplice che rimane nella verità dell’essere.

 

(*) È in preparazione un secondo articolo con l’analisi puntuale delle parti restanti della Lettera.

 

 

24/07/2014

02/09/2014

Giuseppe Rinaldi

 

 

 

OPERE CITATE

 

1988   Bourdieu, Pierre

L’ontologie politique de Martin Heidegger, Les Éditions de Minuit, Paris.  Tr. it.: Führer della filosofia? L’ontologia politica di Martin Heidegger, Il Mulino, Bologna, 1989. [1975]

 

1987   Farias, Victor

Heidegger et le Nazisme, Éditions Verdier, Paris.  Tr. it.: Heidegger e il nazismo, Bollati Boringhieri, Torino, 1988.

 

2005   Faye, Emmanuel

Heidegger, l’introduction du nazisme dans la philosophie. Autour des séminaires inédits de 1933-1935, Albin Michel, Paris.  Tr. it.: Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, L’Asino d’oro Edizioni, Roma, 2012.

 

1927   Heidegger, Martin

Sein und Zeit, Max Niemeyer Verlag, Tübingen.  Tr. it.: Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1970. [1927]

 

1946   Heidegger, Martin

Über den Humanismus, Vittorio Klostermann GmbH, Frankfurt am Main.  Tr. it.: Lettre sur l’humanisme, in Heidegger, Martin   (a cura di), Questions III, Gallimard, Paris, 1966.

 

1993   Heidegger, Martin

Basic Writings (edited by David Farrel Krell), Harper Collins, New York.

 

1976   Heidegger, Martin

Wegmarken, Vittorio Klostermann GmbH, Frankfurt am Main.  Tr. it.: Segnavia, Adelphi, Milano, 1987.

 

2013   Kosman, Aryeh

The Activity of Being, Harward University Press, Cambridge, Massachusetts.

 

1988   Ott, Hugo

Martin Heidegger - Unterwegs zu seiner Biographie, Verlag Campus, Frankfurt.  Tr. it.: Martin Heidegger: sentieri biografici, SugarCo Edizioni, Milano, 1990.

 

1946   Sartre, Jean-Paul

L'existentialisme est un umanisme, Éditions Nagel, Paris.  Tr. it.: L'esistenzialismo è un umanismo, Pagus, Treviso, 1993.

 

1987   Tagujeff, Pierre-André

La force du préjugé, Éditions La Découverte, Paris.  Tr. it.: La forza del pregiudizio. Saggio sul razzismo e sull'antirazzismo, Il Mulino, Bologna, 1994.

 

 

 

NOTE

 

 

[1] Così amava ora autodefinirsi lo stesso Heidegger, in polemica con tutti gli altri filosofi.

[2] Si vedano in proposito Ott 1988, Farias 1987 e Faye 2005.

[3] Cfr. Heidegger 1976.

[4] Uno dei più espliciti e accalorati difensori è il filosofo Gianni Vattimo, il quale tra l’altro ha dichiarato che, secondo lui, il coinvolgimento di Heidegger con il nazismo sarebbe da considerarsi come un atto di impegno e di coraggio.

[5] Cfr. Faye 2005.

[6] Cfr. Faye 2005: 451.

[7] Cfr. Ott 1988: 295-296.

[8] È assai questionabile se Heidegger abbia davvero compiuto una svolta nel suo pensiero, come egli stesso ha sostenuto e come sostengono molti studiosi.

[9] Va ricordato che il «secondo Heidegger» è per lo più costituito di opere (molte delle quali non pubblicate) prodotte nel decennio nazista e poi rielaborate e date alle stampe dopo il 1947.

[10] Heidegger 1976: 267.

[11] Il traduttore in inglese rende con action.

[12] Naturalmente Heidegger non avrebbe approvato questa classificazione della sua filosofia poiché, come si vedrà, egli ritiene di avere oltrepassato la metafisica e la filosofia. Heidegger conosceva bene la questione delle essenze poiché era stato studioso della filosofia medievale e di Duns Scoto in particolare.

[13] Si veda il recente Kosman 2013.

[14] Si veda Sartre 1946.

[15] Esistono ancora oggi correnti essenzialistiche nel pensiero contemporaneo, ma costituiscono una ristretta minoranza.

[16] Mentre non è strettamente necessario che un essenzialista sia razzista, è di norma necessario che un razzista sia essenzialista. Il rapporto tra l’essenzialismo e le filosofie della razza è stato spiegato in maniera approfondita da Tagujeff 1987.

[17] Cfr. Heidegger 1976: 267.

[18] Il traduttore inglese dice più chiaramente: «Thinking accomplishes the relation of Being to the essence of man».

[19] Non è chiaro come faccia l’essere a portare a compimento un riferimento all’essenza dell’uomo, senza una qualche forma umana qualsiasi. Escludendo un processo di creazione (che si potrebbe pensare in termini di teologia medievale) si deve pensare a una qualche relazione misteriosa. Heidegger parla di «riferimento» che è termine estremamente ambiguo. Perché A si riferisca B, bisogna che A e B siano entità distinte e ben individuate. Ma noi veniamo subito a sapere che il riferimento di cui si parla avviene nel pensiero. Escludiamo dunque che si tratti di un riferimento reale, è un riferimento che evidentemente è pensato. Tuttavia «pensato» non significa evidentemente argomentato, bensì colto, intuito.

[20] Cfr. Heidegger 1976: 267.

[21] Si vedano Farias 1987 e Faye 2005.

[22] In tedesco lingua e linguaggio si dicono nello stesso modo (Sprache) e Heidegger gioca astutamente sull’ambiguità.  La traduzione italiana contribuisce a nascondere più che a chiarire. Mi rassegno, nel resto dello scritto, a usare linguaggio, come è ormai nell’uso, limitandomi a usare la coppia linguaggio/ lingua quando mi parrà il caso di rammentare al lettore questo ampio e ambiguo spettro semantico.

[23] Heidegger usa Gedanke (pensiero) in modo vago e allusivo, con una estensione che va dal pensiero inteso come attività ai contenuti stessi del pensiero, fino alle teorie filosofiche.

[24] Cfr. Heidegger 1976: 267.

[25] Ci sono passi in Heidegger in cui si sostiene tuttavia che pensatori e poeti hanno una semplicità profondamente popolare.

[26] Cfr. Heidegger 1976: 268.

[27] Heidegger 1976: 268. «Reclamato» non è ben chiaro cosa voglia dire. Nella traduzione inglese si legge banalmente claimed. Reclamo e richiesta non sono proprio lo stesso. La frase successiva in inglese è assai più chiara: «Thinking, in contrast, lets itself be claimed by Being so that it can say the truth of Being».

[28] Sono costretto a unire sempre popolo e civiltà a causa dell’ambiguità heideggeriana. Sospetto fortemente che egli abbia elaborato le sue posizioni filosofiche pensando al popolo tedesco, quindi in chiave spudoratamente nazista, e che poi, una volta sconfitto il nazismo, con pochi tratti di penna abbia portato il suo discorso a livello della civiltà occidentale, ottenendo così una specie di effetto spengleriano di riflessione sulla decadenza dell’Occidente, assai più digeribile che non un discorso sulla decadenza della Germania.

[29] Heidegger 1976: 268.

[30] In sostanza, invece di postulare un soggetto senza limiti (come il superuomo in Nietzsche) Heidegger postula un oggetto senza limiti (l’essere).

[31] In realtà Sein un Zeit si era interrotto perché Heidegger aveva finalmente avuto la cattedra di Husserl a Friburgo e poi perché l’essere aveva cominciato a mostrarsi in tutta la sua Lichtung, tanto da richiedere al filosofo un altro tipo di impegno.

[32] L’originario semplice inteso come fondamento è uno dei tarli della fenomenologia husserliana da cui ha preso le mosse Heidegger.

[33] Heidegger 1976: 269.

[34] L’unico vero pensatore che sarebbe stato in grado di affrontare questo compito (cioè Heidegger stesso) era stato messo da parte.

[35] Heidegger 1976: 268. In francese nell’originale.

[36] In ciò peraltro Heidegger non possiede alcuna originalità. Si trovano concetti analoghi in Dilthey, in Cassirer, ma anche in Simmel, in Tönnies, in Spengler e, naturalmente, in Husserl.

[37] Cfr. Heidegger 1927: 56. «Il concetto fenomenologico di fenomeno intende come automanifestantesi l’essere dell’ente».

[38] È noto che Heidegger aspirava a essere considerato come il pensatore del nuovo corso nazista, aspirava ad avere un ruolo simile a quello assunto da Gentile in Italia. Non è riuscito solo a causa del carattere oligarchico del nazismo e della miriade di fazioni e lotte interne anche nell’ambiente degli intellettuali. Si veda in proposito Bourdieu 1988.

[39] Heidegger 1976: 268.

[40] È esattamente lo stesso atteggiamento che aveva Husserl nei confronti del metodo

[41] Heidegger 1976: 269.

[42] È abbastanza sconvolgente pensare che le femministe heideggeriane abbiano potuto pensare che questo tipo di linguaggio potesse essere il prototipo di un nuovo linguaggio delle donne da contrapporre al linguaggio logocentrico del maschio.