Introduzione
1. Identità[1] è una
delle parole più inflazionate dei nostri tempi. Tutti vogliono avere un’identità.
Una volta che si ritenga di avere una qualsiasi identità, tutti cercano di
difenderla e preservarla. Si parla d’identità individuale, d’identità
collettiva, si progettano scissioni politiche in nome dell’identità. Anche i
massacri etnici sono stati spesso condotti in nome dell’identità. Cos’è dunque
l’identità? A dispetto della grande diffusione del termine, non sembra siano
stati fatti molti sforzi per definirla. L’identità rischia così di diventare
una specie di concetto ombrello
destinato a veicolare i significati più disparati. L’aumento d’interesse che si
è registrato negli ultimi tempi per questi temi e lo sviluppo di alcuni recenti
dibattiti sull’identità, in ambito politico e storiografico, non hanno
contribuito a sciogliere le ambiguità, hanno anzi finito per aggrovigliare
ancora di più il problema. L’identità è indubbiamente un concetto di frontiera,
che può essere affrontato solo mettendo in contatto discipline anche assai
lontane e poco disponibili a frequentarsi. Eppure, alcune semplici distinzioni
potrebbero cominciare a spazzar via le ambiguità più macroscopiche e a
permettere un modesto salto di qualità in termini di precisione semantica, di
utilizzabilità e di analisi critica del concetto.
2. Dell’identità si sono occupate svariate discipline. I
filosofi hanno affrontato la questione dal loro punto di vista, indagando
intorno a entità come l’anima, l’io, la coscienza o il soggetto. Gli psicologi,
studiando il problema della personalità e del sé. Politologi, sociologi,
antropologi e storici hanno trattato dell’identità riferendosi a entità sovra
individuali, come gruppi, classi, etnie o nazioni. Di fronte a un panorama così
variegato, l’utilizzabilità del concetto di identità si gioca sulla possibilità
di andare oltre, anche drasticamente, alla pluralità delle prospettive
strettamente disciplinari per identificare un nucleo chiaro e distinto di
significato. Un solido riferimento fondativo può essere costituito dai recenti
progressi avvenuti nell’ambito delle scienze
cognitive. I risultati delle neuroscienze, della psicologia evoluzionistica,
unitamente ad alcune analisi filosofiche nel campo dei modelli della mente si
stanno imponendo sempre più come riferimenti imprescindibili per qualsiasi
tentativo di definire l’identità. Certo, si tratta di risultati che lasciano ancora
aperte molte questioni ma, per intanto, contribuiscono anche a chiuderne
definitivamente delle altre.
3. In termini generali, a partire dai risultati delle
discipline che abbiamo citato, è sempre più chiaro che corpo e cervello formano
un tutto indissolubile e che il fenomeno che chiamiamo mente può essere spiegato in base alle funzioni svolte da vari sottosistemi o moduli del cervello. Per
spiegare la mente si fa sempre meno ricorso a un qualche organo supremo d’integrazione
delle parti: tutte le ipotesi basate sulla suprema regia di qualche homunculus sono state respinte dai dati
sperimentali. Se c’è qualcosa come l’identità, occorre riconoscere che questa in primis è resa possibile e prodotta
dai sottosistemi della mente, nell’ambito di un cervello. E ciò vale anche
quando si riferisce a entità sovra individuali, come identità etniche,
nazionali o religiose.
Si è
recentemente assistito, nell’ambito delle neuroscienze, all’elaborazione di
svariati modelli della mente,
tendenzialmente convergenti perché sempre più vincolati ai risultati
sperimentali. Per i nostri scopi, faremo riferimento a uno di questi modelli, quello
di Antonio Damasio, che ha il pregio di fondarsi su recenti evidenze empiriche
e di essere stato costruito con una notevole sensibilità teorica e filosofica.
Come tanti altri modelli di questo genere, presenta un complesso di funzioni mentali, stratificate dalla più
semplice alla più complessa e interagenti tra di loro. Nel seguito di questo
paragrafo saranno presentati quegli elementi del modello della mente di Damasio
che possono essere utili per la definizione dell’identità.
4. Nel modello di Damasio, il livello più elementare, che
peraltro non riveste particolare importanza per il nostro discorso, è
costituito dal proto-sé. È la
funzione che governa lo stato dell’organismo biologico ed è automatico e
inconsapevole (com’è inconsapevole il fatto di respirare). In altre parole, il
proto-sé è una dimensione, assai vicina al livello biologico, che opera prima
di qualunque consapevole percezione. Il secondo livello, che Damasio ha
chiamato coscienza nucleare, è
costituito da una specie di coscienza percettiva elementare che ha per oggetto
le immagini[2] sensoriali. È interessante considerare come, nell’organizzazione
modulare del cervello proposta da Damasio, sia proprio la produzione o la
riproduzione delle immagini sensoriali a indurre la coscienza nucleare e non
viceversa. La coscienza nucleare, in altri termini, costituirebbe un
sottoprodotto del funzionamento dei moduli che elaborano l’informazione
sensoriale. La coscienza nucleare risulterebbe così del tutto istantanea, appiattita
sulle percezioni presenti e completamente priva di storia. In un certo senso,
potrebbe essere considerata come uguale
in tutti gli esseri umani. Probabilmente una simile forma di coscienza è
presente anche in molti animali.
A un terzo
livello abbiamo la coscienza estesa. Nella
coscienza estesa, l’insieme delle immagini sensoriali prodotte dai singoli
moduli è elaborato e contestualizzato, cioè messo in rapporto
con la memoria delle immagini
accumulata in precedenza. La coscienza estesa è generata nell’ambito della memoria operativa, una funzione che è in
grado di mantenere attive, per un tempo limitato, diverse immagini sensoriali e
di operare su di esse allo scopo di produrre una serie di risultati. In
funzione delle esigenze di elaborazione, sono trasferiti nella memoria
operativa anche gli schemi operativi
appresi in passato e le immagini
sensoriali depositate nella memoria a
lungo termine.
Nell’ambito
della coscienza estesa si produrrebbe il fenomeno della consapevolezza di sé o autocoscienza.
Ciò avviene quando la coscienza nucleare viene associata alle attività che
hanno luogo nella memoria operativa: in sostanza, invece di produrre una
coscienza associata a una immagine sensoriale, viene in tal caso prodotta la coscienza dell’attività di elaborazione
che sta avvenendo nella memoria operativa.
È importante
considerare che il volume di immagini sensoriali che possiamo tenere in mente contemporaneamente è
assai limitato e così pure è limitata la durata della loro evocazione (da
qualche decimo di secondo a qualche decina di secondi). Questo è il motivo per
cui la memoria operativa è sempre costretta a operare in successione, richiamando più volte in memoria, sommariamente,
tutti i contenuti necessari. Solo attraverso l’elaborazione successiva delle
immagini, possiamo sviluppare la percezione soggettiva del tempo. Nello stesso
modo possiamo anche anticipare immagini future. Come vedremo, la continuità temporale è considerata come
una delle caratteristiche più importanti dell’identità.
5. Agli effetti di un’indagine sull’identità è importante
considerare quale sia la natura delle immagini contenute nella mente. La memoria a lungo termine non va concepita
come un magazzino: secondo Damasio, i contenuti della memoria a lungo termine
vanno intesi come delle funzioni di
ricostruzione, cioè come rappresentazioni
disposizionali. Senza entrare nei dettagli, ciò significa che tutto ciò che
apparentemente “ricordiamo” viene, in effetti, ricostruito nuovamente attraverso
gli stessi canali sensoriali che avevano generato la rappresentazione
originaria (e che in tal caso funzionano, in un certo senso, come degli organi di simulazione). La memoria di un
volto visto in passato, ad esempio, non sta in alcun deposito visivo. È
ricostruita tramite gli stessi apparati cerebrali che ci permettono di
percepire i volti.
L’insieme di
tutte le immagini sensoriali che siamo ipoteticamente in grado di ricostruire
viene chiamato da Damasio memoria
autobiografica. Non è mai possibile tuttavia attivare contemporaneamente,
nella memoria operativa, tutte le
rappresentazioni disposizionali di cui siamo capaci (anche perché queste,
spesso, sono attivate dal contesto). Ciò significa che, di volta in volta,
riusciamo a mettere a fuoco sempre e soltanto una minima parte del nostro sé autobiografico. Possiamo qui in
proposito utilizzare la nota metafora della “mente come faro”: nel momento in
cui focalizziamo un aspetto del nostro sé autobiografico, mettiamo in secondo
piano tutti gli altri. L’immediata e totale consapevolezza del nostro sé
autobiografico è impossibile. Kant aveva già espresso un’opinione assai simile.
6. Per completare gli elementi essenziali del modello, occorre
aggiungere che le rappresentazioni disposizionali non hanno solo una natura
cognitiva, ma hanno anche una natura
emotiva. Damasio ha introdotto, a questo proposito, la nozione cruciale di marca somatica. Il cervello monitora
costantemente, nel corso della nostra esperienza, i nostri stati interni e
genera sensazioni di piacere e di dolore, oppure, in maniera più complessa,
genera le nostre emozioni. In tal
modo tutte le immagini sensoriali che entrano nella nostra memoria a lungo
termine recano associata una marca somatica specifica, una specie di qualificazione emotiva che riveste un
ruolo fondamentale nell’elaborazione successiva dell’informazione, nelle
decisioni, nella fondazione dei valori.
Molti risultati sperimentali presentati da Damasio hanno dimostrato la sussistenza
di una profonda integrazione tra l’emotività e le funzioni cognitive superiori.
Quest’acquisizione pare ormai irrefutabile.
L’identità individuale
7. Identità personale.
Possiamo ora domandarci come si debba riformulare la nozione generica dell’identità,
tendendo conto dei vincoli di un modello della mente e del cervello come quello
di Damasio. L’identità coincide evidentemente con il costrutto, realizzato e mantenuto attivo nell’ambito della
coscienza estesa, che si origina quando la memoria operativa elabora una parte
dei contenuti del sé autobiografico. Possiamo chiamare questo costrutto identità personale, ovvero l’identità
personale qui ed ora. In altri
termini si ha identità personale quando, nella mente, si produce una qualche
specifica seppur momentanea e transitoria autorappresentazione
dell’individuo stesso. La continuità dell’identità personale è costituita per
lo più dalla coerenza delle
successive autorappresentazioni che avvengono all’interno della memoria
operativa. Si tratta dunque di un costrutto
continuamente riprodotto, che ha una continuità temporale precaria,
soggetto a mutamenti e variazioni tra un’evocazione e l’altra e influenzato
fortemente dalle diverse situazioni contingenti, dalle diverse mutevoli
focalizzazioni. Abbiamo così l’impressione di una continuità della nostra
identità, anche se questa è una successione di stati particolari che mettiamo a
fuoco di volta in volta. L’identità personale, com’è già stato rilevato, è
limitata fortemente dalla capacità di elaborazione simultanea della memoria
operativa.
8. Se la nostra identità personale si basasse solo su questi
fuggevoli costrutti sarebbe davvero una ben debole e vaga identità. Allo scopo
di sfuggire ai limiti di elaborazione della memoria di lavoro, spesso i vari
aspetti dell’identità personale sono espressi attraverso una sintesi linguistica, oppure mediante il
ricorso a rappresentazioni simboliche
di qualche genere. Queste formulazioni linguistico-simboliche, dopo essere
state prodotte (sempre attraverso elaborazioni e rielaborazioni successive nell’ambito
della memoria operativa), possono a loro volta essere memorizzate e richiamate,
come tanti spezzoni di identità. Così nella nostra limitata memoria di lavoro,
all’occorrenza, possiamo richiamare delle sintesi, espresse in forma
linguistico-simbolica, delle nostre esperienze passate, della nostra condizione
presente. Nello stesso modo possiamo produrre delle simulazioni concernenti i
nostri scopi e progetti futuri. In questo modo l’identità personale, composta
potenzialmente di una miriade d’immagini sensoriali, ma elaborata ed espressa
per lo più in forma linguistica, è collocata in un passato, in un presente, e
in rapporto a un futuro. Solo attraverso la continua elaborazione di questi
materiali posiamo generare il senso di
una continuità, di un progetto, di un adattamento efficace al mondo che ci
circonda.
9. Il ruolo del
linguaggio. L’identità personale che viene attivata nella coscienza estesa
è sempre costituita da un sottofondo di immagini sensoriali e di operazioni a
queste connesse; ma, come si è visto, essa è costituita soprattutto da espressioni verbali attraverso le quali
siamo in grado di autorappresentarci in forma sintetica e di tenere il filo del
passato, del presente e del futuro. Questo flusso verbale interiore è stato
assai studiato dagli psicologi e dai filosofi della mente che l’hanno chiamato linguaggio interno (inner speech). Il linguaggio, in altri termini – ben oltre alla
funzione comunicativa con gli altri – permette la costruzione di una mappa
della nostra esperienza interiore ed esteriore a un livello assai ampio di
sintesi e generalizzazione. Queste mappe
linguistiche, quando vengono attivate, sono in grado, come qualsiasi altro
oggetto internalizzato, di costruire un
oggetto per la coscienza nucleare e, di conseguenza, di generare la
coscienza estesa (rendendo così possibile la produzione della consapevolezza di
sé, o autocoscienza). Diventiamo così via via consapevoli delle rappresentazioni
linguistiche che produciamo a proposito di noi stessi.
La potenza
del linguaggio internalizzato sta nel suo carattere semiotico–simbolico, nella
sua capacità di astrazione, nella sua capacità di definire delle etichette
linguistiche attraverso le quali noi possiamo ulteriormente operare, senza
essere costretti a riprodurre dettagliatamente le immagini sensoriali (e
facendo così ricorso al livello sensoriale solo quando sia necessario). Come ha
affermato Felice Cimatti: «L’autocoscienza non rappresenterebbe quindi –
cartesianamente – il punto di partenza della vita mentale, bensì sarebbe una
sorta di dono inaspettato che la mente riceve dal linguaggio, o meglio dal
fatto che usa il linguaggio per riferirsi a sé stessa». (Cimatti 2000: 236).
Quindi, paradossalmente, non è l’io a padroneggiare il linguaggio, bensì il
linguaggio a permettere la costruzione di un riferimento all’io. Il linguaggio
verbale, attraverso l’inner speech, è
così in grado di generare l’autocoscienza nella sua forma più elevata e di
sovrintendere all’esperienza interna.
Ma esso
rappresenta anche l’interfaccia verso il mondo esterno, verso la cultura della
società umana, molta parte della quale è espressa in forma linguistica o
comunque possiede una traduzione linguistica. In questo modo l’animale uomo può
entrare in possesso – senza averla esperita direttamente – dell’esperienza
fatta da altri, sintetizzata e accumulata in forma simbolica.[3]
10. Come la cultura esterna rappresenta la massima proiezione
nel passato e nel futuro della specie
umana, così l’identità personale rappresenta la massima proiezione verso il
passato e verso il futuro del singolo
individuo. Entrambe queste proiezioni sono costruite nella sola forma più
efficace possibile: in forma simbolica.
Grazie alla mediazione del linguaggio, abbiamo allora costantemente due
processi: un processo di socializzazione
che va dalla cultura già accumulata verso l’identità personale e un processo di
creazione culturale, che va dall’identità
personale verso il deposito culturale esterno. Stranamente, mentre il processo
di socializzazione oggi è alquanto studiato e riconosciuto, non altrettanto lo
è il processo di creazione culturale; come se, di fronte all’abbondanza
strepitosa di prodotti culturali, oggi l’individuo non possa fare altro che
scegliere cosa interiorizzare, senza poter offrire alcun contributo attivo. Il
contributo individuale alla cultura è riconosciuto per lo più solo nei casi di
personalità considerate straordinarie.
11. La categorizzazione e
la classificazione. Anche la conoscenza
intellettuale della realtà, sia esterna sia interna, avviene in gran parte
attraverso il linguaggio, in particolare attraverso la sua natura concettuale. Il concetto
in senso logico ha origine nell’ambito dell’individuazione delle proprietà
degli oggetti, in altre parole nell’ambito delle operazioni di classificazione. Pur essendo diffuse presso tutti gli
esseri viventi, le operazioni di classificazione possono essere enormemente potenziate,
nell’uomo, grazie proprio al linguaggio verbale (Cimatti 2000). Esso è un
potente strumento attraverso il quale possiamo classificare la realtà esperita,
immagazzinare le nostre stesse classificazioni, trasmetterle ad altri, oppure
apprendere da altri nuove classificazioni. Il linguaggio costituisce quindi un
potente strumento che la cultura ci mette a disposizione per segmentare il continuum dell’esperienza e per individuare tutti quegli elementi
dotati di caratteristiche distintive che riteniamo importanti per noi. Sia in
termini di inner speech, sia in
termini di cultura, attraverso il linguaggio gli esseri umani provvedono
costantemente a classificare se stessi, gli altri e la natura (Durkheim & Mauss 1903).
12. Poiché la classificazione è legata all’individuazione delle
caratteristiche salienti dell’ambiente (interno o esterno che sia), ne consegue
che le classi (cioè i concetti) che produciamo e riproduciamo sono sempre
fortemente marcate in termini emotivi. L’organismo reagisce
agli stati del mondo con il piacere, il dispiacere, la fuga, l’aggressione, e
così via. Ciò significa che possiamo caricare
di significati emotivi le classi che abbiamo individuato, e nello stesso
tempo che siamo in grado di individuare delle classi proprio perché le
carichiamo emotivamente. La connessione
tra classificazioni e emozioni è una condizione del tutto normale per gli
organismi viventi (Damasio 1994; Damasio 1999; LeDoux 2002). Operazioni di
classificazione che siano emotivamente
neutre diventano possibili nell’uomo solo con forme assai elaborate di
autocontrollo e nell’ambito di una simbolica assai astratta.
13. Gli psicologi hanno a lungo studiato la classificazione,
definendola come categorizzazione. È
interessante il fatto che, nell’ambito della categorizzazione, essi abbiano
collocato fenomeni come il pregiudizio, il razzismo e i cosiddetti fenomeni di labeling. In altri termini, tutti i confini che tracciamo, più o meno
consapevolmente, all’interno o all’esterno di noi stessi, ricadono nell’ambito
dei processi di categorizzazione. La maggior parte di questi processi sono
appresi dal contesto, dati per scontati e solo raramente provvediamo a
riflettere sulle nostre classificazioni ed eventualmente a modificarle (dietro
sollecitazione di nuove informazioni, nuove esperienze, nuove marche emotive).
I gruppi organizzati e le istituzioni spesso tendono a favorire l’adozione di categorizzazioni rigide ed esclusive,
poiché interesse dei gruppi e delle istituzioni è spesso quello di marcare i
confini, organizzare e inquadrare gli individui. Attraverso il linguaggio
interno siamo in grado di classificare o categorizzare noi stessi. Spesso adottiamo i principi di classificazione che ci
sono dati dalla nostra cultura, ma siamo anche in grado di innovare e creare nuovi criteri di classificazione
riferiti a noi stessi o agli altri. I concetti quindi costituiscono la moneta
comune attraverso la quale costruiamo la nostra identità personale e conosciamo
il mondo esterno.
14. Spesso tuttavia dimentichiamo il carattere convenzionale del linguaggio e delle classificazioni e
tendiamo a considerare i concetti come se fossero degli oggetti realmente esistenti. Questo meccanismo è ben noto in
filosofia, ove le classi presenti nel nostro linguaggio sono ipostatizzate,
considerate ancor più reali delle nostre percezioni, e definite come idee
platoniche, essenze, concetti a priori
e così via. Questo meccanismo ci vincola alquanto e ci impedisce di aggiornare
e rivedere in modo flessibile le nostre classificazioni, ci impedisce di
modificare la rappresentazione che abbiamo di noi stessi e di modificare le
conoscenze che abbiamo acquisito. Sono quindi piuttosto fuorvianti tutte quelle
definizioni dell’identità che, basandosi su malintese esigenze di logica classificatoria,
mettono l’accento sull’individuazione di caratteristiche costitutive, essenziali,
irriducibili, che distinguono gli individui gli uni dagli altri. Ciò induce a
interpretare l’identità in funzione della diversità
dalle altre identità, inducendo l’esigenza di marcare ossessivamente delle
distinzioni e dei confini come fossero realtà assolute (così è nata la
famigerata coppia dell’Io e dell’Altro, ovvero dell’Identità e dell’Alterità).
In realtà, come si è visto, l’identità
personale non è tanto definita da un insieme di caratteri logici,
distintivi nei confronti delle altre identità, quanto dalla sua funzione di
costituire una sintesi prospettica
che prende forma in un corpo, in un cervello, in seguito a una serie di
esperienze ed elaborazioni specifiche. Il problema dell’identità non consiste
tanto nel definire quanto siamo simili o diversi dagli altri, quanto nel
produrre una buona strutturazione dei
nostri elementi interni. Ciò lascia presagire che le identità non siano mai
definitive e siano soggette a una continua attività di costruzione e
ricostruzione. Abbiamo parlato di “buona” strutturazione: ciò introduce il
problema, assai complesso, di una eventuale confronto
qualitativo tra le diverse strutturazioni identitarie.
15. Forme d’identità.
Ci si può allora domandare se ci siano dei tipi
d’identità, se i costrutti identitari vengano elaborati seguendo stili diversi, se non sia possibile, in
altri termini, una morfologia dell’identità
personale. In campo psicologico, molte delle problematiche relative alle diverse
forme dell’identità sono già state ampiamente studiate sotto l’etichetta delle
tipologie della personalità. È
abbastanza singolare che tutto questo patrimonio di riflessioni sia stato
raramente preso in considerazione dalle discipline che si sono occupate dell’identità[4].
Poiché
questo campo è decisamente sconfinato, ci limiteremo ad elencare alcuni dei
parametri che sono stati variamente presi in considerazione allo scopo di
caratterizzare le diverse forme che il costrutto identitario può manifestare
all’osservazione empirica. Parecchi di questi parametri sono stati individuati
nell’ambito dello studio delle patologie
della personalità: ciò è abbastanza comprensibile, poiché le disfunzioni
del costrutto identitario ci possono talvolta permettere di evidenziare le
diverse possibili strutturazioni interne dell’identità stessa (così come sta
accadendo nell’ambito degli studi sulla differenziazione delle funzioni
cerebrali).
Molte
ricerche hanno sottolineato via via diversi aspetti come il grado di integrazione o di separazione tra le varie parti dell’identità, la coerenza interna dei vari elementi, la stabilità e l’instabilità nel tempo, il
grado di dipendenza o di indipendenza
dal contesto, la dominanza di elementi
centrali a discapito di altri elementi periferici, la rigidità o la flessibilità, il grado di integrazione tra gli aspetti emotivi e gli aspetti linguistici, il
grado di differenziazione linguistica
e culturale. È forse possibile aggiungere, a questa lista, molte altre
caratteristiche. Prese insieme, queste caratteristiche possono comunque
contribuire a disegnare, in un certo senso, la “forma” dell’identità,
indipendentemente dagli specifici contenuti che ciascuno svilupperà nell’ambito
della propria personale esperienza. Gli individui dunque sono sicuramente diversi tra loro in virtù delle
peculiarità biografiche, ma possono essere diversi
tra loro anche in virtù della diversa
strutturazione formale della loro identità. Tuttavia, mentre è normale che
ci sia un’estrema diversità in termini biografici, non è possibile in pratica che
ci siano infinite forme diverse di identità,
poiché siamo limitati dalle strutture cerebrali, dalle strutture della mente,
dai meccanismi linguistici e simbolici, dal tipo di dinamica che instauriamo
con la dimensione emotiva. Anzi, alcune delle configurazioni d’identità che si
possono empiricamente identificare possono anche essere non sviluppate,
deviate, o addirittura patologiche.[5] Se si ammette che le identità personali
possano avere diverse forme, più o meno realizzate, più o meno mature, più o
meno “buone”, si può allora cominciare a ragionare intorno al significato dello
sviluppo dell’identità personale, al
di là delle specifiche diversità culturali.
16. Autobiografie. Diversa
dall’identità personale in senso stretto è la narrazione autobiografica, o il prodotto
autobiografico. Poiché la memoria di lavoro è limitata e l’identità
personale che evochiamo qui e ora
risulta piuttosto instabile e fuggevole, accade spesso che l’individuo riversi
i costrutti identitari, di volta in volta realizzati, in qualche forma di memorizzazione esterna più solida e
duratura: di solito si tratta di narrazioni verbali, oppure soprattutto di
narrazioni scritte (ma può trattarsi anche di materiali di altra natura, come
raccolte di foto, diari, collezioni di oggetti e così via). Queste “narrazioni
di sé” possono raggiungere una notevole voluminosità, fino a divenire vere e
proprie autobiografie scritte. Il
prodotto autobiografico avrà dunque la caratteristica di essere propriamente hard, ovvero un oggetto materiale
esterno, mentre l’identità personale, che continuamente generiamo e
rigeneriamo, sarà invece piuttosto soft,
piuttosto virtuale. È chiaro da quanto si è detto in precedenza che non è assicurata alcuna corrispondenza certa
tra l’identità personale e il prodotto autobiografico. Accade perciò assai
spesso che ci troviamo a utilizzare i nostri prodotti autobiografici esterni
(le nostre identità “materializzate”, depositate, trascritte, certificate) come
sostituti del lavoro di generazione dell’identità personale, dando il via a un
gioco di rimandi tra memorizzazione interna e memorizzazione esterna che
talvolta può essere anche assai ingannevole.
Recentemente, nell’ambito delle dottrine costruttivistiche sviluppate da Jerome Bruner, si è insistito molto sull’equivalenza tra identità e autobiografia. Indubbiamente ci sono delle relazioni, ma il tentativo di ricondurre schematicamente l’identità personale all’autobiografia può essere fuorviante. Una cosa è l’autobiografia teorica, ovvero l’insieme di tutti gli eventi che costituiscono una vita individuale: un simile insieme è chiaramente infinito, virtuale e impossibile da tradurre in alcunché di concreto. Altra cosa è il resoconto scritto, prodotto da un soggetto, della propria autobiografia. È chiaro che il resoconto scritto sarà soltanto una parziale e imperfetta rappresentazione dell’autobiografia teorica. Uno stesso soggetto, in tempi diversi, potrebbe produrre diverse autobiografie scritte. Altra cosa ancora, ovviamente, è l’identità qui ed ora, così come viene vissuta e sperimentata dal soggetto: quella che abbiamo chiamato identità personale.
Memorie esterne ed esoscheletri identitari
17. L’autobiografia scritta rappresenta un tipico caso di memoria esterna. Nell’ambito della
psicologia evoluzionistica è stata prodotta un’interessante distinzione tra memoria biologica e memoria esterna. La memoria biologica è quella collocata dentro la
mente individuale e sempre direttamente accessibile (per quanto soggetta a
notevoli imperfezioni di funzionamento); la memoria
esterna è invece costituita da tutti i depositi culturali cui possiamo
avere accesso allo scopo di potenziare le capacità di elaborazione della nostra
mente (Donald 1991). Si tratta di una memoria virtualmente infinita, in gran
parte codificata in forma simbolica e, in particolare, nella forma del
linguaggio verbale. È assai interessante il fatto che la memoria esterna possa
costituire anche un’estensione della
nostra memoria operativa (che è limitatissima), poiché siamo in grado di
depositarvi i risultati parziali
delle nostre elaborazioni, eventualmente per poterle poi affinare in un secondo
momento (ciò accade, ad esempio, quando prendiamo gli appunti, oppure quando
produciamo successive revisioni di uno scritto).
18. Nell’ambito della memoria esterna troviamo non solo i
nostri prodotti autobiografici oggettivati, ma anche una miriade di oggetti in senso lato che descrivono,
definiscono, fissano una volta per tutte la nostra identità: i nostri documenti
personali, i ricordi materiali della nostra vita, le nostre relazioni
personali, le icone religiose che ci hanno coinvolto, le istituzioni con cui
siamo in rapporto. Tutto ciò con cui abbiamo familiarità, ciò di cui abbiamo
fatto esperienza, ciò che siamo in grado di manipolare, direttamente o indirettamente,
rappresenta per noi una sorta di memoria
biografica esternalizzata, un insieme di luoghi della memoria, come dicono gli storici.
19. Per la costruzione dell’identità personale ricorriamo
dunque anche a una gran mole di queste memorie, di questi supporti esterni:
infatti, oltre agli elementi strettamente biografici, per costruire la nostra
identità personale utilizziamo anche tutti gli elementi depositati nella cultura cui apparteniamo, compresi
quelli, assai enfatizzati, di tipo etnico-nazionalistico, religioso, ideologico
o razziale. Si tratta di prodotti simbolici preconfezionati, depositati e
pronti all’uso, che, all’occorrenza, vengono trasferiti nella memoria biologica
dove vengono elaborati ed interiorizzati; possono poi eventualmente essere
riprodotti all’esterno, in modo da renderli disponibili ad altri. Come dei veri
e propri esoscheletri identitari esterni,
queste memorie ci incanalano costantemente nell’attività quotidiana di
costruzione della nostra identità personale. Se il legame con queste memorie
esterne viene poi anche marcato
somaticamente (attraverso esperienze
emotive intense, come rituali, cerimonie, bandiere, divise, tessere),
ebbene tutto questo servirà ulteriormente a produrre un forte senso di autenticità, a dare evidenza al
fatto che una certa caratteristica è stata da noi assunta, talvolta
irrevocabilmente, come una qualificazione certa della nostra identità, cioè che
davvero noi apparteniamo a un determinato gruppo piuttosto che un altro, o che
condividiamo un determinato progetto d’azione. Così si diventa membri di
famiglie, di gruppi politici, di affiliazioni religiose, si entra in una banda
di delinquenti, si entra a far parte di un esercito, oppure si acquisisce una
cittadinanza.
Per quanto
sfuggente, il costrutto che abbiamo chiamato identità personale sembra dunque costituire il fulcro dell’identità.
Essa rappresenta la mediazione
originale, mai definitiva, tra le condizioni
momentanee interne di un corpo, il patrimonio
immagazzinato nella memoria autobiografica e il più vasto deposito culturale collettivo della memoria
esterna.
20. Spesso tuttavia i confini tra l’interno e l’esterno (tra
ciò che abbiamo fatto nostro e ciò
che consideriamo estraneo) sono così
indefiniti da farci dubitare dove
risieda effettivamente la nostra identità. Ciò accade tanto più poiché stiamo
assistendo, in termini di evoluzione culturale, a una crescita esponenziale del volume complessivo della memoria esterna
disponibile. In una simile situazione, la tentazione di immergersi totalmente
nella memoria esterna può essere davvero assai forte. La sintesi identitaria tuttavia non può che avvenire effettivamente dentro l’individuo. Il fatto che l’identità
personale sia continuamente costruita e ricostruita offre l’opportunità del
cambiamento, ma determina anche la sua debolezza di fondo, il fatto di essere
esposta a qualsiasi tipo di invasione, pressione, distorsione o cancellazione.
Questo è il motivo per cui il terreno dello sviluppo, della costruzione e
ricostruzione dell’identità personale è oggi un vero e proprio campo di battaglia (Freud aveva
perfettamente colto quest’aspetto) dove si confrontano le pulsioni del corpo,
le razionalizzazioni dell’esperienza individuali e della biografia e le
pressioni della cultura esterna, delle istituzioni e del potere.
L’identità
personale è dunque senz’altro evanescente, “della stessa materia di cui sono
fatti i sogni”, ma costituisce la sola
possibilità data all’individuo umano di produrre una rappresentazione
complessiva e originale di sé, cioè la possibilità di oggettivarsi e di
riflettersi. Se questo è vero, allora occorre mettere l’accento non tanto sul
volume costantemente in crescita delle memorie esterne, il che implica comunque
una certa passività e dipendenza, quanto sulle potenzialità e sui processi di
sviluppo dell’identità personale, il che permette uno sviluppo autonomo. Occorre
far sì che gli individui, invece di venir pedestremente “socializzati”, abbiano
modo di procedere autonomamente e consapevolmente nella loro autocostruzione.
Identità e prospettiva individualistica
21. Poiché l’identità personale si colloca precisamente all’incrocio
tra il corpo e la cultura (e il potere), una delle varianti fondamentali capace
di determinarne la forma finale sarà costituita dal grado di libertà concesso all’individuo nella sua elaborazione.
Possiamo distinguere, per ciò che ci interessa, tra contesti che cercano di inculturare gli individui in modo totalizzante
e contesti che lasciano agli individui uno spazio di elaborazione autonomo. Per
dirla con Durkheim, possiamo distinguere tra solidarietà meccanica e solidarietà organica.[6]
Sarebbe errato ritenere, come qualcuno ha inteso, che questa distinzione
coincida con quella tra Oriente e Occidente. Nel corso della storia dell’umanità
sono state molte le civiltà che hanno conferito valore all’autonomia
individuale, come ha opportunamente sottolineato Amartya Sen (Sen 2004). D’altro
canto, assai spesso anche nella storia dell’Occidente si sono sviluppate
ipotesi culturali e sociali che hanno tentato di negare all’individuo qualsiasi
autonomia.
22. È vero però che, proprio nella tradizione europea, in
alcuni periodi e in alcune aree privilegiate si è sviluppata una forma
identitaria che ha particolarmente valorizzato l’autonomia dell’individuo a
discapito degli elementi sovra individuali. Si tratta di un modello in cui l’individuo
viene spinto a prendere le distanze, in forma critica, dalla cultura esterna e
dalla propria collocazione sociale. È un modello che costringe l’individuo a
trovare da sé la propria strada, a costruirsi e a ricostruirsi continuamente, a
portare il peso morale delle proprie decisioni, andando incontro anche a
perdite, crisi e smarrimenti, oppure a scontri con il proprio ambiente. Questa prospettiva individualistica comprende,
come ha suggerito Steven Lukes, almeno cinque dimensioni fondamentali che sono
fortemente interrelate, che si richiamano a vicenda e che, insieme, contribuiscono
a definire la nozione moderna di individuo e, in campo politico, di cittadino (Lukes 1973).
23. La prima dimensione, il valore
intrinseco dell’essere umano individuale, sancisce la centralità dell’individuo
e, soprattutto, implica che tutte le più tradizionali categorie aggregative (la
nazione, la stirpe, la classe, la religione di appartenenza, e così via)
vengano ad assumere un’importanza morale secondaria. Questo, tra l’altro, è il
presupposto della nozione politologica e filosofica di cosmopolitismo.
La
seconda dimensione è costituita dalla nozione di autonomia (o di auto–direzione) in base alla quale le scelte
dipendono dall’individuo stesso e non da qualche agenzia o causa al di fuori
del suo controllo. Osserva Lukes in proposito: «In particolare, un individuo è
autonomo (a livello sociale) nella misura in cui sottopone le pressioni e le
norme con cui ha a che fare a una valutazione consapevole e critica, e formula
intenzioni e prende decisioni pratiche come risultato di una riflessione indipendente
e razionale». (Lukes 1973: 52).
La
terza dimensione è la nozione della privacy,
in altre parole la nozione di uno spazio
privato di esistenza, un’area inviolabile entro cui l’individuo dovrebbe
essere messo in grado di fare e di pensare qualsiasi cosa egli scelga, per
perseguire il suo stesso bene nella maniera che gli è propria. Anche questa
nozione si è affermata storicamente. Ha scritto infatti Hannah Arendt: «Nella
sensibilità antica l’aspetto di deprivazione della privacy, indicato nella parola
stessa, era considerato predominante; significava letteralmente uno stato di
privazione che poteva toccare anche facoltà più alte e più umane. Un uomo che
vivesse solo una vita privata e che, come lo schiavo, non potesse accedere alla
sfera pubblica, o che come il barbaro, avesse scelto di non istituire un tale
dominio, non era pienamente umano. Noi non pensiamo più alla privazione quando
parliamo di vita privata, e questo è in parte dovuto all’enorme arricchimento
della sfera privata apportato dall’individualismo moderno». (Arendt 1958: 28).
La
quarta dimensione, l’autosviluppo,
mette l’accento sul carattere unico e irripetibile dell’individuo che viene
considerato come il risultato di un processo di autocostruzione che dà luogo,
come risultato, a un’opera unica. Ciascun individuo ha diritto a intraprendere
il proprio processo di autorealizzazione e il risultato di questo processo è
considerato comunque degno di rispetto.
La
quinta dimensione è costituita dall’individuo
astratto. Sotto questo aspetto, l’individuo viene considerato sotto un
profilo molto generale, facendo astrazione da una serie di caratteristiche
specifiche e contingenti. Ciò rende possibile attribuire all’individuo astratto
cose come diritti, doveri, facoltà, bisogni, indipendentemente dalle loro
condizioni particolari. Afferma Lukes: «Secondo
questa concezione, gli individui sono rappresentati in maniera astratta come
dati, forniti di dati interessi, desideri, propositi, bisogni, ecc. [...];
mentre la società e lo Stato sono rappresentati come insiemi di effettivi o
possibili aggiustamenti sociali che rispondono più o meno adeguatamente alle
richieste degli individui. Le regole sociali e politiche e le istituzioni sono,
secondo questo modo di vedere, viste collettivamente come un artificio, uno
strumento modificabile, un mezzo per soddisfare indipendentemente dati
obiettivi degli individui; i mezzi e il fine sono distinti». (Lukes 1973: 73).
24. Questo modello, come appare evidente, indebolisce
grandemente la solidarietà meccanica durkheimiana, e si limita a concepire la
società e la cultura come contesti all’interno dei quali gli individui possono
perseguire, con relativa libertà, la loro costruzione personale. Va detto che
questo modello, in un certo senso, seleziona le capacità creative degli
individui attraverso un meccanismo di prova ed errore, dove possono anche
sopravvenire molti fallimenti
(infatti le maggiori obiezioni contro questo modello sottolineano proprio l’incertezza
del risultato finale e le diseguaglianze di esiti che possono originarsi).
Il
predominio totale della cultura sull’individuo, nel caso dell’uomo ultra socializzato, la condizione di
solidarietà meccanica, costituiscono quindi solo una delle possibilità che sono
date nell’ambito della produzione delle identità individuali. Il nostro
cervello ha indubbiamente bisogno di una lingua, di una cultura, ma il modo in cui la lingua e la cultura sono
interiorizzate è sempre una possibilità relativamente aperta. In regimi storici
e sociali assai specifici, isolati, tradizionali, che si ripetono sempre
uguali, la forma della solidarietà meccanica può avere anche una sua
plausibilità. In contesti come quelli globali dei giorni nostri, lo
sganciamento dell’individuo da pressioni culturali troppo soffocanti
rappresenta sempre più un bisogno, una necessità ineludibile.
25. Una perorazione dell’autonomia individuale sembra tuttavia
destinata ad avere oggi, in Occidente e nel mondo, uno scarso successo. Il
motivo è che essa è tacciata di occidentalismo.
Si ritiene comunemente che l’autonomia individuale sia il grande peccato
mortale dell’Occidente, rappresenti il tentativo imperialistico di imporre la ragione occidentale alle altre culture.
In realtà non pare proprio che l’autonomia individuale sia una manifestazione
di occidentalismo; questa pare essere una favola superficiale nata con il mito
dell’individualismo greco e della superiorità dell’Occidente sull’Oriente. L’autonomia
individuale può invece ben aspirare a diventare uno di quei valori universali di cui ha parlato Sen:
«È evidente che dobbiamo affrontare una questione metodologica. Che cos’è un
valore universale? Perché qualcosa sia considerato come tale, occorre davvero
un consenso generale? Se fosse così, la categoria “valore universale”
probabilmente resterebbe vuota. Non conosco alcun valore […] contro il quale
non siano state sollevate obiezioni. A mio parere, non è questo ciò che conta
per considerare qualcosa come valore universale. Al contrario, l’essenziale è
stabilire se in ogni parte del mondo gli uomini possano avere ragioni per
considerarlo tale». (Sen 2004: 67)
26. Ma si può imporre l’autonomia individuale a chi non
desidera essere autonomo? Si può imporre un modello
aperto di identità a chi invece si trova bene nell’ambito di un modello chiuso? Certo, l’autonomia – per
chi non sia preparato – può anche risultare traumatica. Il salto da una
condizione di totale dipendenza dalla memoria esterna a una condizione che
richieda una personale elaborazione può essere difficile e disorientante.
Tuttavia chi sperimenta, anche solo parzialmente, qualche grado in più di autonomia,
difficilmente accetta poi che questa gli sia revocata, anzi, è facile che s’impegni
per difenderla. Oggi, i maggiori nemici dell’autonomia non sono gli individui,
ma le incrostazioni di potere istituzionali e le politiche dell’identità che
hanno interesse al controllo sociale, in altre parole che hanno interesse a
impedire il cambiamento e la crescita individuale. Occorre allora sostenere gli individui nei loro progetti di
cambiamento e di crescita, più che difendere
le culture nei loro progetti di conservazione.
Politiche dell’identità
27. Da quanto abbiamo detto, risulta che l’identità personale
costituisce sempre di più la posta in
gioco di una guerra in cui si combattono, senza esclusione di colpi,
ideologie, forze politiche e istituzioni. Molte vecchie ideologie si sono
aggiornate e hanno posto proprio l’identità al centro delle loro elaborazioni.
Possiamo chiamare questi orientamenti politiche
dell’identità. Nell’ambito delle politiche dell’identità si producono
enunciazioni circa la natura e l’importanza dell’identità, si promuovono
determinati modelli d’identità ai danni di altri, si mobilitano gli individui
intorno a questioni di identità, si protesta per la perdita dell’identità, si
richiede insistentemente la valorizzazione e il riconoscimento delle identità,
oppure si categorizzano, si combattono fino alla cancellazione, identità
considerate negative. Le politiche dell’identità hanno avuto indubbiamente
successo: milioni di persone sono costantemente mobilitate in nome di un qualche
carattere identitario e molti dei conflitti in corso oggi nel mondo vengono
giustificati su base identitaria.
28. Possiamo distinguere, all’interno di queste politiche dell’identità,
due tendenze tipiche, che apparentemente sono opposte, ma che talvolta sfumano
l’una nell’altra. La prima tendenza è quella culturalista. Il culturalismo nega qualsiasi autonomia individuale
e ritiene che l’individuo altro non sia che il riflesso della sua cultura. L’identità
individuale non è considerata altro che memoria esterna trasferita all’interno.
L’identità non è costruita autonomamente dall’interno, ma deve essere importata
dall’esterno. Senza questo apporto l’individuo sarebbe completamente vuoto. Da
questa impostazione deriva inevitabilmente che le realtà sovra individuali (le
comunità, le etnie, le religioni, le culture…) possiedano una loro organicità e
una loro autonomia. Corrispondano a essenze
realmente esistenti che precedono gli individui. La cultura viene così presentata
come un rutilante mercato di identità (così accade secondo la corrente New Age), oppure, in forma assai più
seriosa, come un complesso di elementi di significato ereditati dalla comunità,
che fanno sì che l’individuo trovi la sua definizione, trovi la sua àncora, la
sua vera essenza. Si tratta comunque sempre di esoscheletri da importare, da
indossare, a volte da cambiare il più rapidamente possibile, oppure da
custodire gelosamente, da difendere e da portare per sempre. Se la cultura
prende completamente il posto dell’io individuale si avrà come risultato la
formazione di individui culturalmente
marcati in modo indelebile, incapaci di andare oltre i propri vincoli
percepiti come oggettivi, incapaci di cambiare. A questi individui iper culturalizzati,
cioè iper inculturati, non resta altro, che tentare di costruirsi, nel flusso
dell’odierna confusione, un’isola dove siano garantite e riconosciute le
proprie irrinunciabili peculiarità culturali (proprio questa è la politica dell’identità
tipica del multiculturalismo
nordamericano).
29. La seconda tendenza è quella che ha postulato la fine dell’identità. In contrasto con la
generale emergenza della tematica identitaria, taluni ambienti politici e
intellettuali, oggi assai influenti, sembrano convinti di una prossima fine
dell’identità. I discepoli di Nietzsche e dell’ermeneutica ci hanno spiegato
che è appena avvenuta una svolta epocale,
che viviamo in un orizzonte senza fondamenti, che le “grandi narrazioni” sono
state smascherate e hanno fallito, che tutti i punti di vista si equivalgono,
che l’io è irrimediabilmente diviso o illusorio. In campo filosofico si osserva
che il “progetto dell’io”, tipico della razionalità moderna, un progetto considerato
come assolutistico e prevaricatore, sarebbe fallito, e avrebbe anzi causato le
più grandi catastrofi storiche.
Si ha così,
come conseguenza, lo svuotamento dell’identità dall’interno, o il suo
riempimento con frammenti discontinui che possono essere gestiti con una logica
del tutto ludica e gratuita. Qualunque forma di ordine, di costruzione, di
coerenza è guardato con sospetto, come se si trattasse di un’imposizione di
potere arbitraria e violenta. In conseguenza della profetizzata svolta epocale,
faremmo bene a indebolire le identità, o addirittura a sbarazzarci delle identità
e saremmo decisamente tutti più felici, dando via all’espressione libera dei
nostri frammenti momentanei, realizzando identità
fluide o liquide, secondo una
celebre metafora di Zygmunt Bauman. La politica dell’identità che consegue a
questa visione è una politica che promette la liberazione definitiva da tutte
le imposizioni, attraverso la destrutturazione,
la sottrazione sistematica a qualsiasi sistema di regole. Si tratta, come ognun
vede, di una liberazione assai onerosa, che comporta la distruzione preventiva
proprio di quel soggetto che si intenderebbe liberare.
30. Come possiamo interpretare queste tendenze? Non si vuol qui
certo ignorare il fatto che le politiche dell’identità abbiano avuto origine
nell’ambito di legittime lotte contro effettive discriminazioni e imposizioni
basate su elementi identitari (come l’etnia, la lingua, il genere, la fede
religiosa). Ma la giusta lotta contro le discriminazioni andrebbe combattuta
non in nome dell’identità, ma in nome
dell’uguaglianza, che è l’obiettivo politico meno identitario che ci sia. Le politiche dell’identità hanno
invece trasformato le legittime aspirazioni all’uguaglianza nella valorizzazione delle più bizzarre
idiosincrasie culturali e nel più totale deprezzamento dell’identità
personale.
I
sostenitori della fine dell’identità presentano, infatti, un modello caricaturale e superficiale dell’identità
personale. Pensano che l’identità sia come un testo dai mille significati e
che – proprio per questo – non abbia alcun autentico significato. Sembrano
proprio loro i maggiori traumatizzati dalla “sparizione del soggetto”,
nonostante le neuroscienze spieghino come la mente umana funzioni benissimo
senza ricorrere a un “fantasma nella macchina”. Tutto il potere rivoluzionario
delle loro teorie si concentra nel tentativo di mostrare che la costruzione
dell’identità è, per l’appunto, una costruzione. Se è una costruzione, allora
non ha una vera essenza. E senza essenza siamo perduti. In più, sembrano
prediligere le forme di identità più folli e sgangherate, più frammentarie e
incoerenti e ci avvertono che proprio queste rappresentano il nostro
inevitabile destino.
31. I sostenitori delle posizioni culturaliste tendono, d’altro
canto, a presentare un modello
caricaturale delle culture, che essi considerano alla stregua di essenze,
di entità organiche (dei testi
organici) che devono essere incorporate negli individui. Essi ignorano il fatto
che la riproduzione culturale – in ultima analisi – avviene sempre all’interno
della mente individuale, entro quei processi assai precari che abbiamo
delineato nella prima parte di questo scritto. Fortunatamente, nessuna cultura
è in grado di riprodursi in maniera assolutamente perfetta (saremmo tutti
perfettamente uguali e seriali). L’incorporazione della cultura, per quanto
inevitabile, lascia sempre uno spazio all’autonomia individuale. Si tratta di
capire – questo è il punto – se questo spazio deve essere negato, cancellato,
oppure se deve essere valorizzato, deve essere riconosciuto e ampliato – certo,
a discapito dell’onnipotenza della cultura.[7] È difficile in effetti chiedere
a un sistema culturale di essere flessibile: dopo che, ad esempio, un libro
sacro è stato scritto e riconosciuto, ovvero riversato nella memoria esterna,
diventa un elemento “oggettivo”, permanente, e i suoi effetti si riversano a
loro volta per secoli e secoli su generazioni e generazioni. Lo stesso vale per
una lingua, o per un sistema giuridico. Gli individui invece sono potenzialmente assai più flessibili
delle loro culture, purché questa flessibilità[8] venga loro riconosciuta,
venga loro richiesta, venga incoraggiata e valorizzata.
32. Appare chiaro quindi che le politiche dell’identità, vuoi nella forma forte del culturalismo, vuoi nella forma debole della fine dell’identità, mancano completamente il loro obiettivo poiché ignorano o sottovalutano la vera natura dell’identità personale. Paradossalmente, fattori come l’incompletezza dell’animale uomo, la relativa frammentazione dell’io, il fatto che la mente sia una repubblica più che una monarchia (la “società della mente” è assai più di una semplice metafora[9]) assicurano che possa sempre instaurarsi una dialettica tra individuo e memoria esterna, nell’ambito della quale gli individui possano effettivamente prodursi come costrutti originali. Solo nell’ambito di una simile prospettiva l’identità può trovare un proprio autentico futuro. Se vogliamo valorizzare lo sviluppo delle identità personali individuali (questa sarebbe l’unica politica dell’identità veramente sensata) bisogna riconoscere che l’identità non è solo un’illusione, non è solo una delle tante maschere possibili che possiamo indossare. Per lo sviluppo individuale abbiamo bisogno di più identità, non di meno identità. Certo, non di identità più forti (cioè meno libere, più vincolate, rigide), bensì di identità più autonome, più indipendenti, più creative.
Pacchetti contro progetti
33. La possibilità di un vuoto
di senso non ha nulla di anormale, è connaturato all’essere umano, proprio
perché esso è destinato a costruirsi
incontrandosi con la memoria esterna, con la cultura. Dunque nell’essere umano
c’è effettivamente un bisogno d’identità
che preme per essere soddisfatto. Al vuoto di senso si può rispondere in forma
nichilista, prefigurando un bisogno d’identità destinato a restare
insoddisfatto, proclamando che l’identità è appunto vuota. Oppure si può
rispondere promettendo la soddisfazione del bisogno di identità mediante l’interiorizzazione
di pacchetti di significati già pronti e disponibili, preconfezionati, “chiavi
in mano”, capaci di fornire tutte le risposte e di fugare ogni dubbio. In
alternativa a entrambe queste risposte è però possibile una terza via, che
proceda proprio dalla strutturale “incompletezza” della condizione umana e
prospetti il compito della costruzione
del proprio personale, unico, originale pacchetto di significati, magari
attraverso prove ed errori, attraverso tentativi e ricerche, andando anche
incontro, talvolta, alla sconfitta e al fallimento.
34. Il bisogno di identità può così essere più propriamente
inteso come bisogno di sviluppo di un progetto
individuale. Gli studiosi della coscienza hanno sottolineato lo stretto legame
che sussiste tra il proprio linguaggio interno e la possibilità di progettare
il futuro. Grazie all’inner speech
siamo in grado di fare un quadro della nostra situazione, prendere coscienza
dei nostri bisogni, dei nostri desideri, costruire un modello del nostro
futuro, definire quali passi compiere per realizzarlo. Certo, nel progetto
possono trovare posto anche elementi legati ai contenuti della memoria esterna,
ma qualora questi fossero schematicamente e rigidamente interiorizzati
vanificherebbero qualunque progetto individuale e consegnerebbero il soggetto a
un progetto esterno, standardizzato,
lo porrebbero in una condizione di alienazione,
come si dice nella tradizione filosofica. Nell’ambito del nostro progetto
personale possiamo invece decidere con
relativa libertà quali elementi culturali accettare e quali rifiutare, come
fondere gli elementi che ci interessano, come creare qualcosa di completamente
nuovo.
35. Lo sviluppo dell’identità personale in senso progettuale
contribuisce così a correggere sia gli aspetti negativi delle culture (la loro
eccessiva rigidità), sia i limiti dell’individuo (la tendenza ad adeguarsi alla
memoria esterna, oppure la tendenza a concentrarsi vanamente sul proprio
interiore “vuoto” di significato). Una società d’individui intenti alla libera autocostruzione potrà conoscere
certamente anche dei conflitti, potrà determinare anche una situazione di
concorrenza, ma ciò avverrà tra individui e non tra appartenenze, istituzioni,
poteri e categorie astratte. Coloro che viaggiano, coloro che migrano, coloro
che cercano di conoscere altre lingue e altre culture hanno già messo in dubbio
la normalità quotidiana, sono già disposti a intraprendere un progetto di
cambiamento. Si tratta di aiutarli. Invece, paradossalmente, molti di costoro
trovano, dalle nostre parti, quelli che consigliano loro di non cambiare, di difendere la loro cultura (anche se spesso hanno ben poco da
difendere), di custodire gelosamente tutti i pezzi delle loro vecchie identità,
oppure di lanciarsi nella voragine del nulla. Un pessimo servizio.
Spazi di autonomia, traduzione e negoziazione
36. È vero che, quando gli individui si spostano e s’incontrano,
portano comunque inevitabilmente con sé, per quanto rielaborati, i depositi
interiorizzati delle loro rispettive culture, le loro memorie esterne. C’è però
grande differenza tra il confronto tra
culture e il confronto tra individui.
Il confronto tra le culture può avvenire a livello istituzionale, a livello dei
prodotti culturali, a livello del potere politico, dei rappresentanti che
ciascuna cultura esprime. Nel confronto tra le culture, gli individui contano solo come esemplari delle loro
rispettive culture e tutte le altre particolarità individuali vengono
minimizzate. Se le culture sono moderate, possono indubbiamente addivenire a un
modus vivendi, a qualche forma di
aggiustamento reciproco, ma se sono fortemente antagonistiche, è facile che
nasca il conflitto. Nel conflitto, ciascuna cultura tende a rappresentarsi
nella sua purezza, nella sua schematicità, fino a divenire una caricatura di se
stessa. In simili casi non s’intravede come possa avvenire una mediazione, se
non con la sconfitta di una cultura rispetto all’altra. In questo modo si
arriva dritti allo scontro di civiltà.
37. Se, invece, a incontrarsi sono gli individui, si può
sfruttare lo spazio di autonomia che
ciascun individuo ha (o dovrebbe avere, se è un individuo maturo, ben formato)
rispetto alla propria cultura. Intanto gli individui possono riconoscersi in
base ad una serie di elementi comuni a
tutti gli uomini (dall’espressione delle emozioni, alle paure, ai bisogni,
alla sofferenza, fino al bisogno spontaneo di ciascun individuo di costruire la
propria identità personale in forma originale). Di fronte alle diversità di
memorie esterne essi possono poi tentare di effettuare una traduzione. Nel caso di una difficoltà di traduzione (poiché è
probabile che non tutto sia facilmente traducibile) si possono mettere in atto
meccanismi di negoziazione – tra
individui – che possono essere realizzati proprio grazie allo spazio di
autonomia di cui ciascun individuo dispone. Anzi, non si tratta solo di una
semplice possibilità: la condizione di normalità consiste proprio nella
negoziazione tra individualità mature e spiccate.
38. Appare dunque chiaro che uno spazio di autonomia
individuale rispetto alle rispettive culture (così come esse ufficialmente si
rappresentano) è desiderabile e necessario. Non bisogna dimenticare tuttavia
che gli individui non sono uguali per quel che concerne l’ampiezza del loro
spazio interno di autonomia. Come abbiamo suggerito, essi possono avere forme diverse di identità e ciò è legato
alla rigidità maggiore o minore dell’inculturazione che ciascuno ha ricevuto,
alla profondità della rielaborazione personale che ciascuno ha realizzato. La
traduzione e la negoziazione risentono anche dei limiti linguistici, per cui
chi si trova a disporre di migliori e più ricche risorse linguistiche sarà più
facilitato; chi dispone invece di scarse risorse linguistiche sarà
inevitabilmente più sfavorito. Ci sono anche dei limiti legati alle situazioni
relazionali: lo spazio di autonomia individuale rispetto alla propria cultura
si accresce quanti più incontri si fanno con persone appartenenti ad altre
culture. Queste considerazioni ci fanno comprendere come il reciproco
isolamento renda difficile qualsiasi traduzione e negoziazione. La costruzione
di isole culturali, in nome della
salvaguardia delle tradizioni o della purezza, impedisce sistematicamente
qualunque forma di traduzione e negoziazione, impedisce la maturazione
personale e frustra le potenzialità individuali.
39. Il concetto di uno spazio di autonomia individuale nei
confronti della cultura non implica il rifiuto delle culture. La comprensione
di una cultura diversa dalla nostra non dipende dalla nostra capacità di
rifiutare la nostra cultura, ma dall’effettiva profondità e ricchezza
con la quale noi abbiamo davvero compreso la nostra. È l’adesione superficiale
a una cultura (la mera e brutale inculturazione) che ci rende incapaci di
metterci in un atteggiamento di traduzione e di negoziazione, cioè ci rende
incapaci del cambiamento.
Per
comprendere questo punto può essere utile ricorrere al concetto di inner complexity, sviluppato dallo
psicologo William Dember negli anni Sessanta. Gli individui differiscono per
complessità interna (ovvero, per noi: differiscono per gradi maggiori o minori
di autonomia e sviluppo della loro identità personale). Chi è meno complesso
proverà poco interesse e difficilmente capirà chi è più complesso. E viceversa.
Chi è meno complesso farà traduzioni così semplificate da tradire l’interlocutore. Certo, far sì che tutti gli individui
posseggano la inner complexity
necessaria affinché gli incontri avvengano al livello più approfondito
possibile è un obiettivo difficile da raggiungere. Ma non ci sono scorciatoie.
Talvolta si cerca di produrre, come tipica scorciatoia, la reciproca
comprensione sulla base dei buoni sentimenti. Ma la politica dei buoni
sentimenti è destinata a fare poca strada. Lo si capisce considerando il
funzionamento delle marche somatiche emotive, come prospettata da Damasio.
Ancora una volta appare evidente come, ai fini dell’esito dell’incontro, sia
importante non tanto la diversità delle rispettive culture, quanto una strutturazione matura dell’identità
personale di quelli che s’incontrano, la sola che può davvero rendere possibile
un’effettiva traduzione e negoziazione.
In conclusione
40. Com’è stato evidenziato, i risultati delle neuroscienze,
unitamente a quanto prodotto nell’ambito di altre discipline collaterali,
possono dare un contributo decisivo alla discussione critica intorno all’identità.
L’identità può così avviarsi a diventare un concetto che può essere definito
con cura, utilizzato con precisione e costantemente riformulato e aggiornato
con il progredire della ricerca. In tal modo si potrà progressivamente superare
l’attuale indubbia confusione terminologica, la compartimentazione disciplinare
e la proliferazione di speculazioni gratuite e lontane dai dati sperimentali.
Gli sviluppi futuri nei campi dell’identificazione e della localizzazione delle
funzioni cerebrali, nei campi dei modelli della mente e della coscienza, nel
campo della linguistica e nel campo dei rapporti tra linguaggio ed emozioni non
potranno che contribuire a precisare sempre meglio la nozione di identità
personale. Se a tutto questo aggiungeremo anche le relative ricadute nel campo
della psicologia della personalità e della psicologia sociale, avremo a
disposizione un quadro relativamente esaustivo, capace di connettere la
dimensione biologica con la dimensione sociale e culturale. In ogni caso, da
questo complesso di sviluppi, non potranno che uscir rafforzate sia la nozione
dell’unicità del costrutto identitario
personale, sia quella che abbiamo definito come prospettiva individualistica.
41. L’attuale odierna popolarità della tematica dell’identità
tuttavia non sembra tanto dovuta a lodevoli motivazioni di ordine scientifico,
quanto invece al fatto che svariate agenzie sono impegnate in una guerra senza
quartiere che ha per obiettivo proprio l’”occupazione” delle identità
individuali. Partendo dal discutibile assunto che le identità individuali siano
instabili, vuote, facilmente manipolabili, e che i modelli culturali siano delle
configurazioni organiche, è in corso il tentativo di suddividere l’umanità non
più secondo le vecchie linee di frattura, dotate di una qualche base obiettiva
(generi, generazioni, classi sociali), ma secondo linee di frattura
identitarie, etniche, religiose, nazionali, culturali. Questa tendenza – che
non è solo un’invenzione degli intellettuali – è stata ben esemplificata dalla
nozione, elaborata da Samuel Huntington, delle civiltà intese come prospettive irriducibili, destinate
inevitabilmente allo scontro.
42. È del tutto comprensibile che i contendenti che si
affrontano nella guerra per l’identità
preferiscano concepire le identità individuali come recipienti vuoti da riempire e non si curino di indagare cosa
davvero avvenga nel processo di costruzione dell’identità personale. Il
risultato, com’è stato mostrato, non può che essere la cancellazione di ogni
autonomia individuale in nome di ipotesi alquanto semplificate come la distruzione dell’io da un lato o dell’onnipotenza della cultura dall’altro.
Abbiamo anche cercato di chiarire quali siano le radici teoriche di queste
tendenze: nel nostro paese (e non solo) tutto quanto è connesso all’autonomia
individuale è tacciato di occidentalismo, quando non di positivismo e di
illuminismo (termini denotativi che sono sempre più spesso usati come insulti).
43. Se gli individui altro non fossero che appendici di una
sovrastruttura culturale che li modella, dovremmo indubbiamente dare ragione a
Huntington. Per fortuna non è così. Gli esseri umani hanno un corpo, un
cervello, una mente che – per quanto culturalmente marcati – funzionano secondo
meccanismi molto simili. L’identità individuale non è solo un vaso vuoto da
riempire, ma una struttura complessa – per quanto precaria e virtuale – che ciascuno
provvede in certa misura a costruire, una struttura che corrisponde al bisogno
evolutivo di regolare vantaggiosamente i rapporti con l’ambiente naturale e
sociale. L’identità personale è un costrutto
unico, originale, e ciascun individuo ha non solo la possibilità, ma anche
il diritto di realizzarlo. In un mondo
in continua trasformazione, la solidarietà meccanica è destinata a tramontare
per sempre e con essa tutte le ipotesi che non tengono in conto l’individualità.
I multiculturalisti, nostalgici dell’omogeneità
culturale, sono obiettivamente destinati a condurre una battaglia di
retroguardia, mentre i nichilisti sono fermi alla loro propaganda luddistica. L’unico
futuro possibile per l’identità sta nel prendere
sul serio l’autonomia individuale, dando agli individui lo spazio per
costruirsi, in un regime di relativa libertà, attingendo a tutte le fonti della
cultura, andando oltre i confini culturali storicamente costituiti, diffondendo
l’istruzione e la conoscenza scientifica, combattendo i progetti identitari
perversi (e i loro rispettivi modelli culturali), ridimensionando le agenzie
monopolistiche che, con la promessa della liberazione, finiscono per usare gli
individui per i loro scopi.
44. Si tratta, in altri termini, di puntare su quella tradizione, oggi bistrattata, che conosciamo bene ma che non abbiamo mai preso davvero sul serio, la tradizione della valorizzazione dell’individualità, una tradizione che non ha nulla di particolarmente occidentale, che non è necessariamente legata allo sfruttamento economico, ma è piuttosto la condizione fondamentale dello sviluppo, del dialogo e dell’emancipazione. Non abbiamo bisogno di meno identità, abbiamo bisogno di più identità, ma di identità fatte bene.
Giuseppe
Rinaldi (Rev. 3.2 del 15/09/2025)
Scarica l'intero documento: Identità e definizioni 3.2
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1992 Tullio - Altan, Carlo, Soggetto,
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NOTE
[1] Una
prima versione di questo saggio è stata pubblicata in M. Cellerino (a cura di),
Usi e abusi delle identità, Guerini e
Associati, Milano, 2007. La presente versione, rivista nel settembre 2025, pur
essendo sostanzialmente analoga alla precedente, contiene diverse correzioni e
modifiche rispetto all’originale.
[2] Damasio
chiama immagini i prodotti elaborati
da tutti i moduli sensoriali e non solo quelli elaborati nell’ambito della
visione.
[3] Per
questo motivo i supporti di memorizzazione del linguaggio (in particolare la
scrittura e la stampa) sono così importanti nello sviluppo ontogenetico e in
quello filogenetico.
[4]
Naturalmente gli stili sarebbero diversi da individuo a individuo. Ma le
specifiche culture di appartenenza potrebbero favorire determinati stili
piuttosto che altri, frutto delle relazioni sociali, delle credenze,
dell’educazione, dell’apparato concettuale e linguistico disponibile.
[5] Spesso è
stato giustamente osservato che quanto viene considerato patologico sia semplicemente diverso.
In effetti la patologizzazione del
diverso ha giocato un ruolo importante nei rapporti di potere tra gli
individui, le generazioni, i sessi, le classi, le etnie, ecc. Non altrettanta
attenzione è stata posta al fenomeno opposto che – con un neologismo – potremmo
chiamare l’alterizzazione del patologico.
Le manifestazioni d’immaturità, le carenze, le deficienze di qualsiasi tipo
vengono considerate e giustificate come una scelta, come un’adesione cosciente
a una qualche specifica cultura.
[6] Questa
distinzione è stata classicamente tracciata da Durkheim: la solidarietà
meccanica è quella tipica delle tribù primitive, dove gli individui sono “tutti
uguali” perché rigidamente inculturati, la solidarietà organica è quella tipica
delle moderne società differenziate che valorizzano l’individualità.
[7]
L’onnipotenza della cultura (a discapito dell’individuo) ricorda tanto
l’onnipotenza dello Spirito universale, a discapito del singolo individuo nella
cultura romantica: i romantici sono stati i primi tra i contemporanei a
celebrare lo smarrimento individuale e a consegnare la storia e la società
nelle mani di forze sovra individuali.
[8] Non mi
riferisco alla flessibilità oggi di moda che consiste nello zapping, nel saltare da un contenuto
all’altro, quanto alla capacità di costruire autonomamente la propria identità
personale.
[9] Si
vedano Dennett, Minsky, Gazzaniga.
.