lunedì 30 giugno 2025

Kant e la filosofia trascendentale

1. Ci proponiamo in questo saggio di chiarire il senso originario della nozione di trascendentale in Kant, per come Kant stesso l’ha definita. Per questo abbiamo ritenuto di esaminare dettagliatamente la Introduzione alla CRP del 1787, siglata tradizionalmente come versione B. La precedente introduzione del 1781, la versione A, che era un po’ più breve, era divisa in due sezioni che erano titolate in maniera davvero significativa: I. Idea della filosofia trascendentale e II. Suddivisione della filosofia trascendentale. Evidentemente, per Kant, proprio nell’Introduzione doveva essere esposto il nucleo essenziale della sua nozione di trascendentale. Nei titoli dell’edizione del 1787 il termine “trascendentale” non compare più, tuttavia il contenuto della nuova Introduzione non è radicalmente diverso (sebbene ci siano differenze e molte aggiunte). Per qualche ragione, Kant ha scelto di trattare dunque del suo argomento, la filosofia trascendentale, solo nel testo, prescindendo dalle titolazioni e ripartizioni. Alla fine della Introduzione, in entrambe le versioni A e B, Kant fornisce esplicitamente definizione di “trascendentale” che ha in mente.

2. La Introduzione alla CRP del 1787 è composta di sette sezioni numerate, ognuna delle quali possiede un titolo recante una breve sintesi del suo contenuto. La prima sezione si occupa della distinzione tra la conoscenza empirica e la conoscenza pura. Kant ammette subito che la conoscenza comincia sempre con l’esperienza ma insinua anche che non tutte le conoscenze debbano forzatamente sorgere dall’esperienza: «Potrebbe infatti avvenire che la nostra stessa conoscenza empirica sia un composto di ciò che riceviamo mediante le impressioni e di ciò che la nostra facoltà conoscitiva vi aggiunge da sé sola (semplicemente stimolata dalle impressioni sensibili); aggiunta, questa, che non distinguiamo da quella materia primitiva, fintanto che un lungo esercizio non ce ne abbia resi consapevoli, ponendoci in grado di separare i due fattori».[1]

Più chiaro di così. L’ipotesi che viene sostenuta, proprio in apertura, è che la nostra facoltà conoscitiva possieda in sé delle conoscenze non empiriche[2] che essa aggiunge all’esperienza. Kant parla chiaramente di una “aggiunta” di qualcosa da parte della facoltà conoscitiva e dunque di un “composto” come risultato. L’esperienza che noi abbiamo deve dunque esser intesa come un composto di elementi proveniente da fonti diverse. Si tratta inoltre di un’aggiunta della quale non ci rendiamo conto, che non distinguiamo, fintanto che un lungo esercizio non ce ne abbia resi consapevoli, ponendoci in grado di separare i due fattori. L’apporto fornito dalla nostra facoltà conoscitiva al composto non è dunque consapevole (tanto da far presumere che possa avvenire inconsciamente). Tommaso d’Aquino esprimeva esattamente la stessa opinione quando osservava che, a causa della abitudine, non ci accorgiamo dell’ens. Ovviamente, anche Tommaso era proprio sicuro che l’ens ci fosse.[3] C’è un che di iniziatico in queste parole che sarebbe errato sottovalutare. L’esigenza di un “lungo esercizio” per accorgersi di cose di cui nessuno si accorge fa poi venire in mente Husserl e la sua epoché. Oppure la lunga formazione speciale che deve avere l’analista secondo Freud. Qui stanno evidentemente le radici delle filosofie del sospetto.

Kant dunque pone il problema – invero onestamente, anche se la risposta è del tutto prevedibile – se esistano effettivamente siffatte conoscenze a priori. Definendole ulteriormente come conoscenze assolutamente indipendenti da ogni esperienza. Queste conoscenze sono anche definite come pure, tradendo un certo giudizio negativo per quanto è impuro, cioè il lato materiale dell’esperienza. Un altro termine usato da Kant è incondizionato. Risulta chiaro fin dall’inizio, anche se non lo dice esplicitamente, che sono proprio queste le conoscenze che egli definisce come trascendentali e che la filosofia trascendentale è vista da Kant proprio come quell’esercizio analitico, “spirituale”, che ci dovrebbe mettere in grado di separare i due tipi di conoscenza. Procedimento che poi è sempre del tutto analogo alla reductio di Tommaso.

3. Nella seconda sezione Kant abbandona ogni cautela e afferma con decisione che noi siamo senz’altro in possesso di conoscenze a priori, o pure, che entrano nel composto finale della nostra esperienza. Si tratta allora di avere una traccia evidente che ci consenta di individuarle. Che ci consenta di separare il puro dall’impuro. Per Kant (e per noi lettori) è davvero fondamentale il criterio che egli decide di usare per individuare e distinguere quanto vi sia di a priori entro la nostra esperienza. Secondo Kant, i segni sicuri, gli indizi caratteristici di una conoscenza a priori, sono la necessità e la rigorosa universalità. L’affermazione è decisamente apodittica e Kant non spende una parola in più per dimostrare l’assunto. Questo modo categorico di porre la questione è piuttosto imbarazzante, poiché nel dibattito filosofico del tempo era stato evidenziato proprio il fatto che la necessità e l’universalità delle conoscenze umane costituivano un problema. Si trattava del problema per eccellenza di cui stavano discutendo i filosofi più importanti dell’epoca. Dietro, stava il problema ben noto della fondazione, problema dibattutissimo ai tempi di Kant, ma che aveva attraversato tutta la filosofia occidentale.

4. La soluzione “trascendentale” di Kant è dunque già tutta lì: la fondazione dell’esperienza sta in qualcosa di universale e necessario che noi stessi aggiungiamo all’esperienza, per lo più senza accorgercene neanche. Insomma, la necessità e l’universalità stanno in noi. Siamo dunque noi che rendiamo universale e necessaria la nostra stessa esperienza che, altrimenti, non avrebbe alcuna fondazione certa. L’obiettivo di Kant è chiaro fin dall’inizio: fondare la conoscenza in termini universali e necessari. Questo fa parte del suo progetto, di più ampio respiro, di costruire la metafisica come scienza. Chiaramente qui Kant fa a meno di ricorrere a un principio divino, oppure a un intelletto agente, come altri avevano fatto. La conoscenza umana doveva fondarsi su principi universali e necessari collocati nella mente umana.[4] Siamo effettivamente in presenza di una laicizzazione: la mente umana si trova ora ad assolvere a importanti funzioni metafisiche fondazionali che prima erano state riservate a Dio o a qualche suo delegato.

5. Possiamo facilmente intravvedere, dietro alla questione della fondazione della conoscenza posta da Kant, il problema annoso della metafisica di individuare un principio primo, o una serie di principi primi. Un principio perfettamente auto evidente. Un principio che non richieda ulteriore dimostrazione. Non si può non sentire qui l’eco della questione della universalità come l’avevano affrontata gli antichi, ad esempio con i generi sommi, oppure come l’avevano affrontata i medievali attraverso la questione dell’essere necessario. O proprio attraverso il dibattito plurisecolare sui trascendentali.[5]

Kant apparentemente finge di venderci una questione epistemologica e evita di specificare come la sua assunzione circa l’universalità e la necessità delle conoscenze a priori che possediamo e riversiamo nella esperienza sia precisamente una assunzione di carattere metafisico. E sostiene: «Orbene, è facile dimostrare che nella conoscenza umana si dànno effettivamente simili giudizi, necessari e universali nel senso più rigoroso, e quindi puri a priori».[6] Da notare la disinvoltura con cui Kant usa in modo intercambiabile termini come conoscenza, esperienza e giudizio. Ne riparleremo.

6. Vediamole, allora, queste facili dimostrazioni. Le prove portate da Kant sono costituite da “tutte le proposizioni della matematica”, le quali appaiono al senso comune dotate di universalità e necessità. Oppure anche le proposizioni che derivano dalla fisica, come “ogni mutamento deve avere una causa”. Naturalmente, simili argomentazioni potevano apparire assai robuste ai lettori di Kant. Oggi lo sono molto meno.[7] Oppure ancora, Kant sostiene, ahimè, come prova, che queste conoscenze universali e necessarie sono indispensabili per la possibilità dell’esperienza stessa: «Donde mai, infatti, l’esperienza trarrebbe la sua certezza se le regole secondo cui essa procede fossero in ogni caso empiriche, quindi contingenti? Come potrebbero, in questo caso, fungere da princìpi?».[8] Kant qui assume ciò che invece dovrebbe dimostrare e cioè la certezza dell’esperienza. Pur confermando che qui Kant è alla ricerca di principi, l’argomentazione, come ognun vede, è perfettamente circolare. Il mondo empirico è contingente, dunque non può generare nulla che sia universale e necessario. Se abbiamo esperienze che sono (indubitabilmente) universali e necessarie, allora l’universalità e necessità deve provenire da fuori. Gli onesti scolastici medievali erano consapevoli e ponevano esplicitamente la necessità del primo principio, del primo conosciuto, cioè l’ens. E di tutte le sue proprietà trascendentali o fondative.

Tra le “facili” dimostrazioni, Kant propone anche due esperimenti mentali alla Husserl: se dall’esperienza di un corpo si tolgono tutte le proprietà, resterà tuttavia lo spazio; se a un oggetto empirico si tolgono tutte le proprietà esperite resterà pur sempre la nozione della sostanza.[9] Forse simili argomentazioni (che abbondano nella CRP) potevano persuadere i lettori o gli ascoltatori di Kant. Sono comunque tutte argomentazioni ingenue, dubbie o anche del tutto sbagliate.

7. A questo punto, nel terzo paragrafo, data ormai per provata la realtà delle nostre conoscenze a priori universali e necessarie, Kant ipotizza che la filosofia abbia bisogno di una scienza “che determini la possibilità, i principi e l’ambito di tutte le conoscenze a priori”. E questo sarà effettivamente il compito della CRP. Kant continua a suggerire implicitamente (parla di conoscenze) che si tratta di una questione epistemologica. In realtà ha continuato, fin dall’inizio, a giocare sulla ambiguità dei due termini conoscenza e esperienza.[10] Il suo discorso scivola continuamente dalla questione della conoscenza alla questione ontologica o metafisica. Dunque, conclude Kant, la filosofia ha bisogno di una scienza dei trascendentali. Questa nuova scienza, come ognun vede, è perfettamente analoga alla metafisica di Avicenna, a quella di Tommaso, o a quella di Duns Scotus. Si tratta di fondare metafisicamente la possibilità stessa della conoscenza dell’ens e di tutto quel che consegue.

Tuttavia Kant qui avanza un’ulteriore motivazione che senz’altro è di notevole rilievo: una scienza delle conoscenze a priori sarebbe utilissima per saggiare le pretese di conoscenza di discipline che sogliono abbandonare il terreno dell’esperienza. Kant propone qui due esempi. L’esempio in positivo è quello della matematica, la quale può vantare ovunque il suo successo. L’esempio problematico è invece quello della metafisica, che invece faceva continuamente registrare ampi disaccordi e insuccessi. Di qui deriverà il vero e proprio carattere di svolta storica della CRP e cioè il fatto di avere determinato, in termini critici, i limiti delle metafisiche speciali che riguardavano l’Anima, il Mondo e Dio. Insomma, l’apporto storico fondamentale della CRP non sta nella Analitica bensì nella Dialettica trascendentale. Non sarà poco, anche se Kant, proprio su questo punto, sarà perfettamente inascoltato dai suoi successori.

8. Nel quarto paragrafo Kant tratta della distinzione tra giudizi analitici e sintetici. Si tratta qui, nell’intento espositivo di Kant, di produrre una trattazione più formale a proposito della distinzione, già data per scontata, tra puro e empirico e della possibile realizzazione del composto tra i due elementi. Tratta dunque della sintesi a priori. Sono tutti argomenti troppo noti per doverli qui riprendere. Segnalo che gli interpreti di Kant hanno spesso convenuto sulla validità della distinzione tra analitico e sintetico proposta e utilizzata dallo stesso Kant. Recentemente, tuttavia, la validità della distinzione è stata messa in dubbio da W.V.O. Quine, in un suo celebre articolo.[11] Se accogliamo la dimostrazione di Quine, tutto l’impianto della CRP viene invalidato.

9. Nel quinto paragrafo Kant sostiene che “In tutte le scienze teoretiche della ragione sono contenuti, come principi, giudizi sintetici a priori”. Cioè, come si è visto, giudizi che possiedono una componente di conoscenza universale e necessaria a priori o pura. Secondo Kant, i giudizi matematici sono tutti quanti sintetici (e qui spiega diffusamente la sua concezione della matematica). In secondo luogo, afferma che anche “La scienza naturale contiene in sé, come principi, giudizi sintetici a priori”. Anche nella metafisica, almeno secondo quanto intendono i metafisici, devono essere contenute conoscenze sintetiche a priori. Quest’ultima possibilità sarà poi confutata nella Dialettica trascendentale. Matematica, fisica e metafisica dipenderebbero dunque dagli a priori della Ragione.

10. Ci possiamo domandare perché Kant, in questa rassegna, non abbia fatto menzione della logica classica, disciplina che pure conosceva bene, visto che la insegnava. Per Kant la logica classica aveva in sé un elemento di debolezza. Non aveva alcuna autentica fondazione metafisica o trascendentale. Come è noto, la fondazione tradizionale della logica si basava sul principio di non contraddizione (che in Aristotele aveva anche un valore ontologico). Tuttavia, come anche Aristotele sapeva benissimo, il principio era indimostrabile. Doveva essere assunto e basta. Ne derivava che tutti i giudizi logici classici si fondavano su qualcosa che era, in ultimo, indimostrabile. Nel linguaggio di Kant, la logica classica non era ahimè universale e necessaria, era puramente analitica. Dunque, la logica classica, come insieme delle leggi del pensiero, non poteva costituire alcunché, in senso kantiano. La logica classica era semplicemente deduttiva e non trascendentale!

Per questo Kant compie una temeraria innovazione: pone una nuova logica fondata sulla universalità e necessità delle conoscenze a priori. Le quali apparivano a Kant ben più fondate di quelle della logica aristotelica. La logica trascendentale si occuperà così delle conoscenze pure, universali e necessarie, relative alla sensibilità, all’Intelletto e poi anche delle Idee della ragione. Dentro alla esperienza, mescolate con essa, ci sono le conoscenze pure: due intuizioni pure, 12 categorie e l’appercezione. Dunque, nella conoscenza restituita dall’Intelletto – che poi è l’esperienza fenomenica pensata – ci stanno elementi “logici” universali e necessari. Questo significa che l’intelletto è fuso con il mondo, con l’esperienza. L’intelletto costituisce l’intelaiatura logica del mondo. Si tratta dunque – nell’intendimento kantiano – di una logica più profonda di quella aristotelica, capace di regolare non solo il discorso ma di regolare il Mondo dell’esperienza.

11. In Kant si delineano dunque ben due logiche di carattere diverso. Una logica (quella che sarà detta trascendentale) si occupa della costituzione stessa della realtà in modo che questa possa essere conosciuta da noi. Come poi, ad esempio, avverrà massicciamente in Hegel. Questa logica, come ognun comprende, è di fatto una vera e propria ontologia. L’altra logica (quella classica) è una mera tecnica di derivazione dei giudizi. Così la logica tradizionale perde definitivamente il suo carattere fondativo, ontologico, poiché questo è già assolto dalle forme pure universali e necessarie. E diventa semplicemente l’ordine del ragionamento. Solo con George Boole (1815-1864) la logica sarà poi connessa con la matematica.

Questa pretesa kantiana, di una nuova logica che costituisce l’impalcatura della realtà, sta alla base del plurisecolare conflitto sviluppatosi, nella filosofia continentale, tra la cosiddetta logica dialettica e la logica classica. Saranno gli hegeliani e poi ancora i marxisti (e i francofortesi) a sviluppare il filone della logica dialettica e a contrapporlo alla logica classica, considerata una logica di tipo inferiore, legata a un meccanicismo strumentale e scientista. Ancora un pur grande filosofo italiano come Galvano della Volpe poteva sognare che la dialettica hegelo marxiana potesse divenire la “logica delle scienze sociali”.

12. Nel sesto paragrafo, Kant si occupa del problema generale della ragion pura. E cioè di come siano possibili i giudizi sintetici a priori. Segue la discussione di una serie di altri problemi ivi impliciti, che qui, per i nostri scopi, possiamo tralasciare. Finalmente abbiamo il settimo paragrafo, quello conclusivo, dove compare esplicitamente, nel corpo testuale, anche il termine “trascendentale”. Il titolo tuttavia è Idea e partizione di una scienza speciale, denominata Critica della ragion pura. Così Kant ne spiega l’esigenza: «Infatti la ragione è la facoltà che ci dà i princìpi della conoscenza a priori. Ragion pura è quindi quella che contiene i princìpi per conoscere qualcosa prettamente a priori. Un organo della ragion pura sarebbe un insieme di quei princìpi in base ai quali tutte le conoscenze pure a priori possono essere acquisite ed effettivamente poste in atto. L’applicazione totale d’un tale organo costituirebbe un sistema della ragion pura. Ma poiché questo sistema, pur essendo assai richiesto, lascia ancora aperta la questione se anche qui, ed in quali casi, una estensione in generale della nostra conoscenza sia possibile, possiamo allora considerare una scienza della semplice valutazione della ragion pura, delle sue sorgenti e dei suoi limiti, come la propedeutica al sistema della ragion pura. Una scienza siffatta non dovrebbe chiamarsi dottrina, ma soltanto critica della ragion pura; e, rispetto alla speculazione, la sua utilità sarebbe in realtà solo negativa, poiché servirebbe, anziché all’allargamento, alla semplice purificazione della nostra ragione, liberandola dagli errori; il che è di già un grandissimo guadagno».[12]

Quando parla di “organo” Kant ha ovviamente in mente l’organon aristotelico. E ha senz’altro in mente che la sua filosofia trascendentale si appresterebbe a costituire un nuovo organo, destinato a soppiantare l’organo aristotelico. C’è qui un accostamento repentino delle conoscenze a priori, che noi mescoliamo ad altro per generare la nostra esperienza, a un concetto come quello di Ragione.[13] Si noti la definizione di Ragion pura che qui è implicita: essa ci fornisce i principi della conoscenza a priori, dunque la ragione entra nella costituzione stessa della nostra esperienza, nella costituzione di ciò che Kant chiamerà fenomeno. Il fenomeno è fatto di Ragione mescolata ad altro. La Ragione produttrice e depositaria di a priori non è più la semplice ragione discorsiva che calcola le argomentazioni, è bensì una entità che entra direttamente nella costituzione del Mondo esperito. Una specie di Dio minore creatore che sta – non si sa come – nella testa dell’uomo. Un intelletto agente di arcaica memoria. La ragione con le sue conoscenze a priori costituisce effettivamente la intelaiatura di tutto quel che c’è di esperibile. Si apre la porta qui alla prospettiva hegeliana per cui la Ragione costituisce la realtà stessa (= idealismo). Il mondo è razionale perché fatto di ragione. Volendo si può risalire indietro fino ad Avicenna (980-1037).

13. A questo punto (siamo giunti ormai a metà del par. VII, l’ultimo) Kant spiega esplicitamente cosa intenda con la nozione di trascendentale. «Chiamo trascendentale ogni conoscenza che si occupi, in generale, non tanto di oggetti quanto del nostro modo di conoscere gli oggetti nella misura in cui questo deve essere possibile a priori. Un sistema di tali concetti potrebbe esser detto filosofia trascendentale».[14] La filosofia trascendentale, nell’intento di Kant, si occupa dunque dei principi a priori che rendono possibile la costituzione della realtà e, dunque, anche la sua conoscenza. La realtà fenomenica per Kant è costituita in quanto vien conosciuta. Ma la costituzione deve precedere la conoscenza. La filosofia trascendentale si occupa in altri termini esattamente di ciò che i medievali chiamavano transcendentalia. Solo “nella misura in cui” questi sussistano effettivamente. Ma Kant ha già mostrato che sussistono. Senza i principi a priori della Ragione, niente filosofia trascendentale. Ma anche niente esperienza. Niente realtà fenomenica. La filosofia trascendentale è dunque strettamente legata alla sintesi a priori. Infatti la domanda fondamentale cui tenterà di rispondere la CRP è proprio come questa sia possibile. Per i medievali, i transcendentalia erano le proprietà profonde della creazione divina, i principi primi che costituivano l’ens creato e lo rendevano intelligibile. La filosofia trascendentale medievale era l’erede della filosofia prima, la scienza dell’ente in quanto ente. Ora, in Kant, la filosofia trascendentale è la scienza dei principi primi a priori grazie ai quali la Ragione costituisce il mondo.

14. Nel proseguimento della CRP Kant userà spesso il termine trascendentale (anche se con sfumature di significato talvolta piuttosto diverse)[15] senza più fornire alcuna ulteriore spiegazione, presupponendo evidentemente che al suo lettore sia bastata la definizione fornita nella introduzione. Tuttavia a un certo punto ritornerà esplicitamente sulla questione. Nella Logica trascendentale, dopo avere presentato la tavola delle sue nuove categorie, ricavate anche ma non solo dalle categorie aristoteliche, quasi come per prevenire l’obiezione di avere trascurato qualcosa, Kant afferma quanto segue: «Nella filosofia trascendentale degli antichi si trova però ancora un capitolo comprendente concetti puri dell’intelletto, i quali, pur non rientrando nell’elenco delle categorie, dovevano tuttavia valere come concetti a priori degli oggetti; ma in effetti essi accrescerebbero in tal modo il numero delle categorie, il che non è possibile».[16]

Si noti che qui Kant chiama concetti puri dell’intelletto proprio i trascendentali medievali. Cioè concetti che non sono ricavati dalla esperienza ma che sussistono di per sé dentro l’Intelletto. Avrebbe anche potuto dire a priori. Più chiaro di così! Pur essendo il loro elenco variato assai nel corso della storia filosofica, Kant, proseguendo, si limita a citarne solo tre: «Essi sono racchiusi nella proposizione tanto celebre presso gli scolastici: quodlibet ens est Unum, Verum, Bonum. Benché l’uso di questo principio, a giudicare dalle conseguenze (che altro non produssero se non proposizioni manifestamente tautologiche), abbia avuto un risultato miserevole al punto che ai nostri tempi la metafisica suole farne menzione quasi solo per deferenza – tuttavia un pensiero che ha resistito così a lungo, per vuoto che sembri, è pur sempre degno di un’indagine circa la sua origine e rende lecita la supposizione che trovi il suo fondamento in qualche regola dell’intelletto, sottoposta, come spesso accade, a una falsa interpretazione».[17] Insomma, Kant s’interroga circa la persistenza della tematica dei trascendentali nel corso della storia della metafisica occidentale e sospetta che, dietro a questa persistenza, possa esserci eventualmente qualcosa. La tavola, peraltro assai mutevole, dei vecchi trascendentali non collimava senz’altro con la sua, appena presentata.

15. Kant così svela esplicitamente al lettore quale sia l’arcano che sta dietro alla terminologia dei trascendentali, sostenendo che i veri trascendentali sono i suoi, quelli che ha appena finito di elencare e che i trascendentali degli antichi erano dovuti a una prospettiva errata. La prospettiva errata consisteva nel fatto che i trascendentali erano stati considerati anche come proprietà delle cose e non soltanto della mente. Spiega così che: «Questi presunti predicati trascendentali delle cose altro non sono che esigenze e criteri logici di ogni conoscenza delle cose in generale, a fondamento della quale essi pongono le categorie della quantità che sono: unità, pluralità e totalità. Ma queste categorie, che avrebbero dovuto esser prese effettivamente in senso materiale, come proprie della possibilità delle cose stesse, gli antichi le assunsero in effetti soltanto nel significato formale, come proprie dell’esigenza logica relativa ad ogni conoscenza, tuttavia considerando incautamente questi criteri del pensiero come proprietà delle cose stesse».[18]

La argomentazione kantiana è decisamente un poco contorta. Ho messo in nota anche la traduzione di Esposito. Comunque il senso è abbastanza chiaro. L’errore degli antichi sarebbe consistito nel negare il carattere esclusivamente mentale/ formale dei trascendentali e soprattutto nel negare il loro carattere costitutivo dell’esperienza. Secondo Kant i tre principali trascendentali degli antichi sarebbero riconducibili alle sue nuove categorie della quantità, che invece hanno carattere mentale e costitutivo. Gli antichi invece considerarono i trascendentali sia come entità logiche (pertinenti l’intelletto) sia come entità ontologiche (pertinenti tutte le cose). Questo poiché essi condividevano (stupidamente, dal punto di vista di Kant) una teoria della verità come corrispondenza. Per Kant, dopo la sua “rivoluzione copernicana”, la teoria della verità come corrispondenza vale solo dentro il fenomeno. La verità non può che rispecchiare circolarmente ciò che la mente ha già a priori dentro di sé e che ha appena messo nel fenomeno.

16. Insomma, per Kant l’erronea dottrina medievale dei trascendentali sarebbe derivata dal fatto che i medievali non conoscevano ancora la filosofia di Kant, e quindi finirono per collocare oggettivasmente nelle cose quelli che invece per Kant sono soltanto dei criteri della conoscenza, degli a priori della Ragione. In effetti, nel seguito del testo citato, Kant ritiene di mostrare come i tre trascendentali che ha riportato possano essere facilmente ricondotti alle categorie della quantità, nella nuova tavola delle categorie che egli ha appena presentato.

Kant può permettersi di far questo perché – dopo la sua “rivoluzione copernicana” – non ha più bisogno di un qualche diverso fondamento dell’ens. Il fondamento c’è già. Le categorie kantiane hanno già preso il posto dell’ens (e dei suoi modi) e ora, dalla loro collocazione come a priori, possono svolgere la vecchia funzione fondazionale dei trascendentali medievali (motivo per cui il loro nome è rimasto ed è stato addirittura valorizzato). La preoccupazione di Kant, che aveva appena finito di ricavare i concetti puri dell’intelletto dalla tavola dei giudizi della logica tradizionale, era quella di rassicurare che il suo elenco fosse completo e che non fosse il caso di aggiungere, come ulteriori concetti puri, qualcuno dei trascendentali medievali.

17. Considerando il rapporto tra i trascendentali kantiani e quelli medievali possiamo accorgerci – oltre a una loro sostanziale analogia – di un fatto abbastanza sorprendente ma non troppo: quello che Kant presenta al suo lettore è esattamente uno scivolamento delle categorie tradizionali dentro i transcendentalia. Kant provvederà cioè a mescolare nelle sue forme a priori entità che nella filosofia scolastica precedente erano state accuratamente tenute distinte. Nella fig. 1, in appendice, abbiamo realizzato una rappresentazione grafica della situazione. I trascendentali medievali erano transcategoriali (situati cioè al di là delle categorie) e svolgevano un compito opposto a quello delle categorie. Mentre le categorie presiedevano alla distinzione, servivano cioè per descrivere la varietà del mondo sensibile, i trascendentali identificavano invece i caratteri comuni dell’ens, erano perciò il presupposto di qualsiasi conoscenza (ed erano a-priori, posti dentro a tutte le cose!). Visto con gli occhi del medioevo e della Scolastica, il procedimento kantiano doveva apparire estremamente familiare, seppure alquanto velleitario. Dietro al problema della sintesi a priori gli scolastici non potevano non scorgere ancora il vecchio problema della metafisica: di connettere le conoscenze provenienti dal mondo sensibile, attraverso i sensi, con una serie di conoscenze a priori (considerate cioè come non derivanti dalla esperienza, i trascendentali, appunto). Il problema era sempre quello di cui già si trattava nel De anima aristotelico: come l’intelletto potesse cogliere la forma intelligibile presente nelle cose.[19] Il problema era passato, nel neoplatonismo e poi in Avicenna. E poi via di seguito, fino a Suarez e poi ai metafisici del Seicento e del Settecento.

18. Il progetto kantiano doveva apparire velleitario perché se c’era qualcosa che era sempre rimasto fermo nella lunga storia dei transcendentalia era la distinzione rigorosa tra i trascendentali da una parte e le categorie aristoteliche dall’altra. I trascendentali, anche nel nome, non erano categorie, non potevano essere categorie, proprio perché, per svolgere il loro compito, andavano necessariamente oltre le categorie! I trascendentali avevano il compito fondazionale, svolgevano un ruolo fondativo della filosofia prima, della metafisica elementare (metaphysica generalis). Dal punto di vista degli scolastici, si trattava dunque di mettere i transcendentalia della metphysica generalis (quale che fosse effettivamente il loro elenco) a fondamento primo a priori dell’uso delle categorie aristoteliche, le quali tuttavia mantennero sempre la loro autonomia, non furono mai contestate perché presiedevano ad assicurare la conoscenza umana del mondo e rispecchiavano l’ordine del mondo sensibile. Per Aristotele poi, nessuna sostanza poteva essere conosciuta a priori.[20] Per lui la sostanza prima era il sinolo! La ricerca dei principi a priori era stata introdotta in seguito alla platonizzazione di Aristotele e al suo adattamento al pensiero cristiano. Kant, come s’è visto, ha cercato di fare sostanzialmente la stessa cosa degli scolastici. Con un piccolo grande problema. Vogliamo chiamalo errore? O vogliamo chiamarlo fallacia, come fa Maurizio Ferraris?[21]

19. La fallacia fondamentale sta in questo: Kant nella CRP – nella Estetica trascendentale e nella Analitica trascendentale – ha messo anche le categorie (alcune tra quelle più importanti) dentro i transcendentalia. Così lo spazio e il tempo (ma anche la qualità, la quantità, la sostanza, e altro ancora, come la causalità che – si noti bene – per Aristotele non era affatto una categoria), che erano le forme volte alla conoscenza del mondo sensibile e non alla metafisica, diventano ora conoscenze a priori universali e necessarie. Un pasticcio davvero ragguardevole. Ciò significherà considerare le proprietà fondamentali delle cose del mondo come degli a priori metafisici residenti nell’Intelletto. Il risultato sarà, com’è noto, la mentalizzazione del Mondo. Il mondo così diventerà compiutamente mind dependent. Questa scelta, come è noto, darà vita alla prospettiva dell’idealismo trascendentale. E a tutte le successive filosofie “trascendentali” dell’Ottocento e del Novecento.

20. È facile oggi comprendere, per noi, come, da questa fallacia trascendentale, siano derivati i tratti fondamentali della filosofia continentale, nei due secoli successivi e più. Dopo Kant, i filosofi continentali (tranne pochi) non dubiteranno più che ci siano degli a priori. E, soprattutto, non faranno altro che continuare a domandarsi, seppure in modalità assai diverse, quali siano i veri a priori (sulla base di ciò che, di volta in volta, sarà ritenuto, più o meno arbitrariamente, come universale e necessario o, se si vuole, fondativo). Quali siano cioè, ancora, i veri transcendentalia che costituiscono il mondo. In proposito, dopo avere violato, grazie a Kant, i confini tra metafisica fondazionale e fisica del mondo naturale, poteva venir fuori qualsiasi cosa. L’elenco di supposti trascendentali che sono stati mescolati col mondo entro improbabili sintesi a priori è davvero lungo, e ancora in continua crescita. Ne riporto qui un elenco esemplificativo: l’Io, l’Idea, lo Spirito, l’essere, la volontà, la vita, la libertà, la volontà di potenza, la storia, la struttura, la materia economico sociale, l’alienazione, la merce, l’ego trascendentale, il testo o la testualità, il potere, il linguaggio, l’interpretazione, l’esistenza, il nulla, la tecnica, il desiderio, la libido, l’inconscio, la ragione strumentale. Si noti anche che alcune filosofie continentali, resesi forse conto della sterilità delle loro pratiche, non hanno trovato di meglio che vivere di rendita, raccontando e celebrando proprio la annunciata sparizione dell’a priori dal mondo. Così abbiamo avuto la fine della verità, la fine del soggetto, la fine della storia, l’eclissi della ragione, la morte di Dio, la sparizione dell’Essere, la fine della metafisica, la morte dell’Occidente e quant’altro. Una sorta di nichilistico lutto permanente in memoria della scolastica kantiana perduta.

 

APPENDICE




Fig.1 – Lo scivolamento progressivo dei categoriali aristotelici nei trascendentali kantiani.

 


Giuseppe Rinaldi (30/06/2025)

 

OPERE CITATE

2012 Aertsen, Jan A., Medieval Philosophy as Transcendental Thought. From Philip the Chancellor (ca. 1225) to Francisco Suárez, Brill, Leiden.

1966 Aristotele, Anima (A cura di Giancarlo Movia), Rusconi Libri, Milano.

2001 Ferraris, Maurizio, Il mondo esterno, Bompiani, Milano.

2004 Ferraris, Maurizio, Goodbye Kant! Cosa resta oggi della Critica della ragion pura, Bompiani, Milano.

2014 Kant, Immanuel, Critica della ragion pratica e altri scritti morali (A cura di Pietro Chiodi), UTET, Torino. [1787]

2004 Kant, Immanuel, Critica della ragion pura (A cura di Costantino Esposito), Bompiani, Milano. [1781/ 1787]

1992 Kemp Smith, Norman, Commentary to Kant’s “Critique of Pure Reason”, Humanities Press International Inc,, Atlantic Highlands, NJ. [1918- 1923]

1953 Quine, Willard van Orman, From a Logical Point of View. Nine logico-Philosophical Essays, Harvard University Press, Cambridge. Tr. it.: Da un punto di vista logico. Saggi logico-filosofici, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2004.

 

NOTE

 [1] Cfr. B2. In questo commento, a meno di altra segnalazione, seguo la traduzione di Chiodi.

[2] Non empiriche non vuol dire necessariamente innate. Ogni specie di uccelli sa come fare il nido, ma questa non è una conoscenza a priori nel senso di Kant. La non empiricità per Kant è una nozione metafisica che ha a che fare con la Ragione.

[3] Questo atteggiamento, di postulare l’esistenza necessaria di cose di cui nessuno si accorge, è tipica della visione trascendentale.

[4] Sottolineo che oggi la semantica di “mente” non corrisponde a ciò che intendeva Kant. Nei suoi scritti latini aveva usato animus. Solitamente usa il termine Gemüt. In Italiano è stato tradotto anche come Spirito da Gentile e Lombardo - Radice. Mente porta con sé una connotazione cognitivista che è assolutamente estranea a Kant.

[5] Su questo punto si veda Aertsen 2012.

[6] Cfr. B4.

[7] Il dibattito circa i fondamenti della matematica è oggi quanto mai aperto. E la maggioranza degli studiosi non sembra concordare con Kant.

[8] Cfr. B5.

[9] Qui Kant fa un uso comune dei termini spazio e sostanza ed evita ogni definizione rigorosa. Sull’uso allegro che Kant fa di queste nozioni si veda il mio saggio Finestre rotte: La chiocciola di Kant e altre storie spaziali.

[10] Su questa ambiguità ha recentemente insistito Maurizio Ferraris. Cfr. Ferraris 2001 e la questione della ciabatta.

[11] Cfr. Quine 1953. L’articolo in questione è titolato Due dogmi dell’empirismo.

[12] Cfr. B25.

[13] In questa fase introduttiva Kant, comprensibilmente, non distingue ancora tra Intelletto e Ragione.

[14] Cfr. B25.

[15] Sui diversi usi kantiani di “trascendentale” si veda Kemp-Smith 1992.

[16] Kant, CRP, B113 e segg.

[17] Kant, CRP, B113 e segg.

[18] Kant, CRP, B114 e segg. Traduzione Chiodi. La resa nelle traduzioni disponibili in italiano è piuttosto contorta. Riporto la traduzione di Esposito: «Questi presunti predicati trascendentali delle cose, non sono altro che delle esigenze e dei criteri logici di ogni conoscenza delle cose in generale, e pongono a fondamento di questa conoscenza le categorie della quantità, vale a dire l’unità, la pluralità e la totalità. Sennonché, queste categorie, che avrebbero dovuto essere intese in senso propriamente materiale, e cioè come appartenenti alla possibilità delle cose stesse, in realtà furono intese dagli antichi soltanto in senso formale, come appartenenti all’esigenza logica che riguarda ogni conoscenza, sebbene poi essi trasformarono incautamente questi criteri del pensiero in proprietà delle cose in se stesse».

[19] Cfr. De Anima, III, 4 e III, 5.

[20] A meno che non si voglia invocare qui l’intelletto potenziale. Il quale potrebbe avere dentro di sé, in potenza, qualsiasi cosa, ma se resta in potenza e non si attua è come se non ci fosse. A dire il vero, la teoria dell’intelletto contenuta nel De Anima non è tra le più chiare.

[21] Cfr. Ferraris 2004.

 

 

 

 

 

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