1. Il recente libriccino di Aldo Schiavone,[1] presentato
niente meno che come manifesto, nonostante
le riserve che può avere suscitato,[2] ha una sua importanza, perché ha il
merito di mettere sul tavolo una serie di problemi di cui la sinistra italiana
ha completamente smarrito il senso. Osserva infatti l’Autore che: «La sinistra non discute da
decenni dei suoi principî: e questo l’ha messa in uno stato di confusione totale. È ora di venirne a capo».[3] Siamo perfettamente d’accordo. Tanto per
chiarire come stanno le cose nello specifico, l’Autore aggiunge che: «[…] lo scadimento dipende non poco
dalla rinuncia quasi unanime degli intellettuali, dopo la fine delle battaglie ideologiche
del secolo scorso, a esercitare una funzione pubblica di stimolo, di
conoscenza, di critica e di suggerimento, e dal loro ritrarsi – pur se spesso
non senza qualche ragione – dalla frequentazione della vita pubblica, o di quel
che ne resta».[4]
Ci sentiamo di aggiungere che i nuovi politicanti della sinistra hanno
volentieri congedato gli intellettuali per restare essi stessi i soli
depositari dei futili giochi tra gli improbabili leader dalla scadenza incerta,
seppur sempre più ravvicinata. Sul rapporto sempre più evanescente tra la
politica e gli intellettuali nel nostro Paese si veda il recente saggio di
Giorgio Caravale.[5]
Al
di là dei meriti del manifesto di Schiavone, esso è senz’altro utile almeno per
fissare i punti essenziali che dovrebbero essere oggetto di un dibattito che si
prospetta come piuttosto urgente. Ad esempio, nelle recenti mozioni dei
candidati per la Segreteria del PD si è vista in opera la tendenza, in voga da
un po’, a compilare lunghi elenchi di obiettivi, lunghe liste della spesa,
senza dare alcuno spazio alle considerazioni teoriche. In questo saggio discuteremo passo a passo le
argomentazioni principali di Schiavone. Anche se dopo le recenti vicende
elettorali della sinistra (compreso l’ultimo Congresso del PD) dubitiamo
seriamente che in giro ci sia qualcuno che abbia ancora voglia di discutere di
simili questioni. Il saggio che il lettore si appresta a leggere è sicuramente
pesante e noioso, per la quantità delle questioni sollevate e anche a causa del
numero elevato di citazioni. Non sono qui per divertire, e poi le strade più
facili sembra non abbiano poi tanto funzionato.
2. Diverse pagine del saggio di Schiavone sono spese per
mettere in evidenza il fatto, con cui concordo perfettamente, che la sinistra
in Italia ha smesso di pensare: «L’aspetto che più salta agli occhi nella
condizione in cui si trova la sinistra nel nostro Paese è il vuoto d’idee che
la circonda».[6]
Questa situazione, secondo Schiavone, sarebbe dovuta principalmente a due
eventi di lunga durata che hanno cambiato completamente la prospettiva della
sinistra. Anzitutto la caduta del
comunismo. In secondo luogo l’avvento
delle nuove tecnologie. Si tratta oltretutto di fenomeni collegati tra
loro. Una nota teoria sostiene, infatti, che l’implosione dell’Unione Sovietica
sia avvenuta soprattutto per l’incapacità del sistema autoritario
real-comunista di convivere con la diffusione di massa delle nuove tecnologie
che include la libertà di produzione e circolazione dell’informazione. Perché
andare così indietro nel tempo? Semplicemente perché per almeno un secolo e
mezzo il concetto di sinistra è stato coniugato col socialismo e il comunismo.
Un passato che è stato semplicemente rimosso, con il quale la “sinistra” deve
ancora fare i conti.
Più
ancora in profondità, la crisi della sinistra odierna sarebbe dovuta – secondo
Schiavone - a un mutamento profondo nella prospettiva della eguaglianza. La sinistra che oggi è in
crisi veniva da una storia plurisecolare (dopo la rivoluzione industriale) dove
il motivo conduttore era il conflitto tra
capitale e lavoro. Se si preferisce usare il linguaggio sociologico,
possiamo parlare di lotta di classe.
Gli eguali sfruttati e coalizzati avrebbero combattuto la fonte stessa dello
sfruttamento e della diseguaglianza e avrebbero instaurato una società di eguali. Con ciò emancipando l’intera
umanità. L’aspetto rilevante della questione è il fatto inconfutabile che l’obiettivo
della eguaglianza che veniva
perseguito era direttamente connesso a questo specifico conflitto. Afferma
Schiavone che: «Da allora in poi, dovunque, in ogni partito della sinistra,
lavoro ed eguaglianza sarebbero apparsi quasi come sinonimi: il binomio dell’avvenire
socialista. La forza del lavoro sarebbe stata anche la forza dell’eguaglianza.
Il problema era solo di trasformare la spinta socializzante e uniformatrice
della classe operaia in regola generale dell’intera società».[7] Il
ragionamento stringente di Schiavone – ricorrente in tutto il saggio - è che il
venir meno progressivo del modello tradizionale del lavoro industriale abbia
intaccato l’obiettivo fondamentale dell’eguaglianza che si davano tutte le
sinistre. La crisi generalizzata della sinistra sarebbe dunque la crisi di un modello epocale di eguaglianza.
Ci sarebbe proprio questo dietro la perdita, di cui tanto si parla, del
rapporto tra la sinistra e il suo popolo.
3. Si tratta allora di fare i conti fino in fondo con quella
matrice culturale che aveva istituito quel legame. La sinistra degli ultimi due
secoli – quella che Hobsbawm chiama seconda
sinistra,[8] è stata caratterizzata, in un modo o nell’altro dalla
prospettiva marxista. Anche nelle versioni meno rivoluzionarie e più
riformiste. Afferma Schiavone che: «Oggi sappiamo che il pensiero di Marx
conteneva errori irrimediabili: fra i più decisivi, una sottovalutazione grave
dell’importanza della politica in generale, e della democrazia liberale in
particolare, e della loro capacità di retroagire sulle strutture economiche e
di modificarle, sia pure solo entro certi limiti. Errori che avrebbero aperto
la strada a tragedie su cui ora è inutile tornare».[9] Tragedie che tuttavia
dovremmo avere ben presenti, nel momento in cui ci accingiamo a discutere di
una nuova sinistra.
Gli
errori irrimediabili di Marx non sono
ancora divenuti argomento di pubblico dibattito. E continuano ad agire nella
nostra storia quotidiana. Alcune delle società post comuniste costituiscono
oggi una gravissima minaccia per il Mondo intero. Insomma, l’assetto delle
società capitalistiche e della universale lotta di classe era considerato come
un assetto permanente ed eterno, un dato di fatto divenuto visione tradizionale
del mondo. L’impianto marxiano era divenuto una specie di scolastica
ritualistica che ha tarpato il pensiero e che ha reso la sinistra incapace di
comprendere i cambiamenti del Mondo. La scolastica
marxiana e marxista – grazie anche agli apparenti successi del socialismo reale - è stata mantenuta
stoicamente contro tutte le evidenze e poi è stata abbandonata di colpo, alla
fine della Guerra fredda, senza alcuna analisi. Spiega Schiavone che: «Nel
nostro Paese, sin dalla Liberazione, il marxismo avrebbe costituito l’intelaiatura
culturale e ideale dei due maggiori partiti della sinistra: una scelta difesa
con ostinazione dal più forte di essi – il Pci – sino alla fine; per essere poi
abbandonata di colpo, guardandosi bene dal pronunciare una sola parola. Un
comportamento che non saprei dire se più politicamente disastroso o moralmente
vergognoso. E tutto questo senza che nessuno – o quasi – degli intellettuali
che pure si erano completamente riconosciuti in quella dottrina sentisse il
bisogno di intervenire. La vittoria della destra – di questa destra – è
cominciata allora: da quell’incredibile silenzio».[10]
4. La caratteristica fondamentale dell’intero periodo della seconda sinistra[11] fu dunque – Secondo
Schiavone - l’identificazione del lavoro
con l’eguaglianza. Che doveva dare luogo non solo a una eguaglianza formale ma anche a una eguaglianza sostanziale. Il socialismo o comunismo
reale era concepito come la terra dell’eguaglianza sostanziale. La fine dell’Unione
sovietica significò non solo la fine del socialismo, ma anche la fine del
connubio tra lavoro ed eguaglianza sostanziale. In altri termini, significò la fine dell’età del lavoro. Ciò non
significherà evidentemente la fine effettiva
del lavoro, inteso come attività e funzione sociale, bensì la fine del lavorismo, cioè della ideologia del lavoro. Se vogliamo, la
fine della identificazione stretta tra il
cittadino e il lavoratore. Una traccia di questa identificazione, peraltro del
tutto priva di effetti di sostanza, resta nell’art. 1 della nostra
Costituzione.
Secondo Schiavone: «Quel
che stava accadendo era, semplicemente, che la trasformazione in atto aveva
fatto sparire il contesto sociale e culturale in cui avevano vissuto sino ad
allora i partiti progressisti in Occidente: e niente potrà mai restituircelo.
Perché con l’età del lavoro finiva anche l’età della lotta di classe, che era
connessa a un modo di strutturarsi delle società occidentali che oggi quasi non
esiste più. Un epilogo che la sinistra non ha ancora assorbito e metabolizzato,
e che riempie tuttora di sé il nostro tempo: la cui importanza, sebbene le
conseguenze non smettano di colpirci e di disorientarci, non è stata ancora
colta né dal punto di vista storico, né da quello concettuale, della teoria, se
non da qualche isolato, grande sociologo. I giovani in particolare non se ne
rendono conto, a meno che non gli venga precisamente spiegato, anche se – senza
esserne consapevoli – ne vivono sulla propria pelle le conseguenze: tanto i più
felici tra loro come i più sfortunati. Ed è sotto le macerie di questo mondo
che giace il corpo della sinistra, non solo in Italia, ma più o meno in tutto l’Occidente:
a pezzi, per quanto ricoperto di alloro».[12] Il sociologo cui l’Autore allude
nel testo è Alan Touraine.
È vero o non è vero che
il mondo sociale della seconda sinistra è finito definitivamente? Se si vuol
procedere oltre, con una nuova sinistra, indubbiamente bisogna prenderne atto. La
fine dell’identificazione stretta tra cittadino e lavoratore ha costituito per
la sinistra un processo lungo e travagliato che – almeno nel nostro Paese - non
sembra neanche del tutto terminato.[13] Soprattutto per il fatto che la
sinistra per un paio di secoli aveva parlato soprattutto di lavoratori e nel nostro Paese aveva poca
dimestichezza con le nozioni relative al cittadino e alla cittadinanza, cioè
con le nozioni relative al pensiero
liberale e democratico (quello che, secondo Hobsbawm,[14] ha caratterizzato
la prima sinistra).
5. Le trasformazioni tecnologiche ed economiche hanno dunque
portato al tramonto della prospettiva della lotta di classe e alla sparizione
della soggettività stessa della classe operaia. Che costituiva il riferimento sociale della sinistra, il
cosiddetto popolo della sinistra.[15]
La perdita del riferimento sociale fu dunque soprattutto un effetto dei grandi
processi storici che non furono adeguatamente compresi e problematizzati. La
poca dimestichezza della sinistra con il pensiero democratico rendeva poco appetibile
l’idea che si potesse pensare a un partito semplicemente di cittadini. Il rifiuto della democrazia borghese avvenuto col Manifesto di Marx sembrava
irreversibile. Cominciò così un inutile viaggio alla ricerca del soggetto trasformatore alternativo. Si
fecero numerosi tentativi. Il Terzo mondo e le sue rivoluzioni, gli emarginati,
le donne, i poveri, gli immigrati, gli scontenti della globalizzazione, i
movimenti monotematici per le grandi cause. Si fecero vani tentativi di
ripetere quello stesso schema che risale addirittura al giovane Marx. Trovare
cioè un soggetto politico che emancipando se stesso riesca a emancipare l’intera
umanità. Inutile dire che il soggetto rivoluzionario alternativo non fu mai
trovato. In realtà le sinistre hanno continuato a perdere consensi e quello che
era il popolo della sinistra si è spostato sempre più verso la destra.
Schiavone qui ha il
merito di dire con chiarezza quale sia oggi – secondo lui - la sola soluzione
possibile: «Staccare […] definitivamente l’idea di sinistra da qualunque idea
di socialismo, con la quale ogni politica progressista si era più o meno
identificata sin dalla nascita: un’idea che aveva ormai il sapore arcaico del
ferro, del vapore e del carbone. E, di conseguenza, staccare l’idea di eguaglianza
– che, se poggiata su nuove basi, mantiene, eccome, tutta la sua attualità –
dall’idea di lavoro (e di socialismo); e la figura del cittadino da quella del
lavoratore. Ricongiungere direttamente, in altri termini, sinistra e (nuova)
eguaglianza, senza passare attraverso il lavoro e il socialismo: come non è
stato mai fatto nella modernità dopo la rivoluzione industriale. Mettere in
campo un’idea diversa di sinistra per un’idea inedita di eguaglianza: lontane
tutt’e due dal mito della socializzazione attraverso il lavoro, ma capaci di
svilupparsi in un mondo ormai invaso dalle differenze e dal moltiplicarsi delle
soggettività. E collocate entrambe in uno spazio culturale e strategico frutto
di una prospettiva finalmente davvero inclusiva e globale, che solo ora – non
prima, come sbagliando si pensava – è possibile permettersi. Andando oltre la
catastrofe irreversibile del socialismo, e oltre la fine della centralità del
lavoro operaio: della classe operaia come classe generale che liberando sé stessa
avrebbe liberato l’intera umanità, secondo la formula bellissima ma piena di
inganni delle nostre illusioni di una volta».[16]
Sono parole, in un certo
senso liberatorie, che hanno il merito di dare una sana scrollata a tutti
coloro che hanno avuto in passato una formazione di sinistra, a tutti coloro
che ancora albergano i fantasmi inconsci del sol dell’avvenire. A tutti coloro che ancora subiscono gli effetti
deleteri della diseducazione comunista.[17]
6. Questo però significa – a nostro modesto avviso - tornare a
prima della seconda sinistra, alla prima
sinistra, quella liberaldemocratica.[18] La prospettiva, detta in soldoni,
è quella di riprendere in mano il filone dell’emancipazione del cittadino. L’emancipazione del lavoratore (che
sarà comunque sempre degna di rilievo) sarà solo un’implicazione, una
conseguenza della prima. Schiavone addirittura interpreta questo nuovo
programma come un recupero di una prospettiva
umanistica del tutto coerente con lo sviluppo storico della civiltà
occidentale. Una prospettiva la cui realizzazione solo ora è divenuta possibile: «È indispensabile avere chiarezza e
saper distinguere. L’idea fondante della sinistra, che ne racchiude tutto il
cammino ed esprime un principio che sta nell’anima dell’Occidente sin dall’antichità
greca, è l’emancipazione dell’umano, di tutto l’umano; non il socialismo: che è
stato solo un mezzo per raggiungere quell’obiettivo, ma non il fine, anche se
spesso le due cose sono state confuse. E oggi proprio quella meta è diventata
realistica come mai prima, grazie all’aumento vertiginoso di potenza che la
rivoluzione tecnologica sta mettendo a nostra disposizione: solo che la si
sappia usare nel verso giusto. Bisogna perciò andar oltre, con un pensiero in
grado per prima cosa di restituirci un’immagine attendibile del mondo, e con
una visione capace di guardare lontano: virtù oggi rare, che dobbiamo saper
ritrovare. Non ne va solo del futuro della sinistra. Ne va del futuro di tutti».[19]
Insomma, arrovellarsi
perché la sinistra abbia perso il consenso dei poveri (o degli emarginati, o di
altre fumose categorie sociali) non serve a nulla. I poveri de facto non rappresentano il modello
per costruire la nuova società e per emancipare l’umanità. I poveri non sono l’avanguardia
nuova. Non sono il modello di umanità cui ci si debba riferire (anche se, ovviamente,
rientrano a pieno titolo in un progetto di emancipazione umana). Infatti nella
prassi politica comune – lo si vede tutti giorni - sono perfettamente
compatibili con le ideologie e le politiche della destra. Poveri, emarginati e
lavoratori votano tranquillamente i partiti di destra. Insomma, in estrema
sintesi, il poverismo non è il
rimedio ai limiti ormai storici del lavorismo.
7. Chiarita la questione di fondo, possiamo accingerci a passare
ai temi del secondo capitolo. Un altro nodo fondamentale, nella ricostruzione
della sinistra nuova, è quello della politica.
Qui abbiamo ravvisato tuttavia un qualche limite nel ragionamento di Schiavone.
Un non sequitur rispetto alle sue
precedenti argomentazioni. Il vecchio manifesto marxiano, dopo la descrizione
delle condizioni materiali del proletariato che contribuivano a costruire la classe in sé, si affannava a spiegare
come quelle condizioni materiali stesse avrebbero contribuito ad alimentare la coscienza di classe, la nuova
soggettività che avrebbe lottato per quel modello di eguaglianza e di
cittadinanza basata sul lavoro. Il capitolo sulla nuova politica Schiavone avrebbe dovuto scriverlo dopo, alla fine, dopo l’individuazione
del nuovo modello di eguaglianza da proporre non più ai compagni ma,
evidentemente, ai citoyens. (Si veda
oltre). Collocato invece in questa posizione, finisce per risultare sconnesso
dal ragionamento generale e dunque piuttosto generico.
8. Seguiamo comunque le argomentazioni proposte da Schiavone
perché hanno comunque qualcosa di interessante da dire rispetto al dibattito
attuale. È universalmente riconosciuto che le democrazie occidentali
attraversino una crisi della politica.
C’è una enorme letteratura in proposito. Schiavone riconduce questa crisi a due
questioni principali. La prima è la selezione
della classe dirigente e la seconda è quella della partecipazione politica.
La crisi della politica
nelle democrazie occidentali sarebbe strettamente connessa alla diffusione del populismo. Purtroppo Schiavone non è il
grado di dire, a partire dal suo modello, se il populismo sia la causa o l’effetto
della crisi della sinistra tradizionale. Noi propendiamo per sostenere che il
populismo sia piuttosto un effetto. Il populismo altro non è se non la ricerca dell’ennesimo soggetto trasformatore,
di un nuovo protagonista della storia. Il popolo
(termine quanto mai generico) messo al posto del lavoratore. Secondo la nostra
analisi, il crollo della sinistra di classe – è successo visibilmente in tutti
i Paesi dell’Est Europa – ha portato alla luce l’etno- nazionalismo e il sovranismo. Quello stesso che si è
manifestato nella Ex Jugoslavia e che si manifesta oggi in Russia. Il populismo
è l’ultimo disastroso esito della ricerca del soggetto sociale rivoluzionario. Com’è
noto, il populismo è assai flessibile e può avere versioni sia di destra sia di sinistra. In Italia, dove gli orfani della sinistra di classe sono
davvero molti (questo perché avevamo il maggior partito comunista dell’Occidente),
li abbiamo avuti entrambi: la classe
operaia, dopo la fine della civiltà del lavoro, ha ahimè riempito le file
dell’etno-nazionalismo leghista e ha
riempito le file del movimentismo del M5S. Poiché la politica era sempre stata
identificata con la lotta di classe (soft
o hard che fosse) la fine della lotta
di classe è stata percepita ipso facto
come fine della politica. La sinistra
non conosceva altra politica che quella. Di qui il sostantivo e progressivo declino della politica, che ha portato
la sinistra nell’attuale situazione di sfacelo.
In ogni caso Schiavone è
ben consapevole nell’esigenza di andare oltre il populismo che poi si sostanzia
nell’antipolitica e nel rifiuto dello Stato. Nella proposizione
di scorciatoie illusorie, risolutrici di tutti i problemi. Afferma Schiavone: «Riportare
i cittadini – e i giovani in particolare – alla politica è dunque il primo compito
di una sinistra tornata in piedi. Stare a sinistra questo innanzitutto
significa, oggi: riconquistare alla politica lo spazio e il consenso perduti,
ridarle sovranità, e con quest’ultima restituirle etica e conoscenza.
Garantirle finalmente un orizzonte all’altezza dei problemi e delle opportunità
che abbiamo di fronte».[20] Non si può non essere d’accordo. Tuttavia Schiavone
non coglie che con la lotta di classe se n’è andato anche un preciso specifico
significato della politica, con tutto quel che era compreso: la partecipazione,
la militanza, la specifica cultura politica della sinistra, un preciso modello d’impegno
e di socialità. Un effettivo ritorno alla
politica (di questo si tratta) dovrebbe essere in grado di produrre un
equivalente di quel che si è perso. Su basi diverse, certo. Ma deve essere un
equivalente.
Secondo Schiavone, la
nuova politica dovrebbe essere connessa indissolubilmente con il progetto politico europeo. Per questo si
tratta di andare oltre all’idea di nazione (altra nozione novecentesca da
superare, per Schiavone, insieme a quella di classe). Qui Schiavone riprende
implicitamente il riferimento alla cittadinanza nella forma di una comune cittadinanza europea. Afferma
Schiavone: «Credo sia il momento di lanciare l’idea di una Costituente per la
nascita di una sinistra d’Europa – da portare tra i cittadini dei diversi Paesi
coinvolti e non solo nel Parlamento di Bruxelles: per la formazione di un
partito progressista da Madrid a Berlino, da Parigi a Roma, in grado di
proporre obiettivi e programmi condivisi, pur nella pluralità delle sue culture
e delle sue ispirazioni».[21] Evidentemente l’Europa non può funzionare come patria nazionale. Non può essere
costruita con l’etno nazionalismo. Per la costruzione di una comune patria
europea non nazionale occorre mettere in campo quello che Habermas ha chiamato patriottismo della costituzione. Ne ha
parlato a lungo il nostro Rusconi.
Val la pena di aggiungere,
da parte nostra, anche l’esigenza improrogabile di un sindacato unitario europeo. Chi scrive ha iniziato la sua prima
esperienza sindacale una cinquantina di anni fa, sentendo continuamente
pronunciare, in quegli ambienti, la litania della unità sindacale. La divisione delle sigle sindacali poteva avere un
senso all’epoca della cinghia di
trasmissione tra lotta economica e lotta politica, nel contesto della
civiltà del lavoro e della lotta di classe. Ora i residui divisivi di quella
stagione continuano a intralciare la lotta economica dei cittadini/ lavoratori.
A maggior ragione poi, le organizzazioni sindacali – nate tutte nella stagione
della seconda sinistra – dovrebbero essere in prima file nel darsi una struttura europea, poiché i
problemi dei cittadini / lavoratori sono sempre più dipendenti dal livello
decisionale europeo. Schiavone non ne parla ma penso sarebbe perfettamente d’accordo.
Adombra perfino l’esigenza di un coordinamento
globale dei progressisti, almeno in Occidente. Si tratterebbe di una
continuazione della vecchia idea dell’Internazionale
dei lavoratori, che nella sua versione originaria fu più o meno limitata
all’Europa ottocentesca. Una democratica Internazionale
dei cittadini.
9. L’altro problema connesso alla crisi della politica è
quello della crisi dei partiti. L’analisi
di Schiavone qui mi è parsa ahimè piuttosto sbrigativa e decisamente carente.
Mi proverò ad aggiungere qualcosa di appena più sostanzioso. Com’è noto, la
tradizione dell’eguaglianza lavorista europea aveva dato origine a un modello
di partito di massa (il partito della
tradizione socialdemocratica tedesca) che aveva una caratteristica
fondamentale: quella di riprodurre nel partito le procedure egualitarie della
democrazia formale. Sappiamo bene che quelle strutture non erano perfette,
tanto che furono minuziosamente analizzate e criticate.[22] Tuttavia quelle
strutture ebbero una loro efficacia e si diffusero tosto anche presso i partiti
notabilari, tanto da caratterizzare poi un’intera epoca della politica europea.
Restavano fuori da un lato il modello di partito nord americano (una tradizione
notevolmente diversa, dove comunque la democrazia era recuperata sul piano dell’investitura
diretta del leader/ notabile) e dall’altro dai modelli di partito di stampo
leninista (dove la democrazia interna era sacrificata in nome della compattezza
“militare” dell’organizzazione). È rilevante il fatto che sia il modello
socialdemocratico, sia il modello leninista si mostrarono funzionali in un modo
o nell’altro al quadro storico della lotta di classe. Si tratta allora di
capire se – essendo venuta meno la civiltà del lavoro e della lotta di classe –
la sinistra nuova debba anche rinunciare alla sua forma partitica tradizionale,
quella di derivazione socialdemocratica (quella leninista la possiamo
trascurare poiché non ha passato il test
della storia). Si tratta cioè di capire se, modificando i contenuti, la forma
organizzativa si può salvare.
Indubbiamente, la crisi
dei tre partiti di massa italiani che più di tutti avevano adottato e impersonato
il modello organizzativo tedesco (PCI, DC, PSI) ha comportato anche l’insorgenza
di una sfiducia verso quel modello. E la ricerca di nuovi modelli sperimentali.
L’unico partito nuovo che ha adottato un modello approssimativamente leninista è stata la Lega Nord (oltre a
qualche cespuglio di estrema sinistra). Abbiamo avuto poi l’epoca dei partitini personali, le cui regole di
democrazia interna lasciavano alquanto a desiderare. Compresi i movimenti personali, che poi hanno
sviluppato la deriva populista. Abbiamo nel nostro Paese due casi principali di
sperimentalismo di nuove strutture
organizzative: il M5S e il PD. Non possiamo qui entrare nel merito, ma col
senno di poi si può dire che abbiano fallito entrambi. Lasciando una pesante
incertezza su quale sia la forma partito adatta per la sinistra nuova. Il
modello partitico/ movimentista del M5S è stato indubbiamente il più ambizioso,
essendo fondato sulla pretesa novità del direttismo[23]
e sullo strumento organizzativo della rete.
Dopo un successo momentaneo, dovuto anche alle doti personali di Beppe Grillo
nel gestire le adunate e gli spettacoli di piazza, il modello organizzativo
grillino ha mostrato le gravi insufficienze tanto da divenire un partito proprietario, da produrre una
sequela di espulsioni/ scissioni da partito staliniano, e da mostrare un
livello di dibattito politico interno prossimo allo zero. Alla faccia della
democrazia diretta! Il PD ha invece scimmiottato il modello della democrazia
americana, un modello con forti residui sette-ottocenteschi, una democrazia del
leader che ha costantemente confuso il dibattito circa la linea politica con la
scelta delle persone attraverso le primarie. Su questo argomento ho avuto modo
di produrre una serie di analisi approfondite. Tutte reperibili sul mio blog. Chi
abbia voglia di entrare nel merito dei gravi
limiti organizzativi del PD odierno può studiare seriamente i due splendidi
saggi di Antonio Floridia sull’argomento.[24]
In ogni caso, il modello
organizzativo del PD ha fallito miseramente, alimentando un sistema correntizio
nient’affatto democratico e riducendo il PD stesso ai minimi termini. Gli
ultimi ad accorgersene sono proprio quelli del PD. L’ultimo Congresso ha mostrato
limiti evidentissimi proprio a livello di democrazia interna e partecipazione,
contrapponendo la scelta degli iscritti a quella degli elettori. Al di là della
scelta del nuovo segretario, il PD attuale sembra non mostrare alcuna
consapevolezza critica circa il fallimento sostanziale del suo modello
organizzativo sperimentale originario. Tutte le grandi promesse di cambiamento interno per ora restano sulla carta delle
mozioni dei diversi candidati. Staremo a vedere.
Schiavone non entra nel
merito della questione della democrazia interna dei partiti – come invece
avrebbe dovuto fare, proprio a partire dalla sua impostazione. Secondo l’Autore,
veniamo da una stagione di attacco ai partiti e ugualmente da una stagione di
tentativi di trovare delle alternative ai
partiti. Alternative che sono puntualmente fallite. Dichiara Schiavone: «In
realtà, bisogna convincersi che i partiti servono, sono consustanziali alla
forma rappresentativa della democrazia, e non se ne può fare a meno. Senza, non
c’è politica e non c’è democrazia, almeno nelle forme che oggi conosciamo e che
ancora ci appaiono prive di alternative credibili. Il pluralismo delle
opinioni, l’articolazione delle differenze, senza delle quali non può formarsi
nessuna dialettica democratica che abbia un minimo di affidabilità, richiedono
necessariamente la presenza di una mediazione. Che le diversità si
solidifichino e prendano consistenza strutturandosi in raggruppamenti politici
distinti, in competizione fra loro».[25] Sembra che Schiavone pensi che i partiti
in termini organizzativi siano il male, ma che occorre rassegnarsi perché i partiti servono. Su queste basi non si
va molto lontano.
Prosegue nella sua
analisi: «Il punto è che il modello che si era delineato in Italia al culmine
della «Repubblica dei partiti» – cioè di un partito a trama forte, densa di
consistenza burocratica e di apparati territoriali – deve essere oggi rimesso
seriamente in discussione senza però che questo significhi in alcun modo
rinunciare alla funzione da esso svolta nell’organizzazione della politica. E
ci sono molte ragioni per essere convinti che questo tipo di revisione debba
riguardare soprattutto la sinistra, e che si debba approfittare della fase
costituente di cui comunque non si potrà fare a meno per ridisegnare completamente
il profilo del soggetto cui consegnare la rinascita».[26] Si tratta di una
proposta alquanto generica. Schiavone avanza in pratica due proposte: quella
del “partito ponte” e quella del “partito laboratorio” che, se non andiamo
errati, sono vicine al dibattito portato avanti nel PD da Fabrizio Barca e poi
affossato da Renzi. Echi di tutto ciò si sono avuti nelle famose mozioni dei
candidati al Congresso del PD. Anche qui, staremo a vedere. Schiavone in generale
non sembra prendere sul serio la questione organizzativa, quando invece a
nostro giudizio è una delle questioni principali.
10. Il terzo capitolo del saggio di Schiavone ha per titolo Lo sguardo critico sul presente. Qui l’Autore
si occupa dell’avvenuta sparizione della
critica dall’orizzonte culturale della sinistra. E cioè anche della rottura
della sinistra con gli intellettuali e più in generale con l’attività della produzione culturale. Il posto della critica culturale – questa è una mia
aggiunta - è stato scandalosamente preso dall’amministrazione delle cose. Generazioni di grigi amministratori hanno
occupato il posto dei politici che un tempo avevano una statura intellettuale,
scrivevano saggi impegnativi, dirigevano giornali e case editrici, e
soprattutto, sapevano scrivere qualcosa di più dei tweet. Vi è mai capitato di leggere anche solo un articolo scritto di pugno da Bonaccini o dalla Schlein?
Ma questi sanno scrivere? O twittano
soltanto? Sono loro che scrivono quei libri di autopromozione elettorale che circolano, che nessuno legge e che
non resteranno certamente nelle cronache letterarie? Sul divorzio tra
intellettuali e politica ho già citato il recente Caravale 2023.
Afferma in proposito
Schiavone, riallacciandosi ovviamente alla prospettiva di una critica illuministica: «Non c’è sinistra
senza pensiero critico. Non c’è sinistra senza mettere in questione l’ordine
del presente. Lo abbiamo a lungo dimenticato. Dobbiamo riportarlo al centro del
nostro orizzonte. La sinistra, in Italia e in Europa (per l’America il discorso
sarebbe in parte diverso), ha confuso la fine della lotta di classe con la fine
di un atteggiamento critico di fronte alla realtà contemporanea. Ha confuso la
fine del comunismo con l’obbligo intellettuale, prima ancora che politico, di
accettare l’ineluttabilità della disciplina tecnocapitalistica del mondo come
oggi si configura. E le sparute minoranze che non lo hanno fatto sono riuscite
a opporsi a un simile abbaglio solo nel nome di un impossibile ritorno a ciò
che abbiamo perduto. Si sono comportate da orfane del comunismo, ostinate a
proporre di nuovo una strada che non esiste più».[27] Adeguarsi all’esistente o
riprodurre la tradizione sono per la sinistra reale solo due facce della stessa
medaglia.
Il problema è allora
quello di definire in modo nuovo il tipo
di critica di cui la sinistra nuova si deve occupare e soprattutto il suo
oggetto. Non si può evidentemente tornare al modello della critica marxista al
capitalismo. Schiavone indica due principali oggetti intorno ai quali la
sinistra dovrebbe recuperare un’attenzione critica rinnovata: la tecnica e il capitalismo. Si potrebbe dire di primo acchito che qui non ci sia
nulla di nuovo. In realtà per Schiavone si tratta di mutare radicalmente l’impostazione
generale di questa critica. Tecnica e capitalismo – mi permetto di aggiungere -
non vanno combattuti con i toni diffusi dei molteplici intellettuali che
cantano l’avvento del nichilismo e il
declino dell’Occidente[28] – e che si
spacciano per sinistra - ma vanno criticati affinché questi possano affermarsi
proficuamente nel migliore dei modi, a beneficio di tutti. Alla critica disfattista occorre contrapporre
una rinnovata critica progressista.
La critica rigorosa non deve necessariamente essere disfattista. Deve essere
costruttiva.
11. Va riconosciuto che Schiavone è uno dei pochi intellettuali
italiani postmarxisti che non si è unito all’universale piagnisteo reazionario alla moda contro la tecnica (nonostante
alcune sue simpatie foucaultiane che traspaiono anche in questo libretto). Un
altro ben noto nel nostro Paese è Maurizio Ferraris.
Dice Schiavone a
proposito della tecnica: «La tecnica è potenza. Non è un dato metafisico, non
si alimenta di forze incontrollabili. L’idea che essa in quanto tale nasconda
una sua malefica oscurità, e che il suo intensificarsi non faccia che allargare
questo fondo buio e insondabile, non nasconde una verità originaria da
riportare alla luce, ma piuttosto un remoto terrore nutrito dalla nostra
specie, connesso alla presa di coscienza delle proprie illimitate capacità. È
il timore dell’onnipotenza, ben riflesso nel racconto biblico del peccato
originale: del presunto carattere antiumano del troppo sapere, se spinto fino
al punto da spezzare la barriera della finitezza. Ma la tecnica è solo storia:
dalla prima volta in cui un ramo caduto o spezzato è stato usato come un
bastone, fino al funzionamento dell’ultimo acceleratore di particelle. In essa
c’è solo la pulsione umana, tutta evolutiva, a padroneggiare ciò che abbiamo
intorno e dentro di noi per salvarci dall’ignoto, dal pericolo del non
conosciuto. E c’è l’attitudine ad acquisire conoscenza e controllo: una spinta
primaria che coincide con la nostra stessa forma biologica. Questione del tutto
diversa è invece il suo uso sociale […]».[29]
La tecnica, insomma, non
ha nulla di dis-umano. Noi stessi siamo
tecnica, come sostiene Ferraris con fondate argomentazioni.[30] Quel che
siamo, quel che stiamo diventando, lo dobbiamo alla tecnica. La tecnica
comprende in sé eccezionali possibilità di liberazione e di invenzione dell’umano
(che dipendono tuttavia dall’uso che ne
sapremo fare).
In generale, aggiunge
Schiavone sulla tecnica: «Più la tecnica diventa potente, sia pur sempre all’interno
di rapporti di produzione capitalistici, maggiore risulta penetrante la sua
forza trasformatrice, più rende sicure e stabili le condizioni materiali delle
nostre vite (cibo, salute, altri beni di consumo primari), tanto più essa
consente alle menti di sentirsi meno dipendenti da costrizioni oggettive, e di
allargare le proprie vedute fino a renderle universali. E permette alla nostra
etica di non restare prigioniera di vincoli imposti solo dalla limitatezza
delle risorse disponibili, e di poter concepire l’interezza dell’umano nella
sua unità, senza distinzioni e senza gerarchie: e di dare a questa scoperta la
forza di una legge morale, il potere di una regola da non infrangere. Di
conquistare alla nostra intelligenza la capacità di scoprire nuove connessioni
e nuovi equilibri, e di non confondere pratiche sociali determinate solo dalla
storia con principî imposti dalla prescrittività della natura. In altri
termini: l’aumento di potenza della tecnica accresce la nostra libertà e la
nostra capacità di autodeterminarci. O per essere più precisi: l’incremento di
potere della tecnica crea le premesse indispensabili perché l’umano possa
liberarsi, fino a concepire sé stesso nella sua totale integrità, e nelle
potenzialità infinite racchiuse nelle finitezze delle singole vite che lo
esprimono. Non è quindi il progresso tecnologico in quanto tale a diventare
direttamente emancipazione. Esso determina solo le condizioni per rendere
possibili nuovi dispositivi sociali sempre meno costrittivi, differenti quadri
culturali, modelli etici più includenti e tendenzialmente universali. Sono
questi cambiamenti a creare più libertà e maggiore emancipazione: le quali a
loro volta possono gettare le basi per nuove acquisizioni scientifiche e
tecnologiche, e quadri sociali ancora più avanzati a livello globale. Ed è in
questo modo, attraverso questo circuito – dove si intrecciavano scienza,
tecnica e umanesimo – che l’Occidente, e prima ancora l’Europa, che è stata a
lungo la parte tecnologicamente più avanzata del pianeta, sono presto diventati
anche il luogo dei diritti e delle libertà: certo molte volte calpestati o
negati, ma pur sempre dichiarati come irrinunciabili».[31] Qui Schiavone invoca
un radicale cambiamento di prospettiva. La tecnica dunque, con tutte le cautele
critiche che si vogliano adottare, accresce la nostra libertà e la nostra
capacità di auto determinarci. Altro che
nichilismo! Sarà il caso dunque di liberarsi della cultura piagnona dei
postmoderni (che sono in gran parte post marxisti), una cultura che è solo una
reazione inconsulta di fronte a novità che non si sanno governare.
12. Lo stesso capovolgimento di prospettiva va fatto sul
capitalismo. Per Schiavone si tratta di realizzare una nuova analisi del capitalismo. Il capitalismo è un fenomeno storico
e noi stiamo assistendo a un’importante trasformazione del capitalismo. Occorre
prendere atto della fine, almeno in Occidente del capitalismo industriale
classico, al quale si era contrapposta la vecchia sinistra. Da decenni, dopo
uno studio approfondito della letteratura allora disponibile, ci eravamo personalmente
convinti che l’analisi marxiana e marxista del capitalismo fosse completamente sbagliata. Già riferita al
capitalismo dei tempi suoi. La teoria del
valore di Marx non ha alcun fondamento, è solo aristotelismo scolastico. A
maggior ragione la sua teoria è inapplicabile al capitalismo odierno. La teoria
marxista è oltretutto andata incontro a un’impressionante falsificazione da
parte della storia. Le aberrazioni della Cina (tuttora comunista!), la follia
criminale di Milošević e di Putin, il delirio di Kim Jong-un. Non dimentichiamo
tuttavia anche l’ineffabile Pol-pot che aveva imparato il marxismo a Parigi.
Secondo Schiavone, nella
nuova configurazione capitalistica che si prospetta: «[…] lo sfruttamento
classico – quello che una volta si chiamava l’estrazione del plusvalore
attraverso il pluslavoro, il lavoro cioè erogato ma non retribuito – è
riservato solo alle forme di lavoro a più bassa densità tecnologica, dove
continua a prevalere l’aspetto puramente quantitativo dell’attività umana. Esso
è lavoro ormai senza difesa; diventato economicamente e socialmente marginale,
perché attraverso di esso non passa nulla di decisivo per il capitale, e
nemmeno per la società nel suo insieme. Mentre quanto più il lavoro incorpora
competenze complesse – e oggi accade per fasce sempre più vaste di lavoratori,
a diversi livelli – tanto più il suo rapporto con il capitale si fa
equilibrato, e la differenza fra i loro redditi tende a diminuire. Perché il valore
delle merci dipende ormai dalla tecnologia in esse incorporata, e non più dalla
quantità di lavoro vivo necessario a produrle, perciò diminuisce il bisogno di
nuovo sfruttamento da parte del capitale (un fenomeno che Marx stesso aveva
nebulosamente intuito, senza trarne le dovute conseguenze)».[32]
Si noti che lo Schiavone
persiste, nonostante tutto, nell’uso di certo vocabolario marxiano (“lavoro
vivo”, …). Segno questo del radicamento dell’apparato concettuale marxiano
anche nel nostro linguaggio comune odierno. Anche nel linguaggio “critico”. La
critica di Schiavone – se rigorosamente adottata – ha notevoli conseguenze per
una nuova sinistra. Si tratta di operare una distinzione, all’interno del
capitalismo, tra le persistenze
tradizionali del vecchio mondo industriale, che andranno via via superate e
il carattere innovativo del capitalismo
nell’ambito dei settori più avanzati. Questo significa che la sinistra
nuova deve accingersi a convivere nella maniera migliore con il capitalismo,
senza pregiudizi e demonizzazioni, criticandone duramente e correggendone gli
aspetti deleteri. Questo significa che la nuova sinistra dovrà elaborare una
teoria matura intorno alle modalità di rapporto tra Stato e mercato.
Su questo punto
Schiavone è oltremodo chiaro: «È chiaro che in questo scenario la creazione di
merci materiali a media e bassa densità tecnologica non scompare del tutto; né
scompare il lavoro meccanicamente esecutivo: ma entrambi vedranno diminuiti
progressivamente i loro addetti, in parte sostituiti da macchine dotate di
intelligenza artificiale, in parte delocalizzati in aree geografiche al di
fuori dell’Occidente, dove per ora il loro costo è minore. Soprattutto, quei
lavori diventano in un certo senso residuali, scaduti rispetto al cuore
produttivo del sistema. E poiché non sono collegati a più nulla di decisivo per
gli equilibri dell’intera struttura – diversamente da quanto succedeva per il
lavoro operaio di una volta, che era invece al centro di tutti i principali
processi produttivi di tipo industriale – essi non sono in grado di difendersi
da forme anche estreme di sfruttamento, che però non costituiscono più
contraddizioni rilevanti rispetto all’insieme del dispositivo economico».[33]
Si tratta allora di distinguere. Indubbiamente ci possono essere dei
contraccolpi. Nei settori più arretrati possono comparire addirittura forme di lavoro servile o di schiavitù. I cattivi lavori andranno dunque progressivamente
aboliti e sostituiti da lavori più a misura d’uomo. Questo non avverrà
automaticamente e dovrà essere posto come obiettivo
politico.
Allora: «[…] la sinistra deve ritrovare la
forza – intellettuale, prima ancora che politica – di rimettere il capitale
sotto la sua lente d’ingrandimento, di sottoporlo nuovamente al proprio esame
critico. Non per porre all’ordine del giorno la sua fine, ma per misurarne le
azioni e le strategie sul parametro – etico, prima ancora che politico – del
bene comune della specie; valutarne l’eventuale distanza, e predisporre quanto
necessario perché quella lontananza si riduca il più possibile. Riuscire a
opporre cioè la razionalità universale e impersonale dell’umano a quella pur
sempre specifica e particolaristica della produzione capitalistica. Questo confronto
dovrebbe diventare l’anima della sua politica».[34] Questo in generale
significa che la sinistra deve essere in grado di rigettare il suo attuale piatto pragmatismo, che poi diventa assuefazione,
adattamento al mondo così com’è, e
sottoporre la propria azione a un indirizzo etico politico che abbia una solida
fondazione nella propria visione del mondo, nella propria filosofia, nella
propria nuova cultura politica. In
altri termini, il capitalismo, l’economia di mercato, va governato e spetta alla nuova politica della sinistra mostrare come questo sia possibile.
Rispetto al vecchio marxismo, si tratta di riconoscere una buona volta il primato delle idee, il primato della
sovrastruttura, se si adotta il vecchio linguaggio marxiano. Del resto su
questa strada Gramsci aveva già fatto notevoli passi avanti. E si tratta di
rigettare il machiavellismo, il realismo politico, che quando professato come
criterio unico non si ferma al pragmatismo ma scivola inevitabilmente nell’opportunismo
e nel qualunquismo.
13. Nel suo quarto capitolo, Schiavone affronta – in maniera va
detto non sempre lineare – una serie di questioni davvero importanti. Senza affrontar
le quali la sinistra si confonderebbe immediatamente con un club di gretti
individualisti. È tuttavia questo il capitolo più discutibile del manifesto. Il
più aperto e certo anche il più meritevole di discussione. Anche perché qui
potremo riprendere la questione della
cittadinanza.
14. Anzitutto Schiavone affronta una questione particolare, non
insormontabile. La questione dell’identità
italiana. La questione identitaria è stata posta a lungo negli scorsi
decenni, a partire dal dibattito sulla patria
e sulla identità nazionale della metà
degli anni Novanta.[35] È un dibattito su cui sono intervenuti molti studiosi e
intellettuali, tra cui lo stesso Schiavone.[36] Un dibattito che manco a dirlo
non ha interessato più di tanto il mondo politico.
Schiavone afferma che: «Tra
i molti errori della sinistra c’è di sicuro quello di aver lasciato alla destra
il monopolio della rivendicazione identitaria. È un tema che invece si deve
riprendere con vigore, esibendone una visione completamente diversa rispetto a quella
della destra, ma non meno forte, tutt’altro. L’identità italiana non è un bene
acquisito una volta per tutte, che si recupera o si lascia perdere, come si
cerca di far credere. Non è qualcosa di scritto nel passato. È un insieme di
pensieri, di riconoscimenti e di costruzioni culturali che cambia di continuo,
e che ogni generazione ricrea in modo diverso; è un patto di fiducia che si
rinnova con la propria storia e con la propria coscienza civile. Ed essa non è
alternativa all’identificazione europea, né all’auto percezione – che per
fortuna avanza sempre di più – di essere cittadini del mondo, di far parte di
una comunità globale. All’Europa e al mondo si aderisce con tanta maggiore consapevolezza,
quanto più ci si avverte italiani: anzi, quanto più si sa proteggere e
rafforzare questo riconoscimento. Intanto, perché il cosmopolitismo è una
nostra antica vocazione, senza la quale, per esempio, il Rinascimento non
sarebbe stato quello che è stato».[37]
La sinistra nuova,
dunque, ha da essere identitaria ma non sovranista. Ma a mio modesto avviso
questa conclusione non basta. Proprio dal dibattito sull’identità italiana mi
sentirei di precisare che l’identità di cui abbiamo bisogno non è un’identità di
tipo etno-nazionale (cui mira invece consapevolmente la destra), bensì un’identità
basata sulla nozione habermasiana della cittadinanza
della costituzione. Se si preferisce, del patriottismo della costituzione. Una identità dal carattere
fondamentalmente politico e di derivazione illuministica.[38] Si tratta di
concetti di una certa complessità che non ho spazio qui per approfondire. I
nostri politici medi di sinistra ovviamente nulla sanno di queste distinzioni.
15. Schiavone comunque cerca di sostanziare, anche se non ne
parla esplicitamente, i principi di una cittadinanza della costituzione,
attraverso la proposta di un patto. Devo
qui dire che personalmente non mi piacciono i patti in questi termini. Non è
chiaro perché quando si legge qualcosa che assomiglia a un programma politico o
a una mozione ci sia sempre qualcuno che propone un patto di qualche sorta. Si vedano le mozioni del candidati alla
Segreteria del PD che sono pieni di patti. Si tratta per lo più di artifici
retorici poiché non si precisano mai le circostanze del patto stesso. Non siamo
certo in presenza di un patto repubblicano. Schiavone propone (ahimè, anche
lui) un patto di carattere politico, basato sulla costruzione europea e sul contrasto
alle diseguaglianze. E qui, comunque, con la cittadinanza costituzionale ci
stiamo: «L’intero Patto dovrebbe ruotare intorno a due soli punti: solitari e
decisivi. Primo: impegno contro le grandi strutture di diseguaglianza attive
nella società italiana. Secondo: impegno per fare del nostro Paese il leader di
una nuova fase dell’unificazione europea, vista in una prospettiva di sempre più
completa integrazione occidentale e planetaria. Formulato in altro modo, e in
una sola frase: meno diseguaglianza, ma senza alcun appiattimento, e senza
rinunciare ad alcuna differenza; e insieme: un’idea d’Italia con dentro più
Sud, più mare, più Europa e più mondo. È tutta qui – in queste sole righe – la
sinistra che aspettiamo».[39] Il grande compito della nuova sinistra dunque
dovrebbe essere quello di determinare l’introduzione di nuove forme di eguaglianza, per lo meno a livello europeo, lasciando massima libertà alle differenze. Un
compito chirurgico di grande difficoltà.
16. La questione delle diseguaglianze è ancora dunque
fondamentale anche e soprattutto nella costruzione di un programma politico. In
questa ultima parte Schiavone si accinge a discutere in profondità il senso
nuovo che la nuova sinistra dovrebbe conferire alla questione della
eguaglianza. Si tratta cioè – ricordiamolo - di connettere l’eguaglianza non
più con il lavoro bensì con la cittadinanza.
Dice Schiavone: «La
storia – sia più antica, sia recentissima – ha sedimentato nel nostro Paese
grandi strutture di diseguaglianza, che lo rendono estremamente fragile e che
stanno compromettendo la sua vita civile e politica, e il funzionamento stesso
della democrazia repubblicana. Con questa espressione – strutture di
diseguaglianza – intendo l’esistenza, stratificata nel tempo, di complessi
apparati di discriminazione, in ognuno dei quali si combinano variamente in un
unico meccanismo amministrazione, economia, società, diritto, mentalità. Essi
finora sono stati sempre in qualche modo favoriti o coperti dalla politica, e
agiscono come vere e proprie macchine del diseguale, moltiplicando i loro
effetti su fasce di cittadinanza sempre più ampie. Mi limito a indicarne
quattro, a mio giudizio più significativi: la sanità, la scuola, il mercato del
lavoro, il sistema-Mezzogiorno preso nel suo insieme: autonomie, burocrazie,
intrecci di affari, politica e criminalità che dal Sud si sono estesi all’intera
Penisola. Affrontare questi nodi e almeno iniziare a scioglierli sarebbe il
segno di un’autentica rivoluzione italiana».[40] Per questo occorre: «
[…] il
disegno di un nuovo progetto che sia in grado di costituire il nucleo di un
Patto di eguaglianza da proporre al Paese per la salvezza della sua democrazia.
Un Patto che sia già un programma politico, stretto non in nome di una classe –
che porti cioè dentro di sé il segno dell’esclusione – ma del «comune umano»
come soggetto e come valore includente e globale».[41]
17. È proprio la nozione del “comune umano”, che qui compare, a
costituire un qualche problema, una potenziale pietra d’inciampo. Schiavone
ribadisce che il programma egualitario andrebbe dunque perfezionato e portato
avanti «non in nome di una classe». E questo è il rifiuto esplicito della
vecchia prospettiva della giustizia socialista, di cui abbiamo già detto. Qui
si pone tuttavia il problema di individuare il punto di vista generale che dovrebbe sostenere il nuovo programma
egualitario. Nel linguaggio tradizionale del pensiero democratico si parlerebbe
forse del bene comune o di una
qualche ricetta per individuarlo. Si tratta in altri termini di definire il
senso del nuovo egualitarismo. E, nello stesso tempo, anche il suo retroterra sociale universale.
18. Cominciamo con il richiamare anzitutto perché non va più bene
il vecchio modello di eguaglianza. E questo non è difficile. Secondo Schiavone,
il vecchio modello di eguaglianza: «È ora di farlo scomparire del tutto: perché
crea solo equivoci, e impedisce a chi ancora lo immagina di interpretare e
capire davvero il mondo. Per farlo, bisogna guardare da un’altra parte. Bisogna
spostare l’idea di eguaglianza dal piano dell’economia dove l’aveva messo lo
sviluppo capitalistico di una volta – per non dire del pensiero di Marx – a
quello dell’etica e delle coscienze. Un cambiamento non semplice, ma decisivo:
prima impossibile, ma che adesso ci possiamo finalmente permettere, proprio
perché le basi tecnologiche della società che sta nascendo ce lo consentono.
Oggi infatti l’effetto di prossimità che le nuove tecniche permettono di
acquisire rispetto a ogni luogo del pianeta – pensiamo alla difesa dell’ambiente
come fatto globale, o all’immaginario delle giovani generazioni in tutti i
grandi centri urbani – sta rendendo per la prima volta possibile il formarsi di
una visione unitaria e totalizzante dell’umano – che ha appunto l’eguaglianza
per sua misura – senza più legarla direttamente a un modo di lavorare e di
produrre, bensì a una forma complessiva della vita: non l’unica, ma
indispensabile. E soprattutto senza cancellare o mettere in discussione le
ineliminabili diversità che pure sopravvivono all’interno di quella
rappresentazione unificante: né quelle diciamo così naturali, né quelle
sociali. E costruire questa nuova veduta – l’eguaglianza come misura dell’umano
– non come l’intuizione di una minoranza, ma come l’autorappresentazione di un’intera
civiltà».[42]
Quello che Schiavone
vuol dire – credo – è che la messa da parte dell’eguaglianza socialista non deve precipitare in un tipo di società sul
modello di Mandeville, dove ognuno persegue ferocemente solo e immediatamente
il proprio particulare.[43] Uguali in
quanto concorrenti. Se in campo economico è ammesso un settore privato, che è il settore dove si producono le differenze
più pesanti, nella sinistra si dovrà dare risalto al momento del pubblico e del
comune. Il pubblico e il comune deve avere come riferimento l’umano, cioè l’universale, che poi (credo) può essere interpretato come il cittadino universale di questo pianeta.
Sarebbe questo presumibilmente il culmine di un lungo e tormentato processo che
ha portato alla universalizzazione dei diritti umani, alla universalizzazione
condivisa di un nucleo, in continua espansione, di diritti dell’uomo. Tipico dell’oggi tanto esecrato Occidente.
Secondo Schiavone: «Si
riconduce così l’eguaglianza – il suo paradigma e il suo fondamento – a un
altro riferimento, non più produttivo e sociale, ma morale e cognitivo, in
qualche modo antropologico: una svolta senza precedenti, che libera questo
concetto da un ancoraggio ormai assolutamente inattuale: quello della
socializzazione operaia. E lo lega invece a un diverso modo, storicamente più
adeguato e più proprio, di concepire l’indiscutibile universalità dell’umano,
che oggi la nuova tecnica e la sua potenza esibiscono sotto gli occhi di tutti
con un’evidenza prima impossibile da raggiungere: a quello della sua nuda
impersonalità. Si può pensare e costruire cioè – eticamente, politicamente,
giuridicamente – la nuova eguaglianza come la forma per eccellenza dell’impersonale
umano, e rendere quest’ultimo, attraverso la sua costituzione istituzionale e
sociale, il soggetto cui attribuire i diritti (universali) dell’umano: i
diritti di un’universale e impersonale cittadinanza, non più connessa a una
forma di lavoro, né a un modo di produzione, ma al riconoscimento di una comune
identità, spersonalizzata e perciò totalmente inclusiva, l’identità dell’umano,
che ha l’eguaglianza come sua unica misura. Un’identità certo consentita dallo
sviluppo tecnocapitalistico, ma che tuttavia l’oltrepassa, sporge oltre di esso
e della sua logica, e si apre sull’ignoto».[44]
Spiega ulteriormente l’autore:
«[…]
diventa non solo concepibile, ma estremamente realistica una figura diversa e
complementare, che non si identifichi né con l’ “io” individuale della vicenda
capitalistico - borghese, né con il “noi” della tradizione socialista, ma con l’impersonalità
di quell’ “egli”, di quella “non-persona” che, senza identificarsi con alcuno,
permette a ciascuno di esistere e di pensare, e di potersi autorappresentare in
quanto umano. Perché ognuno di noi sarebbe nulla se non potesse affondare il
proprio sguardo negli occhi dell’altro – di ogni altro della terra – e
riconoscerlo come parte di un tutto al quale anch’egli stesso appartiene».[45] In
tutto questo ragionamento sull’universale, il concetto che ci è parso più
discutibile e bisognoso di qualche approfondimento in termini definitori è
quello della impersonalità. Tornerò
sull’argomento.
19. Nel successivo paragrafo Schiavone fa un tentativo di dar
corpo concreto a una definizione più precisa. Se abbiamo capito bene, nella
nuova prospettiva l’eguaglianza deve venire a patti con le differenze, che
rappresentano un bene altrettanto prezioso. Si tratta allora di definire con
cura i campi ove deve assolutamente prevalere
l’eguaglianza in nome del comune
umano impersonale dai campi invece ove è possibile anzi doveroso lasciare spazio alle differenze. Se
invece si lasciano le cose come stanno, si ha la produzione delle
disuguaglianze e l’avanzamento sistematico del disumano.
Dice Schiavone in
proposito: «Le si contrasta invece – quelle strutture [che producono
diseguaglianza, ndr] – attraverso un
approccio complessivo, che sia in grado di capovolgerle dalle fondamenta,
investendo ciascuna di esse con i criteri di una logica sociale mai prima messa
alla prova, che comprenda l’inclusione e la differenza, il pareggiamento e la
diversità. Costruendo cioè isole di nuova eguaglianza opposte e simmetriche
rispetto alle macchine del diseguale: un’eguaglianza non seriale e ripetitiva,
ma riferita in maniera puntiforme unicamente all’accesso a beni e servizi molto
precisi e determinati. Zone di parità che punteggiano oceani di differenze
individuali, anche molto accentuate, che vanno lasciate intatte al proprio
posto. E che però si dileguano fino ad annullarsi completamente quando si
avvicinano a toccare aspetti per i quali non devono più esistere singole
individualità, ma soltanto il «comune umano», nella sua interezza e nella sua
impersonale indivisibilità».[46]
Nel riconoscimento delle
universali differenze esistono dunque – secondo Schiavone – degli «aspetti per
i quali non devono più esistere singole individualità». Qi sta il nocciolo
della questione. Ci sembra di capire dunque che l’eguaglianza vada perseguita solo rispetto al “comune umano” e non
rispetto ad altre particolarità, che invece vanno utilmente lasciate
indisturbate, magari anche valorizzate. L’eguaglianza insomma non è mai
assoluta. Occorre sempre dichiarare “Uguali rispetto a cosa?”. Diventa allora
essenziale per la sinistra chiarire e concordare quali debbano essere i terreni dell’eguaglianza, i terreni del comune umano. Qui nascono le
grandi fonti di disaccordo con cui la nuova sinistra dovrà comunque confrontarsi:
le questioni relative ad esempio alla distribuzione, alla pace o alla guerra,
ai diritti individuali, alla cittadinanza, alle limitazioni per la salvaguardia
ambientale e quant’altro.
20. Una gran novità, secondo Schiavone, dovrebbe essere la
seguente: «Si tratta di un processo che deve avere al suo centro non i singoli
soggetti – gli individui – ma gli oggetti, i beni. Non deve localizzarsi all’interno
di ciascuno di noi, ma all’esterno; nel tessuto stesso della realtà, sia
naturale, sia artificiale: in quelle sue parti condivise dall’umano nel suo
insieme. Una sfera, quest’ultima, in continua espansione, grazie ai meccanismi
di controllo e di trasformazione che la tecnica introduce non solo nell’ambiente
che ci circonda, ma nella nostra stessa conformazione biologica: sulla
materialità dei nostri corpi, determinandone il destino».[47] Un’eguaglianza di
tipo distributivo rispetto a certi beni dei quali nessuno, in quanto umano,
potrebbe esser privato? Qui siamo nel campo scivoloso e complesso dei diritti umani, quelli che Bobbio
considerava in continua espansione, su cui la nuova sinistra dovrà prender
posizione. Ben al di là dei miseri elenchi che circolano nei programmi dei
candidati. Personalmente andrei cauto nel riservare la questione dell’eguaglianza
solo ai beni, agli oggetti. Abbiamo ancora molti problemi di eguaglianza che
riguardano i diritti individuali. A meno
che non si voglia considerare anche certi diritti individuali come un tipo
particolare di beni. Ad esempio il diritto per coppie omosessuali a sposarsi e
ad avere dei figli, il diritto alla cittadinanza per i nati in Italia, e così
via.
Così sembrerebbe: «Emergerebbero
così segmenti di vita regolati da un’eguaglianza che agisce in modo
intermittente e discontinuo, legata alla fruizione di alcune precise risorse, e
alla protezione di alcuni beni: l’inviolabilità della vita stessa, prima di
tutto, nella pienezza della sua esistenza, dall’alimentazione alla salute, alla
formazione. L’ecosistema nella sua interezza; l’accesso al digitale e alle
tecnologie in grado di modificare lo statuto genetico dell’umano, e così via.
Mentre rispetto a tutto il resto rimarrebbero prevalenti quei criteri di
differenziazione e di disequilibrio indotti dalla natura, dal genere, dal
mercato».[48]
Aggiunge Schiavone,
tanto per chiarire: «Negli ultimi anni la riflessione giuridica sui cosiddetti
«beni comuni», come quella sui «beni pubblici globali», entrambi patrimonio
dell’impersonalità umana che si fa soggetto giuridico e paradigma etico è
andata avanti, con risultati significativi. In queste esperienze ci si
riferisce a fasce di beni e di servizi sottratti con apposite regole al
controllo da parte del capitale, e affidate a un’altra razionalità economica –
un’economia dell’universalità umana, l’autentica economia non capitalistica
dell’impersonale, produttrice di valori d’uso e non di merci – con una
fruibilità garantita in modo eguale, e comunque al di fuori delle discipline di
mercato, all’intera cittadinanza».[49]
Possiamo pensare a
qualcosa come l’ambiente bene comune.
Possiamo pensare forse a qualcosa come il FAI, oppure i beni che l’UNESCO ha
dichiarato come patrimonio dell’umanità.
Possiamo pensare a certi progetti che girano su internet di mettere a
disposizione di tutti gli umani il patrimonio
librario universale. Oggi si adombra l’idea di un’intelligenza artificiale con cui chiunque possa interloquire per
ottenere informazioni distillate dall’enorme globale infosfera che l’umanità stessa sta costruendo
collettivamente. Si può pensare alla messa in comune di brevetti che abbiano una rilevanza “umana” come ad esempio le cure
per le malattie oppure le tecnologie per la produzione di energia pulita. Un’espansione,
dunque, della sfera del comune umano
a discapito del privato proprietario.
Alla fine del paragrafo 3 Schiavone fa alcuni esempi ulteriori presi dal campo
della discussione sui beni comuni.
Dal campo della scuola e della questione del merito e dal campo del lavoro.
21. È chiaro che dietro a tutto ciò compare la questione (che
in termini pratici diventa poi decisiva) del rapporto tra la sfera del comune e la sfera del mercato, che rimane comunque
capitalistico, per quanto possa essere ben regolato dalla mano pubblica. Schiavone precisa che: «In queste esperienze ci si
riferisce a fasce di beni e di servizi sottratti con apposite regole al
controllo da parte del capitale, e affidate a un’altra razionalità economica –
un’economia dell’universalità umana, l’autentica economia non capitalistica
dell’impersonale, produttrice di valori d’uso e non di merci – con una
fruibilità garantita in modo eguale, e comunque al di fuori delle discipline di
mercato, all’intera cittadinanza. Essa rappresenterà un fattore di riequilibrio
tra offerta (capitalistica) e bisogni (dei cittadini)».[50] Su tutto ciò si può
anche concordare. Tuttavia Schiavone dimentica una questione decisiva. Tutto
ciò può essere realizzato grazie a un intervento deciso dello Stato. Lo Stato è
l’ospite sconosciuto di tutti i dibattiti sul futuro della sinistra.
Nell’inconscio della vecchia sinistra c’è un’ambivalenza – disastrosa nei suoi
effetti – nei confronti dello Stato (e della amministrazione), il quale
dovrebbe essere il solutore di tutti i problemi ma del quale fondamentalmente
si diffida e che non di rado è considerato un nemico. Se la nuova sinistra
dovrà far pace con la tecnica e con il capitalismo, dovrà anche far pace con lo
Stato. Per far pace con lo Stato e per rafforzarlo l’unica strada è quella del patriottismo della costituzione.
Bisognerà adottare la prospettiva per cui «lo Stato siamo noi». Solo così lo
Stato potrà limitare il mercato, offrire le garanzie ai cittadini e impedire i
soprusi. Questo esclude la prospettiva della deregulation neoliberista, se non in quei casi in cui la regulation si sia mostrata
disfunzionale. Bisognerà riprendere i temi della riforma dello Stato, di cui
nessuno si interessa. Come bisognerà riprendere il discorso sulle
organizzazioni internazionali.
Anche il mercato del
lavoro potrebbe lasciar spazio a un altro tipo di mercato, oggi anticipato dal
vasto settore del volontariato,
basato sul dono alla comunità: «Mentre
in società in cui si lavorerà sempre di meno – in modo sempre più qualificato,
ma per periodi sempre più ridotti – si potrebbe prevedere di liberare in modo
sistematico una parte del tempo di lavoro dal vincolo del mercato, e di
destinarlo, sotto forma di servizio alla comunità, ad attività utili per l’insieme
della cittadinanza, scelte da chi le compie in base alle proprie competenze e
vocazioni. Questa possibilità è oggi realistica perché può passare attraverso
una separazione cruciale, una volta improponibile: quella tra il lavoro in
forma di merce – la forza-lavoro venduta e comprata sul mercato – e il lavoro
in quanto tale, come impegno e fatica per la realizzazione di sé. Un lavoro,
quest’ultimo, sottratto al mercato e alla forma di merce, e consegnato invece
alla comunità senza la mediazione del capitale. La distinzione era stata finora
impraticabile perché le condizioni tecnologiche non la consentivano: tutto il
lavoro doveva finire sul mercato per permettere la sopravvivenza materiale e la
dignità sociale di intere classi, di larghissima parte della società. Oggi
invece comincia a non essere più così».[51]
La chiave di svolta è
ancora una volta la natura storica del
lavoro e della figura del lavoratore. Schiavone in prospettiva è convinto
che: «La quantità di lavoro da destinare al mercato tenderà sempre più a
ridursi, perché una sua parte sempre maggiore sarà sostituita dalla tecnica, e
questo renderà disponibile per scopi diversi una quota sempre maggiore di
energia psicofisica umana. Si libereranno in tal modo risorse che costituiscono
un potenziale enorme, ma che oggi, per effetto di una distorsione culturale,
sociale ed economica – forse addirittura antropologica – appaiono solo come
eccedenza di forza-lavoro non impiegata, spesso con conseguenze drammatiche per
le persone escluse dal circuito produttivo; mentre si tratta di una riserva
preziosa, finalmente da poter destinare a compiti diversi, lontani dalla sola
riduzione del lavoro umano a forza-lavoro in forma di merce. È un ordine di
pensieri che si apre su immensi campi inesplorati, e che forse potrebbe anche
dirci qualcosa sulla storicità del capitale, sulla sua non eternità. Ma c’è
bisogno di studio e di coraggio intellettuale. La costruzione di un diverso
modo di essere eguali non può fare a meno di simili ricognizioni».[52]
22. Dicevamo di una certa fatica teorica da parte di Schiavone,
in questo ultimo capitolo. In effetti, le diverse questioni sembrano piuttosto
affastellate. Tutte cose assai interessanti che tuttavia faticano a trovare un
ordine concettuale ben definito. Qui si può tornare alla questione poco chiara
del concetto di impersonalità. Occorrerebbe
secondo Schiavone: «[…] distinguere le due forme in cui si realizza l’umano –
quella individuale e quella impersonale – riservando per ciascuna di esse
diverse funzioni sociali, economiche, politiche. Non è del tutto chiaro cosa
intenda Schiavone con la nozione della “non-persona” come forma di auto
realizzazione. Quando Schiavone parla di impersonalità si riferisce
evidentemente a un superamento della “persona”. Si tratta evidentemente – per
quel che abbiamo capito – di una nozione di stampo foucaultiano risalente a
Roberto Esposito.[53] Queste parentele e connessioni si possono capire
ricorrendo allo studio precedente di Schiavone, incentrato proprio sulla
nozione dell’eguaglianza.[54] Non abbiamo però capito quale vantaggio si abbia
nell’utilizzo di questo concetto. È – a nostro giudizio – un poco disdicevole
che Schiavone, intendendo produrre un manifesto politico abbia deciso, nella
sua parte centrale basilare, di legarlo ai sofismi di una discutibile filosofia
postmoderna. L’impersonale di
Esposito/ Schiavone, spogliato del linguaggio della bioetica e della biopolitica
postmoderna, assomiglia comunque alquanto, a nostro giudizio, al kantiano cittadino del mondo. Quello che ha dato
l’avvio alla tradizione moderna del cosmopolitismo. Più in generale, c’è
dietro tutta la tradizione umanistica, dai Greci ai giorni nostri.
Schiavone, nelle sue
argomentazioni, riprende in realtà più o meno consapevolmente – con un
linguaggio talvolta oscuro – tematiche vecchie e nuove che hanno alimentato analoghi
filoni di discorso. In campo antropologico si è sviluppato da tempo una
riflessione sulla economia del dono.[55]
Esiste poi un’ampia letteratura nazionale e internazionale facilmente
reperibile sull’economia dei beni comuni.
La riflessione di Schiavone sul cambiamento del significato del lavoro, è
abbastanza analoga alla riflessione prodotta recentemente da Maurizio Ferraris
intorno alla produzione di valore che
ciascuno di noi realizza, senza alcun comando, senza alcuna retribuzione, in
rete, in quanto utente delle nuove tecnologie. Lavoro che impropriamente viene
appropriato dai monopolisti del web e che invece in certa misura potrebbe
essere ridistribuito. Si veda ad esempio Ferraris 2015 e Ferraris 2021. Una
tematica analoga a diversi esempi proposti da Schiavone è quella del capitale sociale. Si tratta di un
concetto di cui si è discusso assai nell’ambito delle scienze sociali e che ha
trovato una varietà di formulazioni ma anche una varietà di applicazioni. Un’altra
tematica analoga è quella della cultura
civica della democrazia[56] a proposito della quale esiste un filone di
ricerca e riflessione che dura da decenni.
Insomma, si tratta di
uscire dai confini disciplinari della tradizionale eguaglianza lavorista e socialista
per dare luogo a una nuova elaborazione
culturale che sappia fondere varie disparate riflessioni che ci sono già e
che attendono soltanto di essere opportunamente e rigorosamente
concettualizzate. E qui ci sarà senz’altro molto lavoro da fare.
23. Schiavone contribuisce dunque, in questo suo manifesto, a
delineare un nuovo quadro culturale
per una futura nuova sinistra. O, almeno, a manifestarne fondatamente l’esigenza.
Una futura sinistra sganciata dall’ingombrante eredità socialcomunista, sganciata
dal lavorismo, capace finalmente di non demonizzare la tecnica e di mettere il
capitalismo al lavoro in nome dell’umano e non contro l’umano. Il riferimento
politico di fondo è la cultura della democrazia e la individualità autonoma
della tradizione umanistica occidentale che ha prodotto il cittadino della polis come migliore forma di vita. Se
non piacciono le proposte di Schiavone, non lo si potrà comunque ignorare,
perché quelli da lui individuati sono comunque i problemi che vanno affrontati.
Hic Rhodus, hic salta!
Schiavone inoltre evidenzia
– senza dirlo esplicitamente ma con le sue considerazioni complessive – un
altro errore della sinistra tradizionale. L’errore di avere ridotto la
democrazia a democrazia formale. Nell’ambito
della prospettiva socialista, la democrazia era impegnata a fornire l’elemento
formale, mentre l’elemento sociale e culturale era fornito dal sol dell’avvenire.
Ora che il sol dell’avvenire sembra tramontato per sempre insieme alla civiltà
del lavoro, è quanto mai urgente dar voce a un nuovo elemento contenutistico della democrazia, un nuovo profondo contenuto sociale e culturale,
incentrato intorno a una nuova modalità di concepire l’eguaglianza. È quanto
Schiavone ha cercato di fare e quanto dovremo continuare a fare noi tutti se
vogliamo mettere in marcia autenticamente la prospettiva di una nuova sinistra
democratica.
APPENDICE
Le tre, o quattro, sinistre. Poiché si parla qui di
sinistra, cosa il cui significato è oggi pressoché smarrito, può essere utile
un inquadramento in prospettiva storica dell’oggetto in questione. Per rimanere
nel campo della sinistra, secondo Hobsbawm,[57] nel corso degli ultimi duecento
anni, si sono succedute diverse sinistre.
Almeno tre.
La prima sinistra è stata quella liberale. È la sinistra che ha
combattuto l’aristocrazia: ai tempi di Luigi XVIII e di Carlo X in Francia i
Liberali si contrapponevano agli Ultras. Insomma, la prima sinistra sarebbe
quella che ha guidato le rivoluzioni borghesi e, parzialmente, i movimenti di
costruzione della nazione, soprattutto in Europa. In prossimità alla sinistra
liberale, ma anche in contrapposizione, tra Settecento e Ottocento è nata una
sinistra repubblicana e democratica. Col passare del tempo, la sinistra liberale
e quella democratica hanno trovato una sintesi ormai stabile nella cosiddetta liberaldemocrazia.
La seconda sinistra è quella che ha visto la contrapposizione tra i
primi movimenti sociali popolari e la borghesia (in questo caso la borghesia si
è spesso trovata spinta su posizioni di destra. È il caso, ad esempio, di Luigi
Bonaparte). La seconda sinistra, si è sviluppata come una sinistra di classe, ha una storia molto lunga che,
approssimativamente, dal 1848 giunge fino agli anni ‘70 del Novecento. È stata
in gran parte egemonizzata dal pensiero socialista e comunista e dalla forma
organizzativa del partito di massa. Ha dato un contributo importante alla
costruzione della nazione e alla democratizzazione della nazione, nel senso dell’inclusione
del maggior numero. Mediante un intreccio con la prima sinistra ha dato vita
alla socialdemocrazia.
La terza sinistra secondo Hobsbawm (che scrive nel 1999) sarebbe una
manifestazione recente, legata alla crisi
progressiva del conflitto di classe, cioè alla crisi delle socialdemocrazie e alla crisi dei comunismi. È una sinistra che nasce sul terreno della
società e della cultura di massa, e si caratterizza per avere una cultura
politica composita, per il possesso di forme organizzative leggere e, spesso,
per il carattere mono tematico (single
issue) delle sue campagne politiche. Sembrerebbe meno interessata alle
questioni specificatamente nazionali e più aperta a una prospettiva di tipo
universalistico.
Le cose non sono andate
proprio come previsto da Hobsbawm. Per questo mi sento di proporre una qualche variazione al suo schema. Dal mio punto
di vista la terza sinistra è la sinistra
populista, emersa (o riemersa) negli ultimi due decenni. La considerazione
del populismo come un tipo di sinistra pone alcuni problemi, poiché il
populismo si schiera spesso e volentieri anche a destra. Oggi tuttavia,
soprattutto in relazione alla situazione italiana e al caso del M5S il problema
non si pone. Possiamo pensare alla sinistra populista come uno sviluppo
degenerato derivante dalla crisi della seconda sinistra. E forse da taluni
problemi non risolti nell’ambito della prima sinistra.
Accanto a queste tre, abbiamo oggi ampi sviluppi (che Hobsbawm non poteva allora presagire) della sinistra single issue, che qui considereremo allora come una quarta sinistra.
Giuseppe Rinaldi (06/03/2023)
OPERE CITATE
1963 Almond, Gabriel A. & Verba, Sidney, The Civic Culture. Political Attitudes and Democracy in Five Nations,
Princeton University Press, Princeton.
2023 Caravale, Giorgio, Senza intellettuali. Politica e cultura in Italia negli ultimi trent’anni,
Laterza, Bari.
1997 de Mandeville, Bernard, La favola delle api, ovvero, vizi privati,
pubblici benefìci, con un saggio sulla carità e le scuole di carità e un’indagine
sulla natura della società, Laterza, Bari. [1724]
2007 Esposito, Roberto, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale,
Einaudi, Torino.
2015 Ferraris, Maurizio, Mobilitazione totale, Laterza, Bari.
2021 Ferraris, Maurizio, Documanità. Filosofia del mondo nuovo, Laterza, Bari.
2021 Floridia, Antonio, Un partito sbagliato. Democrazia e organizzazione nel Partito
Democratico. Postfazione di Nadia Urbinati, Castelvecchi, Roma. [2019]
2022 Floridia, Antonio, PD. Un partito da rifare? Le ragioni di una crisi, Castelvecchi,
Roma.
1996 Galli Della Loggia, Ernesto, La morte della patria, Laterza, Bari.
1999 Hobsbawm, Eric J., Intervista sul nuovo secolo (a cura di Antonio Polito), Laterza,
Bari.
1950 Mauss, Marcel, Essai sur le don, Presses Universitaires de France, Paris. Tr. it.: Saggio
sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi,
Torino, 1965.
1997 Rusconi, Gian Enrico, Patria e repubblica, Il Mulino, Bologna.
2023 Schiavone, Aldo, Sinistra! Un manifesto, Einaudi, Torino. Epub.
2019 Schiavone, Aldo, Eguaglianza. Una nuova visione sul filo della storia, Einaudi,
Torino.
1998 Schiavone, Aldo, Italiani senza Italia, Einaudi, Torino.
NOTE
[1] Cfr. Schiavone 2022. NB: avendo utilizzato
come fonte un testo in formato epub e non avendo gli epub una numerazione fissa
delle pagine, le citazioni saranno posizionate per quanto possibile in
riferimento all’indice del testo. Questo lavoro si serve in gran parte di un
montaggio di citazioni. Poiché le citazioni provengono da libri di Einaudi, ho
provveduto a uniformare gli accenti delle citazioni alla regola standard.
[2] Si veda la recensione assai critica di
Egidio Zacheo, su questo stesso giornale.
[3] Cfr. Schiavone 2022: “Per cominciare”.
[4] Cfr. Schiavone 2022: “Per cominciare”.
[5] Cfr. Caravale 2023.
[6] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 1”, par. 1.
[7] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 1”, par. 2.
[8] Nella Appendice, con l’aiuto di Hobsbawm,
ricostruisco una tipologia storica della sinistra.
[9] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 1”, par. 2.
[10] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 1”, par. 2.
[11] Si veda sempre la nostra Appendice.
[12] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 1”, par. 3.
[13] Ad esempio, la scissione del PD del 2017 ha
dato vita a un partito denominato “Articolo 1”, con riferimento palese alla identificazione tra cittadino e lavoratore.
Si veda la mia analisi di allora sulla natura di questa formazione politica. Cfr.
Finestre
rotte: Cosa resterà della scissione del PD?
[14] Si veda in appendice.
[15] L’uso del termine popolo al posto di classe
è un pietoso mascheramento per occultare il fatto che la classe – semmai ci sia
stata – ora non c’è proprio più.
[16] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 1”, par. 3.
[17] La diseducazione
comunista è quella che – tra l’altro – ha impedito e impedisce tuttora di
concepire il cittadino democratico
come unico riferimento della politica progressista.
[18] Mi riferisco qui alla catalogazione delle
diverse sinistre operata da Hobsbawm (cfr. Hobsbawm 1999). Egli distingue tra
una prima, una seconda e una terza sinistra. La prima sinistra è la sinistra
liberaldemocratica. La seconda sinistra quella socialista, mentre la terza
sinistra è quella che si dovrebbe ancora costruire. Si veda l’appendice.
[19] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 1”, par. 3.
[20] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 2”, par. 3.
[21] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 2”, par. 3.
[22] Il Riferimento ovvio va agli studi degli elitisti, tra cui Roberto Michels.
[23] La teoria della democrazia diretta.
[24] Cfr. Floridia 2021 e Floridia 2022.
[25] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 2”, par. 3.
[26] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 2”, par. 3.
[27] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 3”, par. 1.
[28] Si veda il mio recente intervento,
pubblicato su Città Futura, sull’ultimo libro di Diego Fusaro La fine del cristianesimo. Finestre
rotte: Note sparse intorno alla fine annunciata della trascendenza.
[29] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 3”, par. 1.
[30] Cfr. Ferraris 2021.
[31] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 3”, par. 3.
[32] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 3”, par. 3.
[33] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 3”, par. 3.
[34] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 3”, par. 3.
[35] Il dibattito in Italia fu introdotto da un
saggio di Ernesto Galli della Loggia ed ebbe notevoli contributi successivi.
Cfr. Galli della Loggia 1996.
[36] Cfr. Schiavone 1998.
[37] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 1.
[38] Cfr. Rusconi 1997.
[39] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 1.
[40] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 2.
[41] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 2.
[42] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 2.
[43] Cfr. de Mandeville 1997 [1724]
[44] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 2.
[45] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 2.
[46] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 3.
[47] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 3.
[48] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 3.
[49] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 3.
[50] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 3.
[51] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 3.
[52] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 3.
[53] Cfr. Esposito 2007.
[54] Cfr. Schiavone 2019.
[55] Cfr. Il riferimento originario è Mauss
1950.
[56] Questa tradizione di studi è stata iniziata
da Almond & Verba 1963. Significativo è lo studio realizzato in Italia dal
Politologo Robert Putnam, che ha utilizzato anche la nozione di capitale sociale.
[57] Cfr. Hobsbawm 1999.
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