1. In generale,[1] se si dà uno sguardo all’andamento delle elezioni locali nel periodo 1993-2017,
ci si accorgerà intanto come la nuova legge elettorale abbia reso assai difficile
se non impossibile comparare il risultato elettorale locale con l’andamento
delle elezioni politiche nazionali. È come se la gran parte dei rapporti tra
politica locale e politica nazionale si fosse bruscamente interrotta. La
politica nazionale sembra da allora destinata a restare sempre più sullo sfondo
e per lasciare spazio alla lotta politica
locale. Questo fenomeno potrebbe a prima vista esser considerato come un
positivo avvicinamento della politica al mondo comune della gente comune che
vive sparsa nei vari territori. Insomma, come un ampliamento della
partecipazione. Ma potrebbe anche essere interpretato, invece, un fenomeno
degenerativo di abbassamento della politica a beghe meramente locali. Quale
delle due ipotesi sia la più plausibile
emergerà alla fine della nostra analisi.
2. Per intanto possiamo cominciare a
prendere atto di un significativo offuscamento della distinzione tra destra e
sinistra. Mentre per il periodo 1946-1990 la distinzione tra destra e sinistra delle
varie forze politiche non pone difficoltà di rilievo, per il nuovo periodo le
difficoltà decisamente aumentano. Mentre il precedente sistema era marcatamente
bipolare, il nuovo sistema che è
venuto instaurandosi è decisamente pluripolare,
popolato di molte forze che non sono più collocabili sull’asse destra –
sinistra. La prima forza di questo nuovo mondo pluripolare è stata
indubbiamente la Lega Nord, la quale per certi aspetti poteva essere
considerata di sinistra e, per altri, di destra. Così molti hanno pensato a una
sua collocazione al di là delle categorie della destra e della sinistra,
riconoscendo così la fine della struttura bipolare della politica. Sono gli
anni nei quali ci si interrogava sulla fine della dicotomia tra destra e
sinistra. Da allora questo processo è continuato e si è consolidato fino ad
oggi. Si pensi che nelle elezioni alessandrine del 2017 una forza politica si è
addirittura qualificata come quarto polo.
Ormai i poli sono davvero diventati molteplici, addirittura si sprecano. A
livello locale ormai solo con fatica e nei riguardi delle formazioni politiche
di maggior peso è possibile azzardare una qualificazione destra – sinistra.
Nelle varie consultazioni elettorali troviamo una pletora di candidati e di
liste che non sono più ben collocabili. Questa novità è difficilmente
interpretabile. Può darsi che il nuovo sistema elettorale abbia registrato un pluripolarismo già presente nei fatti
tra gli elettori e prima non visibile. Ma può darsi anche che abbia dato una mano a produrlo. E poi, in
termini valutativi, si tratta di un arricchimento
del panorama politico, del pluralismo, o soltanto di una maggior confusione?
3. I risultati elettorali locali a
partire dal 1993 mostrano una notevole complessità e ambiguità nella lettura e
nella interpretazione. Da un lato occorre tener conto del voto personale dei candidati alla carica di sindaco al primo turno
e il voto del ballottaggio eventuale
al secondo turno, che è ancor più un “voto personale” del candidato a sindaco.
In proposito, è vero che il voto delle liste della coalizione entra
automaticamente a far parte del voto personale del candidato a sindaco, ma il
candidato può ottenere in sovrappiù voti che non sono andati ad alcuna lista,
oppure voti di un candidato che ha votato per un’altra lista (si tratta del cosiddetto
voto disgiunto). A maggior ragione
ciò accade nel ballottaggio, ove a essere votati sono solo i candidati e non
più le liste. D’altro canto occorre tener conto del voto alle liste che, oltre ad alimentare indirettamente il voto
personale del candidato, com’è stato detto, determina essenzialmente la
composizione del Consiglio comunale. Quando le liste apparentate a un candidato
sono numerose, si può riscontrare una ampia varietà di posizioni, da
riferimenti a marchi nazionali fino a liste che ricalcano il nome del candidato
a sindaco. Il fatto nuovo infatti è che le liste non sono più costituite dei
tradizionali partiti organizzati della Prima repubblica di cui s’è detto in
precedenza. Le coalizioni che appoggiano i diversi candidati sono ora per lo
più il prodotto dell’aggregazione di variegate forze politiche, alcune di marchio
nazionale e molte altre di marchio solo locale. Molte liste hanno un carattere assolutamente
transitorio e temporaneo, assomigliano cioè decisamente più a dei comitati elettorali a favore di un
candidato che ai partiti permanenti della Prima repubblica. Oppure sono liste monotematiche che mettono l’accento
su una particolare questione o problema e hanno poco o nulla dire circa gli
orientamenti generali.
4. I programmi presentati dai candidati
a sindaco non coincidono più esattamente con i programmi dei partiti di marchio
nazionale. Dietro alle liste e dietro al candidato ora c’è un programma elettorale di coalizione, in
cui si riconoscono il candidato a sindaco e le diverse liste coalizzate. Un
programma dunque prevalentemente incentrato sulle esigenze e sui problemi
locali, la cui redazione è spesso affidata al candidato stesso o a una
commissione locale ove prendono posto rappresentanti delle liste coalizzate. I
partiti al loro livello nazionale non forniscono dunque più alcuna stretta prescrizione
circa il contenuto dei programmi locali. D’altro canto, nonostante la retorica
della partecipazione, raramente o mai il programma è costruito attraverso forme
partecipative e/o di dibattito pubblico.
Purtroppo è costatazione comune che il programma elettorale – dopo
la presentazione burocratica – tenda a essere del tutto rimosso dal dibattito
politico corrente, anche in caso di vittoria. Accade raramente che siano organizzati
momenti periodici di confronto con i cittadini e di valutazione dell’attuazione
del programma. Spesso la valutazione dell’attuazione del programma non si fa
neanche in Consiglio. Questi programmi di fatto assomigliano sempre più a
elenchi di obiettivi, a liste della spesa
che interpretano i desiderata delle varie forze della coalizione. Si tratta di
elenchi momentanei e privi di storia, destinati a finire ben presto nel
dimenticatoio. Col passar del tempo non si è formata alcuna autentica tradizione programmatica nell’ambito di
forze persistenti e bene individuabili sul terreno locale. Si può dire
vagamente, ad esempio, che le liste di sinistra sono state a favore della
chiusura del centro storico, o per la raccolta differenziata. Ma cose del
genere non bastano a qualificare l’esistenza di una qualche visione complessiva
dello sviluppo della Città. Non esiste alcun archivio pubblico facilmente
accessibile dei programmi delle liste, per cui anche soltanto a livello storico
è difficile ricostruire gli orientamenti prevalenti delle molte liste elaborate
e presentate. Nell’intervallo di tempo tra una consultazione e l’altra le
formulazioni programmatiche sono bellamente dimenticate o rimosse.
In teoria, secondo gli intenti della legge, i candidati avrebbero
dovuto essere portatori di una proposta politica originale, tagliata su misura
per la città. È chiaro dunque che avrebbe proprio dovuto essere l’originalità del programma a fare la
differenza. In realtà, come si vedrà di consultazione in consultazione, l’originalità
del programma passerà ben presto in secondo piano per lasciare posto a una
sommatoria di desiderata provenienti dalle varie liste coalizzate. Una sorta di
programma di compromesso avente lo
scopo di aggregare quante più forze possibili, in modo da avere qualche
speranza di vittoria. In altri termini il programma si riduce spesso a un compromesso al ribasso, condito spesso
con vaghe formulazioni da libro dei sogni. Si tratta di un sistema che prenderà
forma col passar del tempo. Alle elezioni del 1993, ad esempio, troviamo ancora
diversi marchi di partiti nazionali (Lega Nord, PDS, Federazione dei Verdi,
Democrazia Cristiana, PRC, MSI-DN, UDC di Costa) ma troviamo anche nomi del
tutto locali come Alleanza per Alessandria, Laici Socialisti Verdi, Alleanza
progressista e Nuova proposta. Abbiamo tuttavia ancora 7 liste dotate di un
marchio nazionale contro 4 liste locali. Col passar del tempo, i marchi locali sempre
più temporanei e indistinti tenderanno numericamente a prevalere. Per chi
volesse rendersene conto, abbiamo compilato un’apposita tabella con tutte le
liste presentate da 1993 a oggi dai candidati che sono giunti al ballottaggio.
5. Passiamo ora a esaminare con qualche
dettaglio quanto emerge dai dati elettorali. Prima di approfondire le diverse specifiche
questioni, diamo un’occhiata alle caratteristiche più generali del periodo.
Cominciamo dalla partecipazione elettorale e cioè dall’affluenza alle urne. Se
si considera la serie degli aventi
diritto e dei votanti validi, dal
1946 fino al 2017, quel che emerge anzitutto, soprattutto negli ultimi tempi, è
un notevole e progressivo aumento della
astensione. Se la legge elettorale che ha introdotto l’elezione diretta del
sindaco (la già citata Legge 25 marzo 1993, n.81) voleva riportare i cittadini
alle urne, voleva aumentare la partecipazione, ebbene almeno su questo punto si
può dire che, almeno ad Alessandria, abbia clamorosamente fallito. Si consideri
che nel 1946 (7 aprile) gli aventi diritto furono 59.170 e i votanti validi
50.133, pari all’84,7% degli aventi diritto. Nel 2017, su 74.681 aventi diritto
si ebbero 41.592 votanti validi, pari al 55,7%. Al secondo turno ancor meno,
con il 46,4%. Nelle apposite tabelle che abbiamo preparato è contenuta una
fotografia severa di un implacabile progressivo massacro della partecipazione
elettorale. Gli alessandrini del 2017 sono diventati più civicamente analfabeti di quanto non li avesse lasciati il fascismo
nel lontano 1946.
6. Un altro semplice parametro da
prendere in considerazione è il numero dei candidati alla carica di sindaco che
si sono presentati di volta in volta. Nel periodo 1993-2017 a ogni tornata
elettorale si sono presentati in media 8 candidati per ciascuna consultazione.
Fa eccezione la tornata elettorale del 2012 ove i candidati presentati sono
stati 16, il doppio della media. Non è facile spiegare la frenesia di
candidature in quell’anno. È stata quella la tornata elettorale successiva alla
gestione Fabbio, che aveva visto l’insorgere di alcune questioni tormentate
come la chiusura del teatro e il dissesto finanziario. Più in dettaglio, i
candidati alla carica di sindaco, dal 1993 al 2017, sono stati 48, con una
media, appunto, di 8 candidati per ciascuna tornata elettorale. È interessante
esaminare la ripartizione delle candidature in termini di genere. Le candidature femminili sono state 9, contro 39
candidature maschili. In percentuale, abbiamo dunque avuto il 19% di candidature
femminili contro l’89% di candidature maschili. Evidentemente il mondo della
politica locale pare avere ancora una caratterizzazione fortemente maschile. In
contrasto con questo panorama, l’indice di successo delle candidature femminili
è stato assai più elevato. Su sei tornate elettorali i successi femminili sono
in netta prevalenza su quelli maschili: due sindacature alla Calvo e poi Scagni
e Rossa, contro i due mandati di Fabbio e Cuttica. Quattro candidati femminili
vittoriosi contro due maschili. Solo due partiti tuttavia, la Lega Nord e il
PD, hanno espresso candidature femminili vittoriose. Dato che i numeri sono
piccoli, può trattarsi di eventi casuali. Un’adeguata interpretazione
richiederebbe specifiche indagini sulle biografie politiche dei protagonisti e sulla
dinamica interna della scelta delle candidature all’interno dei partiti,
questioni che esulano dal nostro studio. È comunque degno di rilievo il fatto
che l’elettorato alessandrino non abbia esitato a dare il proprio consenso a un
numero elevato di candidature femminili.
7. Un altro semplice parametro da
considerare è il numero di liste presentate. A ogni tornata elettorale il
numero delle liste presentate da tutti i candidati ha continuato a crescere
fino al 2012. Solo nel 2017 c’è stata una lieve inversione di tendenza. La
media è di 20 liste per ciascuna elezione. La continua crescita numerica delle
liste può essere considerata come un indice tipico dello svuotamento progressivo
di significato dei partiti nazionali nel contesto locale e di frammentazione del sistema politico locale.
Nel 1993, Calvo aveva vinto da sola con la sola lista del proprio
partito. Anche i suoi competitori avevano presentato relativamente poche liste.
Evidentemente il sistema delle liste non era ancora ben collaudato. Col passare
del tempo, sono stati soprattutto i candidati che hanno ottenuto maggiori
consensi, in particolare coloro che hanno avuto accesso al secondo turno, a
presentare il maggior numero di liste. Il record spetta a Fabbio 2007, con
undici liste più quella del proprio partito. Si tende spesso a guardare con
indulgenza questo fenomeno della proliferazione delle liste, attribuendogli un
mero significato di tattica elettorale. In realtà, quando il numero delle liste
a favore di un candidato a sindaco cresce vertiginosamente, diventa lecito
domandarsi se non si tratti di meri espedienti per mettere insieme pacchetti di
voti. Spesso è davvero difficile poi rapportare le così numerose liste con il
programma del candidato. Il programma in questi casi può diventare una mera
copertura retorica dello scambio di interessi immediati.
Che le molteplici liste siano alquanto artificiose è dimostrato
dal fatto che queste, dopo le elezioni, non
si siano quasi mai trasformate in presenza politica effettiva attiva sul
territorio, o a sostegno del governo locale o all’opposizione. L’elevato
numero di liste non è dunque da intendersi in termini di elevato pluralismo, di
grande articolazione del dibattito politico. Nonostante l’elevato numero di
liste, il dibattito politico locale e la partecipazione hanno teso a diminuire
progressivamente, fin quasi a sparire.
8. Uno degli scopi della Legge 81/’93
era senz’altro quello di permettere l’elezione di candidati dalle spiccate
caratteristiche, dotati di capacità e nello stesso tempo investiti della
fiducia dei cittadini elettori. Tutto ciò doveva essere ottenuto attraverso il
cosiddetto voto disgiunto per il
candidato e per la lista. Mentre il voto alla lista implica sempre il
trasferimento del voto anche al candidato apparentato alla lista stessa, è data
la possibilità all’elettore di votare solo per il candidato, oppure per una specifica
lista e per un diverso candidato. Così ciascun candidato può totalizzare un voto personale non coincidente con la somma
dei voti delle liste a esso stesso apparente .
Se si considera la differenza
tra il voto personale e il voto di lista si avrà un indice della capacità di attrazione del candidato nei
confronti di elettori che non hanno votato per alcuna lista o che addirittura hanno
votato per un’altra lista. Calvo 1997 è stata la candidata che ha attratto
maggiormente al di fuori delle proprie liste. Il che può essere stato un
effetto del fatto di avere già compiuto, all’epoca, un mandato di sindaco. Per
il resto, i voti strettamente personali
sembrano tendenzialmente in diminuzione. Col passare del tempo inoltre il voto
personale disgiunto tende a diminuire anche considerando tutti i candidati
partecipanti alla competizione e non solo i due finalisti.
Ciò può essere segno del fatto che la qualità personale dei
candidati tende a essere considerata sempre meno
importante dagli elettori. O comunque segno del fatto che agli elettori i
candidati paiono essere sempre meno attrattivi tanto da meritare un voto
personale. Col passare del tempo, le personalità dei singoli candidati sono
sempre meno capaci di pescare al di fuori delle proprie liste. Possiamo pensare
a candidati fabbricati su misura della coalizione che li sostiene e dunque poco
capaci di costruire un proprio serbatoio personale di consensi. Inoltre, in
generale, l’aumento della astensione che abbiamo segnalato suggerisce che sia i
candidati sia le liste tendano a essere sempre meno appetibili per gli
elettori. Il voto disgiunto dunque, invece di essere attivamente sfruttato
dagli elettori per valorizzare personalità riconosciute come valide, andando al
di là degli schieramenti, pare tenda a diventare sempre più un fatto residuale.
Sembrano contare dunque sempre più gli schieramenti rispetto alle qualità
personali, più o meno come nei Consigli comunali prima del 1993. Tanto rumore per
nulla?
9. Nel periodo 1946-1990 i partiti erano, in effetti, il
centro della competizione elettorale. Erano i partiti a decidere le candidature
dei consiglieri ed erano i consiglieri eletti a votare il Sindaco e la Giunta. Un
aspetto davvero interessante è dunque il
rapporto che è venuto a instaurarsi, dopo il 1993, tra il candidato a sindaco e il proprio partito. Ogni candidato a
sindaco nella elezione diretta è ora sostenuto in particolare dal suo stesso partito,
insieme alle altre liste della coalizione. Anche nei rari casi in cui il
sindaco non sia specificatamente un uomo di partito, c’è sempre almeno un
partito che lo presenta e lo sostiene in modo particolare. Inutile quasi
ricordare comunque che il partito che ha maggior peso nella coalizione spesso
ha facilità nel proporre e sostenere un proprio candidato. Si tratta spesso di
partiti che hanno un marchio nazionale. È interessante allora andare a vedere
quale sia la quota di consensi che almeno i principali candidati hanno ricevuto
dai loro stessi partiti. Il maggior apporto dei voti da parte del suo partito è
stato assicurato dalla Lega Nord a Calvo 1993 (19.268) e poi dal PDS a Mario Ivaldi
1997 (12.206). La quota dei voti apportati al candidato dal suo stesso partito
tende tuttavia a diminuire col passare del tempo. I candidati, col passare del
tempo, tendono dunque a essere sempre meno sostenuti dal loro stesso partito. D’altro
canto ciò significa anche che la capacità
dei partiti di assicurare al loro candidato una quota certa e consistente di
voti pare essersi decisamente affievolita. I partiti che esprimono il
candidato tendono dunque sempre più a mescolarsi con le altre liste locali di
appoggio. E tendono dunque a essere soggetti anche loro a una miriade di
condizionamenti.
10. I partiti (anche quelli che hanno un peso, con riconosciuto
marchio nazionale) tendono dunque a funzionare sempre meno come partiti
organizzati sul territorio (come accadeva nel precedente periodo 1946-1990) e
tendono sempre più a comportarsi anche
loro come comitati elettorali
che, in prossimità delle elezioni, nel corso di un confronto o magari di una lotta interna fratricida, scelgono di
appoggiare un candidato piuttosto che un altro. Del resto, nella mancanza di
presenza continuativa sul territorio, al momento della raccolta dei consensi
elettorali, può accadere che il bottino si faccia sempre più magro. Un altro
motivo della diminuzione di peso del partito del candidato è dovuto al fatto
che, comportandosi ormai solo più il partito locale come comitato elettorale
del suo stesso candidato, ciò può creare facilmente fratture, inimicizie
personali, frazionismi che contribuiscono a lacerare
i partiti locali stessi e a diminuire ulteriormente il loro peso nella
raccolta dei voti.
I metodi per diminuire le lacerazioni interne in
occasione della scelta del candidato ci sarebbero. Mi riferisco in particolare
alle primarie, assai discusse ma poco
praticate. Tuttavia questo metodo non risulta sia mai stato usato per scegliere
i candidati a sindaco in Alessandria. Le primarie furono una parola d’ordine
lanciata all’indomani della formazione del PD, nel 2007. All’inizio ebbe grande
consenso e sembrava destinata a diffondersi anche presso altri partiti. Poi la
simpatia per le primarie è andata via via decrescendo e ora anche nel PD la si
pratica sempre più raramente. Tuttavia le primarie, sul piano prettamente di
teoria, non possono che essere la logica conseguenza della scelta di fondo
della elezione diretta del sindaco.
Sta a testimoniarlo la plurisecolare tradizione americana. A meno che non si
voglia tornare all’italico nostro vecchio sistema dei notabili, prima del
proporzionale.
L’assenza di primarie per l’individuazione dei
candidati ha conseguenze piuttosto gravi nella vita interna stessa dei partiti
(almeno di quelli principali). La conseguenza è che il candidato a sindaco che eventualmente
vince le elezioni diventa anche leader
del partito locale, prende in mano il partito stesso e provvede tosto a
mettere da parte gli eventuali oppositori interni o gli eventuali concorrenti. In
tal modo si pone fine a qualsiasi
possibilità di controllo da parte del partito sull’operato del sindaco eletto.
È come se l’elezione diretta avesse contagiato in profondità la struttura
stessa dei partiti e ne avesse del tutto minata la già precaria democrazia
interna.
Ma non è finita. In caso di vittoria, con la
fine della sindacatura, si apre una nuova lotta interna che determinerà, a
seconda degli esiti, eventualmente una nuova leadership. Questo fenomeno appare piuttosto evidente nel PD
alessandrino (e nei suoi antecedenti PDS e DS). La candidata Scagni, dopo avere
esercitato un mandato di sindaco, con la perdita nei confronti di Fabbio entra
in dissidio con il partito e nel 2012 si presenta con lista propria contro la
nuova candidata Rossa del proprio vecchio partito. Dal canto suo, la candidata
Rossa nel 2017 ha trovato in concorrenza molte liste con all’interno fuoriusciti
dal suo stesso partito. Si può sostenere che si tratti solo di questioni personali, ma la ricorrenza di
fatti del genere può far avanzare il sospetto che si tratti piuttosto ormai di
un dato strutturale. La competizione personale
interna al partito, non regolamentata, senza primarie, è destinata a
trasformarsi in una costante sequela di faide interne che lacerano il partito
stesso e lo dissanguano. Più o meno come nei comuni medievali, dove i perdenti
erano fatti fuori senza pietà e condannati all’esilio. L’indebolimento
progressivo del PD in seguito a questa situazione è testimoniato dai risultati
elettorali, dai dodicimila voti raccolti nel 1997 a favore di Mario Ivaldi ai
sette-ottomila delle ultime consultazioni. Per capire di cosa stiamo parlando,
ricordo che nelle elezioni del 1990 il PCI aveva raccolto 17.775 voti, la DC
14.252 e il PSI 20.807. Un capitale
elettorale completamente dilapidato.
11. Una simile debacle
complessiva merita qualche tentativo di interpretazione. Ciò che abbiamo
descritto è una tendenza che potremmo definire come “americanizzazione” del
voto locale. Il fatto di avere spostato l’asse della competizione elettorale
dai partiti ai candidati ha cambiato
profondamente la natura stessa dei partiti. Ha fatto sì che i partiti si mobilitino
principalmente in occasione della competizione elettorale tra i candidati
stessi, nel momento in cui – appunto – devono funzionare da comitato elettorale di qualcuno. In
queste condizioni, la militanza politica permanente degli iscritti s’isterilisce,
poiché non è più la militanza per il
partito – quale che sia il candidato – ma la militanza per un candidato, e per il suo programma, nel momento elettorale.
Non ha più alcun senso per me lavorare per il partito se poi il partito candida
il mio avversario interno. In questo modo accade che, nelle occasioni
elettorali, il partito non abbia più una base agguerrita di militanti da
impiegare nelle iniziative di propaganda. A mobilitarsi sono soltanto i diretti
supporter del candidato. Che poi sono
quelli che pensano di partecipare in
qualche modo allo spoils system. Insomma,
finisce che le primarie sono sostituite dalle elezioni stesse. Il candidato che
perde è fatto fuori, quello che vince si prende il partito e fa fuori i suoi
avversari interni. Se non si fanno primarie, se non c’è un autentico dibattito
politico, se i candidati poi sono scelti per lo più attraverso compromessi di coalizione, è chiaro che
i supporter indipendenti saranno
sempre di meno. Il numero sempre più elevato delle liste di coalizione d’altro
canto rende sempre più difficile organizzare eventuali elezioni primarie. Questo
perché le coalizioni si fanno sul momento, in base a mille compromessi, e
l’ingresso in scena della opinione degli elettori non può che disturbare i
manovratori.
12. Un altro aspetto interessante che
possiamo ricavare dai dati è che anche i partiti principali (quelli che hanno
un marchio nazionale e hanno un relativamente elevato numero di voti) col
passare del tempo tendano a funzionare sempre meno bene anche solo nel ruolo già
limitativo – e autolesivo, come abbiamo visto - di comitati elettorali. Abbiamo messo a confronto il PD, la Lega Nord
e Forza Italia (trascurando i diversi nomi con cui questi partiti si sono
presentati alle elezioni locali nel periodo considerato). Ebbene, tutti e tre
mostrano un trend discendente anche
soltanto nella loro capacità di fungere da comitati elettorali. Il PD, nel suo
declino, declina un po’ meno dei concorrenti. Nelle ultime elezioni del 2017 il
PD è presente con 8.077 voti, la Lega Nord con 5.280 voti e Forza Italia con 3.996
voti. L’unico andamento lievemente anomalo in questo declinare è il caso di
Forza Italia che – in quanto partito personale - ha segnato un inatteso exploit di 14.206 voti a supporto della candidatura
di Fabbio 2007, per scendere però poi ai 4.000 circa delle ultime elezioni.
13. Il quadro che emerge dunque sembra
proprio essere quello di una sorta di americanizzazione
della politica locale, dove però sono esaltati soprattutto i difetti del
modello americano. I partiti locali sono sempre meno presenti e sempre più incapaci
di sviluppare un’attività politica costante sul territorio. Essi tendono a
funzionare più che altro come comitati elettorali solo in occasione delle
elezioni, quando c’è da scegliere e da sostenere un candidato. In occasione
delle elezioni questi partiti tendono ad allearsi con una moltitudine di liste
locali, nate sulla base di interessi momentanei e destinate a sparire
altrettanto presto, dopo le elezioni. Spesso sono i partiti stessi che alimentano
la formazione di queste liste temporanee, pensando di trarne qualche immediato
vantaggio. La campagna elettorale è condotta con strumenti che tendono sempre
più a fare a meno dei militanti o dei supporters.
Tende a mettere in rilievo, sui manifesti, le faccione dei candidati e tende a
far circolare pochi slogan ecumenici che non vogliono dire gran che. Non si
fanno neanche più i gazebo, perché
non ci sono più i militanti che sarebbero necessari. La propaganda sui social è ancora più misera e povera di
informazione. I programmi effettivi dei candidati – in genere improvvisati e scritti
frettolosamente in orrendo burocratese da oscuri ghost writer – non vengono neppure divulgati e raramente sono fatti
oggetto di serio dibattito pubblico. Anche perché uno spazio pubblico ove si
dibatta autenticamente di politica non c’è più. La campagna elettorale talvolta
può animarsi con la presenza sul territorio locale di qualche leader nazionale giunto da fuori che
viene a fare un comizio, a stringere un po’ di mani e a fare un po’ di selfie. La campagna elettorale locale spesso
si risolve in qualche serata in cui i candidati sono presentati al pubblico e
sono superficialmente intervistati da qualche giornalista o presentatore. Dove
le domande sono spesso preconfezionate. Dove il pubblico, se c’è, manifesta il
proprio parere con fischi e/o con applausi sfegatati. Sono questi i massimi risultati
dei diversi comitati elettorali al lavoro. Fine delle elezioni, fine del dibattito
politico.
14. La scena più divertente cui abbiamo
assistito, in quel di Alessandria, in una delle scorse campagne elettorali, è
una serata nella quale tutti i candidati a sindaco erano stati invitati a
presentarsi pubblicamente portando con sé un oggetto che fosse simbolicamente
rappresentativo del proprio programma elettorale. E i candidati erano invitati
dal presentatore a parlare del proprio programma elettorale a partire da quell’oggetto.
Una simpatica riesumazione di «mostra e dimostra», una tecnica narrativa classicamente
usata nelle scuole elementari americane. In un’altra serata più o meno dello
stesso genere, chi scrive ricorda che il candidato aspirante sindaco che
ricevette il maggior numero di applausi dal pubblico presente fu colui che
aveva promesso severissimi provvedimenti contro i padroni dei cani che
abbandonano per strada le deiezioni dei loro cari animaletti. Così la politica
alessandrina sembra destinata a occuparsi sempre più attentamente di questioni altamente
“concrete”, come gli oggettini simbolici da mostrare al pubblico o come le
deiezioni dei cani, e sempre meno di argomenti fumosi e “astratti”, come
l’uscita della città dal declino sociale, economico e culturale che
l’attraversa ormai da tempo.
15. Abbiamo parlato di declino della politica in Alessandria e
tale è. Con qualche rigore in più forse avremmo dovuto parlare di fine della politica. Ma forse
Alessandria non merita neanche lontanamente l’applicazione di una simile
categoria che è di ordine più che altro filosofico. Insomma, pochi clamori tra
la Bormida e il Tanaro! Ci siamo attenuti ai dati elettorali e le nostre interpretazioni
sono ampiamente emerse dai dati stessi. Avremmo potuto usare altre strategie di
analisi, ad esempio andando a leggere e comparare i programmi presentati dai
candidati, oppure leggendo i bilanci, oppure facendo l’analisi del contenuto
delle dichiarazioni dei politici locali. O esaminando i provvedimenti delle
Giunte. O intervistando un campione della popolazione sulle questioni del governo
locale. Altri volenterosi, se ci saranno, potranno provvedere con tali modalità.
Difficilmente tuttavia pensiamo si troveranno conclusioni diverse dalle nostre.
Forse la valutazione potrebbe ulteriormente peggiorare.
Ci si lamenta spesso del declino economico della città. Tuttavia ci si dimentica troppo facilmente del fatto che dietro al declino economico c’è sempre il declino della classe politica unito al declino dello spirito pubblico. L’immobilismo. La mancanza di creatività, di capacità strategiche. La gestione dell’ordinario. La cura degli interessi particolari. Invece del grande salto nella modernità, in seguito alle grandi trasformazioni dei primi anni Novanta, Alessandria ha fatto, a quanto pare, un grande salto nella mediocrità.
Giuseppe Rinaldi (17/12/2020)
Scarica la pubblicazione intera in PDF (60 pagine, con tutte le tabelle e le figure)
[1] Questo saggio, che pubblico
suddiviso in due puntate, riprende in
toto la parte interpretativa di un più ampio lavoro di riflessione e
documentazione contenuto in un mio fascicolo di una sessantina di pagine che ha
un titolo analogo (versione 2.1). Per motivi di spazio ho escluso qui le
numerose figure e tabelle, e i relativi commenti. La pubblicazione originaria è
disponibile e può essere agevolmente scaricata attraverso gli appositi link
forniti in calce. Ho avuto modo di discutere di alcuni aspetti del presente
saggio con gli amici Franco Livorsi e Nicola Parodi. Li ringrazio per le loro
critiche, consigli e suggerimenti. Naturalmente la responsabilità di quanto
contenuto nel saggio è solo mia.
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