
 
 
1. Credevamo di sapere, più o meno a spanne, cosa fosse 
il populismo.[1] Ora pare proprio che ci fossimo sbagliati. La questione pare 
assai più controversa di quanto non avessimo mai pensato. Incontriamo sempre più 
spesso, infatti, autorevoli commentatori, studiosi e leader politici che parlano 
tranquillamente di «populismi democratici» e di «populismi di sinistra». La cosa 
fa uno strano effetto. Per noi che apparteniamo al secolo ormai trascorso, 
sentir parlare, ad esempio, di «populismo democratico» non può che evocare una 
buffa contraddizione in termini, un animale impossibile, più o meno come l’ircocervo di crociana memoria. Lo 
stesso vale per «populismo di sinistra» che ci pare piuttosto assomigliare al 
famoso sarchiapone, animale 
perfettamente descritto in uno dei tanti mondi possibili, ma del tutto 
inesistente nel mondo reale. Se questa nuova fauna viene sempre più ampiamente 
sdoganata senza suscitare alcuna protesta vuol dire evidentemente che il 
significato di termini quali democrazia, sinistra 
e populismo è radicalmente cambiato, 
o comunque sta subendo uno stiramento davvero senza precedenti. Sia ben chiaro
 che non siamo fautori di un conservatorismo concettuale a 
priori. Ammettiamo tranquillamente che nomina 
sunt consequentia rerum e che, quindi, al mutar della realtà possiamo 
vederci indotti a cambiare, anche radicalmente, i nostri attrezzi concettuali. 
La domanda è se siamo effettivamente giunti a questo punto. O se, invece, queste 
licenze logiche e terminologiche non siano esse stesse da considerarsi come una 
conseguenza del dilagare stesso del populismo. Un dilagare che sta facendo 
scempio dello stesso linguaggio, non solo di quello comune ma anche di quello 
specialistico.
2. Una buona occasione per discutere e approfondire il 
rapporto sia tra il populismo e la dottrina standard della democrazia[2]
 sia quello tra il populismo e la dicotomia tra destra / sinistra ci è fornita
 dalla pubblicazione presso Laterza del libro Per 
un populismo di sinistra di Chantal Mouffe.[3] La studiosa inglese (di 
origine belga) è conosciuta per la sua attività, negli ultimi decenni, insieme a 
Ernesto Laclau, nell’ambito di una corrente di studi su socialismo, populismo e 
democrazia.[4] A differenza di molti politici e intellettuali che il populismo 
l’hanno per lo più praticato nelle più diverse declinazioni, Laclau e Mouffe 
hanno invece cercato di sviluppare una vera e propria teoria 
del populismo, dai caratteri alquanto insoliti e originali. Come conseguenza 
di questa stessa attività teorica, recentemente Mouffe è sempre più spesso 
intervenuta attivamente a sostegno di vari movimenti come Podemos
 o La France insoumise, individuati
 come «populisti di sinistra». Ha suscitato diverse simpatie anche presso la
 nostrana sinistra - sinistra. Insomma, Mouffe rappresenta oggi colei che si sta
 sobbarcando il compito di fornire al nuovo populismo una fondazione filosofica
 e politologica di ampio respiro, oltre a un conseguente fattivo appoggio
 pratico.
3. Quella di Mouffe / Laclau è senz’altro una 
prospettiva teorica eterodossa, che spesso è stata definita come post-marxista, 
sebbene forse la dizione più corretta potrebbe essere quella di poststrutturalista 
o, addirittura, di postmoderna. I 
due Autori sono, in effetti, caratterizzati da un certo eclettismo 
di fondo che cerca di connettere in una visione unitaria concezioni invero assai 
disparate che paiono più che altro essere accomunate da una qualche opposizione 
alla modernità. Sono stati influenzati in modo particolare dallo strutturalismo, 
da Althusser in particolare, dal pensiero di Gramsci e dalla psicoanalisi 
(soprattutto quella lacaniana). Non mancano neppure copiosi riferimenti a 
Machiavelli e a Carl Schmitt. Non è nostra intenzione, qui, entrare 
dettagliatamente nel merito della teoria dei due Autori, che peraltro presenta 
una certa complessità e, talvolta, alcune oscurità. Cercheremo piuttosto, in 
quel che segue, di compiere una lettura critica del libro della Mouffe, 
utilizzandolo per evidenziare e discutere i problemi che abbiamo segnalato in 
apertura. Problemi che, al di là della teoria, rivestono oggi una schietta 
dimensione pratico - politica. Prenderemo in considerazione le questioni 
teoriche di fondo solo quando ci sembrerà necessario.
4. Per chi non conosca le teorie elaborate dai due 
Autori conviene comunque sviluppare qualche considerazione introduttiva. La 
posizione post-marxista di Laclau e Mouffe si caratterizza anzitutto per quello 
che loro chiamano anti 
essenzialismo. Si tratta, in parole povere, di un rifiuto della prospettiva 
della lotta di classe, com’è stata definita nella teoria marxiana e marxista. 
Questa posizione implica, come diretta conseguenza, anche un abbandono di 
qualsiasi forma di determinismo socio 
economico. Gli schieramenti che si confrontano nel campo politico non sono 
più principalmente determinati dagli interessi materiali delle parti in causa, 
quanto da aggregazioni di significati che si formano sul terreno retorico 
linguistico. In questo senso vanno i copiosi riferimenti a Gramsci (al Gramsci 
dei Quaderni, in particolare) e alla 
sua prospettiva culturalista. Va 
segnalato tuttavia che l’anti essenzialismo dei due Autori s’inscrive più che 
altro nell’orizzonte del relativismo
 e delle filosofie postmoderne, 
quegli orientamenti cioè che notoriamente hanno sottoposto a critica e rifiutato
 radicalmente tutti i tipi di fondazionalismo e tutte le «grandi narrazioni» 
della modernità, comprese le diverse ideologie politiche di matrice 
illuminista.
I due Autori – e questa è forse la loro principale 
caratterizzazione - hanno sviluppato una originale teoria 
del potere politico tutta incentrata intorno alla nozione gramsciana di egemonia. Si tratta, indubbiamente, di 
un particolarissimo uso della filosofia gramsciana, caratterizzato da forti 
coloriture foucaultiane. L’egemonia 
è concepita nei termini di un’egemonia esclusivamente culturale, la
 quale si esercita all’interno di uno spazio politico che è, a sua volta,
 concepito come uno spazio discorsivo di
 tipo retorico. Non si tratta quindi, qui, di cultura in senso antropologico
 ma di cultura intesa in termini di comunicazione. Si nota una certa influenza 
da parte di Saussure e della sua teoria linguistica che si manifesta soprattutto
 nel fatto di intendere lo spazio 
politico come uno spazio di 
opposizioni, entro il quale ciascun elemento retorico acquisisce il suo 
significato solo in relazione alla posizione degli altri elementi. Naturalmente, 
all’interno dello spazio politico il problema non sarà tanto quello di definire 
un meccanismo di opposizioni significative utile alla produzione linguistica, 
come in Saussure, quanto quello di stabilire l’identità 
politica dei contendenti e, contestualmente, il loro peso specifico in 
termini di conflitto e di potere 
politico egemonico. 
L’impostazione di fondo dei due autori – già lo abbiamo 
segnalato - è alquanto relativistica 
e lo spazio politico è da loro considerato come irrimediabilmente frammentato e 
disordinato. Poiché lo scopo della politica è di costruire dei soggetti 
collettivi in competizione, la formazione dei contendenti avviene attraverso 
l’aggregazione in blocchi di punti di 
vista che possono essere considerati tra loro equivalenti. 
I due autori parlano in proposito di catene di equivalenza. Nell’agone 
politico, ha maggiori probabilità di divenire egemone chi riesce a costruire, a 
discapito degli avversari, un’aggregazione in termini di equivalenze che sia più 
forte delle altre.
5. Con ciò abbiamo enunciato tutto quel che ci serve 
per giungere a comprendere un concetto fondamentale, secondo Laclau e Mouffe, e 
cioè proprio a quello del popolo. 
Per i due Autori, un’identità egemonica che si costituisca nel campo politico in 
contrapposizione agli avversari, grazie a una catena di equivalenze, costituisce 
un popolo.[5] Il popolo quindi altro 
non è se non un’aggregazione
 volontaristica ottenuta con strumenti di tipo retorico. Il popolo, inoltre,
 si costituisce in termini di opposizione, contro chi è ritenuto nemico 
del popolo. È il caso di far notare che il popolo non costituisce una 
semplice maggioranza transitoria: la formazione egemonica del popolo 
– si capisce dal testo – qualora abbia successo non si limita a governare (a 
detenere cioè il potere politico in quanto maggioranza) ma conferisce 
la sua forma a un’intera epoca storica,[6] poiché caratterizza non solo le
 decisioni politiche, ma un’intera prospettiva sociale e culturale. La
 formazione egemonica può essere considerata, insomma, alla stregua di uno schema culturale in senso foucaultiano,
 capace di caratterizzare un’intera epoca storica. Mouffe fa gli esempi del tatcherismo, oppure del neoliberismo 
oppure, ancora, della socialdemocrazia.[7] Volendo trovare
 precedenti illustri, la formazione egemonica di un popolo può ricordare 
l’hegeliano Spirito del 
tempo.
6. A partire dalla loro concezione egemonica del 
potere, Laclau e Mouffe hanno elaborato e proposto un modello politico da loro 
definito come democrazia radicale. 
Il termine “democrazia” potrebbe qui far pensare che i due autori, una volta 
abbandonato il marxismo, siano approdati a una teoria della democrazia in senso 
standard. In effetti non è proprio 
così: la loro democrazia radicale 
sembra non coincidere con la democrazia standard – anche se pare che non vi si 
opponga del tutto, almeno secondo l’opinione di Mouffe. 
Mouffe spiega, infatti, come ci siano, a suo parere, 
due modelli di strutturazione del campo politico: il modello 
associativo e il modello 
dissociativo. Afferma in proposito l’Autrice che: «Esistono due modi per 
immaginare il campo politico. Il primo dei due, il modello associativo, lo vede 
come il terreno della libertà e dell’agire di concerto. In alternativa, il 
modello dissociativo concepisce la sfera politica come un terreno di conflitto e 
antagonismo. La mia riflessione condivide la visione dissociativa […], per cui 
sono due i concetti chiave per comprendere la natura del politico: «antagonismo» 
ed «egemonia».».[8] 
Laclau e Mouffe mirano dunque niente meno che a fornire 
una nuova teoria del politico. Il 
“modello associativo” da cui Mouffe prende le distanze corrisponde evidentemente 
alla visione contrattualistica, che 
è quella in base alla quale è nata l’idea stessa della democrazia e che è 
confluita nel modello standard. 
Attraverso il suo modello dissociativo, incentrato invece sui 
concetti chiave di antagonismo ed egemonia, pare dunque che Mouffe voglia 
conferire alla sua nozione della democrazia radicale un fondamento 
non contrattualistico. Si tratta in effetti di un fondamento che presenta 
molte analogie con la coppia concettuale schmittiana di amico/nemico. 
Il popolo “sovrano” non nascerebbe più in seguito a un contratto, bensì intorno 
a una formazione egemonica (il popolo di cui s’è detto) che si definisce nella 
contesa contro qualcun altro.[9] 
Nel modello dissociativo della Mouffe non esistono 
dunque individui singoli che si associano, si sottomettono a una volontà 
generale e poi deliberano, come nel 
contrattualismo classico. Non esistono neppure soggetti che si scontrano per 
tutelare la sfera dei loro interessi particolari. I soggetti che si confrontano 
nel campo politico sono entità di significato costituite attraverso le armi 
della retorica, attraverso le catene di equivalenza. Quello di Laclau/ Mouffe è 
un modello di società politica dove non esistono individui autonomi, teste 
libere che si contano attraverso il voto, ma piuttosto poli opposti, agglomerati 
di significato che si scontrano per l’egemonia. Gli individui mobilitati nel
 conflitto sono solo tenui emanazioni dei poli egemonici stessi.[10]
Insomma, la politica non è principalmente il campo 
dell’aggregazione. Essa è bensì vista come un prodotto dello scontro, 
dell’antagonismo. Nel campo politico non c’è spazio per la neutralità, per 
regole super partes. Il popolo, per 
costituirsi ha bisogno di individuare i suoi nemici. Esso si costituisce sempre 
contro i nemici del popolo. La 
natura ultima della politica è data dal farsi popolo contro coloro che sono 
individuati come nemici. È stato ovviamente obiettato a Laclau che la sua 
descrizione del populismo come fondamento del politico potrebbe 
perfettamente adattarsi anche a descrivere il partito nazista. In effetti, nei 
concetti fondativi del politico 
populista di Laclau e Mouffe, cioè nell’antagonismo e nell’egemonia, non c’è 
davvero nulla che possa predeterminare le regole di una democrazia in senso 
standard. Manca cioè completamente l’idea del patto e del cittadino sovrano di 
matrice illuminista. 
La non esistenza di individui autonomi che possano 
sottoscrivere un contratto è ricavata dai due Autori – lo vedremo in seguito – 
attraverso una complessa teorizzazione di stampo psicoanalitico e post 
strutturalista circa la debolezza e la frammentazione dell’Io. La 
caratterizzazione post moderna di questa prospettiva dovrebbe essere evidente: 
l’individuo autonomo, tipico della modernità, quello che attraverso un patto 
andava a costituire il cittadino, per questi teorici, non esiste più (o, forse, 
non è mai esistito). Ci sono solo posizioni retoriche forti o deboli che 
definiscono di volta in volta la labile natura degli aggregati di individui. Gli 
individui sono emanazioni del campo di forza (o di potere) che li egemonizza 
(attraverso il dominio e/o il consenso). [11]
7. Mentre nel modello standard della democrazia il bene comune viene definito attraverso 
strategie argomentative che devono 
seguire determinate regole – le regole ad esempio che sono state definite da 
Habermas nella sua teoria dell’agire 
comunicativo – nel modello conflittuale di Laclau e Mouffe esso è 
individuato solo ed esclusivamente attraverso strategie 
retoriche dove, più che la ragione 
argomentativa o l’etica della 
comunicazione, prevale la forza 
di ciò che si equivale. La forza, come si è visto, è data dalla capacità 
retorica di costruire catene di equivalenza tra molteplici domande politiche 
eterogenee e, quindi, di conferire un maggior peso alla formazione
 discorsiva che diventa egemone. Da ciò si può desumere come, per gli Autori
 che stiamo considerando, non abbia alcun senso un’opinione 
pubblica di tipo habermasiano. Più che l’etica della comunicazione sembra 
sia valutata soprattutto l’efficacia 
della comunicazione stessa al fine di produrre un popolo 
antagonistico il più compatto e il più ampio possibile.
Va evidenziato che, in questo quadro teorico, le stesse 
regole della democrazia cessano di essere un elemento invariante, super 
partes, definito dal patto 
originario: esse sono costantemente coinvolte nella stessa costruzione 
retorica egemonica. In altri termini, nella teoria di Laclau/ Mouffe non ci sono 
le basi fondative per una Costituzione sottoscritta da tutti e che impegna 
tutti. La Costituzione è riduttivamente, di volta in volta, il complesso delle 
regole scritto da chi è egemone, cioè dai vincitori. Le regole della democrazia 
vigenti in un certo momento possono sempre essere contestate e ribaltate da 
un’azione contro egemonica. Ciò deriva dal fatto che sia il sistema politico sia 
le sue fonti di legittimità sono costituite solo ed esclusivamente in termini di 
retorica. La democrazia radicale di Mouffe è una democrazia dove non esistono 
mai poteri costituiti, ma dove il 
potere egemonico è per definizione sempre e in ogni momento un potere 
costituente all’opera (che pretende – così vien detto – non di realizzare 
la democrazia ma di radicalizzare la 
democrazia). Si tratta insomma di un sistema democratico privo di stabili 
fondamenti contrattualistici, del tutto fluido, che vive in un regime di rivoluzione permanente. Indubbiamente,
 in tutto ciò si sente un forte odore di Schmitt. Sono queste le banali e
 prevedibili conseguenze di un anti
 fondazionalismo e di un machiavellismo spinti all’estremo, 
indubbiamente tipici delle filosofie postmoderne.
8. Veniamo ora più propriamente al populismo. 
L’Autrice non accetta ovviamente la nozione corrente di populismo,[12] che è per 
lo più rivestita di connotazioni negative, poiché basata sulle narrazioni della 
modernità e sulla teoria standard della democrazia. Il populismo – e qui 
troviamo la compiuta applicazione della teoria di cui sopra – viene invece 
definito nei termini seguenti. Si tratta di: «[…] una strategia discorsiva per 
la costruzione di una frontiera politica, che opera attraverso la divisione 
della società in due campi e chiama alla mobilitazione “i derelitti”, chi è
 sfavorito, contro “chi è al potere”. Il populismo non è una ideologia e non può
 essere ricondotto a un contenuto programmatico specifico. Né si tratta di un
 regime politico. È un modo di fare politica che può assumere forme differenti a
 seconda del momento e del luogo, ed è compatibile con diverse cornici
 istituzionali. È legittimo parlare di un “momento populista” quando, sotto la
 pressione delle trasformazioni politiche o socioeconomiche, l’egemonia
 dominante è destabilizzata dalla moltiplicazione di domande insoddisfatte. In
 queste situazioni, le istituzioni esistenti non riescono ad assicurarsi la
 fiducia delle persone, poiché tentano di difendere l’ordine costituito. Come
 risultato, il blocco storico che fornisce la base sociale della formazione
 egemonica si trova disarticolato ed emerge la possibilità di costruire un nuovo
 soggetto di azione collettiva – il popolo – capace di riconfigurare un ordine
 sociale sentito come ingiusto».[13]
Questa descrizione fornita da Mouffe ci pare ricalcare 
esattamente lo schmittiano stato di 
eccezione, la descrizione cioè di un potere costituente in atto. Un altro 
modo per parlare di una situazione 
rivoluzionaria. Si noti l’espressione utilizzata: «divisione della società». 
Non si tratta di una divisione dell’opinione pubblica e degli elettori tra una 
maggioranza e una minoranza, all’interno di un popolo sovrano dotato di una 
Costituzione, bensì tout court della 
divisione della società tra un 
popolo che mira all’egemonia e un corrispettivo nemico 
del popolo. Quello che Rousseau chiamava con reverenza «il sovrano» e di cui 
cercava di garantire in ogni modo l’unitarietà, viene tranquillamente spaccato 
in due e contrapposto. Si noti che si dà per scontato che ci siano i derelitti e 
coloro che sono al potere, dimenticando che nella democrazia non ci sono 
derelitti o potentati, visto che in essa vale il principio «una testa, un 
voto».[14] Si dà evidentemente per scontato che le istituzioni democratiche 
siano solo forme di copertura al servizio di chi spadroneggia (potentati, élite, 
oligarchie). Vediamo all’opera qui la solita teoria del disvelamento, secondo 
cui la democrazia rappresenterebbe soltanto una forma di inganno, la 
giustificazione formale dell’oppressione di alcuni ai danni di altri. Il 
conflitto politico e il conflitto sociale tornano a essere la stessa cosa, come 
nel marxismo. 
Mouffe sostiene, in effetti, che la spaccatura 
populista avviene inevitabilmente quando le istituzioni vigenti non sono in 
grado di soddisfare le domande politiche del pubblico. Il populismo dovrebbe 
dunque essere considerato come una sorta di processo politico di rifondazione 
delle istituzioni democratiche già fallite. È questa, in sostanza, la 
riproposizione della situazione della guerra civile, che sia poi 
effettivamente combattuta o meno in maniera cruenta, ove lo scopo dello scontro 
è quello di rifondare l’ordine sociale e istituzionale già compromesso. È chiaro 
che il populismo, in questa accezione, rompe con la situazione esistente e tenta 
di fondare un nuovo ordine sociale, politico e istituzionale. Il populismo così 
inteso non amministra mai la banalità dell’ordinario 
ma s’impone in un quadro di eccezione (tanto per continuare a 
seguire lo Schmitt).[15]
Tutto ciò – è appena il caso di sottolinearlo - si 
oppone nettamente alla teoria standard della democrazia. Stando al linguaggio 
della teoria standard, il populismo di Laclau/ Mouffe, definito in questi 
termini, non può che essere considerato eversivo o, se si preferisce, rivoluzionario. 
Evidentemente è proprio per questo carattere che la democrazia di Mouffe e 
Laclau è da loro qualificata come radicale. Nonostante condivida questa 
teoria del politico, a tutti gli
 effetti nient’affatto democratica, o per lo meno estranea 
alla democrazia standard, Mouffe ritiene però – come vedremo - che il suo 
populismo non sia incompatibile con la stessa democrazia standard. 
9. Che la sua democrazia radicale non sia priva di
 ambiguità è un fatto riconosciuto dalla stessa Mouffe, in un capitolo del suo
 libro che s’intitola Radicalizzare la
 democrazia. Afferma infatti l’Autrice: «Alcuni credevano che auspicassimo
 una rottura con la democrazia liberale con la creazione di un regime del tutto
 nuovo. In realtà desideravamo incoraggiare la «radicalizzazione» dei principi
 etico-politici del regime liberaldemocratico, «libertà e uguaglianza per 
tutti». Una dimensione importante di questo progetto era mettere in discussione 
il convincimento di diverse persone schierate a sinistra che, per costruire una
 società più giusta, fosse necessario abbandonare le istituzioni
 liberaldemocratiche e costruire una politeia del tutto nuova, una nuova 
comunità politica. Da parte nostra, affermavamo che nelle società democratiche 
sarebbe stato possibile compiere importanti passi avanti in direzione 
democratica mediante un impegno critico con le istituzioni esistenti 
».[16]
In questo passaggio, la democrazia radicale viene 
reinterpretata nei termini di una realizzazione autentica dei principi della 
democrazia standard. Questa estrema “fluidità” concettuale è probabilmente resa 
possibile dal sincretismo postmoderno e in certa misura dall’onnipotenza della 
retorica. Ad ogni buon conto, Mouffe ammette che ci siano dei principi
 importanti della democrazia (su quale base teorica siano ricavati non è molto
 chiaro – evidentemente sulla base di una teoria
 associativa della politica e non di una teoria
 conflittuale!), che soffrono per una loro mancata attuazione: «Il problema
 delle società democratiche moderne[…] era che i loro principi costitutivi di 
«libertà e uguaglianza per tutti» non erano messi in pratica. Il compito della
 sinistra non era di sbarazzarsi di questi valori ma di combattere per la loro
 attuazione. La «democrazia radicale e plurale» che sostenevamo può dunque
 essere concepita come una radicalizzazione delle istituzioni democratiche
 esistenti, con il risultato di rendere i principi di libertà e uguaglianza
 effettivi in un numero crescenti di relazioni sociali. Ciò non richiedeva una
 rottura radicale di tipo rivoluzionario, una rifondazione totale. Al contrario,
 l’obiettivo poteva essere raggiunto in maniera egemonica, attraverso una
 critica immanente che mobilitasse le risorse simboliche della tradizione
 democratica».[17] È chiaro qui che si gioca sulla differenza tra un semplice enhancement della democrazia esistente 
e la costituzione di una diversa 
democrazia radicale (qualunque cosa ciò voglia significare). Il problema è – 
come s’è visto – che la visione antagonistico – egemonica non è molto 
compatibile con i principi della democrazia, almeno di quella standard. Il 
percorso suggerito per “radicalizzare la democrazia” rischia di non essere 
affatto democratico. 
 Prosegue l’Autrice: «Credo che una strategia populista 
di sinistra possa, sempre attraverso una critica immanente, intervenire e 
mettere in discussione la postdemocrazia fino a ripristinare la centralità dei 
valori democratici di uguaglianza e sovranità popolare. Questa tipologia di 
intervento è possibile perché, anche se il neoliberalismo li ha relegati in 
secondo piano, i valori democratici svolgono ancora un ruolo centrale 
nell’immaginario politico delle nostre società. Inoltre, la loro funzione di 
critica può essere riattivata per sovvertire l’ordine egemonico attuale e 
crearne uno differente».[18]
Se comprendiamo bene, nel quadro normativo del “popolo 
sovrano” delle attuali democrazie rappresentative sarebbe possibile, su un 
terreno agonistico egemonico non tanto ben definito, costruire un popolo
 populista che trovi la sua aggregazione proprio intorno alla retorica 
dei principi della democrazia. Si tratterebbe insomma di giocare – nell’ambito 
delle democrazie liberali – la carta di un’espansione dell’elemento democratico 
che finora sarebbe stato sacrificato a spese dell’elemento liberale: 
«Contrariamente a quanto si sostiene di solito, la strategia populista di 
sinistra non è una manifestazione della «estrema sinistra», ma una via 
differente per immaginare la rottura con il neoliberismo attraverso il recupero 
e la radicalizzazione della democrazia. […] È proprio all’interno della cornice 
dei principi costitutivi dello Stato Liberale – la divisione dei poteri, il 
suffragio universale, il sistema multi partitico, i diritti civili – che sarà 
possibile far progredire tutte le attuali domande democratiche. Opporsi alla 
postdemocrazia non consiste nell’abbandonare quei principi, ma nel difenderli e 
radicalizzarli».[19]
Il progetto della democrazia 
radicale di Mouffe, nonostante questi chiarimenti, continua purtroppo, a 
nostro modesto avviso, a rimanere assai ambiguo. Il progetto di un ampliamento 
delle libertà, dell’eguaglianza e della sovranità popolare è sempre possibile 
nel quadro normativo della democrazia rappresentativa standard, purché tutto ciò 
sia sostenuto da un’adeguata maggioranza. Non si capisce perché tutto ciò 
dovrebbe costituire una radicalizzazione della democrazia. Il
 fatto è, purtroppo, che una definizione del politico
 come quella proposta da Mouffe/ Laclau, basata sull’antagonismo e 
sull’egemonia, non è affatto compatibile con la democrazia rappresentativa 
standard. Non ci può davvero essere in democrazia un popolo
 populista che divide in due il popolo sovrano, già giuridicamente definito
 dalla Costituzione, e che sviluppa un conflitto antagonistico contro l’altra
 parte. Le regole, i principi, i valori della democrazia rappresentativa non
 possono essere degradate a semplici retoriche usate dalle parti in conflitto
 per i propri disegni egemonici. Si è visto recentemente in Italia cosa può 
succedere quando le parti usano la 
riforma della Costituzione come tattica politica ordinaria. 
Il fatto è che Mouffe pensa, forse in termini di retro 
pensiero, che l’attuale ordinamento democratico standard sia già stato 
completamente stravolto dalla attuale formazione egemonica della postdemocrazia 
e quindi ritiene che per rimettere in funzione la democrazia stessa (cioè per 
realizzare la sua democrazia 
radicale) sia necessaria una lotta egemonica – condotta però sul terreno 
stesso della democrazia. È un altro modo per sostenere che attualmente la 
democrazia non c’è più, che siamo in una condizione di emergenza 
e che quindi, il popolo 
egemonico, come nuovo sovrano, 
dovrebbe accingersi a ricostituire quel che la postdemocrazia ha 
disfatto.
Si tratta, come ognun vede, di affermazioni assai 
generiche, confuse, di ordine piuttosto disparato, per certi aspetti anche 
condivisibili, anche se talvolta lasciano trasparire gli effetti indesiderati 
del groviglio teorico postmoderno che fa da sottofondo alla teoria. Non è ben 
chiaro quale possa essere il rapporto tra una democrazia 
rappresentativa che realizzi finalmente i propri principi e una democrazia
 radicalizzata che veda l’esercizio del potere egemonico antagonistico di un 
popolo contro l’oligarchia che lo
 opprime. Non è molto chiaro come una democrazia rappresentativa già instaurata 
abbia bisogno del populismo per
 radicalizzarsi, cioè per diventare più
 democratica.
10. La teoria che abbiamo cercato di sintetizzare - al 
meglio delle nostre capacità - permette a Mouffe di interpretare i recenti 
eventi storico politici dell’Occidente come un avvicendamento di diversi 
“popoli” egemonici. Alla formazione egemonica di stampo socialdemocratico, 
basata sul welfare state keynesiano, 
sarebbe succeduta la formazione egemonica neoliberale. Entro questa formazione 
si sarebbe determinata da un lato la crisi della democrazia, che avrebbe portato 
a quella che Mouffe chiama post 
democrazia, o post politica, sulle orme di Colin Crouch.[20] Dall’altro, si 
sarebbe determinata una crescente oligarchizzazione della società. Contro questa 
situazione post democratica – che come conseguenza avrebbe determinato anche un 
blocco della politica 
antagonisticamente intesa – sarebbero oggi insorti i movimenti populisti, dando 
vita all’attuale momento populista. 
Il nuovo populismo dunque costituirebbe una ripresa 
della politica antagonistica e ciò andrebbe considerato come qualcosa di 
eminentemente positivo.
11. Se il populismo – come è stato sostenuto da Mouffe 
- è la giusta rivolta dei derelitti contro i privilegiati, in tutte quelle 
situazioni in cui il sistema politico non fornisce le risposte dovute, allora ogni populismo dovrebbe essere buono. 
Mouffe ritiene invece, non senza qualche incoerenza, di dover distinguere tra un 
populismo di destra e un populismo 
di sinistra. Solo quest’ultimo 
sarebbe effettivamente buono, e cioè 
in grado di radicalizzare
 effettivamente la democrazia. Osserva Mouffe che: «Entrambe le tipologie di
 populismo mirano a federare le domande insoddisfatte, ma lo fanno in modi del
 tutto dissimili. La differenza sta nella composizione del “noi” e nel modo in
 cui l’avversario, il “loro”, è definito. […] Il populismo di sinistra […] 
desidera restaurare la democrazia per rafforzarla ed estenderla. Una strategia
 populista di sinistra ambisce a riunire le domande democratiche in una volontà
 collettiva per costruire un “noi”, un “popolo” che fronteggi un avversario
 comune: l’oligarchia».[21] Purtroppo Mouffe non dice con altrettanta chiarezza
 cosa “fa” invece il populismo di destra.
Non è davvero facile capire cosa significhi “restaurare 
la democrazia per rafforzarla ed estenderla”. Abbiamo visto come, per 
Laclau/Mouffe, la democrazia è una retorica che può essere usata nel quadro 
antagonistico egemonico contro l’oligarchia, le élite, i potentati che opprimono 
il popolo. In questo quadro però la classica distinzione tra destra e sinistra 
sembra destinata a venir meno. Il popolo in effetti può trovare la propria retorica unificante intorno a 
qualsivoglia obiettivo, come la costruzione di un muro sui confini, oppure 
intorno alla lotta contro l’oligarchia di Bruxelles. Non si capisce su quali 
basi teoriche i brexiter o gli Orban 
debbano essere considerati peggio di Podemos o di La 
France Insoumise. Nulla assicura che la lotta contro i nemici del popolo, 
individuati sulla base delle retoriche populiste, porti effettivamente a un 
rafforzamento e a un’estensione della democrazia. Oltretutto, per dire con 
chiarezza cosa significa rafforzare ed estendere la democrazia, una precisa 
teoria del contenuto della 
democrazia (non soltanto di tipo conflittuale) bisognerebbe pur averla. 
12. Sembra poi che, secondo Mouffe, i populismi 
di destra non siano proprio “di destra” secondo l’accezione tradizionale. 
Avendo tutti i populismi una radice in una condizione di malcontento, nel quadro 
di una opportuna retorica egemonica anche i populismi di destra possono essere
 arruolati nella battaglia per la democrazia radicale. Insomma, si prospetta, 
probabilmente sulla base della comune origine in termini di fondazione teorica, 
la possibilità di un passaggio dal populismo di destra a quello di sinistra.[22] 
Afferma infatti Mouffe che: «Per fermare la crescita dei partiti populisti di 
destra è necessario elaborare una risposta schiettamente politica attraverso un
 movimento populista di sinistra che federi tutte le lotte democratiche contro
 la postdemocrazia. Anziché escludere a priori gli elettori dei partiti
 populisti di destra, perché necessariamente animati da passioni primitive,
 condannandoli quindi a restare sempre prigionieri di quei sentimenti, è
 necessario riconoscere il nucleo democratico all’origine di molte delle loro
 domande. Un approccio populista di sinistra dovrebbe provare a fornire un
 lessico differente per orientare quelle domande verso obiettivi più
 egualitari».[23]
Anche qui non è chiaro cosa siano e che senso abbiano 
gli «obiettivi più egualitari». L’egualitarismo è – ahimè - una tipica 
narrazione della modernità che fa una certa fatica a trovare posto nel 
vocabolario politico postmoderno. Nella teoria conflittuale di Laclau/ Mouffe, 
ad esempio, non c’è proprio alcuna base per sostenere l’inclusione degli 
immigrati. Se il popolo oppresso 
trova la sua costituzione contro gli 
immigrati, e così diventa egemone, si avrà un legittimo populismo di destra. Per 
includere gli immigrati occorrerà basarsi sulla ripresa delle retoriche 
della modernità, sulla base di valori universalistici, cioè sulla base delle 
tanto deprecate grandi 
narrazioni.
13. Su queste basi, Mouffe spiega quelle che sono, a 
suo parere, le ragioni di incomprensione tra quel che resta dei partiti 
socialdemocratici e i nuovi populismi: «I partiti socialdemocratici, che in 
molte nazioni hanno svolto un ruolo importante nell’attuazione delle politiche 
neoliberali, sono incapaci di cogliere la natura del momento populista e di 
fronteggiare la sfida che rappresenta. Prigionieri dei loro dogmi postpolitici e 
riluttanti ad ammettere gli errori commessi, non sanno riconoscere che molte 
delle domande articolate dai partiti populisti di destra sono domande 
democratiche, cui bisogna fornire una risposta progressista. Molte di queste 
domande provengono, infatti, dai gruppi maggiormente colpiti dalla
 globalizzazione neoliberale e non possono essere soddisfatte entro la sua
 cornice».[24] Aggiunge l’Autrice: «Classificare i partiti populisti di destra
 come “di estrema destra” o “neofascisti”, e attribuire il loro appeal alla
 mancanza di cultura di chi li sostiene è una soluzione fin troppo comoda per le
 forze di centrosinistra. È un facile espediente per sminuire il fenomeno senza
 riconoscere le responsabilità dello stesso centrosinistra per questa
 emergenza».[25]
Su questo punto saremmo tentati di dar ragione a 
Mouffe, se non fosse per il fatto che non è davvero facile distinguere gli effetti della globalizzazione sulla 
condizione di vita delle grandi masse dagli effetti 
della attiva propaganda populista. È davvero difficile considerare Orban, 
con tutti i suoi seguaci, come un semplice effetto 
della globalizzazione. Si può concordare sul fatto che l’accusa di fascismo 
tout court rivolta ai populisti sia 
inappropriata. Il fatto è che tra il fascismo e la democrazia c’è un ampio 
spazio di gradazioni intermedie dove si consuma piuttosto l’estraneità
 alla democrazia.
Avremmo comunque, seguendo Mouffe, una specie di 
bizzarro raddoppio dello spazio politico: partiti di destra e sinistra 
tradizionali che rappresenterebbero la postdemocrazia oligarchica e, quindi, non 
sarebbero in grado di rappresentare efficacemente gli antagonismi egemonici. 
Poi, i nuovi populismi, che 
sarebbero gli autentici portatori del conflitto contro le oligarchie, a loro 
volta suddivisibili in populismi di 
destra e populismi di sinistra. 
In questa pletora, solo i partiti populisti di sinistra sarebbero però in grado 
di costruire (evidentemente in termini egemonici) e sostenere la nuova democrazia 
radicale. Questo perché più egualitari. Dunque i populismi di sinistra 
dovrebbero sviluppare una retorica basata sull’egualitarismo per arruolare gli 
elettori populisti di destra. Un programma che ci pare davvero bello 
e impossibile.
14. Mouffe sembra non rendersi conto che, se si guarda 
ai contenuti delle lotte e dei conflitti contemporanei, non è semplice 
individuare dei contenuti che sicuramente costituiscano un avanzamento (o radicalizzazione che dir si voglia) 
della democrazia. Certe domande politiche non è davvero chiaro se siano 
democratiche o anti democratiche. Ad esempio, la costruzione della linea ad alta 
velocità Torino – Lione può essere interpretata come un attentato alla 
democrazia (quella locale dei valligiani della val di Susa) o come un progresso 
nell’integrazione europea del nostro Paese. La questione posta dai No Vax, 
ugualmente, può essere intesa come l’estensione del diritto democratico di
 disporre del proprio corpo, oppure come un attentato alla salute pubblica.
 Stessi problemi riguardano cose come il salario minimo, oppure il “reddito di
 cittadinanza” grillino. Tutti gli interventi volti a valorizzare il merito
 possono essere interpretati come democratici oppure come anti democratici. È 
abbastanza ovvio che nelle società occidentali odierne non bastano più i 
cappelli generici della maggiore 
partecipazione o della maggiore 
uguaglianza a qualificare certe domande politiche come democratiche o anti 
democratiche. Proprio la «fine delle grandi narrazioni» rende privi di un 
criterio unificatore della miriade di domande politiche e quindi mette le 
rivendicazioni continuamente una contro l’altra. E non è detto che la retorica 
delle equivalenze riesca là dove l’ideologia arranca.
15. Abbiamo già accennato alla sussistenza di un certo 
eclettismo in queste posizioni che 
stiamo esaminando. Una specie di anything goes applicato alla politica 
corrente. Mouffe, nonostante la sua base filosofica postmoderna, sembra in 
taluni passaggi del suo ragionamento farsi sostenitrice della democrazia 
rappresentativa, ritenendo dunque che questa sia del tutto compatibile con la 
sua visione agonistica: «La società è di per sé divisa e attraversata da 
rapporti di potere e antagonismi, e le istituzioni rappresentative permettono 
l’istituzionalizzazione di questa dimensione conflittuale. Per esempio, in una 
democrazia pluralista i partiti politici forniscono cornici discorsive che 
permettono alle persone di dare un senso all’insieme delle relazioni sociali in 
cui sono inscritti, nonché di percepire le loro linee di frattura. Se 
concordiamo sul fatto che la coscienza degli agenti sociali non è l’espressione 
diretta della loro posizione «oggettiva» ed è sempre costruita discorsivamente, 
è chiaro che le soggettività politiche saranno plasmate da discorsi politici 
concorrenti e che i partiti saranno essenziali nella loro elaborazione. I 
partiti, dunque, forniscono degli indicatori simbolici che permettono alle 
persone di posizionarsi nella realtà sociale e dar senso al loro vissuto. […] A 
causa della svolta postpolitica, i partiti hanno perso la capacità di svolgere 
un ruolo simbolico, ma ciò non dovrebbe condurci alla conclusione che la 
democrazia possa farne a meno».[26]
È chiaro che una cosa come l’istituzionalizzazione 
della dimensione conflittuale non dovrebbe trovare alcun appiglio nella
 concezione di Mouffe e Laclau. Bisognerebbe ipotizzare la sussistenza di un
 altro potere istituzionale che è al di sopra delle parti, diverso da
 quello delle diverse egemonie che si scontrano. Ci si dovrebbe per lo meno
 domandare quale sia la sua provenienza e la sua legittimità. Si prospetterebbe
 la ridicola possibilità di una «teoria conflittuale» o antagonistica che trovi
 però il suo spazio di azione 
protetto in una dimensione istituzionale regolata di democrazia 
rappresentativa. Ci viene in mente il “partito rivoluzionario istituzionale” 
messicano.
Questa confusione di fondo genera proposizioni come la 
seguente: «Il problema principale delle attuali istituzioni rappresentative è 
che non permettono il confronto agonistico tra progetti differenti di società, 
condizione per una democrazia in vigore. È dunque la mancanza di un confronto 
agonistico a privare i cittadini della loro voce, non il modello 
rappresentativo. Il rimedio non risiede nell’abolire la rappresentanza ma nel 
rendere le istituzioni più rappresentative. È proprio questo l’obiettivo di una 
strategia populista di sinistra».[27]
Pare che Mouffe voglia mantenere le istituzioni 
rappresentative (secondo il modello standard della democrazia) e tuttavia, 
accanto ad esse, vuole assicurare un conflitto agonistico, con tanto di 
populismo di sinistra, per renderle più democratiche. È come far coesistere la 
democrazia rappresentativa con la lotta di classe o con le guerre di religione. 
Insomma, parrebbe che le istituzioni siano rappresentative solo quando 
rappresentano il conflitto antagonistico. Un conflitto però che deve essere 
autentico e sostantivamente diverso dal conflitto ingessato e “istituzionale” 
tra la destra e la sinistra tradizionali. Si ha il paradosso di un popolo 
che si costituisce e diviene egemonico (e costituente)
 e che tuttavia si fa regolare dalle istituzioni (già 
costituite). Si tratta, insomma, di stare dentro alla democrazia 
rappresentativa epperò di starne anche fuori.
16. Il capitolo clou del libro di Mouffe s’intitola La costruzione di un popolo. Qui forse
 si chiariscono, in prospettiva pratica, alcuni dei dubbi e delle ambiguità 
della teoria che abbiamo sottolineato in precedenza. Assodato che gli individui 
non hanno una loro effettiva autonomia e sono collocati in un campo di forze
 retoriche che tendono a catturare il loro consenso e che gli attori autentici
 della politica sono i popoli 
egemonici che si costituiscono nel campo politico, sempre attraverso 
artifici retorici, diventa massimamente rilevante esaminare come si proceda in 
pratica a costruire il popolo. 
Oltretutto, la terminologia è invero piuttosto insolita, poiché implica che, 
nello stesso spazio politico, possono coesistere diversi popoli
 che si trovano in conflitto per l’egemonia. Insomma, una pluralità di popoli in
 competizione antagonistica. Solo alla fine si saprà qual’era il popolo 
autentico – più o meno come nella filosofia della storia di Hegel. Eviteremo qui 
di scendere nei dettagli e cercheremo di sintetizzare per punti gli elementi che
 ci sono sembrati più significativi. Per chi fosse interessato, un intero
 capitolo del libro (il cap. 2) è dedicato a esaminare quello che per Mouffe è
 stato un caso classico di “costruzione del popolo” e cioè il tatcherismo.
Il 
nemico. Anzitutto, 
secondo Mouffe, la costruzione di un popolo nello spazio politico (siamo sempre 
in una prospettiva di democrazia 
radicale) richiede l’individuazione di un nemico. La presenza del nemico 
pare inevitabile se si parte dall’assunto dell’estrema frammentazione della 
domanda politica. La spiegazione è assai semplice: in una situazione di estrema 
frammentazione, è molto difficile unirsi per qualcosa. Molto più facile unirsi 
contro qualcosa. Afferma Mouffe che: 
«[…] la costruzione di una volontà collettiva attraverso una catena 
equivalenziale richiede la designazione di un avversario comune. Questa mossa è 
necessaria per definire la frontiera politica che separa il «noi» dal «loro», un 
confine decisivo nella costruzione di un «popolo» ».[28] L’impianto pare qui
 completamente schmittiano, caratterizzato da una relazione dicotomica tra
 amico/ nemico. In contrapposizione non troviamo più, come nella democrazia
 standard, diverse argomentazioni
 volte a definire un bene comune attraverso la regola della maggioranza, bensì
 diversi blocchi retorici, uno dei quali riuscirà a prevalere grazie alla sua
 abilità nello stabilire le catene di equivalenza tra le diverse e disparate
 domande. E questo grazie alla sua capacità retorica di stabilire una frattura
 noi-loro. Se si tiene presente che il blocco egemone corrisponde a una globale visione del mondo (come nel 
caso del tatcherismo) e che può 
cambiare in fieri le regole stesse 
della democrazia - poiché queste sono regole come tutte le altre, a disposizione 
di chi è egemone - non si può non manifestare una certa inquietudine e non
 rilevare come il ricorso al nemico
 sia sufficiente a vanificare la stessa nozione standard della democrazia. 
La 
cittadinanza fluttuante. 
In contrapposizione a coloro che sono stati abituati a considerare la 
cittadinanza come una costruzione cumulativa destinata a espandersi sempre 
più,[29] Mouffe delinea una concezione piuttosto fluida e fluttuante della cittadinanza, tanto da risultare 
allarmante: «La cittadinanza, pur essendo una categoria centrale per una 
democrazia liberale pluralista, può essere intesa in modi tra loro diversi che 
determineranno concezioni della politica molto divergenti».[30] Dunque, anche la 
nozione della cittadinanza è sottoposta 
a contesa e alla definizione che ne vien data, di volta in volta, dal potere 
egemonico vincente. Vien da domandarsi che fine possano fare in questo contesto 
i diritti di cittadinanza e le 
garanzie. Mouffe esalta la partecipazione dei cittadini (che tuttavia nelle sue 
parole pare piuttosto una mobilitazione 
continua) e si appella addirittura alla tradizione 
civica repubblicana, forse in omaggio a Machiavelli o a Quentin Skinner, ma 
poi scivola sorprendentemente fino ad ammettere che cittadino 
è solo chi appartiene a un certo popolo. Così afferma, infatti, Mouffe: «Una
 concezione democratica radicale di cittadinanza, concepita come ciò che
 fornisce la base di un’identificazione comune per le persone coinvolte nelle
 diverse lotte democratiche, potrebbe essere il luogo di costruzione di un 
“popolo” mediante una catena di equivalenze. Identificare come cittadini tutti 
coloro il cui obiettivo politico è la radicalizzazione della democrazia è ciò 
che unirebbe gli agenti sociali».[31] Fa rabbrividire pensare che, secondo 
questa concezione “innovativa”, si considerano cittadini
 del popolo solo coloro che sono coinvolti nelle lotte radicali. E gli
 altri? Li appendiamo ai lampioni? È chiaro che qui siamo in presenza di una
 plateale confusione tra la cittadinanza
 come istituzione – che non può che appartenere a tutti i cittadini – e
 qualsiasi altro progetto di espansione
 dei diritti di cittadinanza che sia professato da una posizione politica
 particolare. Qui comunque lo stiracchiamento e il balletto dei concetti va
 davvero oltre ogni limite.
Il 
leader. Mouffe, dopo aver 
criticato – non molto chiaramente - forme negative di leadership, ritiene che il 
leader possa avere una funzione 
costruttiva nella formazione del popolo: «[…] il leader può anche essere 
concepito come un primus inter 
pares, ed è possibile stabilire una relazione differente, meno verticale, 
tra leader e popolo. Inoltre […] una volontà collettiva necessita di una qualche 
forma di cristallizzazione degli affetti condivisi, e i legami con un leader 
carismatico possono svolgere una funzione di primo piano in questo 
processo».[32] È chiaro che, se l’individuo post moderno è per definizione 
debole e frammentato, allora sarà necessaria la cristallizzazione
 degli affetti, o si renderà disponibile la identificazione tra i singoli e
 il leader. Si spera che almeno il leader non sia “debole e frammentato”. Tutto
 ciò, naturalmente, in barba a tutta la letteratura disponibile (compresa quella
 psicoanalitica) che getta montagne di dubbi sugli ambigui rapporti tra leader e
 masse.
I 
sentimenti delle masse. 
Mouffe dichiara poi esplicitamente che la componente 
affettiva ha una grande importanza nella costruzione di un popolo. Infatti 
sostiene che: «La mancata comprensione della dimensione affettiva nel processo 
di identificazione è, dal mio punto di vista, una delle ragioni principali per 
cui la sinistra, chiusa in una cornice razionalista, è incapace di afferrare le 
dinamiche della politica».[33] Oggi - devo qui osservare a mo’ di battuta - 
attribuire alla sinistra una qualificazione di razionalista 
ha un effetto davvero piuttosto buffo, ma è perfettamente chiaro quel che 
intende l’Autrice. E ancora, sempre sulla stessa questione: «Riconoscere il 
ruolo cruciale svolto dalla dimensione affettiva in politica e dal modo in cui 
può essere mobilitata è di fondamentale importanza per progettare una strategia 
populista di sinistra che abbia successo».[34] Il motivo fondamentale è sempre 
la convinzione della non unitarietà del soggetto condivisa da Mouffe (e un po’ 
da tutta la filosofia postmoderna). In sostanza, l’individuo cui fa riferimento 
la teoria standard della democrazia è un individuo relativamente unitario, che 
sa cosa vuole, conosce i suoi interessi e quelli della collettività, e che è in 
grado di sostenere le sue scelte. O, comunque, un individuo che è in grado di 
maturare le proprie scelte discutendone con gli altri. L’individuo cui fa 
riferimento la teoria conflittuale di Mouffe in realtà non sarebbe affatto 
unitario, sarebbe scisso e passerebbe continuamente da una forma di consenso 
all’altra. Tutte identificazioni transitorie. L’unica sua identità sarebbe 
costituita dalla successione erratica di questi passaggi.
Evitiamo qui per brevità di riprendere tutti gli 
approfondimenti della questione proposti dall’Autrice. Ci limitiamo a notare 
come la qualifica di irrazionalismo
 che spesso è rivolta, in forma critica, alla politica populista è qui invece
 considerata come la condizione del
 successo di qualsiasi politica e quindi anche delle politiche populiste che
 dovrebbero svilupparsi in un ambito democratico radicale. Insomma, se volete
 vincere, un po’ di irrazionalità non guasta.
Si noti, concludendo questa rassegna degli espedienti 
per costruire il popolo, come questi 
procedimenti siano da Mouffe considerati non solo espedienti pragmatici che 
machiavellicamente possono portare al successo. Questi processi costituirebbero 
la realtà effettuale del politico 
(saremmo stati tentati di dire l’essenza 
del politico, se Laclau/ Mouffe non avessero esplicitamente dichiarato il 
proprio anti essenzialismo). E, 
soprattutto, la base effettuale della sua democrazia 
radicale. Il populismo sarebbe quindi la manifestazione più elementare della 
politica, da cui ahimè deriverebbero tutte le altre. In questo senso, come 
abbiamo visto, il populismo stesso – nella versione di sinistra – può candidarsi 
a rinnovare la politica che sarebbe 
stata distorta dalla post democrazia neoliberista.
17. A questo punto abbiamo accumulato numerosi 
elementi, sia di tipo descrittivo sia di critica puntuale, che possiamo cercare 
di utilizzare per dirimere, almeno sommariamente, le questioni poste all’inizio, 
e cioè se termini come «populismo democratico» o «populismo di sinistra» abbiano 
un qualche senso o se, invece, non siano da considerarsi come ircocervi
 e/o sarchiaponi. 
Un primo elemento che s’impone, e che possiamo dare per 
acquisito, è il fatto che parlare di populismi democratici può essere 
ammesso – pur con il rischio di suscitare notevole confusione - in un senso 
meramente descrittivo, riferendosi con ciò a quei nuovi populismi che di fatto 
operano nel quadro delle democrazie rappresentative e che non intendono – almeno 
esplicitamente nei loro programmi – sovvertirle. Questo è tuttavia un 
significato decisamente banale e di scarsa qualità contenutistica, magari utile 
per la catalogazione dei diversi attuali partiti populisti o per comparare i 
populismi storici antidemocratici con quelli odierni. La presenza
 di fatto di movimenti e partiti populisti nei sistemi democratici 
contemporanei non è tuttavia sufficiente a chiarire se questi populismi possano 
essere considerati come effettivamente 
democratici sul piano della teoria politica.
Se andiamo appena oltre il significato strettamente 
descrittivo allora ci imbattiamo immediatamente nella questione della 
compatibilità dei nuovi populismi con la democrazia standard. La qual cosa è 
ampiamente emersa nel corso della nostra discussione delle posizioni di Laclau/ 
Mouffe. Va da sé che la teoria di Laclau /Mouffe non esaurisce la complessità 
dei nuovi movimenti populisti. Essa comunque, allo stato attuale, pare essere la 
teoria più compiuta e consapevole e perciò la possiamo considerare come 
particolarmente rappresentativa. D’altro canto, i diversi specifici movimenti e 
partiti populisti hanno i loro intellettuali, i loro leader, i loro mezzi di
 informazione e i loro programmi. Sarà compito di un’analisi comparata dei vari
 populismi produrre una descrizione empirica dei loro presupposti teorici. 
Un’interessante introduzione a questo tipo di indagine si può trovare nel 
recente Graziano 2018. Sul piano pratico più che su quello teorico, una esigenza 
di chiarificazione e di coordinamento a livello internazionale dei vari 
movimenti populisti è sorta nell’ambito del populismo stesso. Sono noti gli 
sforzi da parte di Steve Bannon per costruire una specie di Internazionale 
populista. L’apparato teorico di cui dispone Bannon sembra tuttavia 
abbastanza limitato e non particolarmente originale – senza dubbio di gran lunga 
inferiore a quello di Laclau / Mouffe - risalendo più che altro alla tradizione 
della cultura della estrema destra, sebbene il suo potere di attrazione sembri 
alquanto elevato. 
18. Esaminando da vicino la teoria di Laclau/ Mouffe, 
abbiamo potuto renderci conto che non è 
davvero facile fare a meno della teoria standard della democrazia. La stessa 
Mouffe, dopo avere cercato una fondazione del tutto antimoderna del politico
 è stata in un certo senso costretta a recuperare il quadro istituzionale della
 democrazia rappresentativa. In sostanza, non è facile definire e far funzionare
 la democrazia al di fuori della sua base teorica moderna e illuministica o,
 peggio, contro di essa. Tradizioni antimoderne o postmoderne possono magari
 anche ammettere e mantenere un guscio democratico (quello formale) - peraltro
 sempre disprezzato in nome di una qualche altra democrazia più vera - ma non
 possono che alterarne il contenuto. Fare a meno di una qualche nozione di
 contratto, di una nozione giuridica del popolo come corpo sovrano, 
dell’individualità e autonomia del cittadino, dello spazio pubblico, concepire 
il potere in termini arbitrari e ridurre a retorica ogni aspetto comunicativo e 
significa, in effetti, distruggere i contenuti della democrazia stessa. 
Questo non toglie – come abbiamo riconosciuto - che 
partiti e/o movimenti populisti possano rispettare le regole della democrazia 
formale, ma queste regole, seppur rispettate, difficilmente potranno entrare a 
fare parte propriamente della cultura politica populista, poiché tipico dei 
nuovi populismi pare essere proprio la forzatura continua delle regole della 
democrazia. Come bene ha esemplificato Mouffe, la democrazia populista è 
definita, di volta in volta, da chi è egemone. Insomma, i populismi possono usare la democrazia, usare il quadro 
istituzionale esistente, ma la democrazia nella sua teoria standard non pare far 
parte integrale del loro DNA. Usando un criterio assai largo, possiamo esprimere 
questo concetto asserendo che i nuovi populismi sono in un certo senso indifferenti
 o estranei alla democrazia. Oggi essi si sviluppano sul terreno delle
 democrazie, sfruttandone ampiamente gli spazi di libertà e cercando di
 adeguarsi alle loro regole formali. Possono essere utili alla democrazia,
 quando svolgono un ruolo critico, quando segnalano una serie di problemi non
 risolti. Possono tuttavia rappresentare un pericolo, quando cercano di
 trasformare la democrazia a loro immagine e somiglianza. Questa è anche la
 conclusione di Cas Mudde, che è uno degli studiosi più rigorosi del populismo,
 in un suo saggio recente.[35] Populismo e democrazia standard sembrano dunque
 andare ciascuno per la propria strada e se si incontrano lo fanno soltanto
 incidentalmente.
19. Se il rapporto del populismo con la democrazia è 
principalmente quello di una generica 
estraneità o indifferenza, ha qualche senso allora distinguere tra i 
populismi di destra e quelli di sinistra? È davvero possibile un populismo di 
sinistra? La risposta a questa domanda naturalmente dipende da cosa intendiamo 
per destra e sinistra. Qui, purtroppo per il lettore, si rende necessaria 
un’ultima ulteriore digressione.
Steven Lukes, uno dei massimi studiosi contemporanei 
del fenomeno del potere, ha introdotto un’importante distinzione storico – 
sociologica tra due diverse concezioni del potere, quella orizzontale 
e quella verticale.[36] Com’è noto, 
la distinzione moderna tra destra e
 sinistra è nata con i primi parlamenti, al tempo della Rivoluzione francese,
 quando le componenti rappresentative in competizione vennero poste sullo 
stesso piano, in una dimensione 
orizzontale – simboleggiata dall’emiciclo della maggior parte dei 
parlamenti. È quello che Lukes chiama principio di parità. Destra e sinistra
 (con le ovvie ammucchiate al centro) rappresentavano tutto quel che c’era da
 rappresentare. In quell’arco avvenivano i conflitti, i patti, le alleanze.
 Certo, c’erano pur sempre gli esclusi
 dalla rappresentanza. Infatti, la storia dei due secoli successivi fu
 impiegata per ampliare la 
rappresentanza a fasce sociali sempre più estese (e questo fu senz’altro un 
grande merito dei movimenti socialisti). Oggi – almeno nelle democrazie 
occidentali – tutti i cittadini sono 
rappresentati, pur sussistendo ancora qualche problema rispetto a certe 
categorie di persone, come i sedicenni, le donne, oppure gli immigrati che 
vivono e lavorano sul territorio e spesso non hanno la cittadinanza.
Quando i populisti invocano invece una distinzione 
tra popolo ed élite o tra popolo e oligarchia (il potere 
egemonico contro i nemici del popolo) si rifanno invece, che ne siano 
consapevoli o meno, a una distinzione 
verticale, del tutto analoga a quella tipica dell’antico
 regime. Si tratta, questa, di una distinzione effettivamente radicale, 
cioè di una situazione dove non ci può 
essere rappresentanza alla pari. Oligarchie ed élite per definizione pari 
non sono e non possono mai diventarlo. Tra il popolo e le élite non ci può 
essere alcun tipo di reciproco riconoscimento.[37] Secondo la vulgata populista, 
le élite e le oligarchie condizionano le decisioni a loro favore, fanno quel che 
vogliono, ben al di là della prassi che fa corrispondere a «una testa, un voto». 
Popolo ed élite in tal modo si trovano su fronti contrapposti, sono 
incompatibili. Per questo il populismo assume talora il carattere proprio della 
rivolta da parte del basso 
contro l’alto. 
20. Con queste sue formulazioni caratteristiche però il 
populismo si colloca chiaramente oltre la distinzione orizzontale tra destra e 
sinistra. In altri termini, nei populismi, la distinzione «moderna» tra destra e 
sinistra, che è fondata sul principio orizzontale di parità, viene messa tra 
parentesi di fronte alla distinzione, decisamente più arcaica, tra popolo ed 
élite, che è una distinzione feudale, assolutistica, premoderna. Una distinzione 
che è basata sul defunto principio di verticalità. Si tratta così, per i nuovi 
populisti, non semplicemente di stare al governo o l’opposizione, collocandosi 
su un asse destra - sinistra, ove si dibattono e si costruiscono le reciproche 
posizioni e alleanze, ma di costruire un 
popolo che diventi egemone, 
contro tutto ciò che opprime il popolo e che, per definizione, viene collocato 
in alto. Si tratta cioè ancora di
 insorgere e “tagliare la testa” (effettivamente o metaforicamente poco importa)
 al sovrano, poiché il sovrano effettivo attuale (chi ha effettivamente e non
 solo formalmente il potere) è l’altro, è il 
nemico. La nozione dell’egemonia di Laclau/Mouffe ricalca esattamente questa 
prospettiva: sottende, infatti, costantemente la costruzione di un nuovo
 sovrano. L’egemonia non è data 
da una semplice vittoria elettorale, o dalla costruzione di una maggioranza
 parlamentare. Essa è la forma complessiva che lo spazio della politica assume 
in una certa epoca. Il risultato elettorale è una semplice conseguenza della situazione egemonica che si è già 
stabilita.
Il famoso Steve Bannon, ex consigliere di Donald Trump, 
che sta cercando di costruire una sorta di Internazionale 
populista e sovranista, è solito ripetere esplicitamente, nelle sue 
interviste, che la situazione conflittuale venutasi a determinare a livello 
globale è di tipo feudale, cioè presuppone una verticalizzazione mondiale del 
potere: sotto stanno i globalizzati, 
sopra stanno le élite che profittano 
della globalizzazione. È un conflitto, questo, che non sarebbe affrontabile con 
gli strumenti tradizionali delle democrazie, cioè con l’alternanza tra destra e 
sinistra. È un conflitto che coinvolge dunque la stessa nozione di sovranità. 
Per quelli che pensano come Bannon, la democrazia è ormai svuotata ed è la 
sovranità stessa che va ricostruita. Bannon è decisamente coerente, per lui non 
c’è alcuna distinzione possibile tra un populismo di destra e uno di sinistra. 
La nozione di egemonia di 
Mouffe/Laclau comunque non è davvero molto dissimile da quella di Bannon, anche 
se i due studiosi si proclamano «di sinistra». Quella di Mouffe/ Laclau è in 
ultima analisi una forma di sovranismo, nel senso che il potere 
egemonico del popolo non può che implicare la riappropriazione di una qualche 
forma di sovranità che sia priva di limitazioni. Non è un mistero che anche in 
Italia certi gruppi radicali di sinistra abbiano assunto posizioni decisamente 
sovraniste.
21. Dovrebbe essere chiaro a questo punto che, in 
realtà, qui sono in gioco due tipi di conflitto sociale che sono tra loro incommensurabili. Da un lato, il 
conflitto “moderno” che si basa sul principio di parità lukesiano che è
 istituzionalizzato all’interno di un sistema rappresentativo democratico. 
Dall’altro lato, il conflitto “postmoderno” (che, come s’è visto, è del 
tutto assimilabile a quello premoderno) - che chiameremo, in omaggio a 
Mouffe, conflitto egemonico - che si 
basa sul principio di verticalità, cioè sulla lotta del “popolo” contro le élite 
o le oligarchie “feudali” che stanno 
sopra e opprimono il popolo. Questa è la distinzione fondamentale, sostenuta 
dalla stessa Mouffe. I due conflitti concettualmente non possono coesistere ed 
essere messi sullo stesso piano, poiché sono del tutto eterogenei, si negano a 
vicenda. Solo se si sostiene seriamente che il conflitto tra destra/ sinistra 
tipico della modernità sia ormai fuori causa, sia divenuto obsoleto, ci si può 
risolvere ad adottare e perseguire il conflitto egemonico populista. 
In tal caso, però, difficilmente si potrà asserire che 
il popolo in lotta contro l’élite 
oligarchica sia per ciò stesso di 
sinistra. Sarebbero in tal caso di sinistra i contadini tedeschi del primo 
Cinquecento, oppure i vandeani, oppure i gilet gialli. Anche Hitler in lotta 
contro l’élite di Weimar dovrebbe essere allora considerato di sinistra. 
Evidentemente Laclau e Mouffe non si sono sentiti di collocarsi su posizioni del 
genere e hanno cercato di recuperare, entro lo schema da loro privilegiato del 
conflitto verticale popolo/ élite, un’ulteriore distinzione tra destra e 
sinistra (misconoscendo tuttavia che la qual distinzione è però figlia della 
democrazia standard). Di qui deriva, nello schema di Mouffe, l’esigenza di 
distinguere ulteriormente tra un populismo di destra (che si suppone anti
 democratico) e un populismo di sinistra che vorrebbe realizzare una democrazia 
radicale, tuttavia mantenendosi nel quadro della democrazia 
standard. È chiaro che questa soluzione eclettica, adottata da Mouffe, si 
prospetta come un patetico pasticcio, di natura teorica ma conseguentemente 
anche di natura pratica.
22. L’impianto di Mouffe avrebbe qualche fondamento 
solo se la dialettica rappresentativa tra destra e sinistra nelle attuali 
democrazie fosse definitivamente fuori gioco. In tal caso però si dovrebbe avere 
il coraggio di teorizzarlo apertamente. Si tratta allora di stabilire quale sia 
effettivamente la situazione. Il problema è quello di capire se il potere 
sovrano che si esercita oggi nelle democrazie (la “volontà generale”) è ancora 
il potere effettivo, oppure se accanto a questo potere, ormai come completamente 
svuotato, ne esista un altro, più impalpabile, più nascosto, più pervasivo che è 
il potere delle élite, o delle oligarchie. Verrebbe così a 
determinarsi una situazione per cui noi crediamo di governare noi stessi
 attraverso gli strumenti della democrazia standard, ma a comandare veramente 
sarebbero le élite. Si noti che questo schema interpretativo può essere 
applicato, di volta in volta, contro qualunque élite, contro le mafie, 
contro la massoneria, contro le multinazionali, contro la troika, 
contro la finanza di Davos, contro i tecnocrati di Bruxelles, contro Google, 
Amazon e tutti coloro che hanno posizioni dominanti sulla rete, contro la lobby 
ebraica internazionale, la lobby delle armi e quella del petrolio, le agenzie di 
rating, e così via. L’idea è che 
questi poteri, che, a torto a ragione, sfuggono in qualche misura alla 
regolazione da parte delle democrazie degli Stati nazionali, costituiscano una 
sorta di sistema feudale globale che 
ha regole proprie e che agisce fuori da 
ogni controllo. E l’idea è che questo sia il 
vero e autentico potere. Se questa fosse davvero la situazione, è chiaro che 
il modello standard della democrazia sarebbe gravemente compromesso. I 
parlamenti sarebbero soltanto maschere impotenti. E con ciò diverrebbe 
effettivamente del tutto inutile la tradizionale distinzione tra una destra e 
una sinistra parlamentari e quindi saremmo giustificati a introdurre una nuova 
radical democrazia populista ed egemonica anti 
establishment, anti élite. I 
populisti autentici dovrebbero avere il coraggio di trarre queste conclusioni. 
Proprio come ha fatto coerentemente Steve Bannon. È chiaro che Laclau / Mouffe 
non si sono sentiti di essere coerenti tanto quanto Bannon e così hanno dato 
vita alla loro ambigua democrazia 
radicale.
23. Cerchiamo ora di tirar le fila della nostra 
analisi. Il nostro animale ibrido, l’ircocervo, cioè il populismo 
democratico, sembra confermarsi dunque nella sua natura di animale 
impossibile. Proprio Laclau e Mouffe ci hanno mostrato – questa ci pare una 
conclusione validamente supportata - che qualsiasi sdoganamento 
del populismo (fosse anche soltanto del cosiddetto populismo 
di sinistra) ci impone di rinunciare 
ad aspetti sostanziali della teoria standard della democrazia. Il che ci 
dovrebbe rendere ben consapevoli del prezzo eventualmente da pagare e, per di 
più, alquanto sospettosi verso la faciloneria con cui si cerca di introdurre 
sperimentazioni populiste entro la democrazia. Per quanto riguarda invece il sarchiapone, il populismo di sinistra 
acutamente immaginato e descritto dalla stessa Mouffe, se è populismo fino in 
fondo, pare proprio non possa essere di sinistra, per lo meno nel senso che 
questo termine ha assunto nella modernità. Se invece è modernamente di sinistra, 
non può d’altro canto essere populista fino in fondo. Insomma, l’intersezione 
tra populismo e sinistra moderna pare proprio esser vuota. Il nostro animale 
favoloso, con buona pace della Mouffe, pare proprio destinato a rimanere inesistente. 
Giuseppe Rinaldi
17/06/2019
 
OPERE
 CITATE
2018
 Baricco, Alessandro 
The Game, 
Einaudi, Torino.
2019
 Baricco, Alessandro 
Ora le élite si mettano in 
gioco, in La Repubblica, 
11/1/2019.
1992
 Bobbio, Norberto
L’età dei diritti, 
Einaudi, Torino.
2003
 Crouch, Colin
Postdemocrazia, 
Laterza, Bari.
2018
 Graziano, Paolo
Neopopulismi. Perché sono destinati a 
durare, Il Mulino, 
Bologna.
2001 Laclau, Ernesto & Mouffe, Chantal
Hegemony and Socialist Strategy. Towards a Radical 
Democratic Politics, Verso, London. [1985]
2005 Laclau, Ernesto
On
 Populist Reason, Verso, London. Tr. it.: La 
ragione populista, Laterza, Bari, 2008.
2003 Lukes, Steven
The Grand Dichotomy of the Twentieth 
Century, in Ball, T. 
& Bellamy, R. (a cura di), The
 Cambridge History of Twentieth Century Political Thought, Cambridge
 University Press.
2017 Mudde, Cas & Kaltwasser, Cristobal 
Rovira
Populism. A very Short 
Introduction, Oxford University Press.
2018 Mouffe, Chantal
For a Left Populism, Verso, London. 
Tr. it.: Per 
un populismo di sinistra, Laterza, Bari, 2018.
NOTE
[1] Si veda il nostro articolo I 
soggetti del populismo sul blog Finestrerotte (23/03/2017).
[2] Molti negheranno che ci sia una dottrina standard 
della democrazia o sosterranno che ce ne sia più di una. È chiaro che non 
possiamo qui entrare nel merito della questione. Intendo qui, banalmente, la 
dottrina della democrazia che va per la maggiore. Quella che si trova sui
 manuali. Volendo andare per le spicce, la dottrina della democrazia di Sartori
 e Bobbio.
[3] Cfr. Mouffe 2018.
[4] I due autori hanno collaborato a lungo e le loro 
dottrine sono per lo più coincidenti. Laclau è scomparso nel 2014 e Mouffe sta 
ulteriormente sviluppando la comune teoria. I testi teorici più rilevanti di 
questo orientamento sono Laclau 2005 [1985] e Laclau & Mouffe 2001.
 Utilizzerò preferibilmente “Laclau / Mouffe” per riferirmi alla loro dottrina
 generale. Utilizzerò invece “Mouffe” per riferirmi a quanto contenuto in Mouffe
 2018.
[5] Si noti anzitutto che il popolo qui è, di fatto, una parte e che quindi non ha nulla a 
che fare con il popolo giuridicamente inteso, come quando si dice che «la 
sovranità appartiene al popolo». Si noti inoltre la totale sottovalutazione dei 
singoli soggetti individuali e l’assenza di un qualsiasi tipo di contratto. Il 
dato da cui si parte non è un qualche tipo di stato 
di natura, come in Rousseau e nella tradizione contrattualistica, bensì lo 
stato di indeterminatezza della 
condizione postmoderna. Dato che il soggetto è debole (o frammentato) e dato che 
non esistono riferimenti fondativi di alcun genere, allora soltanto una qualche 
potere egemonico può produrre le aggregazioni che servono per costituire il 
campo politico. Una volta accettata questa prospettiva, resta solo da recuperare 
la distinzione gramsciana tra dominio e consenso. 
Come è noto, Gramsci riteneva che l’egemonia del nuovo Principe dovesse essere 
assicurata dal consenso piuttosto che dal dominio. Se il termine consenso 
esclude con una certa chiarezza la coercizione dall’esterno, lascia aperta 
tuttavia una marea di problemi, relativi all’individualità autonoma (o al self) 
di colui che consente.
[6] C’è un’evidente analogia con le formazioni 
economico-sociali marxiane. Mentre quelle erano formazioni legate alla 
struttura, queste sono formazioni sovra strutturali.
[7] Ciò non vare per il populismo che, come si vedrà, 
per Mouffe costituisce la struttura elementare della politica stessa, o come si 
dice, del politico. 
[8] Cfr. Mouffe 2019: 89.
[9] Si noti che tale modello dissociativo, nonostante 
l’insistenza posta sul conflitto, non ha molto a che vedere con una teoria del 
conflitto di stampo weberiano (come in Parkin o in Dahrendorf) la quale è invece 
perfettamente compatibile con la democrazia liberale.
[10] Questa situazione ha un preciso analogo nella 
linguistica. È la lingua che complessivamente costituisce i parlanti, ben più di 
quanto un singolo parlante abbia la possibilità di costituire la 
lingua.
[11] Per molti versi, gli individui che entrano nel 
campo politico di Mouffe presentano forti analogie con l’ontologia dei quanta o 
centri di forza della volontà di
 potenza nicciana. Lo stesso campo politico tende a strutturarsi esattamente
 a seconda del gioco dei diversi centri di forza. I quanta di Nietzsche hanno
 una descrizione in termini ontologici, mentre gli individui di Laclau e Mouffe
 sono elementi saussuriani che entrano relazionalmente in opposizione per
 costituire un ordine di significazione. Non posso qui svolgere le implicazioni
 nicciane di questo discorso. Chi fosse interessato alla questione può
 consultare il mio articolo Nietzsche e la metafisica, pubblicato sul mio blog
 Finestrerotte il 02/09/2015. 
[12] Vedi un approfondimento sul populismo nel mio 
saggio I soggetti del populismo, già 
citato. 
[13] Cfr. Mouffe 2018: 5.
[14] Qui naturalmente si passa oltre a qualsiasi
 distinzione tra il campo politico e
 il campo economico, cercando di
 trasferire le diseguaglianze dal campo economico a quello politico. È questo un
 motivo che risale alla famosa distinzione tra la società 
civile e lo Stato che, secondo 
Marx, avrebbe dovuto essere superata nel comunismo.
[15] Chi non ricorda i neoeletti parlamentari del M5S 
che volevano aprire le istituzioni come tante “scatolette di tonno”?
[16] Cfr. Mouffe 2018: 36. 
[17] Cfr. Mouffe 2018: 37-38.
[18] Cfr. Mouffe 2018: 37-38.
[19] Cfr. Mouffe 2018: 46-47.
[20] Cfr. Crouch 2003.
[21] Cfr. Mouffe 2018: 19.
[22] A noi miseri osservatori delle cose umane era 
sembrato invece assai più possibile un passaggio dal populismo di sinistra a 
quello di destra. Ma non si può mai dire.
[23] Cfr. Mouffe 2018: 17-18.
[24] Cfr. Mouffe 2018: 17.
[25] Cfr. Mouffe 2018: 17.
[26] Cfr. Mouffe 2018: 55.
[27] Cfr. Mouffe 2018: 56.
[28] Cfr. Mouffe 2018: 61-62. 
[29] Si veda ad esempio Bobbio 1992.
[30] Cfr. Mouffe 2018: 63.
[31] Cfr. Mouffe 2018: 65.
[32] Cfr. Mouffe 2018: 70.
[33] Cfr. Mouffe 2018: 71.
[34] Cfr. Mouffe 2018: 76.
[35] Cfr. Mudde & Kaltwasser 2017.
[36] Si veda Lukes 2003.
[37] Recentemente si è parlato di patto 
implicito tra l’élite e il popolo, una specie di compromesso, evocandone una 
sua recente rottura. Si veda Baricco 2019 e, per la sua base teorica, Baricco 
2018.