mercoledì 30 novembre 2016

Cronache marziane

cronache-marziane2
1. Il referendum sulla legge di riforma costituzionale sta impegnando in modo ossessivo tutti i media e sta dividendo il Paese come raramente si era visto in passato. Come effetto collaterale è riuscito a creare una spaccatura grave, forse irrimediabile, nello schieramento della sinistra e, parallelamente, sta contribuendo a risollevare le sorti politiche dell’opposizione di centro destra, mentre l’opposizione del M5S non è mai stata così bene.
In contrasto con la nettezza della spaccatura tra il Sì e il No - che oltre alle solite boutade folkloristiche ha visto all’opera vere e proprie impennate di odio allo stato puro - la questione delle riforme istituzionali,[1] appena si provi ad approfondirla, non appare assolutamente così chiara e netta come sembra, anzi, più si ampliano gli elementi di valutazione più ci si accorge che si tratta di un pasticcio di tale portata da non avere alcuna possibilità di soluzione. Se una soluzione chiara e netta non c’è, allora non resta che domandarsi che senso abbia tutto il polverone sollevato. Che senso abbia il fatto che l’esito del referendum potrebbe travolgere le sorti dell’attuale governo e forse anche della stessa legislatura. Per non dire delle conseguenze indesiderabili che si prospettano, con sempre maggior evidenza, a livello europeo e internazionale. Cosa abbiamo fatto, dunque, per meritarci tutto questo?
 
2. Nel nostro Paese, la questione della riforma costituzionale è ormai annosa ed è fatta risalire addietro nel tempo di almeno tre o quattro decenni.[2] In effetti è da molto che se ne parla, molti progetti sono stati abbozzati, tentati, e poi però sono puntualmente falliti. L’attuale proposta, per la quale gli italiani saranno chiamati al voto il 4 dicembre, ha tuttavia origini assai più vicine nel tempo. Essa è strettamente legata alla nascita travagliata dell’attuale Legislatura. Curiosamente, questo è uno degli elementi più trascurati nella campagna elettorale, segno che forse le attuali forze politiche hanno qualche scheletro nell’armadio. Può essere allora necessaria una sintetica ricostruzione preliminare delle tappe che hanno portato alla situazione attuale. Anche solo una prima ricostruzione dei fatti ci permetterà di comprendere come la questione non stia proprio come la stanno raccontando i propagandisti del Sì e quelli del No.
 
3. Il punto di partenza, da cui tutto deriva, è costituito dalle elezioni politiche del febbraio 2013 che hanno segnato, obiettivamente, uno spartiacque nella storia recente della vita politica italiana. Si noti che la tormentata legislatura precedente aveva visto il fallimento del governo Berlusconi, per cui ci si poteva attendere che fosse giunta l’ora di un cambiamento, che gli italiani avessero per lo meno imparato qualcosa.[3] Le legittime aspettative di cambiamento furono invece miserevolmente frustrate e il risultato fu quello di un sistema politico completamente bloccato.
Da un lato, si ebbe, infatti, la sconfitta elettorale di Monti, il quale - pur avendo provveduto a riparare in extremis alcuni gravi danni del governo precedente – essendosi presentato alle elezioni con una sua nuova formazione politica, fu pressoché ignorato dagli elettori. D’altro canto si registrò un’inattesa batosta elettorale del PD, la famosa “non vittoria” conseguita dal segretario Bersani, quello che aveva detto che avrebbe “smacchiato il giaguaro”.[4] Insieme alla “non vittoria” di Bersani si ebbe invece l’affermazione, davvero travolgente, del M5S che riuscì a conquistare quasi un terzo dei consensi dell’elettorato. Quest’ultimo fatto determinò una condizione del tutto nuova, una sorta di tripolarismo di forze più o meno equivalenti. Si trattava tuttavia di un tripolarismo bloccato, poiché – com’è noto – il M5S fin dall’inizio rifiutò qualsiasi apparentamento o alleanza, lasciando l’incombenza di formare un governo alle forze politiche restanti.
 
4. In seguito alla “non vittoria” di Bersani e all’isolazionismo del M5S, cioè, lo ripetiamo, in seguito a un’oggettiva situazione di blocco del sistema politico, l’unica soluzione logica sarebbe stata quella di andare subito a nuove elezioni.[5] Nuove elezioni avrebbero svolto il ruolo di una specie di secondo turno e avrebbero deciso, con maggior chiarezza, tra le tre coalizioni in lizza. Si preferì invece cercare di tirare avanti comunque la legislatura formando una coalizione innaturale – l’unica possibile - tra il centro sinistra e il centro destra, concretizzatasi nel composito governo Letta (che ebbe breve vita dall’aprile 2013 al febbraio 2014). Il nuovo parlamento si trovò anche di fronte all’incombenza dell’elezione del Presidente della Repubblica, e mostrò quivi la propria clamorosa e scandalosa incapacità, interpretata dalla maggior parte dell’opinione pubblica come l’estrema consumazione del degrado della politica. Il fallimento nell’elezione del Presidente, com’è noto, finì per comportare – fatto straordinario nella storia della Repubblica - l’apertura di un secondo mandato per Napolitano (aprile 2013 – febbraio 2015).[6]
Intanto, all’interno del PD, dopo la “non vittoria” di Bersani, Matteo Renzi era stato eletto, con grande successo, segretario del partito alle primarie dell’8 dicembre 2013, sull’onda della parola d’ordine della rottamazione.[7] Alle primarie avevano partecipato quasi tre milioni di elettori. Renzi, diventato segretario del PD, si affettò a dare il benservito al governo Letta e a insediarsi a Palazzo Chigi (febbraio 2014). Renzi però non poté fare altro che proseguire l’alleanza di governo con il centro destra, la sola formula possibile in Parlamento, dati i numeri. L’alleanza, com’è noto, avrà ben presto sviluppi organici con il cosiddetto Patto del Nazareno.[8] Renzi dichiarò di avere le carte per governare fino alla scadenza naturale della legislatura, poiché occorreva fare le riforme per «salvare l’Italia». 
 
5. La coalizione di maggioranza e il governo Renzi così ereditarono anche il vago progetto di riforma istituzionale, che era stato già delineato dalla Commissione dei Dieci Saggi (costituita per impulso di Napolitano), e poi ulteriormente approfondito durante il governo Letta (con Quagliariello ministro per le riforme istituzionali). Si trattava evidentemente di un progetto temerario, poiché si stava chiedendo a un parlamento bloccato e a una serie di forze politiche inadeguate, nuove e inesperte oppure decotte e frantumate, nientemeno che di produrre, tra le altre cose, una riforma della Carta fondamentale. Va detto però che il progetto, anche e soprattutto dietro l’impulso di Napolitano, subì da parte di Renzi una svolta attivistica e alla fine – pur con innumerevoli e contorte traversie – fu portato a termine. Il referendum del 4 dicembre 2016 è infatti l’ultimo atto di questo processo.
Nel quadro del Patto del Nazareno, in un primo tempo le linee fondamentali delle riforme istituzionali furono concordate con Berlusconi e furono votate in parlamento da Forza Italia. Si trattava, peraltro, di una versione edulcorata del progetto di riforma già proposto da Berlusconi nel 2006 e poi bocciato dagli elettori. Nel corso dei lavori, si ebbe però un incidente significativo in occasione della elezione del nuovo Presidente della Repubblica (febbraio 2015), fatto che causò la definitiva rottura tra Renzi e Berlusconi e il passaggio di Forza Italia all’opposizione. Dopo questa rottura, il compito di portare a termine le riforme istituzionali gravò unicamente su Renzi e sulla sua esigua e non sempre fedele maggioranza (cosa che lo costrinse spesso a mettere la fiducia, guadagnandosi così anche l’accusa di essere autoritario). Insomma, già dopo il febbraio 2015 era chiaro che le riforme istituzionali non potevano che essere riforme di una parte esigua e che in tal modo sarebbero state valutate da tutte le altre parti. In questa storia, troviamo di tutto, quindi, tranne che uno straccio di spirito costituente, di tutto tranne che uno straccio di consapevolezza che quella che si stava tentando era davvero l’ultima spiaggia e che il M5S stava aspettando al varco i contendenti.
 
6. Ci si meraviglia ancor oggi per l’insistenza posta da Napolitano, Letta e Renzi (e, fino al febbraio 2015, anche da Berlusconi) sulla questione delle riforme istituzionali. Si può ben considerare che il Paese avesse problemi ben più urgenti da risolvere. Perché mai le riforme istituzionali erano diventate così ineludibili? Nell’attuale propaganda del fronte del No è di moda affermare che non c’era alcun bisogno di fare le riforme istituzionali. Addirittura si suole raccontare la favola che le riforme istituzionali siano un sotterfugio da parte di poteri occulti per realizzare in Italia una “svolta autoritaria”. Oggi in effetti pare che molti abbiano scordato le ragioni effettive per cui questa legislatura sfortunata è stata messa al lavoro proprio sulle riforme istituzionali. Le ragioni davvero impellenti, ben presenti a Napolitano, Letta e Renzi, derivavano proprio da quanto era appena successo, di cui forse il grande pubblico, ormai avvezzo al degrado della politica, non aveva apprezzato la gravità.
In estrema sintesi, dopo la fine del governo Berlusconi e dopo la grave crisi della politica sopravvenuta, c’erano numerose motivazioni urgenti che spingevano a fare una riforma istituzionale:
a) evitare che, in futuro, i risultati elettorali fossero paralizzanti per la formazione di un governo, tali da costringere ad alleanze innaturali (come il governo Letta e lo stesso governo Renzi);
b) evitare, in futuro, il tranello della doppia fiducia alla Camera e al Senato (cioè, il rischio, per un governo qualsiasi, di avere la fiducia di una camera e non dell’altra);
c) evitare ulteriori vergognose impasse nel processo di elezione del Presidente della Repubblica, come quella che era appena accaduta.
Queste erano le motivazioni più rilevanti. C’erano però anche altre questioni aperte, non meno importanti, che riguardavano:
d) l’esigenza ormai improcrastinabile di dare una risposta al fallimento sempre più evidente dell’ordinamento regionale (sia per le varie incalzanti inchieste della magistratura - che avevano ulteriormente alimentato l’antipolitica - sia per il palese fallimento della precedente riforma del Titolo V, che nelle intenzioni di chi lo aveva promosso avrebbe dovuto essere una positiva risposta allo scissionismo leghista ma che in pratica non ha mai funzionato);
e) l’esigenza di una migliore regolamentazione dei referendum abrogativi (che spesso erano stati usati, a proposito ma anche a sproposito, per aggirare l’incapacità del sistema politico di dare risposte alle domande dei cittadini);
f) si trattava inoltre, ultimo ma non ultimo, di dare una chiara e forte risposta all’antipolitica che aveva appena portato al sorprendente risultato del M5S e quindi alla paralisi del tradizionale modello bipolare basato su destra e sinistra. La risposta all’antipolitica – in mancanza di una diagnosi corretta del fenomeno che avrebbe impietosamente messo sotto accusa proprio i partiti - si concentrò, invero piuttosto limitativamente, sull’esigenza di diminuire il numero dei parlamentari, diminuire i costi di alcune istituzioni, sveltire le procedure di formazione delle leggi, eliminare alcune istituzioni inutili. Anche la riforma dei rapporti tra Stato e regioni, con la definitiva abolizione formale delle province, poteva essere presentata come riduzione dei costi e come riforma della politica. Tutti questi obiettivi, se bene orchestrati, avrebbero dovuto contribuire a riconciliare gli italiani con la politica e avrebbero dovuto contribuire a ridurre la protesta.
g) Un ulteriore motivo – di ordine più tecnico, ma dalle enormi conseguenze politiche - per procedere urgentemente alle riforme istituzionali venne determinato, a lavori già in corso, dal fatto che la legge elettorale vigente era intanto stata dichiarata incostituzionale. La legge n. 270 del 21 dicembre 2005, comunemente nota come legge Calderoli o Porcellum, con cui era stato eletto il Parlamento stesso, venne dichiarata incostituzionale in alcune sue parti  con sentenza n. 1/2014 della Corte costituzionale (pubblicata in G.U. il 15 gennaio 2014, con effetti decorrenti dal giorno successivo). Di conseguenza, a partire dal gennaio 2014 (c’era ancora il governo Letta) occorreva, come minimo, correre ai ripari per un cambiamento della legge elettorale, per adeguarla alle indicazioni della Consulta, prima di andare a nuove elezioni. [9]
 
7. Queste erano dunque le ragioni chiarissime dell’urgenza e queste erano le migliori buone intenzioni.[10] Gli obiettivi precedentemente elencati potevano essere in generale largamente condivisibili e, tutto sommato, di buon senso. Rappresentavano il massimo della consapevolezza possibile da parte di chi cercava di avere un minimo di visione prospettica e si accorgeva che il sistema stava andando a sbattere.  Chi sostiene che non ci fosse alcun bisogno di una riforma non sa evidentemente quel che dice. Altro che «poteri forti» e JP Morgan! Si noti - come osservazione en passant – che il progetto di riforma Napolitano – Renzi tenta di dare una risposta a tutti questi problemi, seppure in modo assai discutibile e criticabile. Il fronte del No, che si oppone, non ha alcun progetto di sorta da contrapporre, per cui gli elettori il 4 dicembre sceglieranno tra un progetto che c’è e il nulla. Evidentemente per il fronte del No non ci sono problemi di riforma istituzionale in Italia! 
Restava tuttavia il problema di come si potessero ottenere insieme tutti questi risultati. Anche perché il Parlamento che avrebbe dovuto operare i cambiamenti era, di fatto, aspramente diviso tra destra e sinistra e completamente bloccato dall’atteggiamento isolazionista del M5S.[11] Qui si combinarono, oltre all’impulso istituzionale della Consulta, le pressioni di Napolitano e l’attivismo renziano che produssero l’invenzione di quel che sarà poi conosciuto come il combinato – disposto. Invece di procedere a un’esplicita revisione generale dell’impianto del nostro sistema politico (ad esempio attraverso l’introduzione del presidenzialismo, oppure del semi presidenzialismo o di qualche altro modello organico), cosa  che, data la situazione di divisione e blocco delle forze politiche, non avrebbe avuto alcuna possibilità di essere approvata, si pensò a una serie di micro modifiche, una serie di rappezzi minimali che però, tutti insieme, avrebbero permesso al sistema di funzionare meglio, naturalmente in una chiave di maggiore stabilità e maggiore efficacia. 
Gli obiettivi complessi che abbiamo poc’anzi tratteggiato (cioè le cosiddette “riforme istituzionali”) avrebbero potuto essere raggiunti attraverso la coordinazione di due diversi strumenti: una legge elettorale che desse stabilità alla maggioranza almeno per tutta una legislatura e una riforma costituzionale su singoli punti che provvedesse non a una modifica generale ma a una semplice manutenzione del sistema parlamentare. Insomma, l’ambizione era, in effetti, quella di fare un’effettiva riforma di sistema, da ottenersi però attraverso una varietà di strumenti e piccoli ritocchi su cui – si sperava - un’ampia parte delle forze politiche avrebbe potuto concordare. Poiché il M5S aveva dichiarato la sua indisponibilità, era comunque indispensabile, fin da principio, che le restanti due principali forze, il centro destra e il centro sinistra, collaborassero per fare le riforme istituzionali. Come s’è detto, Berlusconi concordava perfettamente con tutto ciò, fino alla rottura del febbraio 2015. Si noti che, mentre Renzi era imbarcato con questo progetto, che prevedeva la collaborazione con Berlusconi, buona parte della sinistra interna al PD e di quella esterna cominciarono ad opporsi al Patto del Nazareno e ad accusare Renzi di collaborazione con la destra. Senza però tirare le ovvie conseguenze, e cioè di porre fine alla legislatura e di andare a nuove elezioni.
 
8. Il combinato - disposto dunque c’era fin dall’inizio, non è mai stato un mistero, ed è sempre stato costitutivo del progetto Napolitano – Renzi. Il fronte del No, a sentire le loro grida al complotto segreto, sembra lo abbiano appena scoperto. Il fatto è che per poter realizzare il combinato - disposto, occorreva comunque la collaborazione di almeno due delle tre principali forze politiche, poiché occorreva fare una legge elettorale e una riforma costituzionale che fossero coordinate insieme. Come al solito, la collaborazione non c’è stata e ognuno ha invece fatto i conti sul proprio utile immediato (il centro destra ha cambiato opinione, non avendo ottenuto da Renzi quel che voleva in cambio;[12] il M5S irresponsabilmente si è tenuto fuori da qualsiasi confronto o alleanza, mentre la sinistra del PD, tanto per aggiungere la ciliegina, ha pensato bene di fare una sorta di congresso anticipato per defenestrare Renzi). Le due leggi (quella elettorale ordinaria, riguardante solo la Camera, e quella correlata di riforma costituzionale) comunque furono effettivamente approvate e dunque un risultato tangibile si ebbe. Se non fosse per la defezione di Forza Italia, la legge costituzionale avrebbe potuto essere approvata con la maggioranza dei due terzi, sufficiente a non fare neppure il referendum.[13]
 
9. Si noti en passant che gli ultimi avvenimenti interni al PD (novembre 2016) hanno notevolmente modificato la sostanza della questione che sarà sottoposta a referendum. Se il combinato disposto era da prendersi come cosa seria, allora la legge elettorale per la Camera (l’Italicum, così come approvato) doveva essere parte integrante della riforma complessiva del sistema. Ora, in seguito alle minacce scissionistiche della sinistra del PD, com’è noto, Renzi ha dichiarato di essere disponibile a modificarla. Il problema è che – per ora – tutto ciò sta scritto in un pezzo di carta in mano a Cuperlo. Il risultato è che ora l’elettore che volesse votare Sì al combinato disposto delle due leggi, secondo l’originario progetto Napolitano - Renzi, non ha neppure più la certezza che – in caso di vittoria dei Sì - sarà mantenuta la legge elettorale. Quindi d’ora in poi, Renzi – maggior fautore del Sì - sarà costretto a chiamare i cittadini a votare su un progetto complessivo di riforma che è divenuto però monco, a opera di una parte del suo stesso partito. Un altro bell’esempio di spirito costituente.
 
10. Cosa si vota allora effettivamente il 4 dicembre? Tecnicamente si vota solo ed esclusivamente per la legge di riforma costituzionale e non certo per la riforma istituzionale complessiva che, in teoria, comprende anche la legge elettorale (cioè l’Italicum). Tuttavia, in seguito alla propaganda del Sì e del No, una parte consistente degli elettori voterà al referendum valutando positivamente o negativamente anche e soprattutto la legge elettorale fin qui approvata - una legge che però sarà cambiata, com’è stato puntualmente annunciato da Renzi. E’ evidente che la logica non abita più qui, del resto siamo nel Paese delle Meraviglie.
La maggior parte degli elettori avrà tuttavia in mente ben altro. La conseguenza politica della defezione del centro destra (e del boicottaggio delle sinistre) è stata che lo schieramento del Sì ormai coincide con quello dell’attuale maggioranza di governo, per cui il referendum non può che assumere anche il significato di un referendum intorno all’operato della maggioranza di governo. Così una parte consistente degli elettori userà il voto referendario per valutare il governo più che per valutare la proposta di riforma costituzionale, o quella più complessiva di riforma istituzionale. In questo modo il referendum non può che assumere oggettivamente il significato di un plebiscito sul governo Renzi (qualsiasi cosa dica o faccia Renzi in proposito!).
È chiaro altresì che un’eventuale, seppure indiretta, valutazione negativa nei confronti del governo e della sua maggioranza potrebbe esporre il Paese a una crisi di governo, oppure addirittura a elezioni anticipate, che nella attuale situazione darebbero molto facilmente la maggioranza al M5S. In sostanza il 4 dicembre potrà determinare, di fatto, la celebrazione di quel ritorno alle urne che avrebbe dovuto essere effettuato subito dopo le elezioni del 2013. Tutto ciò, a sua volta, avrebbe delle conseguenze di rilievo a livello europeo e a livello internazionale, in seguito alla situazione di incertezza che caratterizza in questo momento l’Europa (Brexit, avanzata della destra populista) e la situazione internazionale (vittoria di Trump e isolazionismo in USA). Così una parte degli elettori userà il voto referendario per valutare anche tutte queste conseguenze e per cercare di intervenire nella situazione europea o anche nella situazione internazionale.
 
11. L’elettore quindi, al referendum del 4 dicembre, in termini di intenzione sottesa al voto avrà un’ampia gamma di possibilità, ben oltre il Sì e il No, che sono state ormai tutte ben suggerite ed esplicitate nella campagna elettorale. Le principali opzioni sono le seguenti:
a) Valutare esclusivamente la proposta di riforma costituzionale in senso stretto (ignorando la legge elettorale attualmente esistente (l’Italicum) e ignorando qualsiasi altro aspetto).
b) Valutare nel suo complesso la proposta di riforma istituzionale, cioè il combinato tra la legge elettorale e la riforma costituzionale e ignorando qualsiasi altro aspetto. In tal caso si valuterà se è vero o no che il combinato disposto prefigura un pericolo autoritario, un attacco alla Costituzione. La cosa è facile a dirsi ma diventata impossibile da farsi, poiché la legge elettorale sarà cambiata e quindi non si sa quale sarà.
c) Valutare le conseguenze del voto sul governo e sulla politica interna (cioè votare per sostenere Renzi, magari come elemento di stabilità, oppure per “mandarlo a casa”), facendo passare in secondo piano ogni altra considerazione. Non mancano anche coloro che potrebbero prendere in considerazione soltanto le conseguenze sul PD, sostenendo o cercando di metter fine alla segreteria Renzi. Naturalmente, una volta mandato a casa Renzi, ci si dividerà ancora ulteriormente sul da farsi e sugli obiettivi da raggiungere, ma questo è dovuto al fatto che i nemici di Renzi non hanno alcun progetto politico complessivo.
d) Valutare le possibili conseguenze del voto sulla situazione europea e internazionale (facendo passare in secondo piano ogni altra considerazione). Ad esempio, votare No per creare le condizioni per portare il M5S al governo e per fare così un referendum per l’uscita dell’Italia dall’Euro, oppure votare Sì considerando Renzi come un baluardo contro il dilagare della destra populista in Europa e nel resto del mondo.
 Il referendum del 4 dicembre è diventato così veramente troppe cose: una celebrazione fuori tempo massimo di quel ritorno alle urne che si doveva fare già nel 2013, una sezione distaccata (il posticipo, in gergo calcistico) delle elezioni amministrative del 5-19 giugno 2016,[14] la celebrazione anticipata delle nuove elezioni politiche e, pure, il congresso anticipato del PD. Non solo. È diventato anche l’anticipo di un futuro voto referendario pro o contro l’Euro e pro o contro l’Europa che si terrà non appena il M5S avrà la maggioranza e andrà al governo (cosa altamente probabile in un breve lasso di tempo).
Questo incredibile sovraccarico di significati è più che sufficiente a rendere il significato effettivo del voto completamente vago e non interpretabile, sia che prevalga il No, sia che prevalga il Sì. Il giorno dopo, si saprà che ha vinto il Sì o il No, ma non si saprà assolutamente cosa abbiano voluto effettivamente dire gli elettori, votando Sì o No. Formalmente la cosa non ha la minima importanza, ma dal punto di vista politico la questione è fondamentale.
 
12. Cosa si vota davvero, dunque? Si sentono ovunque gli inviti di molti propagandisti a lasciare da parte ogni altra considerazione e a concentrarsi sulle modifiche effettive che saranno apportate alla Costituzione. Inviti del tipo «entriamo nel merito», oppure l’esortazione a «pensare soltanto al quesito» e non alle questioni collaterali. Certo, sarebbe, in astratto, senz’altro la cosa più giusta da fare. Per entrare davvero nel merito, bisognerebbe però sospendere tutto quel che sappiamo dell’attuale situazione politica italiana e internazionale – cioè dimenticare quasi tutti i dati di fatto che abbiamo esposto fin qui – e cercare di valutare la sola proposta di riforma costituzionale, come si dice, in sé e per sé. Già che ci siamo, per essere più obiettivi, adottando un vero spirito costituente, dovremmo anche fare uno sforzo volenteroso per sospendere i nostri umori profondi, i nostri interessi personali, le nostre preferenze politiche, la nostra collocazione sociale, e così via. Insomma, come diceva Rawls, dovremmo cercare di valutare unicamente la proposta di riforma costituzionale sotto la condizione del velo d’ignoranza.
Il suggerimento è senz’altro metodologicamente corretto. Nella situazione che si è creata però applicare un simile suggerimento è diventato sempre più difficile. Chi si concentrasse davvero solo sul quesito referendario non potrebbe che fare la figura dell’imbecille,[15] di quello che non si accorge del contesto, il quale contesto purtroppo altera completamente i termini della domanda stampata sulla scheda. Insomma, l’elettore astrattamente serio, dovrebbe effettivamente pensare solo al merito del quesito ma, come abbiamo visto, se lo fa, diventa immediatamente miope e “utile idiota”, pronto a farsi strumentalizzare dagli interessi estranei più diversi.
 
13. L’elettore accorto non potrà dunque che lasciar perdere il velo dell’ignoranza e cominciare a domandarsi quale sia, dal proprio punto di vista, l’uso proprio del proprio voto e di conseguenza quali usi impropri ne saranno fatti. Per uso improprio s’intende che il voto espresso (per il Sì o per il No) abbia degli effetti, prevedibili o non prevedibili, che però non stiano nelle intenzioni di chi lo esprime. O addirittura stiano all’opposto.  Alcuni di questi possibili usi impropri rispetto alle intenzioni del votante vengono addirittura esplicitamente o orgogliosamente indicati nella campagna elettorale, per cui possiamo star certi che ci saranno. Qualche esempio. Chi vota No per rafforzare la democrazia, rischia col proprio voto di indebolirla, dando spazio a forze antidemocratiche; chi vota Sì per appoggiare il governo Renzi può trovarsi con una riforma costituzionale che non gradisce. Chi vota Sì perché gli piace l’Italicum potrà accorgersi che l’Italicum sarà cambiato proprio dal fronte del Sì; chi vota No per mandare a casa Renzi potrà accorgersi di avere favorito, senza volerlo, l’ascesa al governo del M5S. La casistica è innumerevole. È questa una situazione assai nota in filosofia e in sociologia, conosciuta sotto diverse denominazioni: qualcuno ha parlato di eterogenesi dei fini, qualcun altro di effetti perversi o di effetto boomerang. Ebbene, pare proprio che non ci sia risposta che non possa avere degli effetti altamente indesiderati dal punto di vista di chi la esprime. Uno vota Sì, oppure vota No ed ecco che gli arriva un qualche boomerang sulla testa!  
 
14. Tutto ciò fa sì che il quesito referendario sia una domanda cui non è possibile rispondere con un Sì o con un No. Le domande dalla risposta impossibile - invece di condurre all’illuminazione come nello Zen - non possono che spingere l’elettore a votare prendendo solo in considerazione aspetti parziali della questione. Il che corrisponde a un comportamento irrazionale, un po’ come votare a casaccio, oppure votare con la pancia. In data 27/11/2016, in una manifestazione a favore del No, Grillo ha esplicitamente invitato gli elettori a lasciar perdere qualsiasi considerazione razionale e a votare di pancia. A malincuore dobbiamo riconoscere, d’accordo con Grillo, che il destino prossimo venturo del Paese – perché delle conseguenze rilevanti ci saranno, eccome! – è nelle mani di una consultazione cui non si può rispondere seriamente, cui si può rispondere solo di pancia.
Si noti che a questo responso elettorale, generato in questo modo, sarà appioppata la qualifica di volontà popolare. La volontà del popolo, fabbricata in questo modo bizzarro, sarà oltretutto, come s’è detto, stiracchiata e usata impropriamente nei modi più diversi. Dato l’oggettivo garbuglio delle questioni, il fronte del Sì e il fronte del No non possono fare altro – e lo stanno facendo in modo esemplare – che fare della propaganda populistica per vincere a tutti i costi (anche se non è ben chiaro cosa si vinca davvero). Del resto l’uso dello stile populistico in politica è ormai stato introdotto ovunque nel nostro Paese, da tutte le forze politiche, nessuna esclusa. Il linguaggio populistico, che ottenga o meno il suo risultato, fa solo una cosa certa: uccide la democrazia. Quelli che amano paragonare al fascismo la riforma Napolitano – Renzi dovrebbero invece preoccuparsi dell’habitus populista che essi stessi stanno alimentando e diffondendo a man bassa.
Di fronte a questa situazione assurda, qualsiasi esame minuzioso degli articoli della riforma – che pure ha molti limiti che derivano, ovviamente, dal modo con cui è stata costruita – appare del tutto ininfluente e lascia il tempo che trova, cosa per cui ne accenniamo soltanto in nota.[16] La maggioranza degli elettori comunque voterà di pancia – seguendo, di fatto, il consiglio di Grillo – anche perché del tutto immemore di come si sia giunti alla situazione attuale, assolutamente incapace di entrare nel merito delle questioni e, meno ancora, di rendersi conto del vizio politico di fondo che sta alla base di questo referendum.
Se c’è una cosa che questa campagna elettorale ha messo in luce è che la cultura civica media degli italiani è assolutamente inadeguata a formulare qualsiasi scelta consapevole circa il proprio futuro destino politico. Questo è il vero motivo per cui abbiamo la classe politica che abbiamo – le cui gesta tragicomiche abbiamo cercato di raccontare in queste cronache marziane. I dibattiti quotidiani che sono offerti dai media tra i testimonial del Sì e del No mostrano chiaramente che la maggioranza di loro non sa neppure di quel che si tratta. Si sentono solo stanche ripetizioni di slogan, formulette, narrazioni fantastiche, manifestazioni d’intolleranza. Con la scusa di ossequiare la volontà popolare, in realtà è stata montata una macchina gigantesca di diseducazione civica i cui effetti si risentiranno a lungo. Va detto a questo punto che, col senno di poi, abbiamo davvero fatto di tutto per meritarci tutto questo.
 
15. In fin dei conti, cosa dovrebbe fare allora, sul piano pratico, un elettore che sia convinto dei dati di fatto e delle valutazioni esposte nei punti precedenti?[17] Un simile elettore non può votare per il Sì, ma non può neppure votare per il No. Può solo tentare, con poche speranze, di marcare la propria distanza nei confronti dei due improbabili contendenti. Nei fatti potrebbe rifiutarsi di andare a votare, lasciando decidere a quelli che ci credono. Potrebbe tirare a sorte e votare quel che dice la moneta, aggiungendo casualità a casualità e quindi non andando a modificare il risultato finale. Potrebbe votare annullando la scheda (anche se, non essendoci quorum, la cosa non avrebbe comunque alcuna influenza).[18]
Interferendo il meno possibile sull’andamento del referendum, un elettore siffatto conseguirebbe intanto il risultato di permettere alla follia parapolitica di questo referendum di manifestarsi allo stato puro, fino alle ultime estreme conseguenze. Sperando che ciò serva a ravvedere qualcuno. Secondariamente, per lo meno sul piano personale, potrebbe ottenere il decisivo vantaggio di restare fuori da questo pasticcio. In generale, la massima applicata sarebbe quella secondo cui, se non si è in grado di impedire che altri facciano delle stupidaggini, si tratta per lo meno di non dover essere chiamati a portare la responsabilità, morale e politica, per tali stupidaggini. Sarà certo anche questa una reazione di pancia, ma forse sarà moralmente un po’ più lineare di quelli che accettano di stare dentro a questa consultazione politicamente fasulla, questo plebiscito di marca populista, facendo finta che sia una cosa seria e che possa avere delle conseguenze serie.[19] Gli storici prossimi venturi interpreteranno probabilmente questo referendum come l’ultima sciagurata impresa autolesionistica della vecchia politica - sia della Prima sia della Seconda Repubblica - prima di consegnare definitivamente il Paese nelle mani del M5S.
 
16. C’è tuttavia – per chi scrive - una ragione più importante, di tipo prettamente politico - biografico, per tenersi fuori dal pasticciaccio brutto di questo referendum. Questa ragione è legata a una valutazione complessiva dell’operato di Renzi, come segretario del suo partito e come capo del Governo. Renzi si è presentato nel 2013 come il rottamatore, come il rinnovatore della politica. Molti – tra cui chi scrive - l’hanno inizialmente sostenuto intendendolo come il male minore. Il sospetto ora (trascorsi i fatidici 1000 giorni) è che, dietro la rottamazione, si nascondesse solo e soltanto un banale ricambio generazionale tra le fazioni interne del PD. Così la pensa, del resto, proprio la sinistra del PD. La prova più conclamata dell’imbroglio della rottamazione è il fatto che Renzi, da quando è segretario, non abbia fatto alcun serio tentativo di rinnovare il PD, di farne un partito del dibattito, della partecipazione, della militanza.[20] Se dietro a Renzi ci fosse stato un partito vivo e non soltanto un partito spaccato, probabilmente le riforme istituzionali prodotte sarebbero state decisamente migliori. O forse il PD non si sarebbe cacciato nel cul de sac in cui ora si ritrova. Renzi si è limitato a conquistare il PD e a usarlo per scalare il premierato, e poi se n’è del tutto dimenticato.
Ora, nel contesto di una campagna elettorale effettivamente difficile, che vede Renzi contro tutti, che avrebbe avuto bisogno di una ampia e diffusa mobilitazione, di discussioni argomentate e non di slogan, non ci sono più i militanti, gli intellettuali, le associazioni, i corpi intermedi. Dietro a Renzi è rimasta forse la Leopolda, il suo cosiddetto “cerchio”, e poi il deserto. A livello locale si respira, ovunque, lo stesso deserto.
La prospettiva politica scelta da Renzi implica – forse del tutto a ragione – che i partiti del Novecento siano definitivamente finiti, che la partecipazione non abbia più alcun senso, che i militanti siano roba da soffitta, come del resto gli intellettuali, le idee e le ideologie, i programmi politici.[21] Che la nuova politica dipenda tutta dal rapporto che s’instaura tra il leader e le masse, senza alcuna intermediazione che non sia quella dei media, dei tweet e dei selfie. Tutto ciò, com’è noto, è stato definito come populismo mediatico.[22] È questa un’ipotesi del tutto legittima che - da qualche parte e anche da noi - ha già avuto un notevole successo ma che ha già fatto anche diversi danni. È un’ipotesi che merita comunque senz’altro di essere sottoposta a verifica.
Se così è, sta però a Renzi (e ai renziani) provare che ha ragione lui. Queste elezioni dai troppi significati, se vuol vincerle, non può che vincerle con i suoi mezzi (quelli che ha deciso consapevolmente di usare e che possiede solo lui in quanto leader populista mediatico – alcuni dei quali mezzi sono secondo noi assai discutibili, come le promesse e le elargizioni a pioggia degli ultimi tempi). Noi, che apparteniamo al Novecento e che per questo ci sentiamo ormai inattuali, noi che conserviamo nel nostro bagaglio una diversa concezione della politica, magari antiquata, di fronte a tutto ciò non possiamo che stare a guardare un po’ allibiti, limitandoci, al più, a studiare con curiosità il fenomeno. Good luck, Mr Renzi!
 
 
Giuseppe Rinaldi
27/11/2016
 
 
 
 
OPERE CITATE
 
2016   Calise, Mauro
La democrazia del leader, Laterza, Bari.
 
2016   Ferraris, Maurizio
L’imbecillità è una cosa seria, Il Mulino, Bologna.
 
2002   Taguieff, Pierre-André
L’illusion populiste, Berg International Éditeurs.  Tr. it.: L’illusione populista, Bruno Mondadori, Milano, 2003.
 
 
NOTE
 
[1] Preciso che userò sistematicamente il termine “riforma istituzionale” per indicare l’insieme della legge elettorale e della legge di riforma costituzionale.
[2] Cfr. Calise 2016.
[3] In realtà gli italiani, in maggioranza, avevano fortemente voluto il berlusconismo e avevano fortemente desiderato che il berlusconismo portasse loro dei vantaggi. Perché ciò poi non sia accaduto forse non lo hanno davvero mai capito.
[4] Si noti che il PD (presentatosi come coalizione Italia bene comune) riuscì ad avere il premio di maggioranza alla Camera previsto dal Porcellum grazie a una differenza minima di voti (0,37%) rispetto al Popolo delle libertà: la differenza era di 29,55% contro 29,18%. Renzi e la sua maggioranza dunque stanno tuttora governando grazie allo 0,37% di voti ricevuti in più alla Camera rispetto al PdL.
[5] È vero che si profilava il cosiddetto ingorgo istituzionale; tuttavia la ragione fondamentale fu la paura di perdere ulteriormente da parte del PD. Il partito di Berlusconi del resto era fuori combattimento.
[6] Napolitano resterà in carica fino al febbraio 2015, quando decise di rassegnare le dimissioni e fu allora eletto Sergio Mattarella.
[7] Avversari di Renzi erano stati Cuperlo e Civati.
[8] Il Patto è stato molto criticato dalla sinistra, pur essendo la sola soluzione possibile, a meno di non andare a nuove elezioni. Nuove elezioni avrebbero però significato rinunciare alle poltrone nuove di zecca, appena conquistate, argomento cui tutto l’arco parlamentare, compresi gli estremisti di sinistra, è sempre assai sensibile.
[9] Uno dei motivi della propaganda del fronte No è che l’attuale parlamento non sia legittimo, nonostante la pronuncia in questo senso contraria della Corte. I più accorti dicono invece che non ha legittimazione politica o legittimazione morale, comunque facendo solo della confusione. Se è legittimo, allora può fare tutto. Se non è legittimo non può fare nulla, neanche le leggi ordinarie. Il resto appartiene al mondo delle buone maniere e perciò non ha molto a che fare con la politica odierna.
[10] Si noti en passant che, essendo palesemente i partiti i maggiori responsabili della crisi della politica e dell’insorgenza dell’antipolitica, all’elenco mancava totalmente l’introduzione di una legge di regolamentazione dei partiti (peraltro prevista e mai attuata ex art. 49 della costituzione). Questa strana dimenticanza proprio nel momento in cui si appannavano le sorti di un partito proprietario di una persona e si affacciava alla vita politica italiana un partito che era proprietà privata di due persone. Recentemente la proprietà privata di uno di questi partiti è stata trasmessa per via ereditaria.
[11] È interessante il fatto che l’opinione pubblica, invece di criticare il M5S per la sua irresponsabilità, finiva per simpatizzare con il suo isolazionismo, accogliendo nei fatti le tesi della antipolitica.
[12] La rottura risale, come è noto, al momento della elezione del nuovo Presidente della Repubblica, succeduto a Napolitano.
[13] Il Referendum comunque era stato promesso un po’ da tutti, consapevoli che quel Parlamento così raffazzonato non fosse propriamente il più indicato per metter mano all’ordinamento fondamentale.
[14] Nelle elezioni del giugno 2016, a Torino, contro il sindaco uscente Fassino è stata sperimentata per la prima volta in modo clamoroso l’alleanza della sinistra e della destra per far cadere il candidato del centro sinistra.
[15] Il tutto senza offesa per nessuno e in senso del tutto tecnico, seguendo più o meno scherzosamente Ferraris 2016.
[16] In proposito è stata pubblicata una montagna di libri. Sono state prodotte analisi approfondite anche di grande competenza. Onde evitare però l’accusa di non essere «entrato nel merito», dirò in sintesi quel che ne penso. Assumendo dunque qui il necessario velo dell’ignoranza, trascurando cioè tutti gli aspetti estranei (senza tener conto della legge elettorale della Camera che sarà cambiata e di quella del Senato che è ancora da fare), possiamo dire che la riforma costituzionale proposta presenta diversi limiti e diversi pregi che finiscono più o meno per controbilanciarsi. Il vantaggio netto della fiducia al governo da parte di una sola camera è controbilanciato da un Senato la cui composizione è improponibile; la giusta sottrazione di alcuni poteri alle regioni (visto la prova negativa che le regioni hanno dato) è controbilanciata dal divario mantenuto tra regioni normali e regioni speciali; i confini tra i reciproci poteri di Stato e regione sono inoltre definiti in maniera assai pasticciata, foriera di ulteriori problemi. La nuova elezione del Presidente della Repubblica non cambia un gran che (salvo per l’effetto indiretto della composizione del nuovo Senato) e il suo effetto dipenderà in gran parte dalla legge elettorale. Restano poi l’abolizione del CNEL e le norme per il referendum popolare che sono vantaggi positivi, anche se minori. I tanto sbandierati vantaggi che avrebbero dovuto sconfiggere l’antipolitica (riduzione del numero dei parlamentari, riduzione dei costi, sveltimento del processo legislativo,…) sono in realtà piuttosto limitati, come è stato ampiamente documentato dagli esperti. È banale osservare che se i parlamentari facessero bene il loro lavoro li si potrebbe anche pagare tre volte tanto e moltiplicare di numero per dieci. Quel che si può dire quindi, in sintesi, è che, in termini strettamente costituzionali, sia che vinca il Sì sia che vinca il No, di fatto cambierà ben poco. Insomma, tanto rumore per nulla. Resta il fatto che tutte queste analisi sono comprensibili e concretamente utilizzabili da una parte minima dell’elettorato. Come si è mostrato nell’articolo, non saranno comunque di questo tipo, le considerazioni che guideranno la maggior parte degli elettori, anche in seguito alla propaganda quasi sempre fuorviante dei due schieramenti.
[17] La domanda è legittima ma la risposta è assolutamente irrilevante, perché un simile elettore, nell’attuale panorama, è decisamente raro e quindi dotato di un peso infimo sul risultato finale, qualunque cosa faccia. Tanto che un simile elettore non sta neppure nel target della propaganda del Sì e del No.
[18] Tutto sommato, è più indolore ritrovarsi nella massa indistinta degli astensionisti, piuttosto che ritrovarsi nelle masse variegate e composite del Sì o del No.
[19] A mia conoscenza, solo Roberto Saviano ha preso una posizione abbastanza simile a quella espressa in questo articolo. Si veda in proposito il suo articolo Questo referendum non mi riguarda, pubblicato ne L’Espresso n. 45, 2016. Pur non intendendo minimamente paragonarmi a Saviano, condivido del tutto la sua posizione.
[20] Su questo punto si era impegnato Fabrizio Barca, che tuttavia non ha potuto fare altro che gettare la spugna. Barca era stato  incaricato come Presidente di una commissione del PD che aveva il compito di elaborare una proposta di riforma del partito. Si è dimesso, avendo costatato l’impossibilità di procedere e l’inutilità del suo lavoro. Fabrizio Barca ha dichiarato al termine della Direzione del PD del 5/07/2016 (fonte: Huffington Post): «La relazione di Matteo Renzi alla Direzione del PD e lo svolgimento della discussione mostrano che non esiste la volontà di avviare quelle revisioni dell’organizzazione del partito che ben prima delle ultime vicende elettorali, nell’autunno del 2014, avevano indotto alla costituzione di una Commissione di cui ero stato chiamato a fare parte. Mi dimetto pertanto pubblicamente dalla suddetta Commissione, che ha rivelato la sua assoluta inutilità. […] In particolare - spiega ancora Barca - le proposte operative di una riduzione del pletorico e paralizzante numero dei membri della Direzione e della creazione di un’Officina progettuale, peraltro già sperimentata nel paese e contenuta in un testo provvisorio elaborato in primavera dalla Commissione, risultano ignorate». Quest’ultimo elemento decisamente chiarisce in cosa consisteva effettivamente la rottamazione: niente altro che una lotta di potere interna per ottenere un ricambio generazionale della dirigenza. Una diversa occupazione del partito, non un cambiamento del partito.
[21] Su questo punto si veda la mia recensione a Calise 2016, su questo stesso Blog.
[22] Sulle questioni di definizione del populismo, si veda Taguieff  2002.