mercoledì 22 aprile 2015

Cittadini & compagni

Turcato_comizio
Certe volte (*) si ha la piacevole impressione di tornare indietro nel tempo, se non fosse per il fatto che ciò spesso accade per futili motivi. Non so dunque se ringraziare, o no, Vendola per averci riproposto un tormentone estivo senz’altro degno dei tempi passati, ma forse anche acuta rappresentazione dei tempi presenti: è il caso di abolire l’appellativo compagni? Pensavamo, in effetti, di avere ben altri problemi ma, a quanto pare, la questione ha suscitato qualche vespaio, rivelando che i problemi del cambiamento culturale, quando non sono affrontati e riflettuti esplicitamente, tendono a sedimentarsi nel profondo e, come insegnava Freud, tendono rispuntare quando uno meno se lo aspetta.
 
Parafrasando Don Abbondio, “Compagni, … chi sono costoro?”. Tanto per cominciare, qualche notizia di natura linguistica può essere utile. Secondo l’autorevole Cortelazzo, Zolli, compagno è un derivato del latino medievale e avrebbe significato di “colui che mangia lo stesso pane”. La prima definizione citata risale al 1282 e recita “chi si sente legato ad altri da affinità spirituale o ne affronta la stessa sorte”. Per derivazione, la compagnia sarebbe “l’atto, il modo, l’effetto dello star abitualmente insieme con altri”. Con questo significato, tra l’altro, il termine divenne popolare tra i gesuiti che diedero vita a una nota compagnia. Tra l’Ottocento e il Novecento, com’è noto, questo appellativo, nel nostro Paese, è stato adottato nell’ambito dei movimenti e dei partiti legati alla sinistra, tra socialisti, comunisti, anarchici e radicali (eh sì, anche Pannella sarebbe un compagno!), per designare i loro appartenenti.
 
Tutto ciò vale almeno per l’Italia, poiché in altri paesi lo stesso concetto viene reso con termini assai differenti. Ad esempio, in Francia l’equivalente del nostro compagno, riferito alle organizzazioni politiche della sinistra, non è il suo analogo linguistico diretto, compagnon, bensì camarade, che però, linguisticamente, corrisponde ahimè al nostro camerata (il che può fare anche rizzare un po’ i capelli agli antifascisti). Ovviamente, camerata fa riferimento al linguaggio militaresco, ed è stato suggerito dall’esigenza, nell'ambito dalla vita militare, di condividere la stessa camerata e quindi di condurre, in qualche misura una vita comune, con obiettivi comuni e una sorte comune. Il termine camarade era, a quanto pare, già in voga nel periodo della Rivoluzione francese, ben prima della nascita delle organizzazioni del movimento operaio. Va segnalato che il Partito Comunista Francese utilizza tuttora il termine camarade per distinguersi dal partito socialista, il quale, invece, a partire dal 1914, ha deciso di chiamare i propri aderenti (beati loro!) con il termine di citoyen. Mentre gli anarchici francesi, tanto per cambiare, si chiamano, tra di loro, compagnons. In inglese il termine di riferimento, di provenienza francese, comrade, è stato usato in passato sia dai movimenti di destra che da quelli di sinistra. Attualmente è maggiormente caratterizzato a sinistra e i membri del Labour Party si chiamano tra di loro con questo termine, cioè si chiamano tra loro camerati. Un simile uso è diffuso anche negli Stati Uniti. In tedesco, il termine kamerad è stato usato primariamente in ambito militare e, di qui, è passato poi nel partito nazista, assumendo una caratterizzazione tipicamente di destra, come del resto è avvenuto in Italia. Il termine invece usato in Germania con riferimento politico, nell’ambito della sinistra, è genosse (termine che può essere reso con socio, ma dall’etimo abbastanza inquietante, poiché risalente all’uso di condividere la stessa terra, o più ampiamente, di appartenere alla stessa stirpe). In spagnolo, il termine più usato attualmente è compañero anche se tra le formazioni internazionali della guerra civile, sia di destra che di sinistra, è stato ampiamente utilizzato il termine camarada. In russo, il termine che viene usato (adottato dei marxisti russi per tradurre comrade che era usato nel movimento internazionale) è tovarishch che aveva il significato vagamente di socio in affari, compagno di viaggio o di avventura. In polacco, il termine towarzysz è di origine tardo medievale e indicava gli ufficiali di cavalleria piccoli nobili del Regno di Polonia, e dunque il termine rinvia al cameratismo di tipo militare - nobiliare.
 
Come si vede, il disordine linguistico regna sovrano. Poiché l’analisi etimologica, a parte le curiosità storiche, sembra solo disorientare, sembra allora meglio concentrarsi sul concetto e sul suo significato. Da dove è nata l’esigenza di usare un termine esclusivo – quale che sia – per designare gli appartenenti ai movimenti organizzati della sinistra (e della destra)? Sembra anzitutto si possa individuare una motivazione di tipo fortemente egualitario, volta a sottolineare lo stato di parità di coloro che ne sono fatti oggetto. Questi termini sono stati introdotti, almeno in origine, per sopprimere gli usuali e molteplici termini utilizzati, soprattutto nella buona società aristocratica o borghese, per differenziare le persone. Paradossalmente dunque, anche nel cameratismo fascista c’era un elemento egualitario, legato, ad esempio, all’esperienza degli ex combattenti. Si tratterebbe dunque di un espediente politicamente corretto, per sottolineare l’eguaglianza degli appartenenti. In effetti, accanto all’uso di un epiteto comune, spesso vengono usati altri rituali tendenti a sottolineare l’eguaglianza, primo fra tutti, l’eliminazione delle formalità e l’uso di darsi del tu (nelle lingue dove ciò è possibile). Ciò naturalmente, data l’origine militaresca di molti di questi termini, non impediva il riconoscimento e la pratica di una ferrea subordinazione gerarchica.  
 
Una seconda motivazione, assai più importante, sembra invece abbia a che fare con l’esigenza di marcare il senso di appartenenza a una comunità organizzata considerata molto più importante delle altre. La qualificazione di compagno ha il significato di rivendicare l’esistenza della comunità dei compagni come di una comunità più autentica rispetto alle altre comunità concorrenti. L’adozione di un nuovo nome comune sottolineava il cambiamento esperito dall’individuo quando diventava membro dell’organizzazione (in ciò è del tutto analogo all’assunzione del titolo di cittadino quando si entra a far parte della Repubblica).  Nel movimento internazionale, il termine comrade è stato indubbiamente utilizzato come elemento identitario in opposizione all’appartenenza alle singole patrie nazionali. In termini funzionali, fu comunque usato per designare la patria comune dei proletari, una patria universale, antitetica alle singole patrie. Del resto un noto canto anarchico recitava “nostra patria è il mondo intero”.
 
L’uguaglianza dei membri e la marca di appartenenza a una comunità organizzata importante ed esclusiva sembrano dunque dar ragione dell’adozione di questa terminologia. Tra questi due elementi, l’appartenenza è sicuramente l’elemento più complesso, che merita un ulteriore approfondimento. Nel caso della sinistra, si tratta di un’appartenenza che non dipende dalla nascita, dal sangue o dal suolo; non dipende neppure dalla posizione sociale, poiché, anche nelle forme ideologiche più dogmatiche, si è sempre ritenuto possibile rinunciare alla propria classe di origine per entrare a far parte della comunità dei compagni. Si tratta di un’appartenenza per scelta, dunque di un’appartenenza di natura morale. Ciò significa che, nell’immaginario, coloro che appartengono alla comunità organizzata dei compagni acquisiscono uno status di natura morale che gli altri non possiedono. Si tratta di un cambiamento di stato percepito e definito come esperienza che è assai comune e che si ritrova in moltissime organizzazioni. Il nuovo status morale di solito viene pubblicamente proclamato attraverso qualche tipo di cerimonia. Se il fatto di diventare compagni è dunque il prodotto di una specie di battesimo che genera una distinzione tra gli uomini comuni e gli affiliati (comunque avvenga, in una trincea, oppure nelle piazze, oppure attraverso il rituale della tessera), allora diventa interessante definire in cosa consista questo nuovo modo di essere, quali qualità si  ritiene che vengano acquisite. Vediamo allora cosa comporta, sul piano morale, la compagnia, o, se si preferisce, il cameratismo di sinistra.
 
È anzitutto abbastanza evidente che il significato morale di questa terminologia è strettamente legato alle tre parole d’ordine della rivoluzione francese e, in particolare, alla fraternité. Tutte le declinazioni del contenuto della compagnia sono declinazioni della fraternité, ovvero di quell’elemento relazionale che stabilisce vincoli assai stretti, come quelli che si suppone esistano tra fratelli. Si tratta in sostanza di un allargamento della fratellanza, dalla famiglia naturale alla comunità organizzata. Che la fratellanza sia una relazione di stretta unione è ovviamente un mito, come del resto testimonia la vicenda di Caino e Abele, tuttavia questa era l’idea diffusa. La fratellanza allude così al fatto che tra i compagni si dovrebbe stabilire un particolare vincolo di solidarietà, simile a quello dei fratelli. Volendo essere rigorosi, si potrebbe anche sostenere l’esigenza, in caso di conflitto, di privilegiare i fratelli/compagni sui fratelli naturali. Insomma, diventando compagni si entra a far parte di una nuova e più grande famiglia, la vera famiglia. Anche i cristiani, tra loro, si chiamano fratelli. E non solo i cristiani.
 
In secondo luogo, avendo la nuova comunità organizzata un carattere decisamente monopolistico rispetto alle altre appartenenze, questa tende a caratterizzare l’intera esperienza individuale, portando così inevitabilmente alla soppressione della demarcazione tra pubblico e privato. Su questo tema ci sono pagine interessantissime nel Manifesto marxiano. L’appartenenza alla comunità dei compagni tende a mettere in secondo piano le altre comunità di appartenenza e in particolare le tipiche comunità della vita privata, le amicizie, le parentele, la famiglia naturale, le altre associazioni. L’avvento del leninismo e della figura del rivoluzionario di professione ha ulteriormente contribuito a sacrificare il privato rispetto al pubblico. Nelle forme più estreme della compagnia, pubblico e privato vengono strettamente a coincidere, per cui il modello di vita del compagno si applica in tutte le situazioni, da quelle pubbliche a quelle più intime. È bene ricordare ad esempio che nel partito comunista cinese si praticava un minuzioso controllo sulla vita intima dei militanti, che avrebbe fatto impallidire qualunque gesuita.
 
In terzo luogo, in tutti i movimenti, di matrice socialista, comunista, anarchica e radicale, la comunità organizzata è stata sempre considerata come la prefigurazione del modello di uomo e della futura società che si voleva costruire, secondo l’ideologia di volta in volta condivisa. Ciò è tipico anche dei movimenti religiosi, ove la società terrena deve rappresentare la prefigurazione della società degli eletti. Nel corso della storia dunque, la qualificazione di compagno ha dato luogo all’elaborazione di un modello umano di riferimento. Come i santi della Chiesa cattolica, illustri figure di compagni sono state additate come maestri, come modelli di vita, modelli di militanza, di impegno, di sacrificio. L’adozione dell’organizzazione burocratica, che si è affermata molto presto nella storia della maggior parte dei movimenti e dei partiti della sinistra, ha portato il modello umano di riferimento a diventare un elemento fondamentale e pervasivo della cultura dell’organizzazione. L’organizzazione stessa provvedeva a educare i nuovi compagni, a trasmettere loro gli insegnamenti di tipo intellettuale, di tipo morale e di tipo ideologico. Ugualmente, il modello burocratico ha portato all’instaurazione di meccanismi di controllo, di valutazione della virtù dei compagni ed eventualmente, anche di condanna e di esclusione.
 
Questi tre elementi, la fraternità, la centralità della politica nella vita e il modello dell’uomo nuovo sembrano dunque costituire i pilastri morali fondamentali che hanno caratterizzato l’adesione alle comunità organizzate dei compagni. Vale la pena di osservare, con grande rispetto, che questa ispirazione morale è stata presa molto sul serio da milioni di persone che autenticamente ed eroicamente, si sono sacrificate per la causa in cui credevano. Va però anche osservato che non sempre questi tentativi sono stati ricompensati da successi e spesso le buone intenzioni si sono tramutate nel loro opposto. L’eterogenesi dei fini è sempre in agguato.
 
Se questa è la complessa trama di significati che sta dietro alla parola, allora è il caso di chiedersi se, al giorno d’oggi, nel nostro paese, l’uso di questo termine abbia ancora un qualche senso. Ci sono ancora dei modelli di militanza, o di appartenenza, come quelli in nome dei quali è stato coniato, in passato, l’appellativo di compagno? E’ bene che continuino a esserci? Ci sono ancora dei compagni? C’è ancora bisogno di compagni? A questa domanda si possono dare sostanzialmente tre risposte, che non riguardano tanto il nome della cosa, quanto il tipo di cultura politica che s’intende promuovere e sviluppare.
 
La prima risposta propende per il mantenimento, anzi, per la riscoperta del modello tradizionale del cameratismo di sinistra. I sostenitori di questa opzione protestano legittimamente contro i tentativi di mettere da parte la parola, ma pretendono anche che alla parola corrisponda il recupero del contenuto effettivo. Non c’è nulla di male in questo tentativo. Chi propende per questa soluzione deve però, anzitutto, render conto delle degenerazioni che ha subito questo modello di militanza, cioè di compagnia. Si deve spiegare come mai, nelle organizzazioni di compagni, non si sia realizzato effettivamente l’obiettivo dell’eguaglianza, al di là del darsi formalmente del tu, e come mai le differenze (di potere, di genere,…) continuino a sussistere, quando non siano addirittura aumentate. Si deve poi spiegare come mai la fratellanza venga quotidianamente vanificata nel comportamento quotidiano di un gran numero di sedicenti militanti. Chi ha vissuto negli ambienti della sinistra, spesso le più grosse fregature se l’è prese proprio dai compagni. Invece di sottomettere il privato al pubblico, l’irruzione del privato nel comportamento pubblico ha spesso poi ancora comportato l’insorgenza di fenomeni degenerativi come le idiosincrasie personali, il carrierismo, le lotte di potere, i favoritismi, l’indulgenza per i “compagni che sbagliano”, l’uso dell’organizzazione come strumento di potere personale, e così via. Quanto all’uomo nuovo, fatte salve alcune figure morali indiscutibili che sono maturate entro questo modello, non si può proprio dire che i compagni siano significativamente diversi dagli altri, si può anzi affermare che spesso si tratta di uomini comuni, con tutti i loro difetti e imperfezioni. Il modello morale dell’uomo nuovo ha soprattutto contribuito a produrre il mito della superiorità morale della sinistra, che non di rado è ancora di grande impaccio nella politica quotidiana. Se poi andiamo a considerare la capacità di queste organizzazioni addirittura di prefigurare una società nuova, dovremo concludere che la nuova società assomiglia davvero tanto al vecchio modello burocratico, neanche tanto bene applicato. Chi propende per questa soluzione deve, secondariamente, anche spiegare come un effettivo recupero di questo modello sia compatibile con le esigenze dei moderni partiti elettorali. Va ricordato che, nella tradizione, il termine compagno veniva applicato non solo agli iscritti, ma anche agli elettori (i comizi si facevano puntualmente appellandosi ai compagni - la futura società sarebbe stata una società di compagni). Quanti elettori oggi sono disposti a essere appellati come compagni? In ogni caso, se lo fossero, quale significato avrebbe questo appellativo, se non quello di un consumato rituale? Il sospetto è che l’uso sistematico (e sostanziale) dell’appellativo di compagno finisca oggi per condannare le organizzazioni che lo adottano a una condizione di eterna minoranza, alla costituzione di un élite sempre più separata.
 
La seconda risposta possibile afferma invece che i modelli di appartenenza e militanza a sfondo etico, come quello di cui stiamo discutendo, appartengono al passato. Nell’ambito di questo orientamento, si prende atto della scomparsa dei partiti di massa di tipo ideologico e della loro sostituzione con i partiti elettorali, cosiddetti pigliatutto. Si tratta di partiti che si rivolgono all’intero corpo elettorale, indipendentemente da interessi di classe o da prospettive ideologiche, e che offrono agli elettori dei programmi, in genere piuttosto stringati, che spesso si assomigliano alquanto. L’elettore, senza alcuno specifico commitment, senza obblighi di fedeltà, di volta in volta sceglie il programma che gli sembra migliore. Ci si rivolge dunque non al militante fedele, ma all’elettore infedele che è sempre disposto a cambiare posizione. I militanti di questi partiti elettorali non sono diversi dagli elettori, sono soltanto dei volontari che si impegnano un po’ di più, in particolari occasioni (ottenendo spesso, in cambio, dei benefit di varia natura). E’ chiaro che, in una simile prospettiva, contrassegnare con una specifica terminologia la differenza tra i sostenitori e i non sostenitori può essere un espediente estremamente dannoso, soprattutto sul piano elettorale. La prova di questo “laicismo” è che queste organizzazioni solitamente, tranne momenti di convention di tipo emotivo o celebrativo, non fanno pressoché alcuna formazione nei confronti dei loro volontari o dei loro militanti. Perché non hanno più alcun modello umano particolare da promuovere, alcun modello specifico di vita politica o di società. E’ chiaro che, in tal caso, la lotta politica interna si riduce al confronto sui programmi, che tuttavia si traduce poi, in ultima analisi, in conflitto per il potere, dove gli ideali, i contenuti, sono ridotti a espedienti retorici. I realisti sono pronti a scommettere che questo sia il modello inevitabile verso cui stiamo andando. Chi propende per questo modello deve però spiegare come si possa generare e mantenere un senso di appartenenza che non sia solo legato all’interesse immediato per i contenuti del programma, o all’interesse nella lotta politica interna. Si deve anche spiegare come si possa raggiungere un’ampia consistenza elettorale senza uno strato organizzato di volontari o militanti, dotato di consapevolezza, capace di discutere ed elaborare le scelte e capace di propagandarle. Questi partiti elettorali finiscono spesso per essere partiti televisivi o partiti personali e i militanti non hanno niente da fare, a meno che non siano interessati alla lotta politica interna. Ma, in più, deve spiegare anche come si possa procedere alla formazione di una classe dirigente qualificata. In simili partiti la classe dirigente si può formare solo attraverso la cooptazione nei gruppi di potere che si scontrano all’interno del partito. Se questo può andare nella direzione della selezione del più forte, non è detto che i più forti abbiano poi le qualità politiche necessarie, quelle che saranno indispensabili nel momento in cui si dovranno mobilitare gli elettori.
 
La terza risposta è quella meno scontata, la più difficile, ma anche, forse, la più promettente. Mentre i primi due modelli ci sono già, basta guardarsi intorno, il terzo rappresenta per ora soltanto una prospettiva minoritaria. Forse però è proprio ciò di cui abbiamo bisogno. I sostenitori di questo modello non ritengono utile attardarsi su questioni nominalistiche, anche se sono propensi a ritenere che la parola compagno sia ormai troppo storicamente connotata, ma ritengono piuttosto che occorra urgentemente rifondare un modello morale di militanza. Un nuovo modello di cameratismo che possa ispirare il mondo progressista, al di là delle vecchie fratture di scuola che appartengono alla storia ideologica del Novecento. Questo nuovo modello può benissimo ispirarsi ai tre principi della rivoluzione francese, senza però puntare specificatamente sulla fraternité: insomma, una fraternité fortemente temperata dalla liberté (soprattutto in termini di libertà di pensiero e pluralismo) e dalla egalité (soprattutto nel senso di una burocrazia debole e di una effettiva partecipazione democratica). Per quanto concerne la questione del rapporto tra pubblico e privato, questo nuovo modello dovrebbe valorizzare, ciascuno nel proprio ambito, la dimensione pubblica e quella privata, senza sacrificare l’una all’altra. Dovrebbe tuttavia essere ben attento e consapevole dell’interazione tra pubblico e privato (ad esempio per quel che concerne gli aspetti della legalità, dei conflitti di interesse, oppure delle relazioni di genere). Quanto alla prefigurazione della buona società futura, fatte salve le differenti motivazioni individuali che devono essere ammesse in un ambito pluralistico, l’unico modello di società e l’unico tipo di uomo da prefigurare necessariamente, a livello della cultura dell’organizzazione, non può essere che quello repubblicano e democratico. In questo senso, devo confessare che – anche se non credo sia facilmente realizzabile nel nostro paese – la scelta del partito socialista francese di usare l’appellativo di cittadino, al posto di camarade / compagno, mi sembra convincente. Tutti dovrebbero essere cittadini, dunque ci si rivolgerebbe davvero a tutti. Essere cittadini autentici poi non è davvero facile, e ciò darebbe, forse per la prima volta nel nostro paese, l’avvio a un serio dibattito su cosa intendiamo per buon cittadino. Organizzazioni politiche di cittadini autentici, fortemente improntate a un’etica civica sentita e condivisa, avrebbero forse qualche carta in più per non degenerare. La boutade di Vendola non rimarrà solo un temporale estivo se solleciterà a sviluppare il dibattito in questa direzione.
 
Dei compagni, a quanto pare, oggi ci è rimasto soltanto il nome. Nomina nuda tenemus. Un marchio sempre più deteriorato, che alcuni sono disposti a difendere a tutti i costi e che altri sono disposti ad abbandonare al suo destino, senza rimpianti. Se vogliamo difenderne il nome, dobbiamo trovare il modo di riempirlo di significato, di evitare che si riduca, come sta già succedendo, a un’etichetta vuota. Altrimenti è meglio cambiare marchio, oppure anche adottare nessun marchio, ma concentrarsi urgentemente sull’elaborazione di un modello di cameratismo etico - politico adeguato ai tempi, da coltivare e da proporre a tutti coloro che sono ancora disposti, in forma non strumentale, a coinvolgersi in politica nelle file progressiste.
 
01/08/2011
22/04/2015 (rev.)
                                                                          Giuseppe Rinaldi
 
(*) Questo articolo è stato pubblicato il 01/08/2011 sul giornale on-line Città futura (la presente versione è una revisione del 22/04/2015). L’occasione dell’articolo fu un’uscita di Vendola nella quale si poneva il problema dell’uso del termine compagno. Al di là dell’occasionalità del pretesto, l’articolo presenta una serie di riflessioni sulla dimensione morale della militanza che sono quanto mai attuali.