martedì 31 marzo 2015
Dal sociale non nasce niente
mercoledì 18 marzo 2015
Il tramonto annunciato dei profeti del nulla
Prima o poi,[1] doveva accadere. Le avvisaglie ormai si succedevano con intensità crescente. Ora, con la consacrazione giornalistica ufficiale, siamo finalmente autorizzati a prendere atto della fine del postmoderno e, per quel che riguarda il nostro Paese, della fine del pensiero debole. L’annuncio ufficiale è stato dato da uno che è piuttosto addentro alla questione, da Maurizio Ferraris, sulle colonne di Repubblica.[2] Sempre secondo Ferraris, l’atto rituale definitivo, che segnerà la nascita del New Realism, sarà celebrato in un convegno internazionale che si terrà a Bonn, la primavera prossima, alla presenza d’illustri nomi della filosofia contemporanea. Per fortuna, dell’involuzione del postmoderno e del pensiero debole, molti si erano già accorti da tempo (qualcuno fin dall’inizio), ma un annuncio ufficiale e autorevole porta ora qualche conforto in più. Ci sentiamo dunque autorizzati, senza aspettare la prossima primavera, a dare l’avvio a un bilancio, seppur ancora impressivo, di una stagione culturale ormai agli sgoccioli, che forse verrà ricordata più per l’imbarbarimento che per le nuove acquisizioni.
Intanto, va notato che il postmoderno volge ormai verso la sua fine prima che si sia riusciti a ben capire di cosa si tratti. Se chiedete a un postmoderno – ammesso che ci sia qualcuno che esplicitamente si reputi tale – che cosa sia il postmoderno, prima di tutto vi guarderà male, perché lo avete insultato, gli avete chiesto una definizione. Se avrà voglia di rispondervi, vi dirà che il postmoderno è qualcosa che non si può rinchiudere negli schemi. Il postmoderno sarà allora un modo di vivere, di sentire, un atteggiamento o, come ha sostenuto un autorevole storico della filosofia, uno stile. I cattivi potrebbero asserire che gli stili assomigliano molto alle mode, ma bisogna essere molto cattivi, per essere portatori di simili sospetti. Insomma, il postmoderno è sfuggente e non può che essere così. Resta un mistero come mai il pensiero sfuggente abbia avuto una così grande popolarità. Forse, proprio perché così sfuggente.
Se andate a vedere la definizione del postmodernismo presente su Wikipedia (che è essa stessa un’opera postmoderna), oltre alla premessa, del tutto prevedibile, che si tratta di un concetto di difficile definizione, troverete che il postmoderno sarebbe comunque caratterizzato da questi elementi: complessità, labirinticità, prospettivismo, eclettismo, relativismo, sincretismo, decostruzionismo o decostruttivismo, nichilismo, anti-illuminismo o antimodernismo. Una bella collezione. Se il postmoderno è sfuggente, indefinibile, sarà poi anche difficile scriverne la storia. Non è facile dire con precisione quando è iniziato (onore a Ferraris che si è preso la responsabilità di dire che è finito!). È difficile anche indicare quali siano gli autori di spicco, o le opere caratteristiche. Spesso le grandi correnti culturali si organizzano attorno all’opera di capiscuola, di autori tipici, talvolta di un solo autore. Il postmoderno sembra piuttosto una nuvola fuzzy di pochi autori, dalla personalità assai spiccata e talvolta decisamente molto singolare (tra cui Deleuze, Derrida, Foucault, Lyotard, Baudrillard, Rorty negli States), spesso e volentieri in contrasto tra di loro, e di molti autori mediocri, un movimento culturale piuttosto anarcoide, fatto di tanti seguaci piuttosto che di leader. Nel nostro Paese, il postmoderno è di solito fatto iniziare con la pubblicazione, nel 1983, del volume collettaneo Il pensiero debole, a cura di Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti. Va detto che, tra i vari autori che avevano contribuito al volume, almeno tre (lo stesso Ferraris, Eco e Marconi) si sono apertamente dissociati dagli esiti del movimento). Abbiamo il sospetto che – come già accaduto in altri casi – tra qualche tempo tutti negheranno ardentemente di essere stati postmoderni o sostenitori del pensiero debole e faranno finta di non conoscersi.
Può essere un caso, ma una parte consistente dell’ultimo Almanacco di Filosofia di MicroMega[3] contiene un’ampia sezione dedicata al dibattito intorno al postmoderno e al futuro del nichilismo e dell’ermeneutica. Compare un’ampia intervista a Gianni Vattimo,[4] nella quale egli ribadisce, peraltro con grande chiarezza, le tesi già esposte altrove, circa l’esigenza di dare un definitivo addio alla verità. Vale la pena di riportare un passo saliente: «Quando dico di congedarci dalla verità, voglio dire che dobbiamo dire addio a una verità che sia verificabile una volta per tutte e in modo indipendente dai paradigmi adottati. L’ermeneutica sostiene che si possa parlare di verità in senso stretto solo quando si applicano dei criteri per verificare o falsificare. Dei criteri che, da parte loro, non sono verificabili o falsificabili, perché non esiste alcun metalinguaggio universale che ci permetta di collocarci su un piano superiore ad essi. Ci troviamo sempre già immersi in giochi linguistici dati […] e non c’è un metalinguaggio che ci permetta di elevarci al di sopra di tutti i linguaggi. Questo è ciò che rifiuto quando dico “Addio alla verità”».[5] Se le cose stanno così, allora non resta altro che «…prender atto che la cosiddetta verità è un affare di potere».[6] Insomma, ermeneutica e nichilismo devono per forza andare sempre di conserva.
Sul tema posto da Vattimo, sono intervenuti, sempre su MicroMega, Ferraris[7] e Flores d’Arcais, quest’ultimo con due saggi, uno di tono più giornalistico[8] e uno di tono più teorico[9] in cui è contenuta una critica puntuale alle posizioni di Vattimo. Sempre sulla stessa questione, recentemente, su Repubblica, Ferraris ha pubblicato un’intervista / dibattito con Vattimo[10] che riprende nuovamente la questione della verità. Ancora più recentemente, sempre su Repubblica, sono intervenuti Legrenzi,[11] Rovatti,[12] Bojanic[13] e, ancora, Flores d’Arcais.[14] E probabilmente siamo solo all’inizio. Va ricordato comunque che, anche nel nostro paese, il dibattito sul pensiero debole e sul postmoderno non è certo nuovo. Basti segnalare gli ormai lontani interventi di Viano[15] e di Paolo Rossi[16] e i più recenti di Eco,[17] Jervis[18] e Marconi.[19] Tuttavia, finora, le posizioni critiche erano rimaste chiuse nell’ambito del dibattito specialistico. Mentre il postmoderno e il pensiero debole hanno continuato ad avere ampie simpatie a livello della cultura di massa, sia di destra, sia, soprattutto, di sinistra.
Come mai proprio ora? Sembra che l’esigenza di una critica radicale della cultura ermeneutico - nichilista sia divenuta improcrastinabile proprio negli ultimi tempi, considerando la grave situazione politica in cui è precipitato il nostro Paese. Insomma, ci si sta accorgendo che, al di là della libertà di pensiero che va garantita a tutti, questa moda è senz’altro corresponsabile dei danni gravissimi che stiamo pagando, e pagheremo ancor più, nel prossimo futuro. Ha sottolineato Ferraris: «A far scricchiolare le certezze dei postmoderni ha contribuito prima di tutto la politica. L’avvento dei populismi mediatici – una circostanza tutt’altro che puramente immaginaria – ha fornito l’esempio di un addio alla realtà per niente emancipativo […] Nei telegiornali e nei programmi politici abbiamo visto regnare il principio di Nietzsche “non ci sono fatti, ma solo interpretazioni”, che pochi anni prima i filosofi proponevano come la via per l’emancipazione, e che in effetti si è presentato come la giustificazione per dire e per fare quello che si voleva».[20] Insomma, ci si sta accorgendo che è Berlusconi il vero discepolo di Nietzsche e Heidegger. Aggiunge lo stesso Ferraris: «…giova anche ricordare che l’addio alla verità è stata la regola di Bush, che ha scatenato una guerra non ancora finita servendosi di prove false (cioè, facciamoci caso, non vere) dell’esistenza di armi di distruzione di massa, d’accordo con la dottrina del suo consigliere Karl Rowe, che a un giornalista che gli chiedeva verità rispose: “Noi siamo ormai un impero, e quando agiamo creiamo una nostra realtà. Una realtà che voi osservatori studiate, e sulla quale poi ne creiamo altre che voi studierete ancora”».[21] Anche i recenti pesanti tentativi di manipolazione storiografica hanno contribuito a mettere sotto accusa il prospettivismo nicciano – ermeneutico - nichilista. Ancora Ferraris, in risposta a Vattimo: «Non si tratta di tornare realisti, ma di diventarlo una buona volta. In Italia il mainstream filosofico è sempre stato idealista, come sai bene. Quanto all’accertamento della verità, oggi c’è un sole leggermente velato dalle nuvole, e questo lo accerto con i miei occhi. È il 5 agosto 2011, e questo me lo dice il calendario del computer. E il 15 agosto del 1977 Herbert Kappler, responsabile della strage delle fosse ardeatine, è fuggito dal Celio, questo me lo dice Wikipedia. Ora, poniamo che incominciassi a chiedermi “Sarà poi vero? Chi me lo prova?”. Darei avvio a un processo che dalla negazione della fuga arriverebbe alla negazione della strage, e poi di tutto quanto, sino alla Shoah. Milioni di esseri umani uccisi, e io garrulamente a chiedermi “chi lo accerta?”».[22]
Oltre alle immediate motivazioni di ordine politico, l’altro elemento, invero assai più solido sul piano della conoscenza, che sta erodendo alla radice il pensiero vago ermeneutico - nichilista è costituito dai progressi, decisamente rivoluzionari, delle scienze cognitive, avvenuti negli ultimi decenni. Ha osservato, in proposito, Paolo Legrenzi nel suo intervento su Repubblica: «Oggi il vento è cambiato. Due grandi tradizioni di ricerca, l’evoluzionismo e lo studio del cervello, anche grazie a nuove tecniche di osservazione, stanno occupando la scienza. L’uomo è un pezzo della natura biologica e non è poi così speciale. L’idea che sia lui a costruire il mondo, con le sue categorie di osservazione e d’interpretazione, è al tramonto. Si celebra così la fine del presunto primato dell’interpretazione sui fatti».[23] In effetti, l’evoluzionismo, che oggi comincia anche a essere applicato con successo alla dimensione culturale, sta facendo piazza pulita delle filosofie della storia, delle profezie, sia di quelle che annunciano le svolte mirabolanti, sia di quelle che annunciano la fine catastrofica di qualunque cosa. Va detto che i postmodernisti si sono specializzati particolarmente nelle profezie del secondo tipo. Fa, in effetti, una certa impressione trovarsi a riflettere sull’annuncio della fine del postmoderno e del pensiero debole, cioè proprio di quel pensiero che, in maniera alquanto forte, aveva annunciato, tra l’altro, la fine della metafisica, la fine della ragione, la fine dell’ontologia, la fine della filosofia, la fine della modernità, la fine della storia, la fine dei valori, la fine dell’arte, la fine della politica, la fine (o il dileguamento) dell’essere, la fine della democrazia, la fine dell’Io, la fine dello Stato, la fine della verità, la fine (ovvero il passaggio allo stato liquido) della società. Tutti questi epiloghi epocali sono stati indicati come dati di fatto (anche se i fatti non esistono più…), come esiti ineluttabili, oppure come un compimento, secondo quella curiosa logica per cui quel che vien dopo non può che essere il destino di quel che è stato prima.
Quel che sta risultando sempre più chiaro, nel nostro Paese, negli ultimi anni, è che la teoria della fine della verità, intenzionalmente o no, ha dato il suo bravo contribuito ad assestare un colpo mortale alla democrazia (ahimè, la più moderna e illuminista delle forme di governo). A proposito del rapporto tra democrazia e verità, ha osservato Zagrebelsky: «Essendo la democrazia una convivenza basata sul dialogo, il mezzo che permette il dialogo, cioè le parole, deve essere oggetto di una cura particolare, come non si riscontra in nessuna altra forma di governo. […] Le parole non devono essere ingannatrici, affinché il dialogo sia onesto. Parole precise, specifiche, dirette; basso tenore emotivo, poche metafore; lasciar parlare le cose attraverso le parole, non far crescere parole con e su altre parole; no al profluvio che logora e confonde […] Le parole, poi, devono rispettare il concetto, non lo devono corrompere. Altrimenti il dialogo diventa un inganno, un modo di trascinare gli altri dalla tua parte con mezzi fraudolenti. […Occorre] affermare la sovranità della “cosa” detta sulla “sovranità della parola”, separata dalla sua verità e trasformata così in mezzo onnipotente di espropriazione dal discorso del suo contenuto di verità, secondo la forzatura che ne fecero fin dall’inizio Gorgia e i sofisti».[24] Sempre a proposito di democrazia e verità, vale la pena, per contrasto, di riportare, anche se è un po’ lungo, questo passo divertente della recensione di Diego Marconi a uno degli ultimi libri di Vattimo. «Nel suo piccolo ma interessante libro On Bullshit (tradotto in italiano col titolo di Stronzate, Rizzoli 2005), il filosofo Harry Frankfurt distingue il bullshit dalla semplice menzogna. Chi mente nasconde o altera quella che crede essere la verità, e quindi ha un’opinione riguardo a qual è la verità. Invece al bullshitter - a chi parla a vanvera – non importa affatto se quello che dice sia vero o falso: gli importa soltanto di “impressionare e persuadere il suo uditorio”. Secondo Frankfurt (che scrive a metà degli anni ‘80), la crescita esponenziale del bullshit è legata alla diffusa convinzione che, in una società democratica, ciascuno sia chiamato a esprimere la sua opinione, per quanto incompetente, approssimativa, casuale; e all’espansione del circuito mediatico, che sollecita l’espressione di molte opinioni. Ora, bullshit è, grosso modo, ciò che la filosofia e il discorso pubblico dovrebbero diventare, secondo l’ultimo libro di Gianni Vattimo, Addio alla verità […]. Dice infatti Vattimo che la norma del discorso non è la verità, ma il consenso: ciò che si deve perseguire è una “condivisione comunitaria che non dipende dal vero e dal falso degli enunciati”; all’incirca quel che fa il bullshitter secondo Frankfurt».[25]
A proposito della democrazia, il dibattito tra Ferraris e Vattimo è interessante, in quanto emergono, con una certa chiarezza, le diverse posizioni, ma è anche interessante per quel che Vattimo non dice fino in fondo (chi di decostruzione ferisce, …). Intanto, entrambi ammettono che il progetto originario del “pensiero debole” non abbia avuto gli esiti sperati (“…si guardava al postmoderno come ad una chiave per la democratizzazione della società, diffondendo pluralismo e tolleranza”). Si deve prendere atto di avere ottenuto solo una sorta di reality, di populismo mediatico. Secondo Ferraris «Gli ultimi anni hanno insegnato […] una amara verità. E cioè che il primato delle interpretazioni sopra i fatti, il superamento del mito della oggettività, non ha avuto gli esiti di emancipazione che si immaginavano illustri filosofi postmoderni come Richard Rorty o tu stesso».[26] Secondo Vattimo, la trasformazione annunciata dal pensiero debole era effettivamente possibile. La causa della sconfitta va ascritta al dominio dei poteri forti che si sono opposti e, si presume, hanno vinto. L’unico realismo sta, per Vattimo, nel «…prender atto che la cosiddetta verità è un affare di potere. Per questo ho osato dire che chi parla della verità oggettiva è un servo del capitale. Devo sempre domandare “chi lo dice”, e non fidarmi della “informazione” sia essa giornalistico-televisiva o anche “clandestina”, sia essa “scientifica” (non c’è mai La scienza, ci sono Le scienze, e gli scienziati, che alle volte hanno interessi in gioco)».[27] E ancora: «Chi dice che “c’è” la verità deve sempre indicare una autorità che la sancisce. Non credo che tu ti accontenti ormai del tribunale della Ragione, con cui i potenti di tutti i tempi ci hanno abbindolato. E che talvolta, lo ammetto, è servito anche ai deboli per ribellarsi, solo in attesa, però, di instaurare un nuovo ordine dove la Ragione è diventata strumento di oppressione. Insomma, se “c’è” qualcosa come ciò che tu chiami verità è solo o decisione di una auctoritas o, nei casi migliori, risultato di un negoziato».[28] Se tutti hanno ragione, nessuno ha veramente ragione. In un mondo simile, vale soltanto l’espressione della soggettività, la volontà di potenza e la forza, scambiate per libertà. Prosegue Vattimo: «Io non pretendo di avere la verità vera; so che devo render conto delle mie interpretazioni a coloro che “stanno dalla mia parte” (che non sono un gruppo necessariamente chiuso e fanatico; solo non sono mai il “noi” del fantasma metafisico)». «Ma allora, di chi mi fiderò? Per poter vivere decentemente al mondo devo cercare di costruire una rete di “compagni” […] con cui condivido progetti e ideali. Cercandoli dove? Là dove c’è resistenza: i no-Tav, la flottiglia per Gaza, i sindacati anti - Marchionne».[29]
Possiamo agevolmente ricavare, da queste premesse, che la volontà generale non ha alcun senso, trattandosi di un fantasma metafisico costruito dal tribunale della Ragione, asservita al potere del Capitale. Se ne deduce che, per Vattimo, la democrazia è sempre manipolata e che il responso delle urne non può essere tenuto in grande considerazione. La Costituzione e la Repubblica democratica sono solo dei paraventi del potere. Quelli che vanno a votare sono degli illusi. Qualunque forma di potere tende sempre a imporsi come verità oggettiva e va combattuta. Non importa costruire alcunché (la costruzione istituzionale è possibile solo ad opera del potere e, comunque, qualunque costruzione, ammantandosi di obiettività, si trasforma immediatamente in oppressione). In una simile situazione, ciò che importa è essere anti, essere contro, rovesciare a tutti i costi l’ordine del discorso.
Se è facile, logica alla mano, mettere alla berlina il postmoderno (un po’ come sparare sulla Croce Rossa), non altrettanto facile sarà riempire il baratro nichilista che esso ha effettivamente creato. Ferraris propone, in alternativa, di sviluppare una posizione che egli chiama New Realism, e che ascrive ad autori come Habermas, Searle ed Eco. Le tre parole chiave del nuovo realismo sarebbero ontologia, critica e illuminismo. Il nuovo realismo è stato, ahimè, subito giornalisticamente etichettato come pensiero forte, troppo facile contrario del pensiero debole. Vale la pena però di osservare che, come il pensiero debole non era affatto debole, così il nuovo realismo forte si spera non sia affatto forte, mettendo, una volta tanto, le cose a posto. Si tratterebbe, insomma, di riprendere criticamente, alla luce dei nuovi risultati scientifici, le fila delle posizioni neo illuministe, spesso sberleffate dai postmoderni / debolisti e tacciate di positivismo volgare. Si tratta di riallacciarsi alla nostra migliore cultura laica degli anni Sessanta e Settanta, a proposito della quale, tuttavia - ha argomentato Flores d’Arcais - «…c’erano già allora tutti gli elementi per costruire quella filosofia di “New Realism” che Maurizio Ferraris ora caldeggia contro il suo maestro e gli esiti prevedibilissimi dell’ermeneutica nichilista e del post-moderno. Mezzo secolo buttato. Comunque, meglio tardi che mai».[30]
29/08/2011
18/03/2015 (rev.)
Giuseppe Rinaldi
NOTE
[1] Questo articolo è stato originariamente pubblicato in data 1/9/2011 sul giornale online Città Futura. Quella qui presentata è una versione successiva, rivista e corretta con modifiche comunque marginali. La presente revisione è del 18/3/2015.
[2] Maurizio Ferraris, Il ritorno al pensiero forte. Dalla Germania all’Italia, la nuova filosofia realista, su Repubblica del 8 -8-2011.
[3] Cfr. MicroMega – Almanacco di filosofia, 5/2011.
[4] Gianni Vattimo (in conversazione con Daniel Gamper), Addio alla verità. Ma quale? in MicroMega – Almanacco di filosofia, 5/2011.
[5] Gianni Vattimo, Addio alla verità… cit., pag. 77.
[6] Cfr. Maurizio Ferraris, Postmoderni o neorealisti? L’addio al pensiero debole che divide i filosofi, in La Repubblica del 19-8-2011.
[7] Maurizio Ferraris, Epistemologia ad personam, in MicroMega – Almanacco di filosofia, 5/2011.
[8] Paolo Flores d’Arcais, Addio alla verità? Addio all’essere! in MicroMega – Almanacco di filosofia, 5/2011.
[9] Paolo Flores d’Arcais, Per una critica esistenzial – empirista dell’ermeneutica, in MicroMega – Almanacco di filosofia, 5/2011.
[10] Cfr. Maurizio Ferraris, Postmoderni o neorealisti? cit.
[11] Paolo Legrenzi, La visione che ci restituisce il mondo, in Repubblica del 26-8-2011.
[12] Pier Aldo Rovatti, L’idolatria dei fatti, in Repubblica del 26-8-2011.
[13] Petar Bojanic, Perché serve una prospettiva diversa, in Repubblica del 26-8-2011.
[14] Paolo Flores d’Arcais, La terza via di Camus, in Repubblica del 26-8-2011.
[15] Carlo Augusto Viano, Va pensiero. Il carattere della filosofia italiana contemporanea, Einaudi, Torino, 1985.
[16] Paolo Rossi, Paragone degli ingegni moderni e postmoderni, Il Mulino, Bologna, 1989.
[17] Umberto Eco, Sull’essere, in Kant e l’ornitorinco, Bompiani, Milano, 1997. Ma anche il saggio di Eco I limiti dell’interpretazione, Bompiani, Milano, 1990 è volto alla critica del postmoderno.
[18] Giovanni Jervis, Contro il relativismo, Laterza, Bari, 2005.
[19] Diego Marconi, Per la verità. Realismo e filosofia, Einaudi, Torino, 2007.
[20] Maurizio Ferraris, Il ritorno al pensiero forte, cit.
[21] Maurizio Ferraris, Epistemologia ad personam, cit., pag. 93.
[22] Maurizio Ferraris, Postmoderni o neorealisti? cit.
[23] Paolo Legrenzi, La visione che ci restituisce il mondo, cit.
[24] Gustavo Zagrebelsky, Imparare la democrazia, L’Espresso, Roma, 2005. Pag. 41-43.
[25] Diego Marconi, Senza verità, siamo più liberi? sul Sole 24 Ore, del 7-6-2009.
[26] Maurizio Ferraris, Postmoderni o neorealisti? cit.
[27] Maurizio Ferraris, Postmoderni o neorealisti? cit.
[28] Maurizio Ferraris, Postmoderni o neorealisti? cit.
[29] Maurizio Ferraris, Postmoderni o neorealisti? cit.
[30] Flores d’Arcais, La terza via di Camus, cit.
domenica 15 marzo 2015
Colossali stupidaggini
sabato 7 marzo 2015
Classe generale e interessi particolari
1. Negli Annali franco tedeschi Marx, nel 1844, pubblicò una Introduzione alla critica della filosofia del diritto di Hegel. Si tratta di uno scritto di poche pagine che tuttavia è piuttosto importante per la comprensione del suo pensiero e dei suoi successivi sviluppi. Ma in questo piccolo scritto trovano anche posto alcune particolari strutture di pensiero che hanno continuato a essere trasmesse fino ai giorni nostri, per lo più inconsapevolmente. Mi riferisco a una prospettiva sociale di tipo organicistico e a una fantomatica dialettica del particolare che diventa universale. Queste strutture di pensiero sono ancora rintracciabili a tutt’oggi nella polemica politica quotidiana e continuano a operare indisturbate, proprio perché date per scontate.