domenica 17 aprile 2011

Le primarie prese sul serio








1. Le “primarie” (*) rappresentano sicuramente un’importante novità introdotta nel panorama politico italiano. L’intento dei promotori delle primarie era chiaro e del tutto condivisibile: inaugurare un metodo trasparente per la selezione della classe dirigente, cui potessero partecipare non solo gli iscritti ai partiti, ma anche gli elettori. Il tutto rientrava in un progetto di rinnovamento della politica che il nuovo Partito Democratico aveva ampiamente propagandato. È chiaro che, se c’era bisogno di un metodo nuovo per selezionare la classe dirigente, si intendeva con ciò, implicitamente, che i vecchi metodi fossero stati piuttosto fallimentari. Tuttavia questo elemento d’analisi non è mai stato specificatamente approfondito. Il risultato è che spesso i vecchi metodi hanno continuato a sopravvivere, accanto al nuovo metodo. Si è trattato comunque di un’innovazione coraggiosa, in un periodo in cui il “porcellum” autorizzava i massimi dirigenti dei partiti a compilare le liste dei candidati, senza alcuna possibilità di scelta da parte degli elettori.

2. L’introduzione delle primarie è stata evidentemente ispirata all’esperienza elettorale americana, dove queste sono state usate sistematicamente, fin dalla fine dell’Ottocento. Purtroppo per noi, il sistema dei partiti americano si è sviluppato in maniera del tutto indipendente rispetto al sistema europeo. Ciò che va bene in America non è detto che debba funzionare altrettanto bene da noi. In effetti, il trapianto delle primarie nel nostro Paese ha comportato una serie di problemi, con cui abbiamo tuttora  a che fare.

 3. In primo luogo, le primarie americane sono regolamentate per legge. Si tratta di vere e proprie istituzioni.[1] Questo assicura che le primarie si svolgano secondo rigorose regole formali e si abbiano dunque tutte le garanzie necessarie che convengono a una consultazione elettorale vera e propria.

In secondo luogo, nonostante siano regolamentate per legge, le primarie americane presentano varie configurazioni, legate alle tradizioni e alle esigenze locali. Sono dunque piuttosto flessibili per quel che riguarda la forma giuridica. Sono per noi interessanti due aspetti, nell’ambito di questa varietà: la regolamentazione del diritto di voto e le modalità di scelta dei candidati. Per quanto riguarda la prima questione ci sono primarie chiuse e aperte: a quelle chiuse possono partecipare soltanto gli iscritti al partito; alle primarie aperte possono partecipare gli iscritti a uno speciale elenco di elettori (ci si può registrare come iscritti o indipendenti).[2] La scelta dunque, da noi, è caduta sulle primarie aperte. Per quanto riguarda la seconda questione, merita una particolare attenzione il caucus (consiglio, in lingua indiana). Il caucus è un seggio elettorale strutturato come un’assemblea, dove tutti gli elettori di una sezione s’incontrano contemporaneamente; la riunione ha una durata prefissata e si tiene di solito in un’ampia sala (palestra, aula magna o simili). Coloro che hanno già un’idea su come votare si mettono agli angoli opposti della sala. Gli incerti si mettono sparpagliati al centro. Ebbene, durante l’assemblea, coloro che hanno già un’idea cercano di convincere gli incerti sviluppando una serie di capannelli e discussioni animate. Alla fine della discussione ci si conta, e il gruppo che è riuscito a raccogliere il maggior numero è quello che vince tutte le deleghe (la logica è maggioritaria). Questo sistema è stato criticato perché toglie la segretezza al voto, ma non sfuggirà che esso permette, a tutti gli elettori, una discussione approfondita, in prima persona, (cosa che nel nostro sistema avviene solo sotto la forma della propaganda preelettorale).[3]

4. In terzo luogo, occorre ricordare che in America non esiste la tradizione del partito organizzato, tradizione che è invece assai diffusa in Europa, proveniente dai partiti di massa dell’Ottocento. I partiti americani sono poco più di comitati elettorali che si mobilitano e funzionano solo in funzione delle elezioni. Al di fuori delle elezioni, i partiti coincidono essenzialmente con i gruppi parlamentari e, nella società civile, sopravvivono soprattutto come orientamenti di cultura politica, come complesso di tradizioni e di valori. Ne deriva un fatto di assoluto rilievo, e cioè che, nella tradizione elettorale americana, gli elettori, nel momento in cui scelgono il loro candidato alle cariche pubbliche, scelgono anche il programma politico del candidato stesso, contribuendo così a definire la linea del partito. Questo è il motivo per cui lo scontro che avviene durante le primarie è uno scontro autentico, sostanziale per la vita del partito, uno scontro che serve certamente a selezionare le personalità migliori, ma soprattutto è uno scontro che serve a mettere a punto il programma elettorale. Insomma, durante le primarie, gli elettori (o gli iscritti) selezionando nello stesso tempo il candidato e il programma, svolgono l’equivalente di un nostro congresso di partito. Per questo stesso motivo, i candidati e i programmi che vengono sconfitti alle primarie  sono abbandonati al loro destino, senza tanti complimenti, evitando così la formazione di una burocrazia partitica. Negli States non si finanziano i partiti, si finanziano le campagne elettorali di questo o quel candidato. Non si milita principalmente per un partito, ma si milita per un candidato e per il suo programma.

5. Come stanno le nostre primarie rispetto a questo quadro? Le primarie nel nostro Paese, per intanto, continuano a essere svolte in forma privata, a costituire cioè forme di mobilitazione interna ai partiti e a non avere alcuna veste istituzionale – salvo, come si è detto, la legge della Regione Toscana. Grazie a questo carattere non istituzionalizzato, la tipologia funzionale delle primarie italiane è andata ampliandosi in maniera incontrollata: originariamente, le primarie avrebbero dovuto servire per scegliere i candidati di un partito (specificatamente il PD) alle cariche pubbliche. In secondo luogo, sono state utilizzate per la scelta del segretario del PD (che non è una carica pubblica, anche se il segretario del maggior partito dell’opposizione può aspirare a essere proposto per la presidenza del consiglio, in caso di vittoria elettorale). Ultimamente, le primarie sono state utilizzate anche a livello di coalizione, per la scelta del candidato a una carica pubblica (sindaco, governatore,...) proposto da una coalizione di partiti. Questa pluralità di scopi ha complicato obiettivamente la vita e il destino delle primarie, anche se, paradossalmente, ha contribuito a metterle sempre più al centro della vita politica.

6. Alcuni problemi delle primarie nostrane sono ben noti. Il punto più debole in assoluto sembra quello delle candidature, cioè della formazione delle liste. Mentre in America il partito nasce e si organizza in occasione delle elezioni proprio intorno a delle candidature, nel nostro caso il partito organizzato esiste già e, inevitabilmente, finisce per avere un peso fondamentale nella definizione dei programmi e delle candidature stesse. Nell’opinione comune, il partito organizzato c’è e si suppone che abbia comunque già un programma (sennò, cosa ci starebbero a fare i congressi e i gruppi dirigenti?),[4] dunque il focus dell’attenzione si concentra quasi esclusivamente sulle persone dei candidati.

Da questa indesiderabile conseguenza emergono inevitabilmente degenerazioni che sono diventate ormai assai familiari. Si può dar luogo alla formazione di liste pilotate dei candidati, dove un solo candidato abbia qualche possibilità di essere eletto e dove gli altri recitano il ruolo di comparsa. Le liste possono essere corrispondenti alle correnti interne del partito, per cui le primarie finiscono con il costituire la conta delle correnti. Le liste dei candidati, sia per chi vi compare che per gli assenti,  possono essere espressione delle lotte di potere personale all’interno del partito stesso. Insomma, da noi le primarie implicano principalmente una netta e pericolosa personalizzazione della politica e, contemporaneamente, una collocazione in secondo piano dei programmi elettorali. Spesso i programmi proposti dai diversi candidati non sono programmi effettivamente alternativi, spesso sono programmi generici, poco chiari. Il dibattito tra i candidati spesso non è un vero dibattito[5] e quindi l’elettore finisce per non avere fondati elementi per scegliere. Il confronto tra i candidati viene spesso giocato sulla base di caratteristiche estrinseche come la popolarità, l’appartenenza alla corrente, le capacità di comunicazione, e così via. Mentre la formazione delle liste avviene per lo più tra gli addetti ai lavori, all’elettore resta soltanto da scegliere tra i candidati, molti dei quali possono anche essere dei perfetti sconosciuti. Insomma, sembra spuntare, qua e là, il fantasma della democrazia plebiscitaria.

7. Questi problemi si presentano in forma allargata nei casi delle primarie di coalizione. Nella situazione politica italiana, data l’enorme frantumazione partitica, la scelta dei candidati alle cariche istituzionali difficilmente può essere ricondotta a un unico partito. Ci si trova spesso di fronte all’opportunità di scegliere il candidato per una coalizione. Intanto, bisogna che la coalizione sia già formata prima dell’inizio del processo delle primarie, e bisogna che abbia una sua solidità.[6] La qual cosa non accade spesso, poiché i partiti candidati a entrare in coalizione sono spesso in concorrenza tra loro, litigiosi e incapaci di fare causa comune. Ciò sembra accadere a maggior ragione, se i partiti sono all’opposizione: paradossalmente, sembra che stare all’opposizione contribuisca a ulteriori divisioni, più che a fare fronte comune. Molti preferirebbero andare prima alle elezioni e poi fare la coalizione[7] (le rotture di coalizioni sono all’ordine del giorno e non c’è alcun modo per punire coloro che rompano una coalizione). Bisogna poi che tutti partiti della coalizione siano disposti a fare le primarie, che si mettano d’accordo sulle liste, e che siano disposti ad accettare i risultati dell’elezione. Queste condizioni sono davvero difficili da soddisfare. Se le primarie interne a un partito spesso servono a regolare i conti tra le correnti del partito, le primarie di coalizione altrettanto spesso servono per regolare i conti tra i partiti della coalizione (per avere una misura della loro influenza). Coalizioni precarie e traballanti possono uscire con le ossa rotte dalle primarie di coalizione. Forse le primarie di coalizione, posto che si facciano, presentano qualche chiarezza in più rispetto ai programmi, perché i programmi in competizione finiscono con il coincidere con i programmi dei singoli partiti, e qui c’è una maggior disponibilità alla differenziazione.

8. Un altro aspetto rilevante è quello dei tempi. Il fatto che le primarie americane siano istituzionalizzate impone il rispetto di procedure precise, ma anche di tempi precisi. Entro le scadenze istituzionali si sa che bisogna avere candidati e programmi. Nel nostro paese, non essendo le primarie regolamentate in termini istituzionali, intanto si assiste sempre al balletto “le facciamo o non le facciamo”; poi, inevitabilmente, finisce che la decisione si prende all’ultimo minuto, il più tardi possibile (perché c’è sempre qualcuno che pensa di trarre vantaggio dall’allungamento dei tempi). Questo significa che i candidati si scelgono all’ultimo minuto, in seguito a trattative estenuanti, e che i programmi elettorali vengano fabbricati in quattro e quattr’otto, con il “taglia e incolla”. Dunque manca il tempo per sviluppare un dibattito effettivo con gli elettori potenziali. Lo scivolamento dei tempi conferisce dunque alle primarie nostrane una deriva ancora maggiormente plebiscitaria.

9. Un altro aspetto concerne la palese diseguaglianza delle opportunità per i diversi candidati. Le primarie americane si svolgono in una situazione di storica debolezza delle organizzazioni dei partiti. Ciò costringe i candidati a dotarsi di loro lobby personali, di personali found raiser, gruppi di sostenitori. Le primarie italiane si svolgono in una situazione dove i partiti sono ancora piuttosto organizzati e burocratizzati. Questo significa che la burocrazia partitica si schiera inevitabilmente per questo o quel candidato.[8] L’apparato che controlla il partito non riesce a essere neutro. Le primarie dove per caso vince un outsider fanno notizia e creano un terremoto organizzativo. Lo stesso vale se – in caso di primarie di coalizione – diversi partiti hanno ciascuno il proprio candidato (o più di uno). Questo rende la vita difficile a chiunque non sia addentro all’organizzazione e abbia intenzione di candidarsi. Si troverebbe a dover fare una campagna elettorale in una situazione piuttosto difficile.

10. Abbiamo poi avuto modo di notare spesso che chi perde non ci sta. Abbiamo già sottolineato che nel sistema americano chi perde viene abbandonato al proprio destino, senza tanti complimenti. Sarà un sistema spietato, ma per lo meno è chiaro. È interesse del partito selezionare effettivamente chi ha le migliori chance di riuscita. Dopo che il candidato è stato scelto, il partito – o la coalizione- si ricompone sulla persona e sul programma del vincitore, per affrontare la sfida elettorale. Nel nostro paese, invece, le primarie plebiscitarie si organizzano per confermare una decisione già presa dal partito o dal consesso dei partiti (o dai loro gruppi di potere). Qualora l’esito delle primarie sia diverso dalle attese, si tende a rimettere tutto in discussione, a non accettare la decisione delle urne (con rischi di spaccature interne o spaccature di coalizioni), a mettere in discussione le primarie stesse.[9] Insomma, per fare le primarie, ci vuole una certa maturità democratica.

11. Le primarie, quale che sia il loro valore effettivo, nonostante i difetti che abbiamo elencato, hanno tuttavia finito per diventare di fatto vincolanti. È diventato molto difficile non farle. Paradossalmente, è chi non vuole fare le primarie che deve spiegare e convincere gli altri. Chi vuole le primarie gode, in un certo senso di un assenso preventivo.[10] Sarei tentato di parlare di un mito delle primarie che si sta diffondendo per ogni dove. Un consenso peraltro spropositato rispetto – come si è visto - alla modesta pratica e teoria dello strumento, così come lo stiamo realizzando nel nostro paese. Poiché le primarie sono diventate un mito, allora spesso vengono realizzate come un rituale. Poiché bisogna farle, facciamole e non pensiamoci più.

12. Sembra dunque che le primarie, nel nostro paese, siano davvero giunte al bivio. Le soluzioni sostanzialmente sono due. La prima è già stata adombrata, più o meno timidamente: si potrebbe tranquillamente decidere che non si fanno più, che sono controproducenti. Si potrebbero fare le primarie chiuse, cioè riservare solo agli iscritti ai partiti la scelta dei programmi e delle candidature.  Sarebbe una scelta legittima, non c’è che dire, e indubbiamente più chiara. Anche se bisognerebbe stare molto attenti a trovare le argomentazioni giuste di fronte agli elettori, per giustificare una simile decisione. E, soprattutto, bisognerebbe spiegare come si possa realizzare, in modo diverso, l’obiettivo per cui le primarie aperte erano nate: produrre il ricambio della classe politica dando la parola al corpo elettorale. Obiettivo che finora è stato realizzato solo marginalmente.

13. La seconda soluzione sta nel prendere le primarie sul serio. In tal caso, tutto quel che s’è fatto finora non basta ancora. Si tratta di capire come possa un elettorato potenziale avere autenticamente una qualche voce in capitolo nella costruzione del programma e nella scelta dei candidati. È chiaro che la strada rituale e plebiscitaria non porta da nessuna parte. Le primarie prese sul serio potrebbero essere una seria occasione per introdurre nel nostro paese momenti di democrazia deliberativa (di cui tutti parlano, ma che nessuno pratica). Cosa potrebbe significare in concreto? Una volta i programmi si costruivano nelle sezioni e nei congressi. Adesso sono in crisi le une e gli altri (i congressi sono solo dei rituali esteriori dove si decidono le cariche del partito). E poi le primarie ampliano l’elettorato, ben oltre gli iscritti che fanno vita di partito. Allora si tratta di considerare le primarie come uno spazio (sia nel senso di un tempo adeguato, sia nel senso di un’arena pubblica) nel quale gli elettori vengano convocati (come nei caucus americani) e nei quali abbiano occasione di partecipare a un autentico dibattito intorno alla definizione dei programmi e delle candidature. Agli elettori potenziali devono essere offerti dei momenti deliberativi in cui possano prendere informazioni, possano discutere, confrontarsi intorno alle soluzioni dei problemi, discutere di programmi, fare delle scelte. E, certo, possano anche conoscere i candidati, vederli all’opera, nelle loro differenze, nelle loro capacità. Insomma, si tratta di creare uno spazio di dibattito autentico nel quale si costruisca, con gli elettori potenziali, la scommessa elettorale. Uno spazio autentico da usare anche per ricostruire la partecipazione politica, mai così bassa nel nostro paese.

14. Altrimenti si continuerà a demandare la definizione delle candidature alle burocrazie dei partiti, la costruzione del programma a qualche team di ghost writer, e la campagna elettorale a qualche agenzia di pubblicità. A questo punto, la primaria plebiscitaria potrebbe solo mettere il timbro su un processo politico ancora una volta illusorio e vuoto di partecipazione effettiva.

Giuseppe Rinaldi

 

(*) La versione originale è stata pubblicata il 17/04/2011 su “Città futura”. L’attuale versione è stata rivista il 6/9/2012.

 

NOTE

[1] In Italia solo la Regione Toscana ha varato una legge locale sulle primarie.

[2] Anche nelle primarie aperte americane può accadere che gli avversari del partito si iscrivano tra gli elettori per pilotare la scelta di un candidato debole.

[3] Questa prassi assomiglia alquanto alle tecniche di democrazia deliberativa di cui si discute da qualche tempo.

[4] Anche se i programmi in questo caso sono poco più che generici elenchi di desiderata.

[5] Spesso il dibattito elettorale che precede le primarie è reticente, pieno di imbarazzi e di appelli all’unità del partito. Spesso degenera sul piano delle differenziazioni personalistiche.

[6] Questa possibilità è legata naturalmente a quanto è specificato dalla legge elettorale.

[7] La legge elettorale in discussione che dovrebbe sostituire il porcellum allo stato attuale (autunno 2012) sembra andare proprio in questa direzione.

[8] Non è in discussione che i diversi membri del partito possano parteggiare per l’uno o l’altro candidato. È in discussione il fatto – paradossale forma di analfabetismo democratico – che gli organismi ufficiali del partito organizzino le primarie per scegliere il candidato e, contestualmente, emanino ufficialmente dei comunicati a sostegno del loro candidato preferito. È chiaro che, in caso di vittoria di un altro candidato, gli organismi ufficiali sarebbero poi costretti, di fatto, a dimettersi.

[9] A ciò possono contribuire anche episodi di effettive irregolarità, come nel caso recente di Napoli, dove si è avuto il sospetto di votanti pilotati. Sono accaduti recentemente, soprattutto a livello delle elezioni dei sindaci casi in cui le primarie hanno sovvertito le aspettative delle organizzazioni dei partiti partecipanti. Ciò è accaduto a Napoli, con la scelta imprevista del candidato De Magistris e a Milano, con la scelta altrettanto imprevista del candidato Pisapia. Fatti simili sono avvenuti a Genova.

[10] È interessante, ad esempio quanto è avvenuto nel PdL. Il segretario Alfano ha annunciato trionfalmente che il PdL avrebbe fatto le primarie. Quando (estate 2012) Berlusconi ha annunciato la sua intenzione di ricandidarsi, lo stesso segretario Alfano si è sforzato di sostenere che – solo nel caso della ricandidatura di Berlusconi – le primarie non sarebbero più state necessarie.