giovedì 18 novembre 2010

Vecchi chierici e nuovi barbari (3.1)


1. Secondo[1] la tradizione classica, i barbari sono coloro che balbettano, coloro che parlano una lingua incomprensibile, coloro che abitano oltre i confini, gli estranei nemici della civiltà. Con l’indebolimento progressivo di tutti i confini è tuttavia oggi sempre più difficile intendere in termini spaziali l’antitesi tra barbarie e civilizzazione. Oggi, secondo un comune modo di sentire, i barbari sono fra noi e, da qualche tempo, proprio nel nostro Paese, sembrano godere di una certa attualità. Accade, infatti, sempre più spesso che i quotidiani avvenimenti si prestino a essere interpretati come preoccupanti segni di imbarbarimento. Così la categoria della barbarie ha finito per imporsi all’attenzione tra lettori di cronaca, opinionisti, politici, letterati e filosofi. Si tratta certamente una categoria alquanto imprecisa, senz’altro politicamente scorretta, poco scientifica, suscettibile di essere rifiutata nei salotti buoni e in quelli alternativi. Tuttavia, poiché altri concetti più nobili non sembrano sempre in grado di gettar luce sulla crisi attuale, può darsi che proprio la barbarie possa risultare efficace. In casi come questo un concetto deve solo mostrare la sua utilità.

2. Qualunque riflessione sul nostro attuale imbarbarimento chiama in causa il nostro modello di civilizzazione (o modernizzazione). La storia del nostro Paese è costituita, in effetti, da un lungo susseguirsi di faticosi tentativi di uscita dalla barbarie. Una civilizzazione mancata, dunque, cui hanno preso parte molti attori che si sono sostituiti gli uni agli altri, ma che hanno comunque sempre fallito l’obiettivo. Per restare nell’età moderna, la Chiesa cattolica, tra Cinquecento e Seicento, è stata responsabile di uno dei fallimenti più evidenti nella modernizzazione del nostro Paese. Al fallimento controriformistico ha fatto seguito il fallimento della modernizzazione liberal borghese, che ha prodotto uno Stato elitario, burocratico, separato dai cittadini e un capitalismo del tutto periferico, debole e assistito. La modernizzazione fascista ha fallito anch’essa, gettando peraltro il paese nel baratro. La Resistenza ha inaugurato una Repubblica fondata sul lavoro che avrebbe dovuto finalmente realizzare i principi della modernità, i principi della liberté, egalité e fraternité, ma che si è poi arenata sotto il peso del conflitto di classe, della “Repubblica dei partiti”, delle divisioni territoriali, della Guerra fredda e delle mafie.

3. Tutti questi tentativi sono stati contraddistinti dal modello comune della modernizzazione illuministica secondo cui, di volta in volta, una classe dirigente colta e ideologizzata (il clero, la borghesia, il partito di massa), custode, come si dice oggi, di una grande narrazione, provvedeva a formare le masse, a organizzarle e a indirizzarle verso l’obiettivo. Le grandi narrazioni modernizzatrici erano elaborate a tavolino dai clerk (il termine rende bene il passaggio delle élite dal mondo religioso al mondo laico) e venivano inculcate alle masse con pazienza, attraverso istituzioni complesse come le chiese, i partiti, la scuola pubblica, i giornali, la radio e la televisione. La storia d’Italia è trascorsa alla costante ricerca di una sempre nuova classe dirigente che fosse capace di trasformare la vecchia società verticale in una società moderna, democratica, orizzontale. Le ondate successive di modernizzazione hanno certo prodotto qualche risultato, ma hanno lasciato inalterata la zavorra sociale e culturale premoderna che, spesso riuscendovi, ha sempre tentato di riportare il Paese al punto di partenza. I barbari tra noi ci sono sempre stati.

4. Insomma, il nostro Paese, per il peso della tradizione e per i suoi abissali ritardi, si è trovato a vivere, in tempi rapidi e spesso sotto la spinta di pressioni esterne, tutti quei cicli di modernizzazione per i quali altri paesi hanno impiegato secoli. E le cose sono venute male. La storia non fa sconti. Il periodo recente che va dal boom dei primi anni Sessanta agli anni Settanta ha rappresentato la massima concentrazione di tutte le grandi narrazioni sette – ottocentesche, di tutte le utopie modernizzatrici, il massimo sforzo di mobilitazione, il massimo tentativo di politicizzazione di tutto l’esistente; ma ha anche rappresentato, almeno per il nostro paese, una colossale sconfitta. Le grandi narrazioni (quella cattolica, quella resistenziale, quella democratica, quella socialista o marxista, quella liberale men che mai, …) non sono riuscite a radicarsi veramente, a diventare istituzioni, tradizione autentica, senso comune e hanno lasciato inalterato lo zoccolo duro della barbarie.

5. Dopo la sconfitta degli anni Settanta ci si poteva comunque attendere l’apertura di un qualche nuovo ciclo modernizzatore. Invece non è accaduto niente di tutto questo. Il Paese si è fermato, la storia si è fermata. I partiti e le classi dirigenti sono stati travolti dagli scandali, i chierici si sono disarmati (si sono rifugiati nel minimalismo, nel nichilismo, oppure sono diventati retori, uomini di spettacolo, servi del potere), le grandi narrazioni si sono frantumate in una miriade di dialetti per iniziati. In altri termini c’è stata effettivamente, nel nostro Paese, una novità epocale: la fine del modello illuministico di modernizzazione, ovvero la rinuncia, da parte delle classi dirigenti, degli intellettuali e della cultura, a elaborare un progetto di portata storica capace di guidare la trasformazione della società. Questa mancanza di prospettiva è ampiamente percepibile negli eventi degli ultimi decenni. Qualcuno si è spinto a parlare di fine della politica. Insomma, per esprimerci in termini correnti, siamo entrati nella post modernità senza avere mai realizzato alcuna solida modernità.

6. Qui sono entrati in scena i barbari che hanno abbandonato il loro ruolo di zavorra silenziosa e sono diventati protagonisti fragorosi e ingombranti della scena pubblica. Di fronte alla delusione delle modernizzazioni fallite, di fronte al vuoto progettuale dei vecchi chierici, negli strati medio bassi della nostra società ha cominciato a manifestarsi una sorta di attivismo barbarico che rifiutava esplicitamente di essere portatore di una visione sociale complessiva e di un progetto di modernizzazione, che aveva come caratteri distintivi quello di essere comunque contro tutto e contro tutti e di praticare sistematicamente l’occupazione delle posizioni sociali e il saccheggio delle risorse. Quel vasto strato sociale barbarico che per secoli aveva atteso di farsi catechizzare da qualche élite ha cominciato a identificarsi nelle sue rappresentazioni collettive, a diventare visibile e a esprimersi con vigore. Anche e soprattutto in campo politico. La sensazione che fossero degli stranieri era molto forte. Le prime ondate sono arrivate dalla periferia e si sono organizzate attorno al progetto leghista di costruire centri di potere locale, sottraendoli al potere centrale, arrivando a darsi l’obiettivo della spaccatura del Paese. Poi l’invasione è arrivata da dentro, dal centro stesso, con la marcia di Forza Italia alla conquista dello spazio politico lasciato vuoto da Tangentopoli, con l’ambizioso progetto di abbattere la vecchia classe politica. Le due direttrici di marcia hanno poi finito per unificarsi in una morsa che ha spogliato il paese per una quindicina di anni.

7. Il berlusconismo e il leghismo hanno avuto il carattere di una vera e propria mobilitazione rivoluzionaria (così è stata vissuta da coloro che vi hanno partecipato) che avrebbe dato finalmente il potere alle masse, avrebbe realizzato le promesse non mantenute delle grandi narrazioni sette – ottocentesche (del resto Forza Italia è una caricatura del liberalismo, come la Lega è una caricatura del socialismo). Il nuovo potere delle masse doveva esercitarsi senza alcuna mediazione tradizionale: tutto movimento, niente organizzazione, niente chierici. I leader dovevano essere esattamente uguali ai loro seguaci. Entrambi i progetti si sono serviti di personale politico improvvisato, raccogliticcio, formato in modo frettoloso e approssimativo, hanno sviluppato narrazioni elementari, in gran parte di natura simbolica (la metafora calcistica, il Dio Po, …), hanno esaltato la figura del leader e il rapporto diretto con il popolo, hanno inventato la democrazia dei sondaggi, hanno usato massicciamente gli slogan e il linguaggio pubblicitario. Entrambi si sono presentati come l’antipolitica (Roma ladrona, il partito del fare, il Presidente operaio, …) e hanno, coerentemente con l’etimologia del termine, portato avanti un progetto di dissoluzione dell’unità nazionale e di devastazione delle istituzioni. Sono riusciti ad accaparrare un enorme bottino che è stato distribuito, in infiniti rivoli, ai vari clan.

8. Mentre Berlusconi ha realizzato il suo disegno puntando sull’individualismo estremo di una massa d’individui in condizione prepolitica (giocando sulla tradizionale assenza di un polo liberale), Bossi ha invece realizzato il suo basandosi sul solidarismo della comunità ristretta a forte identificazione etnica. Ma le due invasioni sono due facce della stessa medaglia barbarica. Da un lato l’anarchismo individualistico, dall’altro il comunitarismo arcaico (l’unico comunitarismo che in un certo senso è in grado di riprodursi da solo, sulla base della tradizione locale). Entrambe corrispondono a stili politici tipicamente anti moderni e anti illuministici (qualcuno, beato lui, dice post[2]). L’unica differenza tra i due è che la Lega ha dovuto faticosamente occupare il territorio, usando uno stile da terza internazionale (comprese le formazioni paramilitari, …), mentre Berlusconi ha potuto occupare l’intero paese in forma soft, grazie a un partito leggero, praticamente di sua proprietà (gli uomini con la valigetta), e ai suoi mezzi di comunicazione.

9. Com’è potuto accadere tutto ciò? La ragione non si trova in qualche profonda mutazione economica o sociale, bensì in una mutazione di tipo culturale. Al posto delle vecchie fratture di tipo economico - sociale era venuta progressivamente emergendo, nel nostro paese, una frattura culturale che è stata inavvertita e incompresa. A partire dagli anni Sessanta, gli opinionisti e gli intellettuali hanno annunciato con entusiasmo l’avvento nel nostro paese della cultura di massa. Di volta in volta sono state osannate le virtù di cose come la televisione, il design pubblicitario, la moda, i grandi magazzini, i cartoni animati, i fumetti e i fotoromanzi, le radio libere, il tifo sportivo, la marijuana, il country romagnolo, il Festival di San Remo.[3] Si condannava la politica estera dell’America, ma ci si entusiasmava per la sua cultura di massa (dal cinema alla musica, alla letteratura, ai movimenti) che sembrava rappresentare la liberazione e la modernità. Si coltivava l’ingenua illusione che la cultura di massa avrebbe portato con sé uno sviluppo della democrazia.[4] In realtà, in un paese dalla modernizzazione imperfetta come il nostro, la cultura di massa non si sarebbe tradotta in una maggior democratizzazione, sarebbe semplicemente diventata il veicolo di rappresentazione e di espressione della massa barbarica. I mass-mediologi degli anni ’60 non avrebbero mai immaginato che le comunicazioni di massa, la moda e l’opinione avrebbero rubato la scena al discorso politico pubblico e avrebbero profondamente trasformato la politica stessa.

10. La fenomenologia di questo processo è abbastanza nota. Il discorso politico di matrice illuministica è stato stravolto da meccanismi di manipolazione incentrati sulle emozioni, proposti e riproposti come forme di trasgressione e di liberazione. Abbiamo avuto la riduzione del linguaggio politico a forme elementari, lo sdoganamento della menzogna e del turpiloquio, la promozione dell’egocentrismo e del narcisismo, il culto del corpo, il mito dello sballo, la sessualità come merce. E, ancora, abbiamo avuto il tifo degli stadi, l’esaltazione della forza, ma anche della violenza e della sopraffazione, l’irrisione della debolezza o della diversità, il mito del successo facile, del denaro e della celebrità, lo stravolgimento e l’uso strumentale della memoria e della storia. Berlusconi e Bossi hanno saputo interpretare meglio di ogni altro questa rivoluzione della libertà senza istituzioni e/o della libertà contro le istituzioni. Così, al posto di un repubblicanesimo democratico maturo abbiamo avuto la riproduzione allargata del populismo, ovvero del qualunquismo autoritario di massa. La cultura di massa, in sé, non è né buona né cattiva, ma può avere effetti disastrosi nei paesi dove le istituzioni democratiche siano già deboli in partenza.[5]

11. Di fronte all’invasione dei barbari, l’opposizione è rimasta attardata in vecchi dilemmi sette – ottocenteschi, è rimasta prigioniera del “modello illuministico” di modernizzazione, proponendosi come ultimo baluardo anti barbarico, tentando talora di difendere vecchie ideologie, oppure sviluppando talvolta arditi sincretismi (giungendo anche a scoprire il liberismo, come fosse una novità). Ma, soprattutto, si è accontentata, nei fatti, di vivere di una rendita di opposizione, difendendo e promuovendo le carriere politiche del proprio personale, attraverso scissioni, unificazioni e innumerevoli cambiamenti di sigle. Ne sono emersi un miscuglio ideologico incerto e un personale politico sempre più rassegnato e comunque incapace di competere con la mobilitazione barbarica. L’opposizione non è stata in grado di espugnare i fortini dei barbari perché questi si collocavano ormai al di là dell’unico modello di modernizzazione conosciuto. Il messaggio politico dell’opposizione non arrivava più al destinatario, appariva sempre più come una chiacchiera in difesa di vecchi assetti e l’opposizione stessa appariva come uno schieramento conservatore (e, in un certo senso, lo è poi diventato anche di fatto).

12. Vediamo ora se e come il nostro concetto di barbarie sia in grado di farci vedere le attuali contingenze politiche da un punto di vista diverso dal solito. La situazione politica è stata recentemente rimessa in movimento da Fini e dai finiani. Questa componente del PdL, per cause che non stiamo ad analizzare, dopo una lunga convivenza subalterna con i barbari, ha tentato di marcare la propria identità, recuperando una narrazione illuministica da destra europea (difesa dell’unità nazionale, difesa delle istituzioni repubblicane, laicità, legalità,  merito, competizione, ecc.). Ebbene, la frattura con i barbari è stata immediata e inevitabile, a causa – più che altro – della comparsa di un orizzonte radicalmente diverso di cultura politica. Non si è trattato di una bega tra leader, bensì di una frattura oggettiva tra i rispettivi mondi di riferimento. È sintomatico di questa situazione che Fini sia apparso come uomo dell’opposizione e che nel PD sia subito emersa una tendenza a includerlo in un’ampia alleanza contro Berlusconi e Bossi. Un’istintiva contrapposizione dei chierici illuminati contro i barbari.[6] Ma proprio per questo Fini sta rischiando molto perché – pur potendo contare, in un modo o nell’altro, su un prossimo ritiro dalla scena di Berlusconi - non è detto che riuscirà a farsi capire dai barbari tanto da ottenere il loro sostegno elettorale.

13. Il PD ha esattamente lo stesso problema. Uno dei fatti più drammatici e inspiegabili dell’attuale situazione politica è costituito dal fatto che, pur in presenza di una gravissima crisi della maggioranza, il principale partito dell’opposizione non riesca ad aumentare i suoi consensi, anzi riesca addirittura a diminuirli (siamo al 23%). Questo significa che la narrazione “democratica” che il PD sta cercando faticosamente di elaborare (oltretutto sul modello d’importazione americano, che in origine era del tutto settecentesco!) è riuscita a trovare qualche consenso tra i cosiddetti “ceti riflessivi” e presso lo zoccolo duro storico della sinistra. Non è però riuscita ad andare oltre. È come se il PD fosse imprigionato, nella sua bolla culturale di riferimento, da un involucro invisibile. Più il PD si scaglia contro Berlusconi, più si confina e si isola nel suo stesso universo linguistico privato. Nonostante l’obiettiva debolezza della maggioranza, il PD non riesce ancora a parlare ai barbari.

14. Ma, a quali barbari dovrebbe rivolgersi il PD? In realtà il vero competitore del PD non è il PdL (i voti della maggior parte degli attuali berlusconiani non andranno mai a sinistra) ma è costituito dalla Lega. Se il PD vuole allargare la sua base elettorale, deve cercare di prendere voti alla Lega. L’unico modo per farlo è sciogliere la questione del Nord, cioè il nodo del federalismo. Se il PD non riuscirà a competere con la Lega sul terreno della giustizia territoriale, del federalismo e della sicurezza, non si schioderà dal 20-24%, potrebbe anzi perdere ulteriormente. La verità è che il PD ha paura della Lega, perché non la capisce, perché non è in grado di parlare ai barbari, e forse non lo vuole neppure. Ma anche perché il PD, se prendesse questa strada, dovrebbe cambiare radicalmente il proprio stile politico, dovrebbe sollevarsi dalla palude tirandosi su per il codino, come il Barone di Münchhausen.

  15. Per il PD allora è molto più comodo dare per scontato che i barbari si terranno il Nord, dove sono radicati, e cercare qualche alleanza tattica con tutti gli eterogenei vecchi residui del modello illuministico (cattolici, democratici, socialisti, ecologisti, …) e in particolare con l’UDC. Si tratta però di una scelta quanto mai problematica che, oltre a tutto, impone anche al PD di guardare con diffidenza Di Pietro[7] e Grillo, che, sebbene collocati a sinistra, sono barbari anche loro, e risultano ugualmente incomprensibili. Questa strategia, inoltre, non sembra entusiasmare neppure i sostenitori del PD e comunque non pare abbia successo nel coinvolgere gli elettori barbari. Anche la strategia di quelle forze che guardano al centro sembra davvero priva di prospettive, perché al centro, oggi, non ci sono più i moderati, ma ci sono, appunto, i barbari in libera uscita. I nuovi barbari non si faranno catechizzare da Casini o da Rutelli, ma si venderanno al miglior offerente, imponendo la loro domanda politica (ormai hanno imparato come si fa).

16. Sia il nuovo partito di Fini, sia il PD, riusciranno ad allargare i loro consensi solo se riusciranno a innovare radicalmente il loro modo di far politica, a ricucire la frattura culturale, a parlare con i barbari, a trattare con i barbari, a offrire loro una prospettiva politica credibile capace di parlare il loro linguaggio. Il nuovo stile politico che verrà dovrebbe sciogliere un difficile dilemma; dovrebbe valorizzare gli aspetti più nobili e irrinunciabili del modello illuministico di modernizzazione, ma dovrebbe tradurli ed esprimerli in modo nuovo, attraverso forme compatibili con la vita quotidiana dei barbari e con la visione barbarica del mondo.

 

Giuseppe Rinaldi (18/11/2010 – 05/07/2021 rev.)

 



NOTE


[1] Questo articolo è nato come rielaborazione di un mio breve intervento al dibattito, organizzato recentemente da Città Futura, su neo liberismo e barbarie.

[2] Oggi si ritiene che la deriva politica verificatasi in Italia negli ultimi decenni sia una normale manifestazione di quella che viene chiamata postdemocrazia. In realtà il caso italiano pare avere caratteristiche molto specifiche.

[3] Ultimo epigono di questa tendenza è stato l’onorevole Bersani, che non ha mancato di farci sapere che il Festival di San Remo è il posto giusto per stare in contatto con il popolo.

[4] La teoria secondo cui i jeans e la Coca Cola porterebbero con sé la democrazia è dura a morire; spesso la si applica ai paesi del terzo mondo. La Cina odierna mostra come i jeans e la Coca Cola possano convivere benissimo con la più totale mancanza di democrazia.

[5] L’impatto della cultura di massa sulle vicende storiche recenti del nostro paese non è stata ancora ben compresa, come si vede dal dibattito recentemente condotto sul quotidiano La Repubblica da Baricco e da Scalfari. Entrambi, pur se con accenti diversi, hanno espresso la convinzione che la modernità illuministica sia esaurita e che sia ormai inevitabile scovare le tracce del nostro futuro proprio tra le manifestazioni del barbarico. Come si comprende dal contenuto di questo articolo, non concordo con la distinzione tra barbari e imbarbariti che è stata da loro introdotta.

[6] Ciò creerebbe un cambiamento radicale della geometria dello spazio politico del nostro paese: all’attuale struttura approssimativamente tripolare (destra – barbari - sinistra) si sostituirebbe una nuova struttura bipolare (destra e sinistra- barbari).

[7] L’attribuzione di una natura barbarica al movimento di Di Pietro è invero piuttosto problematica. In termini di contenuto, i temi agitati dall’IDV sono pienamente in linea con le narrazioni sette - ottocentesche di matrice liberal democratica (giustizia, legalità, difesa della Costituzione, …). Il suo stile politico è invece tipicamente barbarico, basato su un linguaggio semplificato, sulla personalizzazione dello scontro; l’organizzazione del partito è di tipo movimentistico ed è incentrata sul leader. Bisogna dare atto all’IDV di avere colto l’esigenza di innovare lo stile politico per cercare di fare breccia nell’elettorato barbarico. Finora la sintesi è però riuscita solo parzialmente. Oltretutto, tra l’IDV e il movimento di Fini c’è un’obiettiva sovrapposizione di temi per cui, tra le due formazioni, ci sarà probabilmente una forte concorrenza (per gli stessi motivi, potrebbe esserci anche, in futuro, una qualche convergenza).