1. 
Quanto mai estraneo e, allo stesso 
tempo, assai familiare appare allo 
spettatore il film “Parasite” di Bong Joon-ho, vincitore della Palma d’Oro al 
Festival di Cannes 2019. Familiare, perché il regista usa con maestria svariati 
generi universalmente noti del linguaggio cinematografico. Estraneo, poiché i 
temi e lo stile con cui sono trattati sono indubbiamente assai ancorati a certe 
specificità dell’attuale società coreana e della sua cultura. Si tratta dunque 
di un film effettivamente sincretico, nel senso che fonde 
continuamente elementi che appartengono ormai ineluttabilmente al mondo globale 
con gli elementi di una situazione marcatamente locale. La fusione 
miracolosamente riesce e lo spettatore ha costantemente l’esperienza di un virtuoso straniamento che lo invita a 
coinvolgersi e, nello stesso tempo, a riflettere con un certo distacco. Insomma, 
il tutto si colloca alla giusta
 distanza, verrebbe da dire. Il film è sostanzialmente uno splendido, 
sebbene come si vedrà alquanto problematico, apologo
 morale sulle relazioni interpersonali e sulla sociologia della vita
 quotidiana, come queste si configurano nell’epoca delle catastrofi ecologiche, 
delle diseguaglianze crescenti e dell’inasprimento della competizione tra gli
 individui. Proprio per la sua distanza relativa, il film è capace, attraverso
 questi temi, di gettare uno sguardo critico sulla nostra contemporaneità, uno
 sguardo decisamente insolito, originale e provocatorio. Nel film, oltretutto, è
 mostrato abbondantemente lo sconquasso che la penetrazione e diffusione del
 mercato globale ha provocato e sta provocando, anche in società lontane come
 quella coreana.  
  2. 
Abbiamo accennato alle catastrofi
 ecologiche. Il film ci parla senz’altro di ecologia, 
specialmente nel senso originario del termine che, notoriamente, ha a che fare 
con la “casa” (oikos). Il film, 
infatti, è una commedia nera che si svolge quasi esclusivamente in interni, in 
due case antitetiche che corrispondono a due famiglie coreane altrettanto
 antitetiche. Sono messi in contrapposizione, anche e soprattutto visivamente, 
due ecosistemi idealtipici costituiti dalle rispettive case in cui vivono i
 protagonisti. Da un lato, il mondo dell’architettura ultra moderna 
dell’archistar Namgoong Hyeonja (personaggio del tutto inventato), ideatore e 
costruttore della casa dove vive la ricca famiglia Park. Dall’altro, quello del 
tugurio, del seminterrato miserabile con finestrella a livello della strada, in 
cui vive la povera e sgarrupata famiglia Kim. La contrapposizione è volutamente 
paradigmatica, poiché pare che Park e Kim siano i cognomi statisticamente più 
diffusi in Corea.
3. 
L’avveniristica casa dei Park si ispira alla concezione architettonica
 razionalistica occidentale, appena corretta da una sensibilità asiatica per la 
presenza di una ampia vetrata su un grande giardino. La casa corrisponde dunque 
a un modello culturale d’importazione, come del resto moltissimi altri elementi 
che si vedono nel film, tutti ampiamente enfatizzati nelle inquadrature, come
 telefonini, automobili, computer, camicie e cravatte sempre impeccabili, merci 
da supermarket, e così via. Si tratta tuttavia di una casa fredda, piuttosto 
impersonale che rispecchia il vuoto di 
vitalità e il vuoto interiore 
degli stessi ricchissimi Park. Un vuoto evocato dal numeroso e onnipresente 
personale di servizio, dalla formalità e superficialità dei rapporti 
interpersonali e dall’alienazione dei disegni malati del piccolo Da-song, il 
figlio minore dei Park, che assomigliano un poco al tratto di un Basquiat. Il 
piccolo Da-song - che è capriccioso e tirannico, tanto che i genitori lo temono 
e lo assecondano in tutto e per tutto - vive dunque in una casa dal disegno 
alquanto razionale ma cova, dentro la sua mente, fantasmi oscuri del tutto privi 
di logica. Nel corso del film si scoprirà la concreta origine di questi 
fantasmi.
4. 
La casa dei Kim è invece un povero e piccolo tugurio seminterrato, umido e 
puzzolente, pieno di oggetti seriali 
sempre di matrice culturale occidentale, dove le modeste cose sono ammassate le 
une sulle altre, dove gli ambienti sono assolutamente indistinti e dove, sul 
lato strada, troneggia un water 
scrostato. I Kim non possono permettersi l’armonia architettonica della casa 
dei Park, ma la vita grama cui sono costretti li ha resi solidali, astuti,
 iperattivi, costretti continuamente a stare sul chi vive, a barcamenarsi per
 soddisfare le esigenze più elementari. Le prime scene del film ce li presentano
 mentre cercano di captare il campo telefonico dei vicini di casa. Oppure mentre
 cercano di sbarcare il lunario piegando i cartoni delle pizze per pochi soldi. 
Oppure, ancora, mentre cercano di difendere il loro entourage
 dagli ubriachi che vengono a orinare intorno alle finestre (il loro tugurio ha
 piccole finestre a livello della strada). 
Il carattere distintivo del loro ambiente, se così si 
può definire, è un disordine caotico, dai caratteri magari anche pittoreschi, 
dovuto a tante stratificazioni successive. Dovuto alla competizione, alla lotta per la vita e all’esigenza di 
soddisfare i bisogni elementari. Tra le prime battute del film, al passaggio in 
strada delle squadre di disinfestazione che spargono insetticida, i Kim 
discutono se tenere chiuse le finestre, per non respirare l’insetticida, o se 
non piuttosto tenerle aperte, per sfruttare gli effetti benefici della 
disinfestazione anche nei loro locali infestati. Questo è il primo accenno 
all’equiparazione dei Kim ai parassiti. Nello sviluppo del film, la 
realtà ecodegradata della casa dei Kim e del quartiere limitrofo sarà 
ripetutamente mostrata in maniera anche assai cruda, come ad esempio nel lungo 
episodio, davvero eccezionale sul piano visivo, di un nubifragio battente che si 
limita a lambire la villa dei Park, che si trova nella parte alta della città, 
ma che provoca, nelle contrade dove vivono i Kim, nella parte bassa, una vera e 
propria alluvione, con un fiume misto di fango e spazzatura che corre nelle 
strade, travolge qualsiasi cosa e penetra ovunque.
5. I 
luoghi, le cose, le case, i quartieri in cui si vive – questo sembra essere 
l’assunto implicito del film – sono lo specchio del destino dei loro abitanti, 
ne determinano le caratteristiche profonde dal punto di vista economico e 
sociale, ma anche e soprattutto le caratteristiche psicologiche, i loro 
comportamenti, il modo di affrontare la vita e di relazionarsi con il prossimo. 
Sbaglieremmo tuttavia se pensassimo di trovare nel film una compiuta “analisi di 
classe” economica, sociale e politica della società coreana o, ancor più, del 
mondo globale come oggi si prospetta. Qualche critico, secondo noi frettoloso,a 
proposito del film ha parlato addirittura di un ritorno della lotta 
di classe. C’è più che altro, nel film di Bong Joon-ho, una correlazione 
immediata, che saremmo tentati di definire, appunto, come “ecologica”, tra i due 
ambienti e le forme di vita che li abitano. Potremmo parlare di una sorta di eco-psico-sociologia. La condizione 
sociale determina la casa in cui si abita e, viceversa, la casa in cui si abita 
determina la condizione sociale. Si tratta di un teorema indubbiamente alquanto 
schematico e semplificatorio, esso tuttavia permette al film di raggiungere un 
notevole rigore nella descrizione realistica – talvolta iperrealistica - dei 
diversi ambienti e dei tipi umani 
che li abitano.
6. 
Il corollario inevitabile di questa prospettiva è che ciascuno debba stare 
strettamente ancorato all’ambiente dove abita. Si tratta di mondi caratterizzati 
da una profonda diversità e destinati dunque a restare tendenzialmente distanti 
e separati, ma anche destinati – come si vedrà nella trama – a un pericoloso
 rimescolamento, come per una sorta di attrazione fatale. Il film prende infatti
 le mosse proprio da una casuale “contaminazione” tra i due ambienti che porta 
però ben presto a una situazione di infezione generalizzata.  Sotto 
questo profilo, il film può, essere anche considerato come un esperimento 
mentale in cui si studia – con grande ironia ma anche con estrema freddezza e 
lucidità - quel che accade quando avviene una contaminazione
 tra mondi che invece dovrebbero stare a distanza. Lo sguardo di Bong Joon-ho,
 in questo senso, è del tutto simile – almeno nelle parti più drammatiche – a
 quello del ben più duro e austero Kim Ki-duk, peraltro suo conterraneo. Vale in
 proposito ricordare – anche dal punto di vista tematico – il film Ferro 
3 di Kim Ki-duk, in cui proprio le case momentaneamente vuote diventano il 
luogo fisico di una forma equivoca e inconsapevole di convivenza e di scambio 
sociale, dove tuttavia non è consentita alcuna contaminazione. Anche lì, quando 
la contaminazione avviene, tutto precipita.
7. I 
due ecosistemi umani tratteggiati nel film, in seguito alla contaminazione, 
diventano dunque il terreno di una brutale lotta 
per la vita senza esclusione di colpi. Qui troviamo un altro motivo 
conduttore del film e cioè il ruolo del mimetismo e, più in generale, dell’inganno e della menzogna 
nella competizione ecologica e sociale. Ci ricorda Bong Joon-ho che l’animale 
semiotico per eccellenza, l’uomo, è anche, per eccellenza, l’animale 
capace di mentire. Questo accade perché le relazioni sociali sono sempre 
vincolate dalla necessità, dai bisogni, dalla concorrenza, dall’egoismo e 
dall’interesse. Ciascuno recita una parte, ciascuno recita la parte che gli 
conviene, ciascuno cerca di ingannare il prossimo per accaparrarsi una fettina 
del prodotto sociale, per avere qualche convenienza, per avere un lavoro o per 
godere di prestazioni sessuali. Il tutto avviene con estrema naturalezza, in una 
totale assenza di codici morali. Non c’è scrupolo di coscienza, non ci sono 
dilemmi, non ci sono rimorsi. I comportamenti, le scelte non sono mai 
problematiche, sono sempre ineluttabili, automatiche, generate dalla meccanica 
degli interessi. Se forte è la propensione a ingannare, altrettanto forte è la 
propensione a farsi ingannare, soprattutto da parte di chi non ha bisogni 
particolarmente urgenti da soddisfare, come suggerisce la stupidità di fondo dei 
ricchi Park. Il successo nell’inganno non fa che alimentare ulteriori 
comportamenti fraudolenti, in un crescendo inarrestabile. In questa lotta per la 
vita, i soli legami interpersonali che contano sono ristretti a quelli per la 
propria famiglia. Siamo qui in presenza di una sorta di vero e proprio familismo
 amorale, perfettamente descritto e decisamente paradigmatico. Nessun
 universalismo, dunque. Non c’è neppure, qui, la speranza di redenzione del
 buddismo che compare talvolta nei pur crudissimi film di Kim Ki-duk. Così Bong
 Joon-ho, grazie a questa visione brutale e meccanica della competizione, ha
 buon gioco nell’usare l’inganno come motore delle vicende narrate, le quali 
tendono così a volgere spesso verso una sorta di commedia
 nera degli equivoci, paradossale, sarcastica, divertente e agghiacciante
 nello stesso tempo.
8. 
Vediamo ora in sintesi lo svolgimento della trama, che è un passaggio necessario 
per la discussione del senso del film, alla faccia di coloro che non sopportano 
lo spoiler. Il giovane studente 
Ki-woo - la voce narrante che 
compare all’inizio e alla fine del film e che, come vedremo, offrirà 
esplicitamente una chiave interpretativa del film stesso - appartiene alla 
famiglia Kim, quella che vive nel tugurio seminterrato.  È raccomandato da un amico per dare lezioni d’inglese alla giovane figlia 
(Da-ye) della ricca famiglia Park che abita nella bella villa situata nella 
parte alta della città. Il giovane è piuttosto sveglio e intraprendente e riesce 
così a farsi accettare dai Park, a compiere una soddisfacente prestazione
 professionale e a far anche innamorare di sé la giovane Da-ye. Questo
 inaspettato successo però non gli basta. Così, astutamente, uno dopo l’altro, 
Ki-woo riesce a introdurre presso i Park, sotto mentite spoglie, tutti gli altri
 membri della sua famiglia che sono ovviamente disoccupati. 
La sorella Ki-jung, che è esperta di computer – 
grafica, viene presentata come una professionista di art-therapy 
per seguire il piccolo Da-song - il fratello minore di Da-ye - che ha dei 
comportamenti disturbati e alquanto border-line. Il trucco funziona e, dopo
 questo secondo successo, l’invasione prosegue in forma ancora più aggressiva.
 La governante della casa, con un malvagio espediente ai suoi danni, è fatta
 cacciar via e il suo posto è preso da Chung-sook, la madre di Ki-woo. Sempre
 con un espediente fraudolento, anche l’autista è allontanato e il suo posto è 
preso da Ki-taek che è il capofamiglia dei Kim (padre di Ki-woo e Ki-jung). 
Così, in men che non si dica, con una serie d’ingegnosi quanto biechi 
espedienti, l’intera famiglia Kim si trova a rimpiazzare tutto personale di 
servizio dei Park, i quali si mostrano alquanto sprovveduti, superficiali e 
creduloni e non sospettano minimamente che i loro nuovi dipendenti siano tra 
loro imparentati e che siano privi delle patenti di professionalità dichiarate. 
La logica che vien mostrata è dunque proprio quella del parassitismo,
 un parassitismo sociale che 
comunque rinvia analogicamente ai rapporti di parassitismo diffusi tra le specie 
animali e vegetali.
9. 
Quando tutto sembra andare a gonfie vele, la situazione però precipita. In 
assenza dei proprietari che hanno portato il bambino in campeggio per il suo 
compleanno, i Kim ne approfittano per organizzare - proprio in quella casa che 
ormai dominano e considerano come casa propria - una serata nella quale si 
gozzoviglia e si festeggia in modo piuttosto rozzo e volgare. Nel bel mezzo 
della festa, nottetempo, ricompare però la governante che era stata fatta
 licenziare, che bussa alla porta inaspettatamente. La ex governante ha un
 torbido segreto. Nel rifugio antiatomico della casa, della cui esistenza i Park
 nulla sanno, vive nascosto da anni suo marito, per sfuggire ai creditori.
 L’uomo vive lì come un recluso, rifornito e assistito di nascosto dalla moglie.
 L’imprevedibile situazione scatena un conflitto tra i nuovi 
parassiti (la famiglia Kim) e i vecchi parassiti (la precedente 
domestica e il suo marito imboscato). Il conflitto diviene via via uno scontro 
violento, alla fine del quale la famiglia Kim riesce, seppure maldestramente, a 
imprigionare nel rifugio sotterraneo i due concorrenti. In un tentativo di fuga, 
la ex governante, nel parapiglia, fortuitamente muore e il marito, che viene 
comunque imprigionato suo malgrado nel rifugio, medita furibondo propositi di 
vendetta. È da notare che la trama del film rende bene evidente come i parassiti 
siano sempre in aspra concorrenza tra loro, per cui è fuori discussione 
qualsiasi forma di alleanza tra loro per un qualche progetto comune. La logica è 
sempre quella di occupare tutto quello che si può a vantaggio esclusivo e unico 
della propria famiglia, quasi fosse all’opera una sorta di gene 
egoista.
10. 
I Park ritornano a casa prima del previsto e i Kim devono far fronte alla 
situazione, anche se la loro colossale messa in scena si fa sempre più difficile 
da sostenere, tanto più che ora sono spuntati i parassiti 
concorrenti. I Park organizzano la festa di compleanno del bambino con molti 
ospiti, nel giardino della bella casa, e qui avviene il clou 
tragico di tutta la vicenda. La
 commedia nera volge a questo punto decisamente all’horror. 
Il marito della defunta domestica riesce a liberarsi, emerge dal rifugio con le 
vaghe sembianze di uno zombie e comincia a menare coltellate per vendicarsi, 
finendo però così per essere ucciso dal padrone di casa. Ki-jung, la figlia dei 
Kim, la sedicente esperta di art-therapy, è gravemente ferita ed è 
in fin di vita. Il piccolo Da-song, alla vista dello zombie che aveva 
evidentemente già visto altre volte,  è svenuto. A questo punto scoppia il 
conflitto decisivo tra il capo famiglia Park e il suo autista, il capo famiglia 
Kim, per decidere quale dei loro figli infortunati debba essere trasportato  per primo all’ospedale, con l’unica 
auto che c’è. Purtroppo Ki-jung, non soccorsa in tempo, muore e così suo padre, 
in un accesso di rabbia uccide a sua volta il capo famiglia Park e si dilegua 
con le mani piene di sangue. Insomma, fuori di metafora, come spesso accade in 
natura, i parassiti finiscono per uccidere gli organismi stessi che hanno 
colonizzato. In conclusione, le tre famiglie (compresa quella della ex 
domestica) sono così distrutte, tanto che la bella casa viene tosto  abbandonata 
e resta disabitata.  Ki-taek è 
sparito, ricercato dalla polizia per l’assassinio compiuto. In chiusura del 
film, poco a poco si comprende che Ki-taek si è nascosto proprio nel rifugio 
antiatomico, prendendo il posto del 
precedente parassita. Il giovane Ki-woo, che è sfuggito al massacro, ha 
compreso quale sia ora divenuto il rifugio del padre, e si farà carico per 
intanto di rifornirlo del necessario per mantenerlo in vita.
11. 
Sono di una certa importanza, per la ricostruzione del senso del film, le 
riflessioni finali di Ki-woo che – non dimentichiamolo – è il narratore in prima 
persona di tutta la storia. Egli ammette di essere rimasto affascinato dalla 
villa nella quale ha potuto soggiornare durante tutta la vicenda. Confessa anche 
di avere capito che le scorciatoie 
del parassitismo non portano da nessuna parte e producono disastri. Così si 
propone, nel prossimo futuro, di studiare e lavorare sodo per arricchirsi e per 
riuscire a comprare proprio quella villa e a ricongiungersi così, un giorno, con 
il padre rinchiuso nel rifugio. Insomma, par di capire, il contatto 
improprio tra i due ecosistemi umani si è rivelato foriero di grandi 
sventure, ma quello stesso contatto ha permesso a Ki-woo di apprezzare la 
bellezza e il valore della casa e di trovare quindi un serio obiettivo per la 
propria vita.
A prima vista, questa conclusione, cioè il progetto di 
una bella casa da conquistare con i propri sforzi personali, pare piuttosto 
debole, soprattutto dopo la critica corrosiva degli assetti sociali sviluppata 
nel corso del film. Si tratta, infatti, di un progetto che rimane completamente 
rinchiuso sul piano individuale, esattamente come il progetto di colonizzazione 
parassita raccontato nel film. La radicalità della pars 
destruens non porta alla fine ad alcuna effettiva eco - trasformazione. 
Nessun accenno a regole comuni, diritti e a riforme sociali. L’eventuale 
successo di Ki-woo, nel suo progetto di arricchire e comprarsi la bella casa, 
lascerebbe comunque intatto il mondo degradato dal quale proviene. Se tutto ciò 
è vero, si tratta allora di capire se e come le due anime (lo sviluppo narrativo 
e il finale) apparentemente contrastanti del film possano eventualmente 
stare insieme.
12. 
Azzardiamo qui l’ipotesi che lo spettatore occidentale tenda spontaneamente ad 
attribuire al film di Bong un intento politico primario che probabilmente 
proprio non ha. Questo è il motivo per cui la conclusione può sembrarci 
riduttiva e fuori posto. L’unico modo per conferire al film una sua unitarietà 
sta nel mettere in secondo piano il suo 
significato politico, che pure è presente e tende talvolta a emergere 
prepotentemente. Vediamo meglio la questione. Negli anni Sessanta del secolo 
scorso il sociologo nord americano Robert K. Merton aveva elaborato – studiando
 la società nord americana del tempo - una famosa teoria della conformità 
e della devianza. La sua teoria si 
basava sulle due variabili dell’accettazione o del rifiuto, 
sia dei fini che la società 
prescrive sia dei mezzi ammessi per 
raggiungerli. Il conformismo è il
 tipo d’azione di colui che accetta fino in fondo sia i fini stabiliti sia i
 mezzi consentiti per raggiungerli. Si noti che qui il termine è descrittivo e
 non valutativo, come spesso è usato nella lingua comune. L’innovazione, 
invece, è l’azione di colui che accetta fino in fondo i fini, ma “innova” per 
quel che concerne i mezzi: costui è il 
deviante per eccellenza, perché usa 
mezzi scorretti e illeciti per avere quello che vogliono tutti. È 
esattamente questo il caso del giovane Ki-woo e della famiglia Kim. Il dilemma 
che è proposto nel film pare essere proprio quello tra la devianza e il 
conformismo, un dilemma principalmente di tipo morale 
e non di tipo politico. Non si 
discute dunque dei fini ultimi, che sono ignorati o dati per scontati, si 
discute piuttosto di quali debbano essere i mezzi. 
13. 
Il film di Bong potrebbe allora essere interpretato, in definitiva, come la 
rappresentazione di una complicata peripezia del parassita che, attraverso 
le sue vicissitudini e i suoi errori, giunge progressivamente alla scoperta dei 
limiti della sua innovazione 
deviante e che, infine, è indotto a scegliere la via più lunga e faticosa, 
ma più efficace e meno distruttiva, del conformismo in senso mertoniano. Di 
fronte all’attuale confusa situazione globale, sembra dire Bong Joon-ho, la 
tentazione che pare a prima vista come la più immediata e la più promettente è 
proprio quella del parassitismo. Si tratta della scelta più diffusa. Anche
 perché è spinta dall’urgenza del 
bisogno e dall’onnipervasiva lotta 
per la vita. Nel film d’altronde lo spettatore è indotto a simpatizzare per 
gli intraprendenti e devianti parassiti della famiglia Kim e per il loro assalto
 implacabile ai ricchi Park. 
La scelta del parassitismo, tuttavia, è in ultima 
analisi del tutto controproducente, perché porta alla lacerazione, allo scontro, 
e soprattutto perché è, in fin dei conti, autodistruttiva. 
Allora, come nella fenomenologia hegeliana o, se si preferisce, come in una 
sorta di laica via crucis, occorre 
passare attraverso tutte le “stazioni” del parassitismo, come fa effettivamente 
il giovane protagonista Ki-woo, fino a berne fino in fondo il calice amaro, fino 
a provarne direttamente le conseguenze più disastrose, per sé e soprattutto per 
i propri familiari. Soltanto questo percorso permetterà al protagonista di 
raggiungere, alla fine, una sorta di vera e propria illuminazione 
e trasformazione personale. Solo 
grazie a questa nuova consapevolezza gli sarà possibile giungere a scartare la 
via che immediatamente sembra la più 
facile e a intraprendere - con una sorta di spirito
 ascetico - la via più 
difficile, la via dell’impegno e del sacrificio. Ki-woo diventa capace di 
padroneggiare se stesso, impara a differire la soddisfazione immediata dei 
bisogni, impara a darsi una meta e a perseverare per raggiungerla. Prende le 
distanze dal parassitismo e intraprende un serio impegno nel mondo seguendone 
finalmente le regole. Se vogliamo una lettura della stessa questione da un altro 
punto di vista, si potrebbe dire in termini lacaniani che Ki-woo comprende, alla 
fine della sua amara vicenda, la differenza tra la mera pulsione
 e il desiderio.
14. 
Ma chi sono oggi i parassiti? Perché può avere un senso riflettere sul 
parassitismo? A vedere i poveri Kim disoccupati nel loro tugurio potremmo essere 
indotti a pensare che si tratti di questioni da Terzo mondo. In realtà la 
questione del parassitismo ci riguarda piuttosto da vicino. Proviamo ad assumere 
una definizione provvisoria del fenomeno e cioè che il parassita, nel nostro 
mondo sociale, sia semplicemente colui
 che vive a spese degli altri. Ebbene, se ci guardiamo intorno, non abbiamo 
proprio bisogno di volgerci alle lontane contrade coreane. Facciamo un elenco
 esemplificativo, un po’ alla rinfusa, di casi che potrebbero essere rubricati
 come parassitismo: tutti i generi di truffatori, da quelli piccoli a quelli
 grandissimi. Quelli che si fanno raccomandare. Quelli che non pagano le tasse.
 Quelli che praticano l’economia sommersa, o l’economia illegale. Quelli che
 corrompono e quelli che si fanno corrompere. I politici che pensano solo alla
 loro carriera. Quelli che truccano i concorsi. Quelli che guidano come dei
 matti, mettendo a repentaglio la sicurezza della circolazione. Quelli che
 parcheggiano dove non si deve. Quelli che non fanno la dovuta manutenzione e
 producono distruzione e morte. I falsi invalidi. I fabbricatori di fake 
news. Quelli che fanno in finanza le manovre speculative. Gli incompetenti 
che producono danni che devono poi essere riparati. Quelli che timbrano il 
cartellino e vanno poi per i fatti loro. Quelli che usano mille espedienti per 
abbassare la loro produttività sul lavoro. I produttori di merci adulterate. Gli 
assenteisti. I saccheggiatori di risorse naturali. Gli inquinatori, i cui danni 
vanno poi riparati con grande dispendio. L’elenco potrebbe continuare a lungo. 
Noi stessi, in modo intercambiabile, svolgiamo il ruolo di parassiti e di 
vittime colonizzate e sfruttate. E, soprattutto, parassiti non sono solo i 
ricchi, com’è bene evidenziato dal film. Il parassitismo è certamente 
trasversale e riguarda tutte le classi 
sociali.
Se tutto questo è vero, allora il merito principale del 
film è forse proprio quello di avere portato alla ribalta dell’attenzione una categoria morale come quella del parassitismo. Siamo, infatti, così 
circondati dai parassiti che non ce ne accorgiamo neppure e magari li troviamo 
pure simpatici. Un film tuttavia non basta. Forse, per aprire gli occhi sul 
parassitismo e sul rischio severo che questo comporta per il mondo globale, 
abbiamo proprio bisogno di una catastrofe, più o meno analoga a quella accaduta 
nella guerra tra i Kim e i Park. Forse solo una grande catastrofe – non si 
tratterà questa volta soltanto di una commedia nera - potrà finalmente 
produrre, in coloro che riusciranno a sopravvivere, una grande illuminazione.
Giuseppe Rinaldi (18/12/2019)

 

