giovedì 4 luglio 2013

Nessun Aristotele all’orizzonte

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Si calcola che la citta di Atene, nell’epoca classica, avesse, per essere generosi, circa centomila abitanti, meteci compresi. Coloro che fruivano in pieno del diritto di cittadinanza, e che quindi avevano il diritto di partecipare all’assemblea, di eleggere e di essere eletti, non erano più di cinque o seimila. Quando si riunivano per deliberare si riducevano a un migliaio, o ancor meno. Ebbene, tra gli abitanti di quella piccola città, nel giro di pochi decenni, abbiamo avuto il fiorire della sofistica, personalità come Socrate, il suo allievo Platone e poi Aristotele. Si sono sviluppate istituzioni culturali come l’Accademia, il Liceo e, a seguire, la scuola di Epicuro e la Stoà. Insomma, il meglio della scienza e della cultura del mondo antico cui, ancora oggi, siamo ampiamente debitori. Alessandria (quella in Piemonte, non quella d’Egitto) oggi ha, più o meno, la stessa popolazione dell’Atene classica, tutti con diritto di voto, con un livello di benessere e consumi materiali incredibilmente superiori. Ebbene, nulla che assomigli alle scuole filosofiche ateniesi, nessun Aristotele all’orizzonte. Detto in altri termini, perché mai, in una città come Alessandria, la vita culturale è così degradata?
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Una simile domanda sorge spontanea dopo aver assistito all’ennesimo, peraltro assai interessante, convegno[1] che ha cercato di fare il punto sulle politiche per la promozione dei beni culturali. In queste occasioni, il meccanismo è sempre lo stesso: s’invitano autorevoli personaggi, intellettuali, operatori della cultura, esperti a vario titolo, a produrre analisi delle tendenze globali, a presentare e discutere gli indirizzi politici più attuali e a mostrare i risultati di esperienze significative compiute altrove, all’estero, in Italia, addirittura in città grandi più o meno come la nostra.[2] Spesso le analisi sono articolate e convincenti, altrettanto spesso le soluzioni pratiche proposte appaiono del tutto fattibili, tanto da spingere a considerare «Come mai nessuno, qui da noi, ci ha pensato?». Accade spesso, in questi casi, di provare un senso d’invidia nei confronti di quel che si dibatte e si realizza altrove e, pensando alla nostra arretratezza, un amaro senso di frustrazione. Accade anche spesso di dare uno sguardo al pubblico di queste occasioni e di essere costretti a costatare che mancano proprio coloro che, in teoria, avrebbero dovuto essere presenti, gli addetti ai lavori, proprio quelli che «Qui da noi, a queste cose non ci hanno proprio pensato».
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Certo, da qualche anno nel nostro Paese c’è la crisi economica e finanziaria; certo, in Alessandria dobbiamo fare fronte a uno scandaloso dissesto della finanza locale. Spesso tuttavia le analisi e le proposte che altrove circolano a proposito di beni culturali tengono conto proprio della situazione della crisi nazionale; anzi, un motivo conduttore tipico dei discorsi che si fanno è quello per cui lo sviluppo culturale può costituire un elemento trainante, talvolta fondamentale, per uscire dalla crisi. Del resto, anche quando non c’era la crisi nazionale, anche quando non c’era la crisi locale, lo sviluppo culturale nella nostra città non andava molto meglio. Forse è il caso allora di cominciare a porsi qualche interrogativo di tipo piuttosto radicale. Alessandria è un’area di sottosviluppo culturale? Quali sono i meccanismi perversi che tendono a mantenere questo sottosviluppo? Quali sono le leve che si potrebbero eventualmente utilizzare per arrestare e invertire questa tendenza?
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Fatte le debite distinzioni, il problema dello sviluppo culturale non è molto diverso dal problema dello sviluppo economico, problema invero assai più studiato, a proposito del quale esistono molte riflessioni di tipo teorico. Sempre di sviluppo si tratta. Ebbene, gli esperti dello sviluppo economico, hanno da tempo rinunciato a individuare il magico fattore capace di determinare lo sviluppo. Essi sanno bene che qualunque tipo di sviluppo è il prodotto di un complesso intreccio di fattori, un intreccio che in genere si presenta piuttosto raramente e che le società e la storia solo in alcuni casi riescono a produrre. Si tratta di intrecci spesso abbastanza diversi tra loro, per i quali non c’è dunque una ricetta unica, ma che hanno una caratteristica comune: il fatto che l’interdipendenza dei fattori, a partire da un certo punto, è in grado di generare una sorta di meccanismo automatico che è stato definito come self sustained development, una situazione cioè di densità di condizioni al di là della quale lo sviluppo trova da sé le energie per alimentarsi. Questo, tra l’altro, è il motivo per cui molti tentativi decisi a tavolino per generare lo sviluppo economico hanno fallito miseramente. Si possono comprare all’estero giganteschi impianti industriali «chiavi in mano», si possono costruire le cattedrali nel deserto, si possono distribuire sussidi a pioggia, si può aprire il proprio mercato alla concorrenza straniera, si può mettere a disposizione la propria manodopera a basso costo, si possono esibire forme scandalose di deregulation, si possono attirare capitali illegali, con i proventi del petrolio si possono costruire residenze con le maniglie e i rubinetti d’oro ma, al di là degli effetti spettacolari, non sempre si riesce ad innescare uno sviluppo self sustained.
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Lo stesso vale, molto probabilmente, per lo sviluppo culturale. In un’area culturale sottosviluppata si possono distribuire quattrini a pioggia per le più svariate iniziative culturali o para culturali, si possono finanziare le visite passeggere dei più celebri luminari della cultura, si possono costruire ex novo città universitarie, teatri megagalattici, biblioteche avveniristiche, magari disegnate secondo l’ultimo grido dall’ultima archistar, ebbene, tutto questo può ancora risultare assolutamente inefficace, anzi può anche risultare controproducente. Se poi al sottosviluppo culturale si aggiunge una situazione di crisi economica e di disgregazione sociale, si può, al più, riuscire ad assicurare la manutenzione dell’esistente, si può tagliare qualche nastro, si possono produrre un’infinità d’iniziative che saranno fruite dalla solita minoranza di consumatori evoluti e che però non incideranno minimamente sul tessuto culturale generale, che non avranno neppure significativi risvolti di tipo economico. Non avranno neanche un ritorno politico in termini elettorali, poiché evidentemente qui si tratta, oltretutto, di spese poco comprese dalla massa della popolazione.
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Come possiamo ragionare allora, per sperare di uscire dall’impasse? Forse è il caso di rammentare la legge delle doghe, quella per cui la capacità di un mastello è proporzionata alla lunghezza della doga più corta; si tratta di una legge ben conosciuta dagli agronomi. Per la crescita di una pianta sono necessari determinati elementi chimici presenti nel terreno. Dunque la capacità prioduttiva di un terreno è proporzionata all’elemento chimico indispensabile che è presente in minima parte. Non serve avere abbondanza di elementi, se manca anche solo uno degli elementi fondamentali. Fuor di metafora si tratterebbe di capire quali sono gli elementi fondamentali mancanti per far sì che le pur tante cose che ci sono (e che altrimenti risulteranno sprecate) si organizzino in una trama di relazioni virtuose, tanto da dare origine a uno sviluppo self sustained.
Può essere anche utile ragionare in termini di massa critica. Il termine deriva dalla fisica e si riferisce al fatto che una reazione nucleare può cominciare a svolgersi, ed eventualmente a mantenersi, solo dopo che è stata raggiunta una massa critica, in altre parole una certa concentrazione critica di particelle. Possiamo avere, in termini culturali, tante belle cose. Se queste tuttavia non fanno massa critica avremo soltanto uno spreco e non riusciremo ad innescare nessun tipo di sviluppo. Del resto il nostro stesso Paese è un esempio clamoroso: abbiamo una quantità incredibile di beni culturali che tuttavia non riescono a fare massa critica. Dovremmo, allora, cominciare a ragionare non in termini di semplice manutenzione dei beni culturali (spesso non si riesce a fare neanche quella), non in termini di razionalizzazione dell’esistente (che pure può essere utile), non in termini di singoli interventi slegati uni degli altri (che sono sempre meglio che niente), bensì in termini di precostituzione di una massa critica che dovrebbe innescare uno sviluppo auto sostenuto, un livello di sviluppo oltre il quale, crisi o non crisi, non si torni più indietro. Il discorso è senz’altro complesso ma, a quanto pare, piuttosto ineludibile, visto che le altre ricette più semplici, di carattere puramente additivo, non hanno mai funzionato. Anzi, hanno prodotto solo dei danni, poiché sembra di costatare sempre più, ogni giorno che passa, come il degrado sia progressivo. Invece di incanalarci in un circolo virtuoso ci stiamo incanalando in un circolo vizioso e i costi per uscirne saranno sempre più elevati.
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Nel corso del convegno citato, è stata mostrata una diapositiva con una mappa che rappresentava la diffusione, in Italia, della redditività degli investimenti nel campo dei beni culturali. Ebbene questa mappa era straordinariamente simile a tante altre mappe che abbiamo avuto modo di vedere recentemente. La solita mappa che divide il nostro Paese in tre zone: la zona del Nord, la zona del Centro e la zona del Sud. Dove, per molti aspetti, il Nord e il Sud si assomigliano e dove il Centro si colloca ai primi posti.[3] È ovvio che non si tratta di una mappa della ricchezza (il Nord sarebbe assolutamente al primo posto) bensì di una mappa che riguarda altri beni, meno direttamente tangibili, come il rendimento delle istituzioni, i consumi culturali, il capitale sociale diffuso. Anche la mappa del voto progressista o conservatore segue esattamente la stessa distribuzione. Il problema quindi non è in termini assoluti quello della ricchezza: come aveva già mostrato con chiarezza Bourdieu, si può essere ricchissimi ed essere del tutto culturalmente sottosviluppati.[4] La cultura, se uno non l’ha, non se la può dare e spesso non la vuole neppure, perché non sa di cosa farsene. Come ho avuto modo di dire già in altre occasioni,[5] la cultura, a differenza dei beni economici, segue una legge di mercato del tutto particolare. Quando un bene economico è scarso, normalmente aumenta la sua domanda. Quando la cultura è scarsa, la sua domanda invece diminuisce. È ovvio che la politica corrente non fa che adeguarsi a questa tendenza.
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Dobbiamo allora rassegnarci, poiché Alessandria per motivi storici è collocata in un’area di sottosviluppo culturale, a riprodurre il destino periferico delle «aree tristi» del Nord? Aveva ragione Umberto Eco quando ricordava i «pochi clamori tra la Bormida e il Tanaro»? Intanto sarebbe già un successo se gli alessandrini, invece di continuare a credere di essere i più furbi di tutti, prendessero coscienza della situazione e cominciassero a pensare che «abbiamo un problema» in termini di sviluppo culturale. Certo, si tratta di un altro problema. Si tratta di un problema che continueremo ad avere, quand’anche per magia venisse cancellato il nostro dissesto e quand’anche avessimo le casse piene di quattrini. Ma allora, in fin dei conti, cos’è che fa la differenza? Perché Trento sì e Alessandria no? Come puro esercizio, più con il pessimismo della ragione che con l’ottimismo della volontà, proverò a elencare alcune questioni cruciali che, qualora fossero affrontate e risolte con successo, potrebbero contribuire a costruire la famosa massa critica che potrebbe dare alla città uno sviluppo culturale self sustained.
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Anzitutto, la mancanza di una tradizione culturale e di una specifica identità locale ha senz’altro il suo posto. Alessandria ha una popolazione che in gran parte è avventizia, frutto di un lento ma sostanziale ricambio avvenuto negli ultimi decenni. Lo zoccolo duro dell’alessandrinità non esiste più. Al suo posto si è insediata una folla anonima di tante identità che non fanno alcuna autentica identità. I lunghi anni che questa città ha consacrato alla Lega Nord mostravano forse, inconsapevolmente, una domanda di identità culturale, che tuttavia non ha trovato alcuna risposta, se non in qualche slogan superficiale e in nuove forme di chiusura. Un progetto di città proiettato nel futuro si sostanzia sulla base di interessi e di culture. Ebbene, qui da noi gli interessi sono frammentati e le culture non hanno più nulla da dire. È venuta meno la visibilità della già limitata borghesia locale che pure c’era in passato, sostituita da uno stuolo di anonimi professionisti, oppure dai piccoli commercianti, o ancora dai dipendenti pubblici garantiti. D’altro canto è venuta meno la cultura della sinistra, di matrice socialista e comunista, che per decenni aveva saputo produrre, seppure con molti limiti, almeno un qualche tentativo di visione prospettica. Anche la tradizionale dimensione religiosa è in forte declino e appare sempre meno capace di qualsiasi proiezione nel futuro in termini di strutturazione della comunità. Gli interessi e le culture che sopravvivono si sostanziano oggi nel perseguimento del particulare, comunque questo sia identificato. La descrizione che ha fatto Bonomi delle aree tristi del Nord Italia si attaglia perfettamente alla nostra cultura locale. Sono stati fatti alcuni timidi e sparsi tentativi per reinventare una tradizione[6] locale, senza molta consapevolezza e senza esiti evidenti. La questione dovrebbe invece essere presa molto sul serio. Collins (1998)[7] ha mostrato come, da che mondo è mondo, la fioritura delle scuole e dei movimenti culturali è sempre stata strettamente legata allo sviluppo delle comunità di discorso, cioè allo sviluppo delle varie aggregazioni entro le quali si originano e si propagano i rituali della parola, sia orale sia scritta. Quel che conta evidentemente è la qualità del discorso, il livello di profondità, la capacità del discorso di dare forma a un orizzonte di significati che sia in grado di progettare e cambiare la vita. Si tratta di capire quali interessi e quali culture siamo in grado di evocare e di fondere in termini di costruzione di una nuova prospettiva.
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Qualche parola occorre dire anche sulla qualità dell’intellettualità locale, un’entità che è sempre più fantasmagorica. A chi pensiamo quando parliamo di élite culturali con riferimento alla nostra città? Esistono ancora? Cosa fanno? Di chi stiamo parlando in concreto? Possiamo provare a fare un elenco. Pensiamo evidentemente agli amministratori pubblici che si occupano di cultura e al loro personale, alle scuole (pubbliche e private) e soprattutto ai loro dirigenti e agli insegnanti. Abbiamo poi alcuni Istituti culturali, pubblici e privati e i membri attivi a vario titolo coinvolti nelle associazioni di carattere culturale. Abbiamo poi il personale religioso. Abbiamo un ristretto numero di autori/ artisti che cercano di operare, nonostante tutto, nelle difficilissime condizioni locali. Potrebbero rientrare nel novero dell’élite culturale anche i giornalisti e coloro che lavorano nell’informazione locale. Possiamo aggiungere alcuni liberi professionisti. Qualche piccola casa editrice. Abbiamo poi i professionisti della cultura che lavorano all’Università locale, la quale tuttavia di fatto non ha molti canali di comunicazione con il resto della città (su questo punto sarebbe necessaria una analisi specifica).
Si tratta nel complesso di una realtà estremamente frammentata, particolaristica, con qualche eccellenza ma in gran parte di livello mediocre, ben lungi dal contribuire a costituire la famosa massa critica. Una realtà che produce senz’altro molte disparate iniziative che spesso hanno tuttavia appena lo scopo di affermare l’esistenza dei promotori stessi. Iniziative di livello micro, che non lasciano tracce sensibili, se non nelle cronache e, solo talvolta, negli archivi. Una realtà che non discute veramente di nulla e che si è ampiamente dimostrata incapace di pensare e progettare lo sviluppo culturale cittadino (tant’è che, se c’è bisogno di riflettere su qualcosa, si chiama immancabilmente qualcuno da fuori – toccata e fuga!). Invero, la condizione del lavoratore intellettuale in una città come la nostra non è davvero allegra. Chi può permetterselo, se ne va. Chi non può permetterselo, viene risucchiato nella mediocritas, non si sa quanto aurea. In passato, oltretutto, le élite culturali avevano una tradizione, avevano una loro identità, erano anche élite politiche, impegnate in politica. Avevano un ruolo e un riconoscimento. Ora ciò non accade più. Bisognerebbe capire bene cosa è successo, nella nostra città, nel rapporto tra politica e cultura. Un’ipotesi che si fa sempre più evidente è che la politica, da un certo punto in poi, abbia capito di poter fare tranquillamente a meno della cultura e i risultati si sono visti ovunque.
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Una componente determinante della nostra arretratezza culturale è senz’altro lo scarso rendimento della politica locale e delle istituzioni locali. Metto insieme le due questioni perché è soprattutto il livello della politica locale che determina il rendimento delle istituzioni locali (e non viceversa). La politica locale e le istituzioni locali sono chiuse nel circolo vizioso dell’autoreferenzialità. I cittadini non si aspettano molto dalla politica locale e la politica locale fa di tutto per confermare le loro limitate aspettative. Accade spesso che si facciano dei danni e poi si consumino risorse per riparare i danni provocati. Abbiamo visto negli ultimi anni lo stanco avvicendamento di coalizioni che avevano più il problema di esistere che quello di produrre qualcosa per la città. Le organizzazioni politiche sono ridotte a piccole oligarchie senza alcun progetto, in perenne lotta tra di loro. Dobbiamo riconoscere che l’attuale ceto politico è complessivamente sempre più deteriorato e inadeguato (ci si ricordi la lunga fila dei candidati nelle liste personali o para personali nelle ultime elezioni locali). Le istituzioni locali dal canto loro, a parte la politica, appaiono sempre più dissanguate, scolorite, ripetitive, costituite di personale stanco e demotivato (spesso inevitabile prodotto di politiche clientelari – una delle poche cose che funzionano). Bisognerà affrontare, prima o poi molto seriamente il problema della formazione del ceto politico locale e – non ultimo – il problema della formazione e selezione del personale della pubblica amministrazione locale. Insomma, non non si fanno le nozze con i fichi secchi. In termini di conseguenze per la vita culturale, tutto ciò ha determinato lo sviluppo di una serie di iniziative demagogiche e spettacolari in cui è stato divorato un fiume di quattrini, senza avere affrontato neppure uno dei nodi strutturali. Ormai la critica all’eventismo – soprattutto quello di basso livello e/o clientelare – sembra ampiamente condivisa, ma non si riesce a far nulla per cambiare impostazione. Ma tutto ciò ha anche determinato la perdita di occasioni irripetibili, la mancata valorizzazione del patrimonio esistente, quando non il danneggiamento o addirittura la distruzione del patrimonio esistente. Senza che ciò abbia suscitato poco più di qualche fioco clamore.
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La frattura generazionale è un altro elemento su cui occorrerebbe condurre una riflessione. Si sbaglierebbe a pensare che la frattura generazionale sia uguale dappertutto, un fenomeno ineluttabile del nostro tempo. In Alessandria c’è un modo particolare di vivere la frattura generazionale. In mancanza di una tradizione, di un’identità locale, di una cultura locale vivace e di meccanismi aperti di trasmissione culturale, in mancanza di meccanismi aperti e competitivi di avvicendamento generazionale, in mancanza di aggregazioni ove, come ricordava Collins, prendano forma i rituali della parola, la formazione dei giovani avviene principalmente attraverso i canali invasivi della cultura di massa. Giovani tutti uguali, che parlano allo stesso modo, vestono allo stesso modo, passano il sabato nello stesso modo. Giovani deprivati di una presenza pubblica che appaiono sempre più chiusi nella dimensione familistica, legati (anche per la crisi generale) ai destini delle loro famiglie di provenienza, disincentivati a formulare un qualsiasi progetto collettivo che abbia come oggetto la comunità locale. Tranne rare eccezioni, non siamo in presenza di una frattura generazionale positiva, capace di trovare dei momenti autonomi di elaborazione, di costruzione, magari contro gli assetti sociali esistenti, ma una frattura che ha il tratto della invisibilità. I nostri giovani sanno bene (evidentemente, magari inavvertitamente, glielo abbiamo insegnato noi!) che la partita della comunità locale è persa per sempre. Perché mai investire? Meglio mettere a frutto le poche risorse che possono essere fornite dalla famiglia di origine. Chi non ne ha, si aggiusta. Il silenzio tombale dei giovani alessandrini è la vera pietra tombale sul nostro futuro, non solo in campo culturale.
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 Sarebbe interessante ragionare poi sul capitale sociale diffuso a livello locale. Dentro al capitale sociale stanno cose complesse come la fiducia negli altri, la fiducia nelle istituzioni, la diffusione dell’associazionismo, la disponibilità all’impegno volontario, il civismo e la partecipazione, la diffusione delle reti di relazione e delle reti di vicinato, la circolazione dell’informazione e così via. Insomma, un complesso di beni non economici, fondamentali per la qualità della vita, che la comunità è in grado di produrre e di mettere a disposizione dei propri membri. Alessandria sta erodendo il proprio capitale sociale. Quel po’ che ne è rimasto viene consumato e non più ricostituito. Usando una distinzione tratta dalla storia economica, quella alessandrina non è una società inclusiva bensì una società estrattiva. Le società estrattive sono società dove sussistono grandi differenze sociali, dove le élite privilegiate sfruttano le loro posizioni per manipolare le regole, per aggiudicarsi la maggior parte del prodotto e delle posizioni, dove il merito ha scarsa possibilità di essere riconosciuto. Dove non può essere neppure percepito qualcosa come il bene comune. Le società inclusive sono quelle, invece, dove le differenze sociali sono ridotte, dove le regole sono effettivamente applicate e garantiscono tutti, dove il merito e l’intraprendenza sono premiati. Dove la nozione del bene comune ha effettivamente un senso. Nella nostra città, negli ultimi decenni, abbiamo visto prevalere una feroce logica estrattiva diffusa che ha contagiato anche gli strati meno privilegiati. Ognuno ha rosicato quello che ha potuto, più che ha potuto, senza preoccuparsi se, prima o poi, la barca comune sarebbe affondata. È chiaro che non si può discutere di sviluppo culturale senza tirare in ballo questa realtà di degrado complessivo del tessuto economico, sociale e civile.
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Si potrebbe continuare ancora a lungo ma quel che abbiamo detto basta e avanza per spiegare perché non riusciamo a fare massa critica per far decollare lo sviluppo culturale. Certo, si tratta di questioni strutturali, questioni complesse, questioni che sono eredità della storia recente e lontana, questioni tra loro terribilmente interconnesse, tanto che è impossibile trovare un unico bandolo della matassa, la leva magica che permetta di sollevare il mondo. Oltretutto, secondo la comune opinione, diffusa tra la Bormida e il Tanaro, certe questioni troppo complicate è meglio non porsele neppure, intanto non si arriva da nessuna parte. Niente paura, era solo un esercizio a tavolino. Intanto, come dicevamo in apertura, non si vede proprio nessun Aristotele all’orizzonte.
 
 
La prima pubblicazione di quest’articolo sul giornale locale, online, Città Futura riporta la data del 4/07/2013. Inutile dire, come del resto è ampiamente motivato nell’articolo stesso, che da allora non ho ricevuto alcun segnale, né di assenso, né di dissenso, da chicchessia. È appena il caso di concludere con un bel «Come volevasi dimostrare!». La presente versione contiene poche modifiche rispetto all’originale. Rispetto all’argomento affrontato, l’articolo mi pare sia oggi, col tempo che passa, ancora più terribilmente attuale.
 
16/02/2014 (rev.)
14/09/2014 (rev.)
                                                                   Giuseppe Rinaldi
 
 
 
NOTE
 
[1] Mi riferisco al convegno "Istituzioni culturali del territorio" organizzato dalla Fondazione Luigi Longo, tenuto in Alessandria il 28 giugno 2013, presso ACSAL.
[2] Può essere interessante meditare sul fatto, ampiamente illustrato in una relazione del Convegno, che un comune come Trento (con una popolazione uguale a quella di Alessandria) sta elaborando un piano strategico di organizzazione e sviluppo dei Beni Culturali di durata decennale (ben oltre i consueti tempi elettorali), in seguito ad un’approfondita discussione che ha coinvolto la cittadinanza e le associazioni territoriali.
[3] Si veda ad esempio R. Cartocci, Mappe del tesoro. Atlante del capitale sociale in Italia, Il Mulino, Bologna, 2007.
[4] Cfr. P. Bourdieu, La distinction, Les Éditions de Minuit, Paris, 1979.  Tr. it.: La distinzione. Critica sociale del gusto, Il Mulino, Bologna, 1983.
[5] Vedi, ad esempio, il mio abbastanza recente articolo I più furbi di tutti, reperibile nell’archivio di Città Futura.
[6] Su questo tema resta fondamentale B. Anderson, Imagined Comunities, Verso, London, 1983.  Tr. it.: Comunità immaginate. Origini e diffusione dei nazionalismi, Manifestolibri, Roma, 1996.
[7] Cfr. R. Collins, The Sociology of Philosophies, Belknap, 1998.