martedì 30 aprile 2013

Rimbocchiamoci le maniche

 

Contro i troppo facili ecumenismi della nostra epoca, dovrebbe essere ricordato che il Primo Maggio (International Workers’ Day) è la festa dei lavoratori dipendenti. Tutti gli altri possono anche partecipare, ma la festa è dei lavoratori dipendenti. Per individuarli, resta basilare il criterio marxiano: sono lavoratori dipendenti quelli che non possiedono i loro strumenti di produzione. Certo, col tempo si sono aggiunti altri diversi tipi di dipendenti, soprattutto al di fuori dell’industria. Resta comunque il comune denominatore di lavorare in condizione di dipendenza. Ciò fa sì che il lavoro, la più importante fonte di realizzazione personale, sia reso disponibile solo entro le condizioni di dipendenza vigenti, cioè solo entro gli assetti sociali, economici e culturali o, se si preferisce, nel contesto della società e dalla storia in cui ciascuno è immerso. Questa condizione, paradossalmente, fa del lavoratore dipendente il soggetto politico per eccellenza, colui che per poter realizzare sé stesso attraverso il suo lavoro non può prescindere dall’intero contesto ordinatore della polis cui appartiene. Questo è il fondamento oggettivo del legame tra lavoro e cittadinanza. Questo è anche l’unico senso accettabile di quel “fondata sul lavoro” che compare nella nostra Costituzione. Oggi tuttavia tutto il mondo è diventato polis e la dipendenza si è così ampliata enormemente.


In Occidente, per un certo periodo storico, la prospettiva dell’emancipazione del lavoro ha avuto qualche successo, grazie alle politiche riformiste degli Stati nazionali che hanno dato luogo a varie forme di protezione. Tutti questi diritti oggi sono tuttavia messi in discussione dalla concorrenza dei lavoratori dei paesi meno sviluppati. Solo oggi siamo costretti a convenire che l’emancipazione effettiva dei lavoratori potrà avvenire solo nel contesto dell’emancipazione di tutti i lavoratori del mondo. Questa nuova chiarezza, questa nuova lucidità che la storia ci propone e ci impone, invece di attrezzare il mondo del lavoro per realizzare il cambiamento definitivo, lo ha invece ulteriormente disarticolato e frantumato (rivelando a tutti una sua inaccettabile centratura occidentalistica). Invece di globalizzare la lotta per l’emancipazione del lavoro si è preferito fare la lotta contro la globalizzazione e chiudersi nelle frontiere nazionali, nella difesa di quel che era stato acquisito, erigendo barriere doganali, combattendo profughi, migranti, pretendendo protezioni e protezionismi di vario genere, chiedendo agli Stati nazionali interventi di welfare divenuti ormai impossibili.


Di fronte al mondo globalizzato, il mondo del lavoro avrebbe dovuto essere in grado di elaborare, proporre e imporre una risposta politica globale, una politica del lavoro planetaria (forse l’internazionalismo non aveva tutti i torti). Esso è invece ancora prigioniero delle frontiere nazionali e questa è la causa fondamentale della sua attuale sconfitta (non certo il capitalismo finanziario, che in quanto tale, fa solo il suo mestiere). Così l’obiettivo dell’emancipazione attraverso il lavoro è stato messo progressivamente da parte, sia nel mondo sviluppato sia in quello sotto sviluppato, per lasciare spazio alla concorrenza individuale, ai mercati del lavoro, quei luoghi dove gli esseri umani compaiono e si scontrano per lo più in quanto merci, in quanto unità di conto. Molti hanno pensato che questo sacrificio della componente umana avrebbe per lo meno assicurato la tenuta dello sviluppo economico, ma si è ampiamente visto che non è proprio così. Sviluppo economico e sviluppo umano non possono essere separati. Alla radice del mancato sviluppo c’è sempre una mancanza di sviluppo umano.


Oggi manca dunque decisamente una cultura planetaria del lavoro adeguata ai tempi. Non è più praticabile la vecchia cultura della lotta di classe, legata a classi che non ci sono più, legata all’Occidente coloniale, legata agli stati nazionali, legata a uno schema conflittuale che si è dimostrato sterile e dannoso (gli Stati di classe hanno dato esiti drammatici in primo luogo per gli stessi lavoratori). È diventata difficilmente praticabile anche la cultura delle riforme, sia per la crisi finanziaria degli Stati, sia perché il cambiamento suscita resistenze, paure e conflitti di interesse. In questo nuovo contesto gli attuali movimenti dei lavoratori e le attuali organizzazioni sindacali sono quanto mai limitati e insufficienti. A livello mondiale non esiste un’organizzazione sindacale capace di tener testa al Fondo monetario e alla Banca mondiale, o alle organizzazioni del commercio internazionale. Non esiste un diritto internazionale del lavoro che assicuri minime condizioni uguali per tutti. Del resto, in Europa, più o meno come fanno i singoli Stati, i diversi sindacati nazionali non intendono fondersi in un sindacato europeo. È vero che mancano i livelli di contrattazione, ma non si sta facendo nulla per istituirli.


Nel nostro Paese in particolare il mondo del lavoro risente di un’arretratezza cronica: la vecchia cultura del lavoro appare ormai del tutto inadeguata, una nuova cultura del lavoro non è ancora all’orizzonte. Le organizzazioni sindacali continuano a essere divise tra loro, ricalcando vecchie logiche politiche e schemi di potere. Nonostante la retorica unitaria, nessun passo avanti è stato fatto per arrivare all’unificazione delle sigle confederali e i passi unitari che si erano fatti negli anni Settanta sono stati smantellati con cura. I sindacati rappresentano sempre più coloro che il lavoro ce l’hanno e sono sempre più incapaci di tutelare i giovani, le donne, i disoccupati, gli immigrati. Ben pochi sforzi sono stati fatti per innovare i vecchi schemi di contrattazione, per modificare la logica delle vecchie relazioni industriali. Le riforme del mercato del lavoro, che in altri paesi hanno garantito buoni livelli di occupazione e hanno fatto da volano allo sviluppo economico, nel nostro paese sono osteggiate. Del resto quando si è cercato di fare qualcosa, si sono fatti solo dei danni. Il problema più grave è senz’altro quello che oppone occupati e disoccupati, vecchi e giovani. Con mezzo secolo di ritardo, si sta appena ora cominciando a ragionare sul salario di cittadinanza. In Europa questo istituto manca del tutto solo in due o tre Paesi. Da noi le varie organizzazioni sindacali sono contrarie, perché temono di perdere il monopolio della contrattazione. Nel nostro Paese poi, i sindacati sono in conflitto quasi su tutto e spesso operano come burocrazie autoreferenziali. Solo dopo decenni di colpevole silenzio, si sta facendo strada, con molta fatica, l’esigenza di una legge che, in ossequio all’art. 39 della Costituzione, regolamenti lo stato giuridico delle organizzazioni sindacali.


Da tutto ciò si ricava che la situazione presente dei lavoratori dipendenti non è certo esaltante. L’emancipazione futura, tuttavia, se verrà, non potrà che essere opera dei lavoratori stessi, non solo del nostro Paese ma di tutto il mondo. Certo, viva la festa dei lavoratori ma, per favore, rimbocchiamoci le maniche!

 

Giuseppe Rinaldi (30/04/2013)

 (In occasione del 1° maggio 2013)