martedì 19 aprile 2011
Psicoanalisi e danni collaterali. Su "Habemus papam" di Nanni Moretti (2.1)
domenica 17 aprile 2011
Le primarie prese sul serio
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1. Le “primarie” (*) rappresentano sicuramente un’importante
novità introdotta nel panorama politico italiano. L’intento dei promotori delle
primarie era chiaro e del tutto condivisibile: inaugurare un metodo trasparente
per la selezione della classe dirigente,
cui potessero partecipare non solo gli iscritti
ai partiti, ma anche gli elettori. Il
tutto rientrava in un progetto di rinnovamento
della politica che il nuovo Partito Democratico aveva ampiamente
propagandato. È chiaro che, se c’era bisogno di un metodo nuovo per selezionare
la classe dirigente, si intendeva con ciò, implicitamente, che i vecchi metodi fossero
stati piuttosto fallimentari. Tuttavia questo elemento d’analisi non è mai
stato specificatamente approfondito. Il risultato è che spesso i vecchi metodi
hanno continuato a sopravvivere, accanto al nuovo metodo. Si è trattato comunque
di un’innovazione coraggiosa, in un periodo in cui il “porcellum” autorizzava i
massimi dirigenti dei partiti a compilare le liste dei candidati, senza alcuna
possibilità di scelta da parte degli elettori.
2. L’introduzione delle primarie è stata evidentemente
ispirata all’esperienza elettorale americana, dove queste sono state usate
sistematicamente, fin dalla fine dell’Ottocento. Purtroppo per noi, il sistema
dei partiti americano si è sviluppato in maniera del tutto indipendente
rispetto al sistema europeo. Ciò che va bene in America non è detto che debba
funzionare altrettanto bene da noi. In effetti, il trapianto delle primarie nel
nostro Paese ha comportato una serie di problemi, con cui abbiamo tuttora a che fare.
3. In primo luogo, le primarie
americane sono regolamentate per legge. Si tratta di vere e proprie istituzioni.[1] Questo assicura che le
primarie si svolgano secondo rigorose regole formali e si abbiano dunque tutte
le garanzie necessarie che convengono a una consultazione elettorale vera e
propria.
In secondo luogo,
nonostante siano regolamentate per legge, le primarie americane presentano
varie configurazioni, legate alle tradizioni e alle esigenze locali. Sono
dunque piuttosto flessibili per quel
che riguarda la forma giuridica. Sono per noi interessanti due aspetti, nell’ambito
di questa varietà: la regolamentazione del diritto di voto e le modalità di
scelta dei candidati. Per quanto riguarda la prima questione ci sono primarie chiuse e aperte: a quelle chiuse possono partecipare soltanto gli iscritti
al partito; alle primarie aperte possono partecipare gli iscritti a uno
speciale elenco di elettori (ci si può registrare come iscritti o
indipendenti).[2] La scelta dunque, da noi, è caduta sulle primarie aperte. Per
quanto riguarda la seconda questione, merita una particolare attenzione il caucus (consiglio, in lingua indiana).
Il caucus è un seggio elettorale
strutturato come un’assemblea, dove tutti gli elettori di una sezione s’incontrano
contemporaneamente; la riunione ha una durata prefissata e si tiene di solito
in un’ampia sala (palestra, aula magna o simili). Coloro che hanno già un’idea
su come votare si mettono agli angoli opposti della sala. Gli incerti si
mettono sparpagliati al centro. Ebbene, durante l’assemblea, coloro che hanno
già un’idea cercano di convincere gli incerti sviluppando una serie di
capannelli e discussioni animate. Alla fine della discussione ci si conta, e il
gruppo che è riuscito a raccogliere il maggior numero è quello che vince tutte
le deleghe (la logica è maggioritaria). Questo sistema è stato criticato perché
toglie la segretezza al voto, ma non sfuggirà che esso permette, a tutti gli
elettori, una discussione approfondita, in prima persona, (cosa che nel nostro
sistema avviene solo sotto la forma della propaganda preelettorale).[3]
4. In terzo luogo, occorre ricordare che in America non esiste la tradizione del partito
organizzato, tradizione che è invece assai diffusa in Europa, proveniente dai
partiti di massa dell’Ottocento. I partiti americani sono poco più di comitati elettorali che si mobilitano e
funzionano solo in funzione delle elezioni. Al di fuori delle elezioni, i
partiti coincidono essenzialmente con i gruppi parlamentari e, nella società
civile, sopravvivono soprattutto come orientamenti di cultura politica, come
complesso di tradizioni e di valori. Ne deriva un fatto di assoluto rilievo, e
cioè che, nella tradizione elettorale americana, gli elettori, nel momento in
cui scelgono il loro candidato alle cariche pubbliche, scelgono anche il programma politico del candidato
stesso, contribuendo così a definire la linea
del partito. Questo è il motivo per cui lo scontro che avviene durante le
primarie è uno scontro autentico, sostanziale per la vita del partito, uno
scontro che serve certamente a selezionare le personalità migliori, ma
soprattutto è uno scontro che serve a mettere a punto il programma elettorale. Insomma, durante le primarie, gli elettori
(o gli iscritti) selezionando nello
stesso tempo il candidato e il programma,
svolgono l’equivalente di un nostro congresso di partito. Per questo stesso
motivo, i candidati e i programmi che vengono sconfitti alle primarie sono abbandonati al loro destino, senza tanti
complimenti, evitando così la formazione di una burocrazia partitica. Negli States
non si finanziano i partiti, si finanziano le campagne elettorali di questo o
quel candidato. Non si milita principalmente per un partito, ma si milita per
un candidato e per il suo programma.
5. Come stanno le nostre primarie rispetto a questo quadro? Le
primarie nel nostro Paese, per intanto, continuano a essere svolte in forma privata, a costituire cioè
forme di mobilitazione interna ai partiti e a non avere alcuna veste
istituzionale – salvo, come si è detto, la legge della Regione Toscana. Grazie
a questo carattere non istituzionalizzato, la tipologia funzionale delle
primarie italiane è andata ampliandosi in maniera incontrollata: originariamente,
le primarie avrebbero dovuto servire per scegliere i candidati di un partito
(specificatamente il PD) alle cariche
pubbliche. In secondo luogo, sono state utilizzate per la scelta del segretario del PD (che non è una carica pubblica, anche se il
segretario del maggior partito dell’opposizione può aspirare a essere proposto
per la presidenza del consiglio, in caso di vittoria elettorale). Ultimamente, le
primarie sono state utilizzate anche a
livello di coalizione, per la scelta del candidato a una carica pubblica
(sindaco, governatore,...) proposto da una coalizione di partiti. Questa
pluralità di scopi ha complicato obiettivamente la vita e il destino delle
primarie, anche se, paradossalmente, ha contribuito a metterle sempre più al
centro della vita politica.
6. Alcuni problemi delle primarie nostrane sono ben noti. Il
punto più debole in assoluto sembra quello delle candidature, cioè della formazione delle liste. Mentre in
America il partito nasce e si organizza in occasione delle elezioni proprio intorno a delle candidature, nel
nostro caso il partito organizzato esiste
già e, inevitabilmente, finisce per avere un peso fondamentale nella definizione
dei programmi e delle candidature stesse. Nell’opinione comune, il partito
organizzato c’è e si suppone che abbia
comunque già un programma (sennò, cosa ci starebbero a fare i congressi e i
gruppi dirigenti?),[4] dunque il focus
dell’attenzione si concentra quasi esclusivamente sulle persone dei candidati.
Da questa indesiderabile
conseguenza emergono inevitabilmente degenerazioni che sono diventate ormai
assai familiari. Si può dar luogo alla formazione di liste pilotate dei candidati, dove un solo candidato abbia qualche
possibilità di essere eletto e dove gli altri recitano il ruolo di comparsa. Le
liste possono essere corrispondenti alle correnti interne del partito, per cui
le primarie finiscono con il costituire la conta delle correnti. Le liste dei
candidati, sia per chi vi compare che per gli assenti, possono essere espressione delle lotte di potere personale all’interno del partito
stesso. Insomma, da noi le primarie implicano principalmente una netta e
pericolosa personalizzazione della politica
e, contemporaneamente, una
collocazione in secondo piano dei programmi elettorali. Spesso i programmi
proposti dai diversi candidati non sono programmi effettivamente alternativi,
spesso sono programmi generici, poco chiari. Il dibattito tra i candidati
spesso non è un vero dibattito[5] e quindi l’elettore finisce per non avere
fondati elementi per scegliere. Il confronto tra i candidati viene spesso
giocato sulla base di caratteristiche estrinseche come la popolarità, l’appartenenza
alla corrente, le capacità di comunicazione, e così via. Mentre la formazione
delle liste avviene per lo più tra gli addetti ai lavori, all’elettore resta
soltanto da scegliere tra i candidati, molti dei quali possono anche essere dei
perfetti sconosciuti. Insomma, sembra spuntare, qua e là, il fantasma della democrazia plebiscitaria.
7. Questi problemi si presentano in forma allargata nei casi
delle primarie di coalizione. Nella
situazione politica italiana, data l’enorme frantumazione partitica, la scelta
dei candidati alle cariche istituzionali difficilmente può essere ricondotta a
un unico partito. Ci si trova spesso di fronte all’opportunità di scegliere il
candidato per una coalizione. Intanto, bisogna che la coalizione sia già formata prima dell’inizio del processo
delle primarie, e bisogna che abbia una sua solidità.[6] La qual cosa non
accade spesso, poiché i partiti candidati a entrare in coalizione sono spesso
in concorrenza tra loro, litigiosi e incapaci di fare causa comune. Ciò sembra
accadere a maggior ragione, se i partiti sono all’opposizione: paradossalmente,
sembra che stare all’opposizione contribuisca a ulteriori divisioni, più che a
fare fronte comune. Molti preferirebbero andare prima alle elezioni e poi
fare la coalizione[7] (le rotture di coalizioni sono all’ordine del giorno e
non c’è alcun modo per punire coloro che rompano una coalizione). Bisogna poi
che tutti partiti della coalizione siano disposti a fare le primarie, che si
mettano d’accordo sulle liste, e che siano disposti ad accettare i risultati
dell’elezione. Queste condizioni sono davvero difficili da soddisfare. Se le primarie
interne a un partito spesso servono a
regolare i conti tra le correnti del partito, le primarie di coalizione altrettanto spesso servono per regolare i conti tra i
partiti della coalizione (per avere una misura della loro influenza).
Coalizioni precarie e traballanti possono uscire con le ossa rotte dalle
primarie di coalizione. Forse le primarie di coalizione, posto che si facciano,
presentano qualche chiarezza in più rispetto ai programmi, perché i programmi
in competizione finiscono con il coincidere con i programmi dei singoli
partiti, e qui c’è una maggior disponibilità alla differenziazione.
8. Un altro aspetto rilevante è quello dei tempi. Il fatto che
le primarie americane siano istituzionalizzate impone il rispetto di procedure
precise, ma anche di tempi precisi.
Entro le scadenze istituzionali si sa che bisogna avere candidati e programmi.
Nel nostro paese, non essendo le primarie regolamentate in termini
istituzionali, intanto si assiste sempre al balletto “le facciamo o non le
facciamo”; poi, inevitabilmente, finisce che la decisione si prende all’ultimo minuto, il più tardi possibile (perché c’è
sempre qualcuno che pensa di trarre vantaggio dall’allungamento dei tempi).
Questo significa che i candidati si scelgono all’ultimo minuto, in seguito a
trattative estenuanti, e che i programmi elettorali vengano fabbricati in
quattro e quattr’otto, con il “taglia e incolla”. Dunque manca il tempo per
sviluppare un dibattito effettivo con gli elettori potenziali. Lo scivolamento
dei tempi conferisce dunque alle primarie nostrane una deriva ancora maggiormente
plebiscitaria.
9. Un altro aspetto concerne la palese diseguaglianza delle
opportunità per i diversi candidati. Le primarie americane si svolgono in una
situazione di storica debolezza delle organizzazioni dei partiti. Ciò costringe
i candidati a dotarsi di loro lobby personali, di personali found raiser, gruppi di sostenitori. Le
primarie italiane si svolgono in una situazione dove i partiti sono ancora
piuttosto organizzati e burocratizzati. Questo significa che la burocrazia partitica si schiera
inevitabilmente per questo o quel candidato.[8] L’apparato che controlla il
partito non riesce a essere neutro. Le primarie dove per caso vince un outsider fanno notizia e creano un
terremoto organizzativo. Lo stesso vale se – in caso di primarie di coalizione
– diversi partiti hanno ciascuno il proprio candidato (o più di uno). Questo
rende la vita difficile a chiunque non sia addentro all’organizzazione e abbia
intenzione di candidarsi. Si troverebbe a dover fare una campagna elettorale in
una situazione piuttosto difficile.
10. Abbiamo poi avuto modo di notare spesso che chi perde non ci
sta. Abbiamo già sottolineato che nel sistema americano chi perde viene
abbandonato al proprio destino, senza tanti complimenti. Sarà un sistema
spietato, ma per lo meno è chiaro. È interesse del partito selezionare effettivamente
chi ha le migliori chance di
riuscita. Dopo che il candidato è stato scelto, il partito – o la coalizione-
si ricompone sulla persona e sul
programma del vincitore, per affrontare la sfida elettorale. Nel nostro
paese, invece, le primarie plebiscitarie si organizzano per confermare una
decisione già presa dal partito o dal consesso dei partiti (o dai loro gruppi
di potere). Qualora l’esito delle primarie sia diverso dalle attese, si tende a
rimettere tutto in discussione, a non accettare la decisione delle urne (con
rischi di spaccature interne o spaccature di coalizioni), a mettere in discussione
le primarie stesse.[9] Insomma, per fare le primarie, ci vuole una certa
maturità democratica.
11. Le primarie, quale che sia il loro valore effettivo,
nonostante i difetti che abbiamo elencato, hanno tuttavia finito per diventare
di fatto vincolanti. È diventato molto difficile non farle. Paradossalmente, è chi non vuole fare le primarie che
deve spiegare e convincere gli altri. Chi vuole le primarie gode, in un certo
senso di un assenso preventivo.[10] Sarei tentato di parlare di un mito delle primarie che si sta
diffondendo per ogni dove. Un consenso peraltro spropositato rispetto – come si
è visto - alla modesta pratica e teoria dello strumento, così come lo stiamo
realizzando nel nostro paese. Poiché le primarie sono diventate un mito, allora spesso vengono realizzate
come un rituale. Poiché bisogna
farle, facciamole e non pensiamoci più.
12. Sembra dunque che le primarie, nel nostro paese, siano davvero
giunte al bivio. Le soluzioni sostanzialmente sono due. La prima è già stata
adombrata, più o meno timidamente: si potrebbe tranquillamente decidere che non si fanno più, che sono
controproducenti. Si potrebbero fare le primarie
chiuse, cioè riservare solo agli iscritti ai partiti la scelta dei
programmi e delle candidature. Sarebbe
una scelta legittima, non c’è che dire, e indubbiamente più chiara. Anche se
bisognerebbe stare molto attenti a trovare le argomentazioni giuste di fronte
agli elettori, per giustificare una simile decisione. E, soprattutto,
bisognerebbe spiegare come si possa
realizzare, in modo diverso, l’obiettivo per cui le primarie aperte erano nate:
produrre il ricambio della classe politica dando la parola al corpo elettorale.
Obiettivo che finora è stato realizzato solo marginalmente.
13. La seconda soluzione sta nel prendere le primarie sul serio. In tal caso, tutto quel che s’è fatto
finora non basta ancora. Si tratta di capire come possa un elettorato
potenziale avere autenticamente una qualche voce in capitolo nella costruzione
del programma e nella scelta dei candidati. È chiaro che la strada rituale e plebiscitaria
non porta da nessuna parte. Le primarie prese sul serio potrebbero essere una
seria occasione per introdurre nel nostro paese momenti di democrazia deliberativa (di cui tutti parlano, ma che nessuno
pratica). Cosa potrebbe significare in concreto? Una volta i programmi si
costruivano nelle sezioni e nei congressi. Adesso sono in crisi le une e gli
altri (i congressi sono solo dei rituali esteriori dove si decidono le cariche
del partito). E poi le primarie ampliano l’elettorato, ben oltre gli iscritti
che fanno vita di partito. Allora si tratta di considerare le primarie come uno spazio (sia nel senso di un tempo
adeguato, sia nel senso di un’arena pubblica) nel quale gli elettori vengano
convocati (come nei caucus americani)
e nei quali abbiano occasione di partecipare a un autentico dibattito intorno
alla definizione dei programmi e delle candidature. Agli elettori potenziali devono
essere offerti dei momenti deliberativi in cui possano prendere informazioni,
possano discutere, confrontarsi intorno alle soluzioni dei problemi, discutere
di programmi, fare delle scelte. E, certo, possano anche conoscere i candidati,
vederli all’opera, nelle loro differenze, nelle loro capacità. Insomma, si
tratta di creare uno spazio di dibattito autentico nel quale si costruisca, con
gli elettori potenziali, la scommessa elettorale. Uno spazio autentico da usare
anche per ricostruire la partecipazione politica, mai così bassa nel nostro
paese.
14. Altrimenti si continuerà a demandare la definizione delle candidature alle burocrazie dei partiti, la costruzione del programma a qualche team di ghost writer, e la campagna elettorale a qualche agenzia di pubblicità. A questo punto, la primaria plebiscitaria potrebbe solo mettere il timbro su un processo politico ancora una volta illusorio e vuoto di partecipazione effettiva.
Giuseppe
Rinaldi
(*) La versione originale è stata pubblicata il 17/04/2011
su “Città futura”. L’attuale versione è stata rivista il 6/9/2012.
NOTE
[1] In Italia solo la Regione Toscana ha varato
una legge locale sulle primarie.
[2] Anche nelle primarie aperte americane può
accadere che gli avversari del partito si iscrivano tra gli elettori per
pilotare la scelta di un candidato debole.
[3] Questa prassi assomiglia alquanto alle
tecniche di democrazia deliberativa
di cui si discute da qualche tempo.
[4] Anche se i programmi in questo caso sono
poco più che generici elenchi di desiderata.
[5] Spesso il dibattito elettorale che precede
le primarie è reticente, pieno di imbarazzi e di appelli all’unità del partito.
Spesso degenera sul piano delle differenziazioni personalistiche.
[6] Questa possibilità è legata naturalmente a
quanto è specificato dalla legge elettorale.
[7] La legge elettorale in discussione che
dovrebbe sostituire il porcellum allo
stato attuale (autunno 2012) sembra andare proprio in questa direzione.
[8] Non è in discussione che i diversi membri
del partito possano parteggiare per l’uno o l’altro candidato. È in discussione
il fatto – paradossale forma di analfabetismo democratico – che gli organismi
ufficiali del partito organizzino le primarie per scegliere il candidato e,
contestualmente, emanino ufficialmente dei comunicati a sostegno del loro
candidato preferito. È chiaro che, in caso di vittoria di un altro candidato,
gli organismi ufficiali sarebbero poi costretti, di fatto, a dimettersi.
[9] A ciò possono contribuire anche episodi di
effettive irregolarità, come nel caso recente di Napoli, dove si è avuto il
sospetto di votanti pilotati. Sono accaduti recentemente, soprattutto a livello
delle elezioni dei sindaci casi in cui le primarie hanno sovvertito le
aspettative delle organizzazioni dei partiti partecipanti. Ciò è accaduto a
Napoli, con la scelta imprevista del candidato De Magistris e a Milano, con la
scelta altrettanto imprevista del candidato Pisapia. Fatti simili sono avvenuti
a Genova.
[10] È interessante, ad esempio quanto è
avvenuto nel PdL. Il segretario Alfano ha annunciato trionfalmente che il PdL
avrebbe fatto le primarie. Quando (estate 2012) Berlusconi ha annunciato la sua
intenzione di ricandidarsi, lo stesso segretario Alfano si è sforzato di
sostenere che – solo nel caso della ricandidatura di Berlusconi – le primarie
non sarebbero più state necessarie.